venerdì 22 novembre 2013

"Povero in canna", espressione idiomatica che dà filo da torcere ai linguisti



           

    Dando una veloce scorsa alle proposte di interpretazione[1]  della nota espressione italiana si ha l’impressione  che, nonostante la preparazione degli studiosi che se ne sono occupati,  non si faccia altro che ciurlare nel manico  arrancando alla ricerca di una più o meno passabile soluzione del problema, quando non si incappa in vere e proprie amenità come quella di chi propone un riferimento alla famosa battaglia di Canne (216 a. C.).

Io sono convinto che, finchè si resterà sul piano sincronico su cui è adagiata l’espressione che sembra provenire al massimo dallo strato linguistico del latino, non si caverà un ragno dal buco, perché ben sovente le parole affondano le radici in strati remoti e remotissimi ben anteriori a quelli storicamente noti, per i quali naturalmente non esiste una documentazione  se non quella che possiamo ricavare dalle voci stesse che con la loro testa svettano nelle varie lingue e dialetti della superficie e con le loro radici, appunto, possono raggiungere strati linguistici lontanissimi da noi.   Se ci si ferma al concetto di “povero” e a quello di “canna” è vano, a mio parere, tentare una soluzione che sia molto diversa da quelle finora proposte.  Di esse la più razionalmente sostenibile mi sembra quella che fa riferimento ad un brano del Vangelo di Matteo (XXVII, 28-30) in cui, parlandosi di Gesù deriso nel pretorio dai soldati del governatore Pilato, si precisa: «Lo spogliarono e gli misero addosso un manto scarlatto; poi, intrecciata una corona di spine, gliela misero in capo, gli misero una canna nella destra e, piegando il ginocchio davanti a lui, lo schernivano… gli toglievano la canna e gliela battevano sulla testa».  Ora, il fatto che questi soldati romani, tra i quali molti dovevano essere di origine italica[2], mettessero una canna nella mano del povero Cristo ridotto ad un corpo sanguinante può anche aver generato, come pensano alcuni, nella mente delle folle rievocanti la Passione di Cristo nel medioevo, l’immagine comune del povero in canna come simbolo di estrema  disgrazia e povertà.  Ma, secondo me, è più accettabile e verosimile la considerazione che quei soldati munirono Gesù di una canna perché forse nei dialetti italici che essi usavano era già nota quella espressione evocante estrema sventura e abiezione.  Epperò queste considerazioni lasciano sempre un residuo di perplessità, dato che se ne possono fare altre ugualmente accettabili, come quella, ad esempio, secondo cui la canna, in quanto simbolicamente simile ad uno scettro di comando, sarebbe il completamento, insieme alla corona di spine, della volontà sarcastica dei soldati di trasformare Gesù di Nazaret, autoproclamatosi re dei Giudei, in una caricatura risibile e spregevole della figura regale.

Ora, nel dialetto di Manfredonia-Fg , ma anche in diverse altre località della Puglia, si incontra l’espressione nganna mérë ‘in riva al mare, sulla battigia’[3].  La locuzione prepositiva nganna < *in  canna , a volte raddoppiata, significa anche ‘al limite, all’ultimo istante’  oltre che, come abbiamo visto, ‘vicino, presso, a ridosso, al bordo, vicinissimo’ con applicazione sia al tempo che allo spazio, come avviene normalmente in molte lingue per i complementi di tempo assimilati a quelli di spazio.  Di conseguenza, proprio il concetto di “limite, punto estremo, orlo, termine, bordo” si colloca alla perfezione accanto alla parola povero  dell’espressione idiomatica in questione, significando questa esattamente ‘poverissimo’ e cioè ‘povero al massimo grado’ o  ‘povero al limite estremo’.    Così quello che sembrava un mistero impenetrabile, tanto che ha spinto gli esegeti a formulare le ipotesi più varie scomodando battaglie e fatti storici importanti,  finisce col rivelare alla fine la sua banale normalità.  In questi casi spessissimo la soluzione si trova, infatti, non allontanadosi dalla espressione nella sua nudità e concretezza, ma scavando sotto la superficie delle sue parole e cercando di raggiungerne lo strato più profondo.  E’ quindi solo questione di metodo se io, innamorato delle parole (benchè nella vita ne sia piuttosto parco), ho trovato quella che a me pare la verità mentre i linguisti che spesso hanno anche una cultura e preparazione teorica superiore alla mia (lo dico senza piaggeria e senza nessuna intenzione denigratoria) arrancano con difficoltà alla sua ricerca.  Le parole sottotraccia, come le ho chiamate in altro articolo[4], sono quelle che ingannano di più gli studiosi, perché esse se ne stanno ben nascoste dietro la sfavillante livrea che sfoggiano in superficie, il cui stemma rimanda però a tutt’altra famiglia rispetto a quella cui esse in realtà appartengono.  Gli incroci di termini, poi, sono sempre lì pronti ad agitare e confondere le acque, e, se non si è forniti di questi semplici strumenti chiarificatori, si rischia di annegare senza speranza di salvarsi.  

Ora, diradatasi la fitta nebbia che avvolgeva il significato di ngànna ‘assai, molto’ oppure ‘presso, vicino, al bordo’ possiamo cercare di darne un etimo acconcio.  Ci può guidare ancora il concetto di “limite, orlo, bordo” in questa operazione che, a mio avviso, ci porta dritti dritti verso l’avverbio e preposizione it. accanto < a canto che significa proprio ‘a fianco, a lato’ e che evoca quindi l’idea di “margine, bordo, vicinanza”.   Solo che in questo caso l’avverbio ha il prefisso in  al posto di a < ad, prefisso che avrà prodotto prima una forma dialettale *ngàndë ‘accanto’ che poi sarà stata attratta, per analogia o etimologia popolare, dall’espressione più nota e molto più diffusa in Italia, più chiara al parlante anche nell’etimo, ngànna ‘in canna’ cioè ‘in gola’ che può significare, più genericamente, anche ‘nel (sul) collo’ nel senso, quindi, di ‘addosso, presso, vicino’.  L’it. canto ‘lato, fianco’  richiama il lat. canth-u(m) ‘cerchione di ruota’ dal gr. kanth-ós ‘cerchione di ruota, angolo dell’occhio’ ed ha molti riscontri nelle lingue celto-germaniche.  

Come ultima realistica ipotesi penserei che in canna potrebbe essere un latino volgare *in cannam e significare semplicemente ‘fino al collo’, variante di usque in cannam ‘fino al collo’.  Si pensi all’espressione italiana essere nei guai fino al collo.  L’espressione povero fino al collo, sebbene oggi non usata, ha tutti i crismi per esserlo stata in un remoto passato.


«…Or puoi, figliol, veder la corta buffa
d’i ben che son commessi a la fortuna,
per che l’umana gente si rabbuffa;
            ché tutto l’oro ch’è sotto la luna
e che già fu, di quest’anime stanche
non poterebbe farne posare una».
            «Maestro mio», diss’io, «or mi di’ anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».
            E quelli a me:«Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
Or vo’ che tu mia sentenza ne ‘mbocche… »
(Dante, Inf. VII, 61-72)
           



[1] Cfr. C. Lapucci, Modi di dire della lingua italiana, Edizione CDE spa, Milano 1986.

[2]  Secondo la tradizione popolare i soldati che inchiodarono Cristo alla croce provenivano dall’odierno paese di Collarmele nella Marsica (anticamente Cerfennia)  chiamati spregevolmente nchiova-Cristë, cioè ‘inchioda-Cristo’.

[4] Cfr.  l’articolo del luglio 2013 del mio blog: Incredibile ma vero: nelle lingue le parole sottotraccia non sono una rarità!

venerdì 1 novembre 2013

La grande famiglia di parole, anche italiane, collegate al ted. biegen 'piegare'. Paurosi vacillamenti della linguistica tradizionale.


I linguisti del presente e del passato mi hanno sempre insegnato, senza che udissi peraltro mai una voce fuori del coro, che il verbo ted. bieg-en ‘piegare, curvare’ corrisponde al verbo latino fug-ere ‘fuggire’, e questo perché forse gli etimologi che hanno fatto scuola supponevano che la voce latina si riferisse al ripiegare dei soldati dinanzi ai nemici vincitori e, inoltre, essa rispondeva esattamente, secondo lo schema da essi elaborato, ai diversi trattamenti rispettivamente riservati, nelle lingue germaniche e nel latino, alla labiale sonora aspirata indoeuropea –bh-[1] in posizione iniziale.  La quale, in quelle, perdeva semplicemente l’aspirazione conservando la sonorità, mentre in latino si trasformava in spirante sorda –f- perdendo sia l’aspirazione che la sonorità.  Un forte indizio, invece, che le cose in questo caso non quadravano era, secondo me, rappresentato già dal fatto che in latino il significato di fug-ere ‘fuggire’ non riguardava solo il ripiegamento di truppe in battaglia, ma si applicava a tutti i casi in cui le persone, per i motivi più diversi, se la danno a gambe, anche senza invertire la direzione del movimento.  Il ragionamento sarebbe stato senz’altro credibile se la radice avesse espresso in qualche sia pur raro caso l’idea di “piegare” che in latino era però espressa da diversi verbi come plic-are e composti, flect-ere e composti, curv-are e composti, minimamente adatti, come del resto è logico, ad esprimere un’idea di “fuga”. Si sarebbe dovuto riflettere, allora, che il fuggire in effetti è sostanzialmente diverso dal ripiegare e che quindi era una forzatura voler far rientrare il lat. fug-ere ‘fuggire’ nel campo semantico del piegare,  seguendo formalmente lo schema preconfezionato delle corrispondenze tra le varie lingue indoariane.  Si può in effetti ripiegare anche in ordine, senza darsi ad una fuga precipitosa, come avviene, ad esempio, in una manovra di ripiegamento, non necessariamente veloce. Resta comunque la possibilità teorica che il significato generico di fondo della radice fug- generasse anche il significato di ‘piega, curva’ come si può cominciare ad intravedere in termini come fua <*fuga ‘tana (di volpe, coniglio)’ del dialetto di Zagarolo-Rm, come  fua <*fuga ‘avvallamento del terreno’  del dialetto di Venere-Aq, e foca ‘tana’ del dialetto di Collelongo-Aq.   

 

Ora, a parte le precedenti riflessioni che potrebbero essere messe in dubbio ed invalidate, c’è del materiale più concreto a sostenere il mio pensiero.  Nel dialetto molisano di Chiauci-Is, si incontra, infatti, l’apparentemente strana parola ammëccàtë[2] ‘ricurvo, inclinato’ che è senz’altro partic. pass. di un verbo corrispondente alla voce abruzzese (presente anche nei dialetti campani) ammuccà[3] ‘versare un liquido da un recipiente all’altro, (rifl.) trangugiare, tracannare, (rifl.) piegarsi pesantemente, curvarsi, cadere, tramontare’.  Tutti significati, compreso quello di ‘versare’,  facenti capo  a quello fondamentale di ‘piegare, curvare, inclinare’[4].  Nel dialetto del mio paese di Aielli, e di altri paesi della Marsica, la voce corrispondente è mmuccà, mmoccà col significato, ad Aielli, del solo ‘inclinarsi, capovolgersi (rifl.)’ detto di recipiente, a Luco dei Marsi anche col sign. di ‘imboccare (raro), versare’.[5]  Già in passato, da quando ero studente liceale, avevo cercato l’etimo di aiellese mmuccà(sse) ‘inclinarsi’ ma non ero riuscito ad andare oltre l’idea che si trattasse di un ‘capovolgersi di un recipiente con la bocca all’ingiù’ da un precedente *im-buccà con assimilazione della labiale –b- alla liquida –m-.  Ma ora sappiamo che queste etimologie, solitamente accettate dai linguisti, lasciano purtroppo il tempo che trovano: in effetti mi ronza continuamente nelle orecchie l’insegnamento saussuriano, che si rivela sempre più verace, secondo cui è vano credere che una parola sia nata ad esprimere il concetto (specifico) di cui si carica, fortuitamente, solo nel corso della sua generalmente lunga esistenza[6].  Qui infatti la bocca (lat. buccam) non c’entra affatto e si avvalora invece sempre più l’ipotesi che si tratti di radice similissima a quella del ted. bieg-en (imperf. bog, partic. pass. ge-bog-en) ‘piegare’ di cui sopra!  La quale si presenta in molte forme nell’area germanica: ted. beug-en ‘piegare, curvare’, ingl. bow ‘arco’, ted. Bog-en ‘arco’, ingl. to bow ‘abbassare, piegare,inchinarsi’, dan. buk ‘inchino’, dan. bue ‘arco’, dan. bu-et ‘curvo’, dan. bøj-et ‘curvo’, bøj-e ‘curvare’, sved. böja ’piegare’, svedvecka ‘piegare’, ol. buig-en ‘piegare’, ecc.  La radice riappare ancora nell’abruzzese a-bbucc-arsë < *ad-bucc-arsë ‘allettarsi, piegarsi’ detto di biade o fieno.[7]. In questo contesto va inserito anche il sicil. a-bbucc-ari 'versare, inclinare, volgersi verso' che pertanto non può derivare da gr. apo-khé-o 'effondere, versare', come taluno pensa.  Lo spagn. a-boc-ar 'travasare, avvicinare, accostare, rifl. riunirsi' conferma la vasta diffusione territoriale di questa radice, oltre a dare l'input per capire gli it. abboccamentoabboccarsi nel senso di 'incontro,incontrarsi': l'idea di "avvicinamento" può essere una specializzazione di quella di "inclinazione" o "volgersi, andare verso" che si ritrova anche nella radice vik- di lat. vic-inu(m)'vicino' (cfr. il Pianigiani in rete, s. v. vico). Quest'ultimo, infatti, non va inteso come 'abitante nel medesimo borgo o vicolo' secondo il pensiero comune dei linguisti, ma come 'colui che è rivolto verso qualcuno, che lo preme da presso, che gli è accosto, adiacente'. 

 A questo punto, se solo ci fermiamo un po’ a riflettere, si verificano, analizzando questi termini, cose precedentemente inimmaginabili: l’it. imboccare, ad esempio, nel senso di ‘mettere il cibo in bocca ad un bambino o malato’ quasi sicuramente non deriva direttamente dal termine bocca ma è pochissimo diverso dall’abruzzese ammuccà di cui sopra nel sign. di ‘versare, far trangugiare, inghiottire’ la cui radice indicava, per la verità, solo il ‘piegare, rovesciare’.  Ma, incrociatasi col termine bocca, era inevitabile che essa si rifacesse una verginità inducendoci così a credere di essere stata creata da poco e su due piedi mediante la parola bocca, quasi fosse un ‘mettere in bocca’.  La stessa cosa vale per l’it. imbucare il cui significato d’origine evidentemente non era ‘mettere, mandare in buca’ ma semplicemette ‘mettere, inserire, versare’.  La buca, e forse anche la bocca, potrebbero entrarci solo nel senso più generico estraibile dal concetto di “curva, ripiegamento”, cioè nel senso di ‘cavità, rotondità’.  E così anche l’it. im-becc-are , sia nel senso di ‘inserire del cibo nel becco di un uccellino’ sia in quello figurato di ‘suggerire’, ugualmente non è nato dal significato di becco ma sempre dallo stesso concetto di ‘versare’. 

 

Seguitando per questa strada vediamo altri verbi mutare sostanzialmente dinanzi ai nostri occhi come, ad sempio, i verbi composti da questa stessa radice preceduta dal prefisso ri-, variante di re-, indicante ripetizione, movimento in senso inverso, ecc.  Come hanno fatto, pertanto, finora gli etimologi a considerare l’it. rim-bocc-are un parto della parola bocca io proprio non riesco a capirlo. Forse essi hanno pensato che l’arrotolare o il ripiegare le estremità di un lenzuolo o di un indumento riguardasse, all’inizio,  solo i bordi dell’apertura delle maniche, da considerare come una bocca.  Ma un significato arcaico del verbo è ‘ripiegare a terra i virgulti delle siepi’ -con cui ci riavviciniamo all’abruzzese di cui sopra, cioè a-bbucc-arsë ’ripiegarsi (delle biade)’- oppure ‘ rivoltare sopra i semi la terra smossa’, oltre che ‘rabboccare’ col quale si ritorna al concetto di “versare” col valore aggiunto di ‘fino alla bocca, all’orlo’.[8]  Nel dialetto di Avezzano-Aq, come in quello di Aielli-Aq, il verbo ra-bboccà indicava il fumo del camino che, per motivi vari, tornava indietro  inondando la cucina. Quale potrebbe essere, allora, il significato profondo di it. rim-becc-are, ad esempio, se non quello di it. re-plic-are, il quale etimologicamente indica appunto solo un ‘ripiegare (lat. plic-are ’piegare’)’?   Naturalmente il suo incrocio con becco, solitamente acuminato, ha aggiunto al significato iniziale una certa forza pungente.  Ma un probabile incrocio con la radice simile di lat. veh-ere 'muoversi' ,ted. Weg 'via' (simile all'altra di lat. vic-inum 'vicino' di cui sopra) è dietro l'angolo, sicchè non può escludersi a priori un significato iniziale di 'rinviare, rintuzzare', il che fa comunque lo stesso.

 

L’aggettivo lat. im-becill-e(m) ‘debole, sciocco’ che sin dall’antichità è stato collegato al lat. bac-ulu(m) ‘bastone’, lat. bac-illu(m) ‘bastoncino’, supponendosi un po’ artificiosamente per l’aggettivo il significato di  ‘non rigido, debole’ potrebbe, invece, più acconciamente rivelarsi debitore della radice di cui si parla, preceduta dal prefisso in-, non privativo ma intensivo, e col significato  primario di ‘incurvato, cadente, vacillante’.  Credo, inoltre, che la sua base sia quella della variante ingl. weak ‘debole’, a. ingl. vac ‘pieghevole, molle, debole’, a.a.ted. weih ‘cedevole, molle’, e dello stesso it./lat. vac-ill-are. Infine il toscano bèco ‘stupido’, che in umbro vale ‘losco, miope’,  dovrebbe tagliare la testa al toro.  Il significato umbro deve essersi evoluto da quello di ‘storto, curvo’ applicato al modo di guardare dei guerci. Oppure dietro i due significati bisogna vedere direttamente il significato di lat. im-bec-ille(m) ‘debole’ o ingl. weak ‘debole’: debole (di comprendonio) e debole (d’occhi). Nei dialetti laziali ricorre il termine becal-ino nel significato di ‘miope’. A Sermugnano-Vt si ha sia becal-ino ‘miope’ sia beco ‘cieco’[9]. A proposito, e l’aggettivo it. bieco dove lo mettiamo? A me esso sembra dovuto ad un incrocio del precedente bèco con la radice di pieg-are < lat. plic-are.[10].  Il sardo abbacchiddare 'camminare col bastone,  essere convalescente' merita qualche riflessione: esso non deriva, come pensa invece Max Wagner e tutti gli altri, da  a + bacchiddu 'bastone'(lat. bacillum=bastone) ma dal lat. vacill-are 'vacillare, tentennare'.  Chi è in convalescenza è certamente malfermo  ma comunque può portare o meno il bastone, non ne è un bisogno imprescindibile. Naturalmente l'idea di "bastone" si inserisce nel verbo generando l'altro significato di 'camminare col bastone'. 

 

    Lo stesso verbo marinaresco ammainare considerato proveniente da un lat. *in-vagin-are ‘mettere nel fodero (cfr. lat.vagin-am)’ con pronuncia napoletana, dovrebbe essere invece inteso come un ‘arrotolare’ o anche come un ‘ripiegare verso il basso, abbassare’, perché esso rimane, a mio avviso, sempre nell’ambito di questa radice per ‘piegare, ripiegare’. Il significato di ‘mettere nel fodero, inguainare’ si è sviluppato in conseguenza dell’incrocio con lat. vagin-a(m) ‘fodero, involucro, guaina’, termine che del resto sfrutta sempre la medesima radice.[11] La voce abruzzese bacul-arsëbacul-irsë ‘indebolirsi’[12] conferma, poi, la mia supposizione del prefisso in- non privativo per il lat. im-becill-e(m). 

 

 E’ proprio necessario, allora, collegare la radice di questi verbi al lat. fug-ere ‘fuggire’ e al gr. pheúg-ein ‘fuggire’ e commettere così quello che a me pare un grande errore gravido di conseguenze?

Oggi 28 aprile 2014, scopro nel dialetto di Borgorose-Ri (13), paese confinante con la Marsica, le voci abboccà 'spingere' e abboccàtu 'sbilanciato, spinto' che fanno capire che dietro il significato di 'piegare, versare' da me supposto per la radice bok-bog-. si nascondeva l'altro più generico di 'spingere'. Il traboccare della bilancia fa parte del gruppo. 

 

   


George Gray

I have studied many times
The marble which was chiseled for me
A boat with a furled sail at rest in a harbor.
In truth it pictures not my destination
But my life.
For love was offered me and I shrank from its disillusionment;
Sorrow knocked at my door but I was afraid:
Ambition called to me, but I dreaded the chances.
Yet all the while I hungered for meaning in my life.
And now I know that we must lift the sail
And catch the winds of destiny
Wherever they drive the boat.
To put meaning in one’s life may end in madness
But life without meaning is the torture
Of restlessness and vague desire
It is a boat longing for the sea an yet afraid.

(Edgar Lee Masters, antologia di Spoon River)

Traduzione:

Giorgio Gray

Ho riflettuto molte volte
sulla lapide che mi è stata scolpita

Una barca con vele ammainate, quieta in un porto.

In verità essa non ritrae la meta del mio viaggio,
ma la mia vita.
Perché l’amore mi fu offerto, ma me ne ritrassi disingannato;
il dolore bussò alla mia porta, ma me ne impaurii;
l’ambizione  mi chiamò, ma ne temetti i rischi.

Eppure bramavo sempre di dare un senso alla vita.

E ora so che bisogna issare le vele
e affidarsi ai venti del destino
dovunque essi spingano la barca.
Dare un senso alla vita può portare alla follia,
ma una vita senza senso
è la tortura dell’inquietudine e del desiderio vano—

E’ una barca che brama il mare eppure lo teme.


La poesia, nella sua disadorna semplicità, tocca corde profonde. Svela oltretutto   verità che pungono e mettono a nudo, col sovraprezzo della loro irreparabilità, gli errori di una vita vissuta nell’ambiguità d’un lacerante tentennamento interiore: per questo rimorso amaro, e totalmente umano, ma ormai stemperato nel distacco e nella pace dell’oltretomba, mi prende molto.






[1] Cfr. sscr. bhuja-ti ‘egli piega’

[2] Cfr. sito internet: www.chiauci.com/chiamasi3.htm

[3] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

[4]  Credo che partecipi di questa radice anche il verbo ungherese buk-ni ‘cadere’.

[5] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.

[6] Cfr. F. de Saussure, Corso di lingistica generale, Editori Laterza, Bari 1976, p.104.  In questo passo il Saussure afferma anche che la maggior parte dei filosofi della lingua ignora questa casualità di ogni stato linguistico, pur non essendovi nulla di più importante dal punto di vista filosofico.

[7] Cfr. D. Bielli, cit.

[8] Cfr. Devoto-Oli, Vocabolario illustrato della lingua italiana, Selezione dal Reader’s digest, Milano, 1982.   Nel dialetto di Aielli il verbo intr. rabbuccà indica anche il ‘tornare indietro’ del fumo dalla canna del camino quando per un motivo o l’altro non c’è tiraggio.  Naturalmente l’etimo non ci porta alla bocca del camino ma al ripiegamento del fumo che si riversa nella stanza.  A Rocca di Botte-Aq il verbo è arabboccà il quale, però, ha anche il significato di ‘far tornare indietro verso il padrone animali sbandati’ (cfr. M. Marzolini, “…me ‘nténni?”, Arti Grafiche Tofani, Alatri 1995). Ad Aielli per questa stessa azione si usa il verbo rëvuccà.  Quest’ultima voce, quindi, non va confusa col lat. re-voc-are ‘richiamare’ anche se i significati tendono a combaciare.
[10]  Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino 1990, s. v. bèco.  Lì si suppone una derivazione della voce dal nome personale Domenico.

[11] Naturalmente presentano questa radice anche l’ingl. bag ‘borsa, sacchetto, bagaglio’, l’ingl. back ‘tinozza’, ol. bak ‘tinozza, barca, scatola, ecc.’, spagn. buque ’nave’, it. bac-ino, trentino vaca ‘curva, incurvatura, conca’ e tanti altri termini indicanti, in varie lingue, qualcosa di curvo o concavo (vuoto) o rotondeggiante come lat. bac(c)-am ‘bacca, coccola, anello’ e dial. abruzz. vachë ‘chicco’.  Il sardo a-bbaq-are 'abbassare, incurvare, flettere, schiacciare' è da collegare a questa radice e non allo spagnolo abajar 'abbassare' come pensa, sia pur ipoteticamente, Massimo Pittau.nel suo Nuovo Vocabolario della lingua sarda.  Non va dimenticato, a suggello di tutto il mio ragionamento, neanche il sardo a-bbucc-are 'abboccare, inclinare, rimboccare, rimproverare' il quale, tranne nel primo significato che sembra mutuato dal corrispettivo italiano abboccare, rimanda ala radice di cui si parla. Il significato di 'rimproverare' mi sembra simile a quello di 'rimbeccare'.  Anche in questo caso è fuorviante, a mio parere, la posizione degli illustri studiosi del sardo, a cominciare dal pur grande Max Wagner, i quali certamente sostengono che questo verbo viene da bocca. 

[12] Cfr. D. Bielli, cit.

(13) cfr. sito web: www.prolocoborgorose.it/TuttoPaesi/Tutto Torano/3.VOCABOLARIO web site.htm. 

         

2 COMMENTI:

  1. LETTERA APERTA

    Caro Pietro,

    Dopo aver seguito puntualmente il tuo tragitto poetico-linguistico, mi permetto di offrirti alcune mie riflessioni, tanto per concludere il ciclo degli scambi epistolari iniziati molti anni fa. Mentre la nostra amicizia continuerà ininterrotta, questo mio intervento sarà l’omega dei miei giudizi offertiti da quando, anni fa, ti consigliai di puntualizzare le tue idee linguistiche in un blog, con la speranza che, con l’intervento di qualche linguista di professione, si potesse continuare la nostra discussione sulla tua impostazione originalissima sull’evoluzione della lingua. Purtroppo, eccezion fatta per qualche raro intervento di anonimi lettori, tra cui io, non è stato possibile dar via a discussioni linguistiche autorevoli. Io sono del parere che le tue notevoli conoscenze etimologiche e glottologiche abbiano intimorito qualche profesionista in materia, e gli scambi epistolari con il Pittau non sono apparsi nel tuo blog, ovviamente perchè, come professionista, egli non poteva schierare le sue conoscenze contro le tue, e rischiare di perdere il duello.

    Come sai, io ti ho sempre espresso il mio scetticismo sulla validità delle tue conclusioni, pur ammirandone la genialità. E, come per il Vico, ti ho ripetuto che i professionisti si sarebbero schierati tutti contro la tua teoria. Il fatto stesso che essi non si sono fatti vivi finora può considerarsi una tacita verifica dell’assunto.

    L’aspetto più facilmente oppugnabile della tua tearia si rivela nell’arbitrarietà della ricostituzione del significato di un etimo indipendentemente dal suo contesto. In ciò tu ripeti in linguistica quello che Kant fece per la filosofia, separando due elementi di un termine che tradizionalmente si consideravano inseparabili: essenza/esistenza dell’ESSERE per il Kant, e significante/significato del LOGOS nel tuo caso. Il risultato per la filosofia consiste nello sfacimento della discipliana stessa, per cui oggi nelle accademie non si studia più filosofia, bensì la sua storia. Mentre la vera disciplina si è trasmutata in scienza vera e propria, come la fisica atomica. Il nuovo teorema di Heisenberg (“Se un fenomeno non è osservabile, esso non esiste”), come anche la conclusione di Nietzsche, che “Dio non esiste”, sono comprensibili solo per chi conosce la filosofia di Kant. Ma persino Einstein rifiutò queste conclusioni. Ecco perchè vorrei ricondurti alla poesia.

    Il tuo amore per l’etimologia, per la parola, con tutte le sue sfumature e possibili significati, si rivela nettamente nella poesia, dove il tuo genio spicca per la ricchezza di sentimenti ispirati dall’uso delicato quanto preciso dei termini, e per la raffinatezza già evidente fin dalla prima gioventù con la bellissima creazione de “Il flauto agreste”:

    Disteso su tenera sponda
    bacio col flauto antico
    lo stupore dell’alba
    che schiude appena le labbra sottili e subito
    in vaghi trapassi sfuma nell’aria.
    ....................................................
    ....................................................
    Flauto divino
    è d’uopo che tu ricorra
    ai tuoi stratagemmi riposti
    se vuoi ch’io prenda dai favi
    il miele difeso dalle api.
    Se le avide labbra mi perfora un aculeo
    gusterò l’amaro veleno
    mescolato al profumo dei fiori
    e all’anima ebbra
    apparirà il mistero delle cose...


    Una poesia, questa, non inferiore a quella di un Leopardi.

    In conclusione, caro amico, vorrei di nuovo esortarti a riprendere il tuo flauto agreste, e

    ...Sulle ali del fiato
    a solcare il ferruginoso occidente
    crogiolo inquieto
    dove bolle tra bagliori di fuoco
    la colata di lava
    dei giorni che verranno...


    Angus Walters





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    1. Caro Angus, ti ringrazio di tutto quanto hai fatto per me e della tua annosa attenzione per le mie ricerche linguistiche. Anche a me sarebbe piaciuto moltissimo un franco discutere con qualche personaggio noto o ignoto in questo campo, per cercare di appurare la validità o meno della mia visione del fenomeno lingua. Eppure c’è da essere sicuri che qualcuno di essi avrà avuto modo di leggere qualche mio post, ma evidentemente ha sorvolato su di esso non ritenendo opportuno intervenire, pur essendo i miei articoli quasi sempre abbastanza stimolanti, interessanti e nuovi senza peraltro essere banalmente eccentrici. Forse la caratteristica fondamentale della mia posizione linguistica, che in genere non ammette vie di mezzo, ma richiede una accettazione totale o, in alternativa, un rifiuto completo da parte dell’eventuale critico, lo ha indotto a tacere. Non si può chiedere, a chi ha dedicato la sua vita ad affrontare problemi linguistici, il coraggio supremo di mettere a repentaglio i propri risultati. Sarebbe veramente disumano! E’ vero che anch’io ho dedicato una buona fetta della mia esistenza alla Lingua, ma in un certo senso io non ho nulla da perdere, essendo rispetto a loro un quasi sconosciuto, da un confronto con le idee di qualcun altro. Io pertanto il coraggio ce l’ho, ma capisco anche le ragioni di chi purtroppo quel coraggio non ce l’ha, anche se questo loro atteggiamento, come tu stesso hai detto, nuoce in qualche modo all’accettazione delle loro visioni linguistiche. Audaces Fortuna iuvet!

      Pietro Maccallini

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