martedì 9 aprile 2019

Qualche antico utensile da cucina.


                
Ognuno, pur giovane, sa che cosa sia una  conca, recipiente un tempo indispensabile per l’acqua da bere e altri usi di cucina, ora presente solo nell'iconografia tradizionale della vita domestica abruzzese.  La sua forma era grosso modo quella di un’anfora: larga nella bocca, stretta al centro, di nuovo larga verso il fondo. 

   Ricordo che noi ne avevamo una anomala, per così dire. Aveva una forma cilindrica, meno aggraziata delle altre, ma molto più capace.  Tutti sanno, o quasi, che il nome deriva dal lat. conch-a(m) ‘conchiglia’ di matrice greca. Mia madre, quando il recipiente, per la sua vecchiezza, cominciò a bucarsi, usava il sapone come mastice otturatore.  Diverse volte lei reclutò anche me per andare a guardare l’acqua[1] nella fontanella che per fortuna era sotto casa. Non molto di rado la monotona attesa era interrotta, per così dire, da violente liti tra le donne, scoppiate dalle loro opinioni diverse circa la precedenza da dare all’una o all’altra. E immancabilmente si gratificavano a vicenda dell’epiteto più ingiurioso, allora e oggi, per il genere femminile, quello di puttana.

  Ora, immerso nella conca, non mancava mai un man-érë, il mestolo abbastanza capace per attingere l’acqua, quando ce n’era bisogno, per estinguere la sete o altro (i frigoriferi non esistevano ancora, nemmeno il nome): e ricordo come fosse quasi imbevibile l’acqua, perché calda, nel cuore dell’estate, tanto è vero che parecchie volte venivo inviato con una bottiglia in mano a còllë l’acqua (cogliere l’acqua) nella fonte sorgiva di Sottë la Torrë: se non c’era gente, ma spesso c’era, con quattro salti ritornavo a casa, a rinfrescare le gole assetate, soprattutto quella di mio padre che magari era tornato dal lavoro.

   Sin da quando cominciai a riflettere sui nomi che usavo, forse abbastanza presto, il man-ére lo abbinavo, ma con una consapevolezza solo istintiva, alla parola mano, visto che esso era anche dotato di un lungo manico (anche questo nome richiama la mano, ma solo per ingannarci, come abbiamo visto per la manica: ne parlerò in altra occasione). Sembra quasi strano, ma anche oggi, fior di linguisti non danno una spiegazione diversa da quella che ogni uomo istintivamente trova per la suddetta voce dialettale man-érë ‘mestolo’.  Ma le cose evidenti sono tali per tutti, studiosi o meno” potrebbero essi controbattere. Il problema però non sta esattamente in questi termini, come ho avuto modo di insistere in diversi altri casi.  L’apparenza, come dice il proverbio, inganna ed essa non ha mai ingannato tanto quanto i vocaboli nella loro veste esteriore.  Quindi, a mio parere, la linguistica purtroppo è ancora quella della fionda e della pietra, parafrasando un verso del Quasimodo, per quanto riguarda alcuni importanti fenomeni. E non posso che rammaricarmene profondamente, come appassionato di parole, circondato da una modernità eclatante in tanti campi.

   Ora, tornando a man-érë ‘mestolo’, esso non può essere altro che un emanazione della radice man- di lat. man-ic-a(m) ‘manica’, parola ben analizzata nell’articolo di alcuni giorni fa, intitolato Mangiatoia (cfr. sito web: pietromaccallini.blogspot.it). Il suo significato di fondo è quello di cavità.  Oserei dire che essa è una variante di it. mina ‘cunicolo sotterraneo, miniera, cavità praticata ad arte per introdurvi l’esplosivo’, e del veneto  mona ‘organo sessuale femminile’.

   Un altro tipo di mestolo, un po’ più piccolo del precedente e in uso ancora oggi, è lo scumm-ar-éjjë, detto in alcuni paesi anche cupp-ìnë, termine quest’ultimo che anche in profondità indica la natura di questo utensile, quella che lo rende simile o uguale (per il concetto) ad una coppa, appunto.  Ma la vicenda dello scumm-ar-eiië è più complicata e molto istruttiva.  Come al solito, studiosi o meno, si lasciano ammaliare dal franco skūm (ted. Schaum) ’schiuma’ e intendono il termine come schiumarola, un utensile però costituito, oltre che da un manico, anche  da una paletta metallica piatta e bucherellata (ma talora da un cucchiaio bucherellato), per asportare, dai liquidi in ebollizione, la schiuma a volte impura.  Quindi, secondo il solito ragionamento erroneo, il nome indicherebbe chiaramente l’oggetto. Ma l’errore, a mio avviso, consiste, anche in questo caso, nel fatto che esso non indica propriamente l’oggetto, bensì la sua funzione di schiumare, che potrebbe essersi inserita di soppiatto e sovrapposta al precedente termine che invece indicava molto più direttamente l’utensile. 

    Infatti io trovo certo (perdonate questa mia sicurezza) il rapporto del termine scumm-ar-éjjë ‘mestolo’ con il gr. skýph-os (ma anche skýpph-os, in iscrizioni) ‘bicchiere, coppa’, fatto derivare in genere, come skáph ‘vaso ,coppa, vasca’, dal verbo skápt-ein ‘scavare’.  La questione è che, come esiste anche gr. skám-ma ‘fossa, scavo, apertura (di un muro)’ derivato, per assimilazione regressiva, da una forma precedente *skap(h)-ma, così si può supporre con quasi assoluta certezza una forma *ským-ma, derivata da una precedente *skýp(h)-ma legata al sunnominato skýph-os ‘bicchiere, coppa’, il quale ha dato anche il dialettale scifë, recipiente di varie forme ed usi, oltre naturalmente al ted. Schiff ‘nave’, ingl. ship ‘nave’.  Nel latino arcaico la ipsilon greca /y/  veniva resa direttamente con la vocale /u/, sicchè una forma come *ským-ma si sarebbe presentata come *skum-ma, quella che secondo me è alla base del dialettale scumm-ar-éjjë ‘mestolo’. L’elemento –ma è un diffuso suffisso neutro.

     Ora, che cosa è accaduto nella trasmissione del termine che è arrivato fino a noi? La forma originaria di esso doveva indicare il mestolo, oggetto che rientra nel concetto di “cavità”, appunto. Strada facendo, però, esso si incrociò col termine germanico scūm ‘schiuma’ il quale introdusse il nuovo significato di ‘schiumarola’, come nell’ingl. skimmer ‘schiumarola’, facendo magari credere che anche il suo antico significato di ‘mestolo’, quando è tuttora presente, derivi da questo presunto originario schiumarola. Nulla di più falso.

     Il mestolo è chiamato pure ram-aiolo e anche qui, dinanzi alla parola rame, piccoli e grandi perdono ogni capacità e possibilità critica, come se il loro cervello improvvisamente e inspiegabilmente fosse avvolto da un blackout totale.  Non si accorgono nemmeno del fatto che la variante rom-aiolo potrebbe rappresentare la forma originaria del nome, e non l’inverso.  Perchè essi, solitamente procedono in questo modo erroneo: individuata in un oggetto una caratteristica  qualsiasi  che risponde alla parola con cui esso è designato, sono convinti di averne in mano l’etimo.  L’oggetto in questo caso è fatto, o era fatto all’inizio, interamente  di rame  e quindi per loro non vale nemmeno la pena starci a riflettere su, quanto all’etimologia. Eppure queste parole potrebbero risalire ben addentro nella preistoria, dato che diversi di questi oggetti potevano essere di legno o altro: addirittura la corteccia di un albero, avrebbe potuto fungere da mestolo, ad esempio.

     Ma la verità è che, a mio avviso, dietro ogni termine c’era stata una mente che chiamava gli oggetti in base al concetto generico entro i cui limiti esso era sistemabile, non in base alle sue caratteristiche accidentali: monte, valle, protuberanza, rientranza, cavità: questi erano alcuni dei concetti fondamentali a loro volta provenienti da altri più generici. E qui il termine ram-aiolo o rom-aiolo (le due forme per me coesistevano, come vedremo, fin dall’origine) sfruttava il concetto di “cavità” come il lat. rum-a(m) ‘gola, stomaco, ventre’ ma anche ‘mammella’ la quale secondo me attinge al concetto, in qualche modo inverso, di protuberanza, monte: cfr. anche la voce[2] dialettale rumm-èlla ‘mammella’ di Luco dei Marsi-Aq. Il lat. rim-a(m) ‘fessura, vuoto’ fa parte del gruppo. Il ted. Rahm ‘cornice’ è strettamente collegato (sembra strano, ma non lo è) con la radice in questione in quanto avvolgimento, circondamento, coronamento, copertura. Qui casca a fagiolo la voce abruzzese rum-an-éllë ‘piccolo cornicione su cui posa la gronda’[3]. Il serbo-croato rame ‘spalla, omero’ non ci spaventi, perché l’omero[4] è un’articolazione che, come tale, ruota, rientrando così pacificamente nel concetto di avvolgimento, giramento. Rahm  in tedesco vale anche ‘panna’, cioè una leggera pellicola di grasso che copre il latte come un panno. Ma bisogna tirare in ballo anche l’ingl. room ‘spazio, stanza’, ted. Raum ‘spazio, stanza, locale’.  I due concetti di spazio e stanza, in questo contesto germanico, convergono in quello di cavo, vuoto: infatti il verbo ted. rӓum-en significa proprio ‘vuotare, sgombrare’. Il concetto, naturalmente, rientra in quello di cavità.  Così l’italiano rame, nel senso di contenitore o recipiente, farebbe una cosa buona se si dissociasse e divorziasse definitivamente dal metallo chiamato rame, che è un intruso. A non parlare dei diversi toponimi costituiti da questa radice: ce n’è uno anche ad Aielli-Aq, che suona Fosso Rom-ito (dialett. Rëm-itë), non perché in antico qualcuno che passeggiava nei pressi avesse romanticamente trovato quel nome, ma perché qui la radice combacia con quella di cui sopra, che designa una cavità.  

Signori, voglio prendermi un po’ di riposo: da qualche mese inseguo troppo freneticamente le parole, ma è bene, per diversi motivi, che questa corsa rallenti ora che la verità su di esse brilla più chiara e bella che mai.

  


    



[1] Così si diceva per “fare la fila in attesa di poter attingere l’acqua”.

[2] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.

[3] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

[4] Cfr. l’articolo La parola “omertà” nel mio blog (pietromaccallini.blogspot.it) del dicembre 20014.

lunedì 8 aprile 2019

A nessuno, per favore, venga in mente...



Divenuto ormai esperto dei supercamuffamenti attuati dalle parole, specialmente da alcune di esse, nei confronti di chi si ferma ad osservarle, anche se non è propriamente un ingenuo, mi permetto di raccomandare che a nessuno venga in mente, ad esempio, che l’it. bracci-ale, col diminutivo bracci-al-etto, sia un evidente derivato dell’it. braccio.  La sua sicurezza viene presto smontata dalla voce abr. vracc-àlë [1]‘collare di ferro, con punte aguzze, che si mette ai cani da pastore (per difesa dai lupi)’. La voce, che  presenta delle varianti come vrëcc-àlë  (a Trasacco-Aq.[2]), vurc-àlë  (ad Aielli-Aq ed altrove), demolisce sul nascere qualsiasi tentativo di riportare la radice vrak-vark-vurk  alla parola braccio, che in dialetto suona v(ë)raccë,  o anche a un eventuale collo. La radice semmai richiama quella dell’it. barca, in quanto cavità o rotondità che si presta anche ad indicare  un cumulo, un monte.

    A nessuno venga in mente, pertanto, di considerare l’it. brocca (radice per me variante della precedente brak-, bark-) emanazione, sia pur disturbata dall’agg. lat. brocc-u(m) ‘di denti sporgenti’ per via dell’eventuale beccuccio della brocca, del gr. prόkhũ-s ‘brocca’, dal verbo pro-khé-ein ‘versare, spargere’.  Il gr. prokhũ-s ‘brocca’ ha tutta l’aria di essere inoltre una reinterpretazione della radice di gr. brokh-ís ‘calamaio’, in quanto cavità e non derivabile da gr. brékh-ein ‘umettare, aspergere, (far) piovere’.  Ma c’è anche l’ant. ingl. brōc ‘copertura della gamba’ a  rafforzare l’idea di “avvolgimento”, contigua a quella di “cavità”.

   A nessuno pertanto venga in mente che l’it. gamb-ale è tale perché avvolge la gamba: è tale solo perché avvolge, semmai!  La gamba ha fatto uno sgambetto e si è impadronita furbescamente e indebitamente del gambale.  La radice è sì quella di gr. kampḗ ‘curva, piegatura’ che abbiamo già incontrata, in altro articolo, in Campo Cavallo, località di Aielli-Aq. ma essa, a mio avviso, riguarda stranamente solo il termine gamb-ale e non quello di gamba, la quale è vero che si piega nell’articolazione del ginocchio, ma nel suo complesso  sarebbe meglio indicata da una radice che esprimesse  il concetto di “protuberanza, sporgenza, prominenza, ecc.’, in quanto esse, pur flessibili, si presentano a colpo d’occhio in questo modo rispetto al corpo, e poi ci sono anche le gambe dei tavolini e di strumenti vari che in genere nè si piegano né si muovono. Ma qui l’esegesi tradizionale ha buon gioco, ricorrendo ai significati metaforici che spesso sono una scappatoia per gli etimi.  Io penso, piuttosto, al gr. gόmph-os (sscr. jambhas ‘dente’) ‘caviglia di legno o metallo, grosso  chiodo’, significato che dà l’idea di qualcosa di sporgente nonostante la parola abbia anche il valore di  ‘articolazione, giuntura’ e quindi potrebbe rimettere in ballo, in questo senso, il gr. kampḗ ‘piegatura’.   Io credo, in questo caso, che  si tratti del solito incrocio.

     A nessuno pertanto venga in mente di accostare l’it. schin-iere al franco skina ‘, stinco, tibia’, per lo stesso motivo per cui il gambale non è un derivato di gamba. Se mai, la radice ha a che fare con quella di ingl. skin ‘pelle’, in quanto rivestimento, come il lat. pell-e(m) ’pelle’ o lat. pale-a(m) ‘paglia’, facenti capo ad una idea di “copertura, avvolgimento”, copertura come nel gr. skēnḗ ‘tenda, copertura’, a. norreno scān ‘crosta’, e probabilmente anche l’ingl. shingle ‘assicella di legno usata come tegola’.
   A nessuno pertanto venga in mente, in ultimo, che l’it. coll-ana (parola che abbiamo già incontrata in altro articolo) abbia qualcosa in comune con l’it. collo, visto anche che il termine collana in latino non esisteva.  Essa, come il lat. torqu-e(m) ‘collana’, che deriva dal verbo torqu-ēre ‘torcere, volger, girare’, vuole avere rapporti solo con lat. col-ĕre ‘coltivare’, una radice attestatissima nell’area indoeuropea col significato di fondo di ‘movimento circolare’, non solo in senso proprio ma anche figurato di interesse, coltivazione, ecc. 

   A nessuno pertanto vengano in mente tutte le altre idee che si pascano comodamente della pelle versicolore delle parole, senza avere la voglia di scendere alle loro profondità remote, che sono purtroppo al buio.

   Mi scuso per quest’ultimo avvertimento, ma, avendo impiegato testè l’agg. versi-colore di provenienza latina, ripeto, con grande commozione, l’invito a non prendere alla lettera l’aggettivo suddetto, composto dall’elemento  versi- (da lat. vert-ĕre ‘girare, cambiare’) e da –col-or-e(m) ‘colore’, che etimologicamente vale copertura, nascondimento (cfr. verbo lat. cel-are ‘nascondere’); ma sappiamo già come questa idea scivoli facilmente verso quella di “avvolgere”, confondendosi quindi col significato profondo del verbo lat. col-ĕre ‘coltivare’, sopra analizzato, il quale nasconde l’idea del “girare, volgere”.  Sicchè versi-color-e(m) è un composto tautologico con identico significato nei due membri, quello di ‘cangiante’, appunto, nel senso etimologico di ‘cambiante’.

    Mi piace citare un passo della tragedia Francesca da Rimini del D’Annunzio:  la vampa violenta e versicolore crepita in cima della picca. Ah, Gabriele, tu sì che mi avresti capito al volo, considerando la parola dotata di forza divina,  capace di eliminare le distinzioni della logica e compenetrarsi  panicamente nella natura del mondo!  

    Così l’agg. it. versi-pelle ‘che cambia la pelle, nel senso che è un simulatore e dissimulatore incallito, un ingannatore scaltro’ non chiama in ballo, nel secondo membro, la pelle, bensì la sua radice che valeva ‘coprire, avvolgere’, come la precedente versi-  di cui abbiamo parlato prima.



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

[2] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà  Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq. 2003.

sabato 6 aprile 2019

Mangiatoia







L’ultimo articolo lo finivo invitando a trovare l’etimo del termine italiano mangiatoia e diffidando, scherzosamente, dal pensare all’immediato  verbo mangiare che sembrava essere lì, chiaro e pronto, a darne una naturale ed evidente  spiegazione.    Purtroppo la vita dei linguisti è molto complicata perché debbono debbono vedersela con soggetti che solitamente sono linguisticamente dei matusalemme, sopravvissuti grazie al sangue nuovo in loro immesso via via da altri soggetti che nel frattempo si impadronivano, per così dire, della loro sagoma apparente, esterna, mentre quelli vecchi se ne stavano nascosti e tranquilli perché, data l’età, non amavano molto il chiasso della superficie.

    Il verbo it. mangiare ci è pervenuto dal fr. mang-er il quale, però, aveva seguito una trafila a partire dal lat. mand-uc-are ‘masticare, mangiare’, ampliamento del semplice mand-ĕre ‘mordere, masticare, mangiare’, da cui il lat. mandi-bul-a(m) ‘mandibola’.  Il francese si sarà sviluppato da una forma intermedia *mand-ic-are, variante di lat. mand-uc-are, che in italiano arcaico del resto aveva dato manic-are ‘mangiare’.  Ma dietro l’angolo ci può essere sempre un imprevisto, che, nel caso di mangia-toia, assume le forme quasi simili alla radice di  mang-er, cioè il fr. manche proveniente, come l’it. manica, dal lat. man-ic-a(m) ‘manica’. Il fr. manche, ha anche il significato di ‘stretto (di mare), tubo (di seta o metallo)’, significato che, come spiegherò, non è dovuto ad un uso metaforico di manche ‘manica’, la quale assomiglia a un tubo, ma io direi meglio che è un tubo.  E’ superfluo ricordare il Canale della Manica (fr. Manche), tra la Francia e la Gran Bretagna.

     Gli inglesi chiamano lo stretto in questione semplicemente the Channel ‘il Canale’, o anche the English Channel ‘ll Canale Inglese’, presi da sciovinismo: ma i francesi che lo sono molto di più non lo hanno chiamato Canale Francese’.  Abbiamo detto che la realtà linguistica è spesso molto complessa ed ingannevole, einfatti  io vedrei dietro quell’English un antico termine per ‘stretto, canale’, se penso all’aggett. ted. eng ‘sretto’ e al sostantivo ted. Enge ‘luogo stretto’, come in Land-enge ‘istmo’ e in Meer-enge ‘stretto di mare’.  Anche il lat. ang-ul-u(m) ‘angolo, luogo chiuso, golfo’ credo sia della partita.

    Ritornando al termine lat. e it. man-ica, che sembra un diretto derivato del lat. man-u(m) ‘mano’ in quanto ‘oggetto che concerne la mano’, bisogna fare alcune osservazioni. Intanto una manica, se è vero che arriva fino a lambire, e talvolta coprire, la mano, è più vero che essa è una copertura del braccio, e quindi la definizione testé data mi pare un po’ scentrata.  In italiano, poi, esiste un altro vocabolo simile, ma per la verità con qualche significato poco noto, e cioè mano-pola il cui valore più diffuso è a tutti noto: aggeggio che serve a regolare qualche meccanismo, mediante rotazione dello stesso.  Potrebbe però richiamare, anche in questa funzione, la mano, anche se io  ci credo poco.  Ma la voce mostra anche il significato di ‘risvolto di tessuto che orna le maniche di un vestito’, moda in uso  soprattutto nel Seicento; anche qui la mano mi sembra introdotta a forza per la spiegazione del termine. Il quale, invece, nel suo elemento –pola potrebbe richiamare il gr. pόl-os ‘rotazione, rivolgimento’ e nell’elemento mano-  ripeterebbe un’idea di “cavità, rotondità” ricavabile da una radice abbastanza diffusa nelle lingue come gr. mán-os, mόnn-os ‘collana’, lat. mon-il-e), col valore di ‘collana’, una parola che, in altro articolo, mi sembrava indicare la serie di elementi (perle) che la compongono. Questo fatto non costituisce un limite del mio metodo, anzi lo avvalora sempre più, data la spiccata polivalenza delle radici all’origine. Anche il lat. man-ic-a(m) aveva il significato, oltre che di ‘manica’, anche di ‘guanto, manopola (a difesa delle braccia dei soldati)’.

   L’ingl. man-hole ‘botola, boccaporto, passaggio d’ispezione’ non può essere nato dall’idea di “passaggio attraverso il quale passa solo un uomo” ma dalla sola idea di passaggio in ambo i membri, specializzatosi poi, per influenza di man ‘uomo’,  nel modo che vediamo.   Ma c’è di più. In gr. man-όs significa ‘scarso, raro, soffice, floscio, poroso’. Plinio ci consegna il termine lat. man-on o man-os ‘specie di spugna’ (di chiara origine greca) la quale ha molti pori. Questa idea del “poco, scarso, manchevole, ecc.” deve essersi sviluppata da quella di “cavità”, nella sua accezione di “vuoto” e quindi di “assenza”, totale o parziale non importa; in italiano il verbo mancare si presta ad indicare le due cose.  Esso proviene da it. manco< lat. manc-u(m) ‘monco, manchevole, difettoso’ (cfr. ant. indiano man-ák ’un poco’), una radice probabilmente uguale a quella di man(i)c-a(m) ‘manica’ in quanto ‘tubo, passaggio, vuoto, avvolgimento’ non in quanto legata a lat. man-u(m) ‘mano’.  In greco mán-ēs vale ‘coppa, vaso’. L’dea di “manchevole” è tale in quanto si riferisce a qualcosa di assente parzialmente, ma avrebbe potuto avere anche quello di assente totalmente , di qualcosa ,insomma,  che combacia col vuoto o il nulla oppure col poco, scarso , cedevole, soffice.

   Allora la radice di lat. man-ic-a(m) ‘manica’, in questo significato di ‘cavità, buco, tubo’, è secondo me presente anche nell’it. mangia-toia, in quanto recipiente o cavità dove viene messo il cibo per le bestie.  Esso naturalmente si è nascosto sotto il quasi sosia, formalmente, lat. mand-uca-tor-e(m) ‘mangiatore’ > *mand-icator-e(m)> man-ic-ator-e(m)> dial. ailellese magna-tόra. In francese si è avuto il verbo mang-er ‘mangiare’ e il sostantivo mange-oire ‘mangiatoia’ il cui primo membro qui nascondeva, però, il primitivo manche ‘manica, nel senso che ho spiegato, e non mang-er  ‘mangiare’.  L’elemento –tora  più che indicare un nomen agentis, era un elemento tautologico rispetto all’altro, accostabile  a quello di lat. i-ter ‘via, cammino, passaggio’ e a tanti altri. 

   Anche il verbo it. maneggi-are, considerato denominativo da mano,  mi appare sospetto, nonostante quella che sembrerebbe la sua prepotente evidenza.  Basta leggere alcune definizioni datene dai vocabolari, magari relative a strumenti di uso arcaico, per convincersi che la radice man- doveva indicare anche un movimento rotatorio, un rivolgimento, non importa se attuato con le mani (che ne sono diventate illegalmente padrone assolute) o in altro modo. Trascrivo dal De Mauro, sotto il lemma maneggio:  “macchina costituita da un albero verticale, mosso dalla forza traente di un quadrupede, comunicante il movimento ad altri meccanismi”. Ancora dal De Mauro: ”in aeronautica, meccanismo rotante impiegato per determinare le azioni aerodinamiche esercitate su un modello in movimento lungo una traiettoria circolare (i corsivi sono miei)”.  Il maneggio in senso ippico, deve essersi incrociato anche con una radice come quella del lat. mann-u(m) ‘cavallino’ sicchè esso dovè significare, in tempi lontani,  qualcosa come equitazione, ippica, provenendo da un significato generico di ‘rivolgimento, evoluzione’.

   Il mang-ano è una specie  di grosso torchio adoperato per la manganatura di certi tessuti, cioè per renderli più compatti e lisci. Ora il torchio etimologicamente richiama il lat. torc-ul-u(m) ‘frantoio’, dal verbo torqu-ēre ‘torcere’, perché esso funziona facendo avvitare un piano superiore su uno fisso sottostante, attraverso un perno a vite, e com primendo così le olive o le vinacce interposte.  Ricordo che il lat. troqu-e(m), della stessa radice, significa ‘collana’, in quanto avvolgimento. Lo stesso termine mang-anë  a Trasacco-Aq indicava l’arcolaio[1] , strumento  a ruota abbastanza diffuso un tempo nei nostri paesi, quando le donne filavano, costituito essenzialmente da una ruota girevole e da un cannula intorno a cui si avvolgeva il filo.  Il termine esiste anche in greco in cui máng-an-on significa ‘asse di carrucola o puleggia’.  E’ insomma tutto un girare!

     Il verbo it. man-tenere non credo sia un derivato, come tutti pensano, della locuzione latina manu  tenere ‘tenere con la mano’, ma  penso contenga la radice di lat. man-ēre ‘rimanere, attendere’, gr. mén-ein ‘restare, sostenere’.  Un’attenzione particolare merita il lat. manu-mitt-ĕre che si riferisce all’atto di liberare uno schiavo portandolo per mano dinanzi al pretore e, dopo aver recitato alcune formule di rito come vade quo vis ‘vai dove vuoi’, mandandolo via libero dalla sua mano (almeno così Ottorino Pianigiani dice sotto la voce manomettere nel suo dizionario etimologico online): la mano simboleggiava la potestà del padrone sullo schiavo, e l’espressione forse era comunemente intesa come ‘mandare via uno schiavo con un cenno della mano (manu)’. Ma io suppongo che anche qui i romani erano vittima di un incrocio della parola man-u(m) ‘mano’ con un ormai scomparso aggettivo *man-u(m) ‘libero’, concetto inerente a quello di “vuoto” e quindi di “libero da ingombri o incombenze”, che più sopra abbiamo attribuito alla radice di gr. man-όs ‘rado, scarso’. Il manu-mittere, dunque, non era altro, all’origine, che il semplice lasciare andare libero uno schiavo.

    Per quanto riguarda l’inglese man-handle  ‘manovrare a mano, malmenare, maltrattare’, non ci crederei nemmeno se fosse vero alla convinzione dei linguisti che l’elemento man- vale ‘uomo’ e quindi il verbo significherebbe letteralmente ‘manovrare, spingere mediante  forza umana’. Io penso che si tratta del solito composto tautologico, che ripeteva  lo stesso significato nei due membri, e pertanto man- corrispondeva al lat. man-u(m) ‘mano’, come l’elemento –handle deriva da ingl. hand ‘mano’: il primo significato attestato per man-handle [2] è infatti quello di ‘brandire, impugnare un arnese’: qui l’idea di “uomo” non c’entra affatto. In antico inglese esisteva anche il sostantivo mund ‘mano’ che conferma la  possibilità della presenza nell’antico inglese, o anche prima,  di una radice man- per ‘mano’, secondo me. 
 
 ‘Mannaggia la puttana, quante e quali evoluzioni mi tocca fare, alla mia età!





[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà F-P, GraficheDi Censo, Avezzano-A, 2003.








martedì 2 aprile 2019

Abruzz. " trocchë, trocchëlë


                                             
Queste voci sono riportate nel Vocabolario abruzzese di Domenico Bielli[1].  Ne elenco i significati. Tròcchë, f. : tabèlla, battola, piletta dell’acqua santa, arnese di legno entro cui, in un sacco, si pigia l’uva. Tròcche m.: Trogolo, pila. Tròcch-ëlë: trogolo, pila di pietra o di legno scavato dove mangiano i maiali, vaso di pietra o di legno in cui si pigia l’uva, vasca della fontana. 

  La forma tròcchë ricorre, più o meno uguale, anche in altre regioni come le Marche ad indicare in genere il trogolo, strumento in genere di pietra che serviva a dar da mangiare agli animali, solitamente maiali. La linguistca ufficiale rimanda il termine ad al longobardo  trog, vivo tuttora anche nel ted. Trog ‘trogolo’ e nell’ingl. trough ‘trogolo, abbeveratoio, ecc.’ dei quali ho parlato ampiamente nel precedente articolo Acquedotto eabbeveratoio.  I linguisti derivano questi vocaboli da una radice indoeuropea per ‘legno’, da cui anche l’ingl. tree ‘albero’ e il gr. dόry ‘tronco d’albero’, gr. drŷ-s ‘albero, quercia’. Ma io, come al solito, ho qualche dubbio in materia, anche perché non è la materia di cui è costituito uno strumento a generarne il nome. 

    In greco esiste anche il termine trṓg-lē ‘buco (dei sorci), cavità, caverna’, fatto però derivare dal verbo trṓg-ein ‘rodere, rosicchiare, mangiare’ e non preso così affatto in considerazione per un suo accostamento a ted. Trog ‘trogolo’ e ingl trough ‘trogolo, abbeveratoio’.  E questa loro posizione sembra essere rafforzata dal fatto che un significato di gr. trṓg-lē, come abbiamo visto, è buco dei sorci i quali  notoriamente sono dei roditori. Ma non hanno riflettuto che l’idea di “cavità, buco” ha una natura ben più ampia di quella supposta di ‘erosione’: il cavo della mano, la cavità dell’ascella e della bocca, i buchi del naso e delle orecchie, ad esempio, non rientrano affatto nell’idea di “erosione”, la quale, è vero, può generare qualche buco, anche se quest’ultimo normalmente attinge, secondo me, a tutt’altra idea.  Pertanto il significato di buco dei sorci è dovuto al semplice incrocio tra le due parole di origine diversa ma di forma simile.  

   Un altro motivo della esclusione di trṓg-lē ‘cavità’ dal gruppo suddetto sarà costituito dal fatto che, secondo le regole della rotazione consonantica o Lautversciebung, nelle lingue germaniche, al posto della dentale sorda iniziale /t/ si sarebbe dovuto avere una spirante interdentale /th/.  Ma basta  conoscere l’ant.ingl. thruh ‘condotto, trogolo, bara’, l’ant. norreno th ‘trogolo’ per rendersi conto che esistevano anche forme regolari in spirante , con lo stesso significato di cavità delle altre considerate irregolari. Io non ho mai creduto fermamente ad esse che –azzardo un’ipotesi- potrebbero spiegarsi come il risultato del diffondersi  di un trattamento particolare di quelle consonanti proprio di qualche dialetto limitato nello spazio, diffusosi poi anche a tutti gli altri.

Inoltre ci sono anche altre cose da rilevare. Il significato di ‘tabella, battola’, riportato dal Bielli per la voce femminile tròcchë, indica appunto uno strumento di legno che produce un rumore secco, usato un tempo in sostituzione delle campane nella settimana santa. Esso aveva un manico girevole, con una ruota dentata all’interno di una cassetta di protezione, la quale, toccando una lamella, produceva il caratteristico suono. Mi sembra di sentirlo!  Ora il gr. trokh-íli-on, trokh-il-ía (con diverse altre varianti) valeva ‘rullo, carrucola, cilindro, argano, arcolaio’, insomma uno strumento ruotante, per spostare pesi o per altro. La radice della parola è in effetti la stessa di gr, trokh-όs ‘ruota, cerchio, anello, pillola’ e di gr. trékh-ein ‘correre’, e in questo caso essa si riferiva alla ruota dentata girevole dello strumento. E’ evidente che deve essere avvento l’incrocio di questa radice con quella di ‘trogolo’ sopra riportata, che era una sorta di cassa, come la cassetta della raganella. Ma non è tutto. Anche il significato di ‘arnese di legno entro cui, in un sacco, si pigia l’uva’ presuppone l’incrocio del termine per ‘trog-olo’ con gr. trýgē ‘vendemmia, raccolta’, gr. trýk-s, trýg-ṓs ‘feccia, mosto’, assonante fortemente con esso.  La definizione secondo cui tròcchë sarebbe il recipiente dove mangiano gli animali e soprattutto i maiali (la quale quindi limita tutte le altre possibilità del nome il cui valore generico era quello di cavità) èuna specializzazione indotta dal verbo trṓg-ein ‘rodere, mangiare’. E allora nessuno osi pensare che la mangiatoia   trae la denominazione dal fatto che serve anch’essa per far mangiare gli animali. E il nome sembrerebbe indicare, poi, una funzione attiva che la vorrebbe far passare come quella che mangia <*mangia-toria (gli animali?) o, meglio, come strumento usato per mangiare (dial. magna-tόra). Mah, trovatevelo voi il vero etimo, e state certi che il mangiare c’entra come i cavoli a merenda!  «L’è tutto da rifare!» avrebbe detto il buon Ginettone Bartali. Amen!





[1] D.Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla edit., Cerchio-Aq, 2004.

lunedì 1 aprile 2019

Acquedotto e abbeveratoio


                                       

Dopo il disvelamento della vera e nascosta natura del lat. terrae-motu(m) ‘terre-moto’, anche il lat. aquae-duct-u(m)  ‘acque-dotto’  comincia a tremare, perché, come tutte le espressioni, anch’essa ama l’ombra, il silenzio e la pace, condizioni irrinunciabili dell’eternità, e fonte del vero.  In effetti anche qui la superficie sembra chiara e cristallina, in quanto il significato di ‘conduttura (duct-um) dell’acqua (aquae-)’ pare non concedere appigli per altre interpretazioni.

    Noi però abbiamo scoperto da molto tempo il segreto amore delle parole a nascondere l’identità originaria, e non riposiamo, al contrario di esse, se non riusciamo a toglier loro la veste di dosso per poterle ammirare nel loro nudo splendore. Lungi da noi il desiderio di violentarle, anzi vogliamo solo cantarne e magnificarne la bellezza. Possono tranquillamente starsene quiete se questo è il loro timore. 

  In latino si incontra la voce usata da Plinio ag-ōg-ae ‘condotti’, prestito dal gr. ag-ōg-όs ‘che conduce, guida, scorta, condotto, canale’, termine costituito da una radice raddoppiata, quella del verbo gr. ág-ein ‘spingere, condurre, guidare, ecc.’ che corrisponde al lat. ag-ĕre ‘spingere, condurre, fare, recitare, ecc.’.  Ma la sua qualità di conduttura mi pare si possa individuare anche nel lat. aqu-agi-u(m) ‘condotta d’acqua’ che apparentemente sembra un ampliamento non meglio definibile di lat. aqu-a(m)’acqua’, ma basta riflettervi un po’ per scorgere in –agi- , di primo impulso, la stessa radice di ag-ĕre ‘spingere, condurre’, sicchè il tutto avrebbe potuto significare, all’origine, condotta d’acqua: ma non ci siamo, perché il termine pure qui nasconde, come amano fare in diversi modi anche gli altri termini, il raddoppiamento della radice ag-  e doveva   quindi all’inizio avere la forma di *ag-agi-u(m) ’condotto’ simile al gr. ag-ōg-όs ‘guida, condotto’: avvenne poi la reinterpretazione della prima ag- intesa come aqu-a(m), secondo l’ormai a noi ben noto processo che mira alla specializzazione dei significati generici. 

   Di conseguenza bisogna pensare che anche il lat. aqu-ale ‘brocca’ non sia altro che una reinterpretazione di un originario *ac-ale che poco aveva a che fare con il prezioso liquido, ma aveva qualcosa da spartire, semmai, col lat. ac-us, -eris  ‘pula, loppa’ il quale presentava anche la forma ac-us, -us della 4° declinazione; una cavità, dunque, come un condotto, un recipiente, una brocca.   Ugualmente il lat. aqu-ari-u(m) ‘fontanile, abbeveratoio, acquario’ indicava il recipiente, non l’acqua che conteneva. La parola abbeveratoio, ora che ci penso, faceva a meno, proprio strutturalmente, dell’idea di “abbeverare (gli animali)” e, semmai, era parente stretto di it. pevera ‘grosso imbuto di legno’, svolgendo la funzione, mentre permetteva agli animali di abbeverarsi, di accogliere da un lato l’acqua proveniente da qualche sorgente o condotto, di cui si riempiva, e di far defluire dall’altro l’esubero per evitare che essa diventasse stagnante. Abbeveratoi alla buona o improvvisati erano costituiti da un semplice canale di tavole o tronchi. Naturalmente l’incrocio col verbo abbeverare era fatale.

   Anche il ted. Trӓnke-trog ‘abbeveratoio’, letter.  ‘trogolo (-trog) per l’abbeverata (Trӓnke-)’ sembrerebbe pacifico, sennonchè già nel fatto che Trӓnke significa, da solo, anche ‘abbeveratoio’, sento alcunchè di bruciaticcio che mi spinge ad indagare meglio, anche se grammaticalmente tutto è normale: il Trӓnke, nell’uno o nell’altro senso, è un termine regolare a suffisso zero della stessa radice dei verbi trink-en (ingl. drink) ‘bere’, trӓnk-en ‘abbeverare’.  Esiste nell’ingl. dialettale[1] il termine drong (var. drang) che vale ‘stretto passaggio, corridoio, vicolo’, radice che poteva prestarsi benissimo ad indicare un canale,  ed anche un vaso o recipiente. Sicchè il ted. Trӓnk aveva le carte in regola per designare, da solo, la vasca  dell’abbeveratoio, o anche una fossa scavata per terra, se vogliamo dar retta all’ingl. drink-ing hole ‘abbeveratoio’, letter. ‘ buca, scavo (hole) per l’abbeverata (drink-ing)’. E in effetti l’ingl. trunk  vale anche ‘condotto, cassone, baule, vasca di seprazione, A me sembra, inoltre, che i due verbi ted. drink-en ‘bere’ e dring-en ‘penetrare a forza’ da cui il ted. Drang ’impulso, istinto’ siano varianti di una stessa idea di fondo, quella di “spingere” appunto, se diamo a drink-en ‘bere’ il significato di ‘mandare giù, spingere giù, ingoiare’. Non è un caso, secondo me, se colloquialmente l’ingl. drink vale anche ‘mare’, il quale certamente non può essere inteso come ‘acqua che si beve’ o come ‘bevuta’, ma semmai come ‘acqua raccolta (spinta) in una cavità’.  Del resto anche il ted. Trog avrebbe potuto indicare, da solo, l’abbeveratoio, se il suo sosia ingl.  trough vale proprio ‘abbeveratoio, doccia’, oltre a ‘mangiatoia, canale, avvallamento, saccatura (in meteorologia)’.  Persino l’italiano trogolo presenta anche il valore di ‘vasca rettangolare all’aperto, per il lavaggio di panni e ortaggi, nelle campagne’. Mamma mia, non si salva quasi nessun vocabolo da questa connaturata e spiccata tendenza da trasformista!  Tutto questo conferma che il ted. Trӓnke-trog ‘abbeveratoio’ non nacque come  composto formato da un determinante (Trӓnke-) e da un determinato  (-trog) ma come composto tautologico formato da termini paritetici con significato generico uguale, pronto ad assumerne un specifico, non appena subentrò il meccanismo grammaticale determinante-determinato.  E così sarà anche per la massima parte dei numerosissimi altri composti di questo tipo nelle lingue germaniche: essi non sono di certo nati a tavolino!.   
    



[1] Cfr. vocabolario Merriam-Webster.