domenica 27 ottobre 2019

Onomatopea




   Ho appurato che un importante filosofo del Novecento, Maurice Merleau-Ponty, esponente di primo piano della fenomenologia francese ma che non conoscevo bene, considerava ingenua la teoria linguistica dell’onomatopea. Come sappiamo, anch’io in articoli recenti e passati di questo blog ho messo in rilievo l’impraticabilità di quella teoria, analizzando la natura di molteplici parole considerate onomatopeiche dalla linguistica ufficiale. E questo indipendentemente dal filosofo suddetto che non conoscevo e che, con i suoi metodi di indagine filosofica, era così arrivato alla stessa mia convinzione.  Del resto anche F. de  Saussure sminuisce l'importanza dell'onomatopea nel linguaggio (cfr. Corso di linguistica generale, tradotto da T. De Maurop.87).  Si legga su questo blog anche l'articolo "Chicchirichì(toscano) 'gheriglio della noce' e la falsità delle onomatopee (25 giugno 2009). 


lunedì 14 ottobre 2019

L’aiellese-abruzzese-meridionale sëllùzzë.


L’aiellese-abruzzese-meridionale  sëllùzzë.

Credo che ancora oggi più o meno tutti i miei compaesani, compresi quelli più giovani, capiscano il significato della parola aiellese-abruzzese sëllùzzë che equivale all’it. singhiozzo < lat. singult-u(m), ma che si usa (forse mi illudo che si usi ancora) solo per indicare quel fenomeno fastidioso , in genere di breve durata, dovuto alla contrazione del diaframma e alla chiusura brusca della glottide (la valvola che separa l’apparato respiratorio da quello digerente) e che si manifesta in un “hic” ripetuto più volte.   I singhiozzi del pianto non mi sembrano essere contemplati  nel suo significato.
    Oggi sono molti i ragazzi che studiano l’inglese cui potrebbe suscitare almeno curiosità la notizia  che la radice di sëllùzzë  si ritrova in un noto verbo irregolare  ingl. sing (pass. sang, p. pass. sung) ‘cantare’. Oddio! Il singhiozzo non è proprio un canto, piacevole o stonato che sia, ma ormai sappiamo  che la Lingua all’origine non faceva distinzione tra suoni belli e brutti, acuti e bassi, indicando solo il concetto generico di “suono, rumore”. G. Devoto sostiene questa stessa derivazione del termine singulto[1] supponendo anche un presunto verbo lat. *singul-ere ‘cantare’.
   Per arrivare alla forma dialettale sëllùzzë bisogna partire dunque da lat. singult-u(m) e passare attraverso la metatesi *singlut-u(m). La metatesi è appunto una inversione di lettere (qui ul > lu), normale nel parlato, di due suoni contigui o comunque successivi. Qui essa forse è avvenuta per influsso di lat. glutt-ire  ‘inghiottire’. A questo punto in italiano la palatalizzazione (molto frequente anche nei nostri dialetti) della consonante –l-, cioè la sua trasformazione in una sorta di –ji- ha dato come esito la parola singhi-ozzo,  anche  con la trasformazione della –t- in una affricata raddoppiata –zz-, sulla scia di termini latini come station-e(m) ‘stazione’, lat. action-e(m) ‘azione’.  Quindi bisogna presupporre un latino parlato *singlut(i)um  con una –i- (anche una –e-) tra la –t- e la –u- prima del passaggio a singhiozzo.   La citazione della parola lat. action-em mi offre l’occasione di accennare al fatto che tra la forma scritta italiana e la sua pronuncia c’è una notevole differenza, anche se noi tendiamo a non accorgercene.  In effetti la parola la scriviamo con una sola –z- ma la pronunciamo, giustamente (perché in latino si avevano le due consonanti –ct- che hanno prodotto nella pronuncia italiana un rafforzamento della –z-), come se si fosse passati da una forma *aczione al semplice azione
   Il fatto è che la grammatica italiana, non ricordo in quale epoca, ha stabilito che le parole terminanti in –zione   si scrivono con una sola –z-, qualunque sia la sua  pronuncia, semplice, come ad esempio in situazione  (lat. situation-em) o doppia, come ad esempio in concezione, perché proveniente da un lat. conception-e(m)), dove la t- è preceduta da una –p-. Ma in it. stazione, e in altre parole, si ha la pronuncia doppia, anche se il lat. station-e(m) presenta una –t- non preceduta da consonante. In questi casi, evidentemente, si fa sentire l’analogia con le parole che si pronunciano a ragione con la –z- doppia.
  Tornando alla forma parlata metatetica *singlu-tu(m) si può supporre che la consonante velare –g-, come succede abbastanza spesso, sia caduta lasciando un *sinlut-u(m)  subito assimilato in * sillut-u(m) > sëlluzzë.  Nel dialetto lucano di Gallicchio-Pt. si ha la forma gliùzz-ëchë[2]  con la palatalizzazione della doppia –ll-  e l’aggiunta del suffisso –ëchë.    
In italiano si incontra anche il termine letterario singulto preso direttamente dal latino classico singult-u(m), di cui sopra, che ha anche il significato di ‘verso di animale (vagamente simile ad un singulto?)’  come nei versi famosi dei Sepolcri  dell’immortale  Foscolo:  E uscir del teschio, ove fuggìa la Luna,/ l’ùpupa, e svolazzar su per le croci/sparse per la funerea campagna,/e l’immoda accusar col luttuoso/singulto i rai di che son pie le stelle/alle obblîate sepolture.





[1] Cfr. G. Devoto, Dizionario Etimologico, F.Le Monnier, Firenze, 1968.


     





[1] Cfr. G. Devoto, Dizionario Etimologico, F.Le Monnier, Firenze, 1968.


venerdì 11 ottobre 2019

La radice polimorfica del verbo abruzzese-meridionale ‘n-zëngà.




    Il verbo citato nel titolo significa generalmente ‘indicare, mostrare, insegnare, istruire’ ed è un derivato del lat. sign-are ‘segnare, contrassegnare, indicare, esprimere’, dal lat. sign-u(m) ‘segno, impronta, marchio, insegna, statua, ecc.’, con il prefisso in-. Il significato originario di sign-u(m) era propriamente ‘intaglio’ da una forma antica *sec-ĕre, class. sec-are ‘tagliare, segare, intagliare, scolpire’. Da notare anche l’abr. sénghë[1] ‘segno, incisione’ che, come vediamo, ha mantenuto chiaramente anche il significato di ‘intaglio’.  Il passaggio del nesso –ns- ad nz-  nell’originario *in-sign-are diventato *in-zign-are e poi ‘nzëngà non si è verificato l’altro ieri essendo dovuto nientemeno che all’influsso delle lingue del sostrato osco-umbro (che avevano già questa caratteristica), influsso esercitatosi quindi non appena il latino arrivò dalle nostre parti (circa il III - II sec. a.C.).  Per lo stesso motivo, ad esempio, l’it. pensare diventa, nel nostro dialetto, nz-à. Anche la forma abr. sénghë ’segno, incisione’  ha un antecedente  già nel seinq (col probabile valore di ‘statua’ o ‘ex voto’ dedicato alla dea Vittoria) di una iscrizione latina proveniente da Trasacco-Aq, della fine del III sec. a.C.[2]

   Da notare, passando dalla base latina al dialetto, l’esito gn > ng, cioè una vera e propria metatesi delle due consonanti. Un altro esito di lat. sign-are è il dial. sënà (presente in molti dialetti abruzzesi) ‘incrinare, lesionare’: a Luco dei Marsi, accanto a sënà ‘segnare, incrinare’, ricorre l’interessante  variante sinà  che assume, oltre al significato di ‘lesionare’, anche  quello di ‘curare (con pratiche e formule rituali, come particolari segni magici fatti sulla parte malata)’[3].  Sicuramente qui si è realizzato l’incrocio tra questo sën-à e l’it. san-are, come sospetta anche il Proia, autore del libro citato nel n. 3.  Ma il bello è che ad Aielli-Aq e altrove la forma sanà significava anche ‘incrinare, lesionare’, accanto alla forma più diffusa sënà ‘incrinare’. Tanto è vero che nel nostro paese ricorreva anche la voce san-ìcë ‘cicatrice’, la quale sembra tenere contemporaneamente dei due significati contrastanti, cioè del taglio e della sua guarigione. Infatti a Trasacco-Aq il verbo sanà  vale sia ‘sanare, guarire, accomodare’ sia ‘castrare (gli animali)’.

    Ad Aielli-Aq viveva ancora, nell’espressione cristallizzata mmàlë signe! (cattivo segno!), la forma arcaica di ségnë, la quale, buon’ultima, ci viene direttamente dall’italiano ségno. 

 Ma la forma sanà ‘incrinare, lesionare, castrare’  è proprio certo che sia dovuta alla confusione suddetta? No, perché potrebbe derivare, anche se solo in via ipotetica, da una antichissima radice *sac-, *sagn-, variante di lat. sec-are ‘tagliare, segare’, e ricavabile lat. sac-en-a(m) ’ascia’, variante a sua volta di lat. sc-en-a(m) ‘ascia’, in cui si è avuta la sincope della vocale –a- nel nesso  s(a)c-.  Quindi essa potrebbe anche essere un derivato di un probabile precedente lat. *sa(g)n-are ’tagliare’, non attestato perché magari caduto dall’uso.  Occhio alla penna! Effettivamente molti potrebbero essere gli incroci avvenuti nell’arco amplissimo della vita di un termine, il problema è talora decidere quale sia quello giusto.  

    Un altro derivato della radice in questione è la forma sinë ‘segno, linea’[4] (Luco dei Marsi-Aq. e altrove) con la caduta della velare –g- di lat. sign-u(m) ’segno’ ; a Cerchio-Aq la voce ha assunto il significato di ‘sporcizia (intorno ai polsi di camicie ed altri indumenti)’[5], cioè quello di macchia , concetto ben evidente nella espressione latina (Ovidio) cruor signaverat herbam ‘il sangue aveva macchiato l’erba’.  A Trasacco-Aq. esistono due forme, una maschile sinë ‘linea , traccia, incrinatura’ e l’altra femminile séna ‘linea, confine, traccia’[6]. Anche queste forme hanno antecedenti nella lontana antichità, come mostra un’epigrafe in una tavoletta bronzea trovata nel lago di Fucino, dove appare un seino= lat. sign-um ‘statua, ex voto’[7]. Si può quindi affermare, senza tema di essere smentiti, che per quanto riguarda queste parole i giochi di differenziazione semantica e di variazione formale erano stati fatti già intorno al III-II sec. a.C.

    Da quanto detto sopra si può concludere, allora, che molte sono le correnti linguistiche che hanno attraversato la storia di un vocabolo e di un dialetto, anche di una piccola comunità, e che pertanto è vano credere che la propria parlata sia qualcosa di unico nel contesto di tante altre. L’unicità, è vero, può essere anche giustificata dai particolari valori assunti da alcuni termini e dalla peculiare  pronuncia e calata, diversa da dialetto a dialetto, ma, come per il concetto di “razza”, ormai definitivamente tramontato, non si può assolutamente pensare che la propria parlata sia un prodotto limpido e incontaminato dei lontani antenati, pervenutoci senza ombra di impurità.  E’ questa un’idea falsa e irreale.  Viva i dialetti!

     



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A.Polla editore, Cerchio-Aq, 2004..

[2] Cfr. C. Letta- S. D’Amato, Epigrafia della regione dei Marsi, Edit. Cisalpino-Goliardica, Milano, 1975, pp.193 e s..

[3] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.

[4] Cfr. G. Proia, cit.

[5] Cfr. F. Amiconi, Quaderni del museo civico di Cerchio-AQ,  Sito internet  www. Comunedicerchio. It

[6] Cfr. Q.Lucarelli, Biabbà, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

[7] Cfr. C. Letta-S. D’Amato, cit. pag. 321e s.

martedì 8 ottobre 2019

L’abruzzese “sunà n-gόccë”. Spiccata genericità dei significati di fondo.



   L’espressione del titolo significa in abruzzese ‘emettere un suono fesso’, detto di recipiente di terracotta incrinato.  La forma n-gόccë  ha l’apparenza di una locuzione avverbiale che modifica il significato di sunà ’sonare’, ma in alcuni dialetti assume addirittura il valore di sostantivo col significato di ‘suono fesso’.  Il sostantivo viene accostato mentalmente alla parola it. coccio o ai suoi sosia dialettali, come se fosse formato dal nesso ‘in coccio’, ma l’accostamento ha, a mio parere, un che di artificioso ed innaturale.

    Senza andare troppo per le lunghe io penso che qui ci stia dietro una semplice forma aggettivale *in-cuc(c)io, *in-coc(c)io dal significato di ‘incrinato, rotto’, forma che rimanda alla radice di it. cocca, cioè la tacca della freccia, la quale non è altro che un intaglio in effetti. Me ne dà la conferma, a mio parere, il verbo abr. s-cuccà ‘scapitozzare’, significato che letteralmente vale ‘tagliare la cima (di un albero)’; secondo me, però, in questo caso la radice di s-cuccà, che in precedenza doveva avere  il significato tout court di ‘tagliare, potare, rompere’, si è incrociata con un’altra ben nota radice cuc(c)-  per ‘cima, punta’.  Gli incroci sono sempre dietro l’angolo!  Quindi anche l’italiano regionale s-cocci-are ‘rompere (un oggetto fragile), e fig. seccare, infastidire’ non è a mio parere un derivato di it. obsoleto coccia ‘guscio di crostaceo’ (da lat. cochle-am ’chiocciola’), ma di una forma simile al precedente  *in-coccio con la s- intensiva iniziale e proveniente dalla radice di it. cocca (tacca), di cui sopra. L’abr. scuccià[1] significa anche ‘tagliare i capelli fin quasi alla cotenna’, e con questo, se non ci siamo liberati ancora della presenza fastidiosa della coccia ‘testa’ (che qui però non viene rotta, ma indicherebbe solo il punto dove terminerebbe   l’azione del tagliare o rasare), abbiamo perlomeno scoperto il significato iniziale di ‘tagliare’ da attribuire al verbo e agli aggettivi del tipo *in-coccio di cui sopra.
  
     L’it. coccio considerato di etimo incerto, oppure accostato all’italiano e regionale  coccia di cui abbiamo parlato, è invece da riportare proprio a questa radice per ‘tagliare, rompere’, in quanto esso indica solitamente un pezzo frantumato di recipiente di terracotta. Quando, invece, esso indica l’intero oggetto di terracotta, è allora molto chiaro, almeno a me, che esso avrà subito l’influsso di coccia da lat. cochle-a(m) ‘chiocciola’.  La cosa viene in qualche modo confermata dalla presenza di un abr.[2] s-còcch-iëlë ‘coccio, pezzo di vaso rotto’  che appare come ampliamento della radice s-cocc-,   già incontrata col valore di ‘rompere, spezzare’ e riaffermata negli abr. ac-cuccà (da *ad-cuccà) e cuccà[3]  ‘scapitozzare, tagliare a una pianta i rami grossi e lasciare il tronco con pochi rampolli’.  Del resto in abruzzese si ha anche cocchië ‘coccio’[4].

    Ma la storia dei significati continua perché le parole, come ho ricordato più volte nei miei articoli, non sono nate l’altro ieri, ma migliaia di anni fa, e spesso qualche decina di migliaia di anni fa.  Gli è che nel trapanese, ad esempio, il verbo italianizzato in-cocci-are indica l’aggregarsi e amalgamarsi della semola, attraverso da un lato il versamento di un certo quantitativo d’acqua nel recipiente, dove essa era stata già  posta, e dall’altro  il girarla in continuazione con le dita della mano[5].   Allora è molto probabile che anche l’abr. e camp.  cocchië ’coppia’ non siano da derivare dal lat. copul-a(m) ‘legame, catena, arpione’ come tutti pensano, ma attingano ad una radice simile a quella di ingl. hook ‘gancio’, ted. Hack-en ‘gancio’ in un senso originario di ‘tenere stretto, connettere’, non importa se con un gancio o in qualsiasi altro modo. L’ingl. hook assume anche il significato di ‘ curva, piega, ecc.’ (che dà vita a quello di ‘rotondità’ di it. cocco, coccola ecc.),
 

come si può riscontrare (penso) nel trasaccano cocca ‘piega dei capelli’[6]. Ultraevidente mi pare così l’origine del termine marinaresco in-cocci-areimpigliarsi (della rete o della lenza in un ostacolo)’ e ancora ‘impegnare  mediante un gancio ed eventualmente un anello’ e ancora ‘abboccare all’amo del pesce’ (significato che non scaturisce certamente dall’influsso del dialettale coccia ‘testa’, che pure c’è, dato che l’aggancio avviene nella bocca, parte della testa. E qui casca a fagiolo l’it. letterario in-cocc-are, in-cocc-arsi detto delle parole che stentano ad uscire dalla bocca e si arrestano, come se si incagliassero.  Ma la maledetta testa riappare ancora, seppur meno evidente, nel verbo marinaresco di significato opposto s-cocci-are  ‘sfuggire all’amo a cui aveva abboccato’, che si configura appunto come uno sganciarsi , e che non si può confondere col significato di ‘rompere, schiacciare’ né con quello di ‘seccare, disturbare’ che lo stesso significante, di volta in volta, assume.

    C’è una voce lucana (a Gallicchio-Pt) molto interessante che ci fa capire quanto generici siano i significati di fondo delle parole.  Essa è cucchië  ‘una certa quantità’[7], come ad esempio un gruppo di persone.  Allora bisogna desumere che dietro questo termine  ci sia un significato più generico di ‘legame, connessione, aggregato’ come dietro l’abr. e camp. cocchië ’coppia’ di cui sopra, in cui l’aggregato è però solo di due cose o persone. Un’altra osservazione importante mi pare quella di pensare che l’it. obsoleto coccia ‘guscio di crostaceo, guscio’ nonchè l’it. dialettale coccia ’testa’ con gli archetipi latino-greci da cui derivano, dietro un significato di ‘avvolgimento, rotondità, guscio’ ad essi pur connesso, ne avessero un altro di ‘coagulo, aggregato, indurimento, durezza’.  Pertanto i verbi dialettali in-cocci-are, in-cocci-arsi nel senso di ‘ostinarsi, intestardirsi’ non sono da mettere in esclusivo  collegamento con dialettale coccia ’testa’, ma col suo significato profondo di ‘compattezza, rigidezza, durezza’.  Naturalmente lo stesso ragionamento va fatto  per it. in-test-arsi , in-test-ard-irsi dalla base di lat. test-a(m)  ‘tegola, pignatta, anfora, coccio, ecc.’.  Il lat. test-e(m) ’teste, testimone’ non deriva dalla sua presunta funzione di essere un terzo tra due contendenti, come si racconta, ma dalla sua semplice funzione di ‘confermare (qualcosa)’, proprio nel significato etimologico di ‘rendere fermo, solido, consolidare’.  La radice è quella di lat. torr-ēre ‘disseccare, arrostire’, p.pass. tost-u(m) ‘arrostito’ da cui l’it. tosto ‘duro, sodo’. Il greco aveva il verbo ters-ain-ein ‘disseccare, asciugare’ la cui radice si ritrova anche nell'ingl. thirst 'sete' e nel ted. Durst 'sete'.  
    Se l’it. test-ardo risulta attestato piuttosto tardi (sec.XVII) non bisogna credere, per ciò stesso,  che esso sia nato in quel torno di tempo, ma avrebbe potuto, invece, sonnecchiare per lunga pezza in qualche dialetto.  No mi sembra, d’altronde, che esso abbia l’aria di una formazione recente come vorrebbe farci credere all’apparenza , ma che si avvicini piuttosto, per struttura, allo spagnolo testa-rudo ‘testardo’ che deve essere abbastanza antico, in quanto composto da  testa-, termine attualmente di natura letteraria, diverso dall’usuale cabeza ‘testa’: perché mai, nel creare un nuovo termine del linguaggio comune, si sarebbe sentito il bisogno di andare a scovare una parola letteraria?  La seconda componente -rudo vale ‘rozzo, duro, difficile’ e quindi, secondo i canoni della mia linguistica, essa rafforza tautologicamente  il concetto  racchiuso in testa-.  Anche il suffisso –ardo, di origine franco-germanica, conterrebbe inizialmente , guarda caso, il significato di germanico –hard ‘duro’.  Del resto diversi sono in spagnolo i termini familiari per testardo  scaturiti dalla parola cabeza ‘testa’, come cabez-όn, cabez-ota, cabez-udo.

    Uno dei diversi aggettivi inglesi per ‘testardo’ è pig-headed, letter. ‘con la testa di porco, maiale (pig-)’.  Ma questo animale è particolarmente testardo? A me non pare, pur essendo stato in passato a contatto con alcuni  di essi, essendo figlio di contadini che ogni anno allevavano per la famiglia il loro bravo maiale.  L’espressione suddetta non può riferirsi alla forma della testa dell’animale, perché non avrebbe senso.  La strada da seguire, a mio parere, per individuarne il giusto etimo, è indicata dall’ingl. pig (principalmente scozzese)‘pentola, vaso, coccio’. In questo caso bisognerebbe rivedere anche la tradizionale etimologia dell’it. pign-atta, il quale non va riportato al lat. pine-a(m) ‘pigna’, a cui la pignatta assomiglierebbe, ma alla stessa radice del suddetto  ingl. pig ‘pentola’ nonché a quella di gr. pykn-όs ‘denso, fitto, compatto, duro’, dell’avverbio gr. pýka ‘in modo compatto’ e del lat. pugn-u(m) 'pugno'. Il significato fondamentale della radice indicherebbe, quindi, la durezza e la compattezza  di una terracotta e del suo guscio, come abbiamo visto per it. testa.  Quindi dietro il termine pignatta va posta una forma *pign-ata e non *pine-ata. G. B. Pellegrini, distaccandosi dalla tradizione, propone una derivazione da un lat. parlato *pinguia(m) (ollam)  da pinguis ‘grasso’[1]: un recipiente, insomma, per conservare il grasso.  La nota stonata di simili etimologie, come ho detto altre volte, è che esse sono “scentrate”, nel senso che falliscono di colpire nel segno, in quanto propongono come etimi parole che non si riferiscono direttamente alla cosa  da spiegare, ma ad altro, simile in qualche modo nella forma. Mi vado invece convincendo sempre di più che la Lingua solitamente non opera in questo modo indiretto, nonostante le apparenze. Anche l’aggettivo it. pign-olo  (di etimo tormentato e incerto)  trova a mio avviso la sua pace nella radice suddetta: l’avverbio gr. pýka sopra citato significa anche ‘accuratamente, con precisione’: che vogliamo di più?



[1] Cfr. Cortelazzo-Zolli, DELI Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Zanichelli, Bologna, 2004.
    

    L’it. in-cocc-are, cioè applicare la cocca della freccia sulla corda dell’arco per poterla lanciare, richiama la cocca (tacca) solo di straforo, perché se la trova lì davanti, ma all’inizio il verbo aveva il significato quasi uguale a quello di siciliano in-cocci-are ‘legare, aggregare, amalgamare’, sopra incontrato, ed indicava direttamente l’azione del ‘connettere, unire’ la cocca alla corda. Pure l’it. in-cocc-iare, nel senso di ‘incontrare, urtare’ è appunto un venire a contatto, anche se più o meno violentemente, con qualcuno o qualcosa. Allora, l’opposta azione dello  s-cocc-are la freccia si configura, a mio parere, come un ‘disincagliare, staccare, lanciare’ simile a quello già incontrato di s-cocci-are, detto del pesce che riesce a sfilarsi dall’amo cui aveva abboccato.  Lo s-cocc-are delle ore  può spiegarsi come un “lancio” o una “emissione” di suono, allo stesso modo in cui si scoccano parole ostili e occhiatacce verso qualcuno che non ci garba.   C’è anche da supporre un incrocio con la voce cuc(c)ù del canto del cuculo, ritenuta  erroneamente onomatopeica.  Si incontra anche un regionale (centrale) in-cocci-are ’stordire, frastornare (di rumore)’, proveniente secondo me non dal dial. coccia  ‘testa’,  ma dalla suddetta voce falsamente onomatopeica, presentando una struttura simile a quella, ad esempio, di it. in-tron-are, da it. trono ‘tuono’.   

   L’abr. cocchië ‘crosta (del pane), rosicchio (se vi si vedono i segni d’essere stato rosicchiato o comechessia mangiato), corteccia (del cacio), guscio (noce, mandorla, uovo, ecc.), coccio, coppia’ riassume diversi valori della radice che abbiamo analizzato.

 Tutte le considerazioni precedenti ci avvertono di come siano straordinariamente cangianti e versicolori i significati dei termini, i quali nella loro lunghissima vita, si sono incrociati  e hanno fatto conoscenza con molti altri sosia, spesso apparenti. Per questo la ricerca di un etimo incontra molti scogli e pericoli contro cui incocciano spesso anche persone ben addestrate, soprattutto se esse non si siano ben convinte di questa natura estremamente sfuggente delle parole.
   




[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A.Polla editore,Cerchio-Aq 2004.

[2] Cfr. Bielli, cit.

[3] Cfr. tutte e due le voci sub v. accuccà, nel Bielli, cit.

[4] Cfr. Bielli, cit.

[5] Cfr il seguente sito internet  in cui è dato anche il significato del verbo incocciare: https://www.ilgiornaledelcibo.it/come-incocciare-il-couscous/

[6] Cfr.Q. Lucarelli, Biabbà , Grafiche Di Censo, Avezzano –Aq, 2003 .. LucarelliQ. LucarelliQQ


giovedì 3 ottobre 2019

L’abruzzese "cόcchia" fa tremare i linguisti.




   Tutti i vocabolari che ho, compresi quelli etimologici, sentenziano in coro, senza tentennamenti, che il termine it. goccia è un derivato del verbo gocciare risalente secondo loro ad una forma latina volgare *gutti-are ‘gocciare’, dal lat. gutt-a(m) ‘goccia’, attraverso la mediazione settentrionale di gozzare ’gocciare’, gozza ‘goccia’,  corretta poi nel toscano gocciare e goccia.  E così una pesantissima ed inamovibile pietra tombale viene posta su quella che, secondo me, è la vera etimologia, suggeritami proprio dalla voce abr. cόcchia ‘piccolissima quantità di un liquido’[1]. Sembra quasi che lo stesso Bielli, dandone la definizione, abbia evitato di usare la parola goccia sapendo che la voce abruzzese più diffusa per ‘goccia’ è gottë, stizzë (incrocio tra gr. stílē ‘goccia’ e gr. stáz-ein ‘gocciolare’?),  o la forma aiellese vùtt-ëla, la cui prima componente corrisponde al lat. gutt-a(m). Abbiamo visto altrove che la velare sonora iniziale nel nostro dialetto tende a scomparire o a trasformarsi in fricativa sonora –v-.  La seconda componente –ëla è il diminutivo latino femm. -ul-a (m) presente anche in lat. gutt-ul-a(m) ‘gocciolina’.  Ora si dà il caso che il nesso consonantico –tl- dà in italiano lo stesso esito del nesso -cl- come in it. vecchio < vetl-u-(m) < lat. vet(u)l-u(m) ‘vecchietto, vecchio’, in it. secchio < sitl-u(m) < lat. sit(u)l-u(m)’secchio’.  Quanto al significato di probabilmente però il Bielli voleva indicare quello che in italiano viene espresso dal termine familiare goccio ‘piccola quantità di un liquido’, come nell’espressione: Vorrei un goccio di caffè. Ma il significato etimologico della voce abruzzese non cambia.

   Ora, il lat. gutt-ul-a(m) ‘gocciola’, seguendo lo stesso iter, non poteva che dare, nel parlato, prima un *guttël-a(m), poi un *guttl-a (m) (non importa se con la –t- geminata) e infine un gucchia o gocchia diventato cόcchia nella voce abruzzese per assimilazione della sonora –g- alla sorda successiva –c- o per semplice influsso della del termine omofono abruzzese cocchia ‘coppia’. Io ricordo benissimo, del resto, che la pronuncia dell’it. goccia, presso le persone poco acculturate di Aielli-Aq, il mio paese, era cόccia.  Ma la storia non è finita. La voce cόcchia ‘goccia’ ci autorizza a credere che anche l’it. goccia abbia dietro di sé una storia simile, potendo la forma  *gocchia < lat. gutt(u)l-a(m) assumere una pronuncia palatale goccia per lo stesso motivo per cui, ad esempio, l’abr. coccia ‘testa’ deriva dal lat. cochle-a(m) ’chiocciola’.  Vi sono talora delle incertezze nell’abruzzese tra una pronuncia velare ed una palatale, come in aiellese cëcëlà (arcaico chëchëlà) ‘cinguettare’, come abr. cìcëlë ‘bisbiglio, ciottolo, endice (aiellese énëcë)[2] cui fa riscontro, per il significato di ‘ciottolo’, il lancianese chichil-όnë ‘grossa pietra, grandine’.

   Date le precedenti considerazioni a me pare molto più probabile la derivazione dell’it. goccia (col relativo verbo gocci-are) dal diminutivo lat. gutt-ul-a(m). Saranno stati i dialetti settentrionali a trasformare il toscano goccia in gozza, e non viceversa, dato che il supposto volgare lat. *guttiare  (da lat. gutt-a(m) ‘goccia’) potrebbe essere, fino a prova contraria, una vera e propria zeppa che mal sorregge l’impalcatura interpretativa di tutti i linguisti, nonostante la forma spagn. gotear ‘gocciare’ che sembra provenire da un lat. *gutteare, *guttiare.  Al limite, i settentrionali gozza, gozz-are potrebbero essere prodotti autonomi senza nessun rapporto con il toscano goccia.   La cosa che non può essere ignorata è  l’abr. cόcchia ‘goccia’, che pesa come un macigno su queste supposizioni.

    L’ho sempre detto che la conoscenza capillare e completa di ogni dialetto, anche solo di una zona non eccessivamente vasta (come ad esempio la Marsica), risolverebbe non pochi problemi linguistici.  Ed è un vero peccato che i politici in genere, prodighi nel sostenere questa o quella sagra, questo o quell'intrattenimento, non spendano nemmeno un baiocco per cercare di tenere in vita e soprattutto di incentivare, con adeguate sovvenzioni a chi se la sentisse di farla, la registrazione più accurata e completa dei dialetti locali compresi i toponimi, che sono (cela va sans dire!) i beni culturali più preziosi di una comunità, soprattutto di quelle più piccole.

   A noi! Viva Gabriele D’Annunzio!





[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla Editore, Cerchio-Aq,2004.
[2] Cfr. D. Bielli, cit.
   




Tutti i vocabolari che ho, compresi quelli etimologici, sentenziano in coro, senza tentennamenti, che il termine it. goccia è un derivato del verbo gocciare risalente secondo loro ad una forma latina volgare *gutti-are ‘gocciare’, dal lat. gutt-a(m) ‘goccia’, attraverso la mediazione settentrionale di gozzare ’gocciare’, gozza ‘goccia’,  corretta poi nel toscano gocciare e goccia.  E così una pesantissima ed inamovibile pietra tombale viene posta su quella che, secondo me, è la vera etimologia, suggeritami proprio dalla voce abr. cocchia ‘piccolissima quantità di un liquido’[1]. Sembra quasi che lo stesso Bielli, dandone la definizione, abbia evitato di usare la parola goccia sapendo che la voce abruzzese più diffusa per ‘goccia’ è gottë, stizzë (incrocio tra gr. stílē ‘goccia’ e gr. stáz-ein ‘gocciolare’?),  o la forma aiellese vùtt-ëla, la cui prima componente corrisponde al lat. gutt-a(m). Abbiamo visto altrove che la velare sonora iniziale nel nostro dialetto tende a scomparire o a trasformarsi in fricativa sonora –v-.  La seconda componente –ëla è il diminutivo latino femm. -ul-a (m) presente anche in lat. gutt-ul-a(m) ‘gocciolina’.  Ora si dà il caso che il nesso consonantico –tl- dà in italiano lo stesso esito del nesso -cl- come in it. vecchio < vetl-u-(m) < lat. vet(u)l-u(m) ‘vecchietto, vecchio’, in it. secchio < sitl-u(m) < lat. sit(u)l-u(m)’secchio’.  Quanto al significato di probabilmente però il Bielli voleva indicare quello che in italiano viene espresso dal termine familiare goccio ‘piccola quantità di un liquido’, come nell’espressione: Vorrei un goccio di caffè. Ma il significato etimologico della voce abruzzese non cambia.

   Ora, il lat. gutt-ul-a(m) ‘gocciola’, seguendo lo stesso iter, non poteva che dare, nel parlato, prima un *guttël-a(m), poi un *guttl-a (m) (non importa se con la –t- geminata) e infine un gucchia o gocchia diventato cocchia nella voce abruzzese per assimilazione della sonora –g- alla sorda successiva –c- o per semplice influsso della del termine omofono abruzzese cocchia ‘coppia’. Io ricordo benissimo, del resto, che la pronuncia del termine it. goccia, presso le persone poco acculturate di Aielli-Aq, il mio paese, era solitamente coccia.  Ma la storia non è finita. La voce cocchia ‘goccia’ ci autorizza a credere che anche l’it. goccia abbia dietro di sé una storia simile, potendo la forma  *gocchia < lat. gutt(u)l-a(m) assumere una pronuncia palatale goccia per lo stesso motivo per cui, ad esempio, l’abr. coccia ‘testa’ deriva dal lat. cochle-a(m) ’chiocciola’.  Vi sono talora delle incertezze nell’abruzzese tra una pronuncia velare ed una palatale, come in aiellese cëcëlà (arcaico chëchëlà) ‘cinguettare’, come abr. cìcëlë ‘bisbiglio, ciottolo, endice (aiellese énëcë)[2] cui fa riscontro, per il significato di ‘ciottolo’, il lancianese chichil-όnë ‘grossa pietra, grandine’.

   Date le precedenti considerazioni a me pare molto più probabile la derivazione dell’it. goccia (col relativo verbo gocci-are) dal diminutivo lat. gutt-ul-a(m). Saranno stati i dialetti settentrionali a trasformare il toscano goccia in gozza, e non viceversa, dato che il supposto volgare lat. *guttiare  (da lat. gutt-a(m) ‘goccia’) potrebbe essere, fino a prova contraria, una vera e propria zeppa che mal sorregge l’impalcatura interpretativa di tutti i linguisti, nonostante la forma spagn. gotear ‘gocciare’ che sembra provenire da un lat. *gutteare, *guttiare.  Al limite, i settentrionali gozza, gozz-are potrebbero essere prodotti autonomi senza nessun rapporto con il toscano goccia.   La cosa che non può essere ignorata è  l’abr. cocchia ‘goccia’, che pesa come un macigno su queste supposizioni.

    L’ho sempre detto che la conoscenza capillare e completa di ogni dialetto, anche solo di una zona non eccessivamente vasta (come ad esempio la Marsica), risolverebbe non pochi problemi linguistici.  Ed è un vero peccato che i politici in genere, prodighi nel sostenere questa o quella sagra, questo o quell'intrattenimento, non spendano nemmeno un baiocco per cercare di tenere in vita e soprattutto di incentivare, con adeguate sovvenzioni a chi se la sentisse di farla, la registrazione più accurata e completa dei dialetti locali compresi i toponimi, che sono (cela va sans dire!) i beni culturali più preziosi di una comunità, soprattutto di quelle più piccole.

   A noi! Viva Gabriele D’Annunzio!





[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla Editore, Cerchio-Aq,2004.
[2] Cfr. D. Bielli, cit.