giovedì 19 aprile 2018

"Ai tempi che Berta filava"


                                          
                                                     




 

   Il modo di dire in epigrafe ricorre anche nella forma negativa (Non) sono (più) i tempi che Berta filava e vuole significare ‘Ai tempi dei tempi, quando le cose andavano bene’.  Un tempo, dunque, situato in una dimensione di favola in contrasto con quella del presente che solitamente sentiamo, per certi versi, come una brutta copia del più o meno lontano e mitico passato. 

   Questa volta non credo che mi dilungherò troppo, perché la soluzione dell’enigma costituita dal nome personale Berta è a portata di mano.  Come premessa dico solo che la mia interpretazione è talmente obbiettiva (mi scuso, col gentile lettore, di quella che può apparire come una mia arrogante sicumera) che non potrà essere messa in dubbio, al punto che sfido chiunque tra i miei pochi lettori, dotti o no, a farmi fare una pessima figura (e li ringrazierò per questo), proponendo una più realistica e scientifica soluzione.  I linguisti, pur essendo in genere molto più preparati di me nelle varie branche della materia, non sono purtroppo arrivati alla spiegazione vera di questa locuzione, e mai ci arriveranno, a mio parere, se non avranno prima capito e accettato il mio metodo esplicativo che, come un grimaldello, scardina con disinvolta rapidità ed efficienza quelle serrature che purtroppo risultano inviolabili con chiavi normali non calibrate adeguatamente. Fuor di metafora, bisogna che si riesca a capire che solitamente, dietro le parole chiave di qualche proverbio o modo di dire (ma anche in molte altre del lessico normale) come questo in esame, si nascondono vocaboli con significati tenuti ben nascosti da quelli di altre parole omofone sopraggiunte successivamente. A me l’assunto sembra del tutto chiaro, e lo vado ripetendo e dimostrando da gran pezza nei miei articoli. 

  Su questa Berta, che donnescamente filava, sono nate supposizioni e favole che possono riempire un libro intero.   Tuttavia la supposizione che va per la maggiore fa coincidere Berta con la madre di Carlo Magno o la sorella che portava lo stesso nome.  Ambedue furono costrette, secondo notizie romanzesche, a sostenere la propria vita filando umilmente la lana, a causa di improbabili rovesci economici.  Mi viene da esclamare: «Poveri linguisti! tutto quello che sanno fare su questa storia è scegliere, fra le tante, la versione tradizionale più convincente».  L’è tutto da rifare! osservava col suo accento fiorentino il gagliardo Ginettaccio commentando le tappe del Giro d’Italia, quando lui non correva più. 

   Ora si dà il caso che, nel dizionario online del dialetto di Gallicchio-Pz[1], si trovi, sotto la voce fëlà, l’espressione Cuànnë Vèrtulë fëlavë resa in italiano con “Quando Berta filava, All’epoca in cui la gente era ancora onesta, Al tempo dei tempi”.   Siccome mi era sorto il dubbio che il nome Vèrtulë potesse non corrispondere ad un possibile diminutivo italiano Bèrtola, del personale Berta, chiesi informazioni direttamente alla signora Balzano, creatrice e curatrice del sito, la quale gentilmente mi ha precisato che quel nome proprio non esiste nel dialetto di Gallicchio e che lei l’aveva tradotto con l’it. Berta solo perché pensava, giustamente, che il detto dialettale ripetesse quello italiano.   Questo è molto interessante perché mi consente di affermare con grande sicurezza che il modo di dire gallicchiese è vicino a quello che doveva essere il testo originario del detto. La voce vèrtulë dovrebbe essere stata scritta, all’origine, con la minuscola perché essa corrispondeva a qualche forma diminutiva di un termine *verta  o simile col significato di ‘fusaiola’ o anche di ‘fuso’, lo strumento con cui si filava la lana contenuta[2] nella conocchia o rocca, ancora ai bei tempi della mia fanciullezza che rimpiango nostalgicamente. Credo sia superfluo ricordare il betacismo cioè lo scambio v/b e viceversa, abbastanza ricorrente nei nostri dialetti meridionali ma anche altrove[3]. La radice è quella del verbo lat. vert-ere ‘volgere, girare’, azione fondamentale impressa al fuso dalle abili mani delle filatrici che così torcevano il pennecchio di lana tratto a mano a mano dalla conocchia, trasformandolo in filo.  Un ragazzo di oggi credo che a mala pena conosca il termine fuso avendo una vaghissima nozione dello strumento con la sua forma aerodinamicamente allungata, e che tanto meno conosca la parola conocchia o quella che da noi era chiamata la vert-ecchia[4], una fusaiola rotondeggiante che, inserita in fondo al fuso, serviva da volano al suo movimento vorticoso. Da noi, quindi, la radice del verbo vert-ere ‘girare, avvolgere’ serviva ad indicare la fusaiola ma altrove poteva designare il fuso stesso, come nell’antico alto ted. wirt, wirt-l ‘fuso’. Del resto essa nel ted. moderno torna ad indicare di nuovo, con Wirt-el, la fusaiola.  Nel dialetto gallicchiese si incontra anche vèrt-ulë ‘bisaccia’ che però non ha a che fare con la nostra locuzione , corrispondente

 

all’altra forma lucana con betacismo bèrt-ula ’bisaccia’, anche calabrese e siciliana[5], derivante dal lat. avert-a(m) ‘sacco, valigia’ con aferesi della /a/ iniziale.

   Delineato questo quadro, tutto appare molto più chiaro.  Il modo di dire preso in esame voleva spiegare la diversità del presente, visto spesso come peggiore dei tempi andati, rispetto ad un passato più o meno mitizzato.  Ogni civiltà ha sempre creato la sua Età dell’oro. Il detto, rimaneggiato con qualche aggiunta, potrebbe essere espresso più chiaramente in una variante come questa: Sono finiti i tempi in cui le cose andavano meglio e la gente era più onesta, quando ogni cosa funzionava secondo il modo naturale ad essa connesso, cioè il fuso filava, l’aratro arava, l’erba cresceva, la pecora brucava e la moglie non tradiva.  E sì, perché la suscettibilità dell’uomo nei confronti della donna, in passato molto più provocabile che ai nostri giorni, avrà trovato nel proverbio, una volta subentrato in esso il nome Berta, una conferma di quello che magari già andava sospettando, forse ingiustamente. E’ probabile che la forma originaria del detto fosse proprio quella di una favola, breve e sentenziosa, in cui i protagonisti erano tutti personificati, animali, piante e oggetti.

   E i linguisti ancora non smettono, e mai smetteranno, di cercare con accanimento l’identità della fantomatica Berta, frutto di un brutto scherzo che la Lingua, la quale è vecchia di decine di migliaia di anni (la filatura mi pare risalga al neolitico), ha giocato nei loro confronti: sarebbe proprio ora che si svegliassero una buona volta!

  Oh! che cosa non darei per rivedere filare sulla scala con le vicine di casa la vecchierella  del leopardiano “Sabato del villaggio” e della mia fanciullesca memoria, vivida e dolente insieme!



[1] Cfr. sito web: http://www.dizionariogallic.altervista.org/index.htm .  Il dizionario, impeccabile nella veste grafica e nelle spiegazioni, è opera di Maria Grazia Balzano.

 

[2] Ricordo che il bastone della rocca, in genere costituito da una canna, si apriva in diverse parti ad una delle due estremità, in modo da formare una sorta di gabbietta ovoidale, entro la quale veniva sistemato l’ammasso della lana da filare. La forma poteva naturalmente variare di zona in zona.

 

[3] Cfr. abr. bive ‘vivo’ (lat. viv-um), abr.vève ‘bere’ (dal lat. bib-ere), nel Vocab.abruzz. di Domenico Bielli;  ital. arcaico boce ‘voce’, ecc.

 

[4] Cfr. lat. vert-ic-ill-u(m) ‘fusaiola’, gallicch. furt-ëc-ìllë ‘fusaiola’.

 

[5] Cfr. M. Cortelazzo- C. Marcato, I Dialetti Italiani, UTET, Torino 1998 sub voce bèrtula.  

                                                     

   

venerdì 13 aprile 2018

Un attimo! voglio fermarmi a ragionare un po' sull'etimo di "attimo"


                
    Leggo su alcuni dizionari etimologici e alcuni semplici vocabolari l’etimologia che va per la maggiore riguardo alla parola it. attimo: dal gr. átom-os ‘atomo’, cioè una parte infinitesima di qualunque cosa, compreso il tempo. E il fatto è confermato addirittura dall’espressione greca en atómǭ ‘in un attimo’, letteralmente ‘in un atomo (di tempo)’, che ci viene dal Nuovo Testamento, scritto originariamente nel greco della koinḗ, come sappiamo.  Solo O. Pianigiani (1845-1926), nel suo Vocab. etimologico presente in rete, opta per una derivazione dal ted. Atem ‘fiato, respiro’, a. a. ted. atum ‘respiro,fiato’, perché la derivazione greca sarebbe dovuta avvenire per il tramite latino –dice lui-, che al suo tempo probabilmente non era stato individuato dai linguisti, dato che quel tramite effettivamente esiste: l’espressione lat. in atomo ‘in un attimo’, fotocopia di quella greca, si trova in Tertulliano (II-III sec. d.C.). Quasi sicuramente, però, il Piangiani intendeva dire che non esiste un genuino corrispettivo tutto latino del gr. átom-os, a parte la parola di Tertulliano presa di peso dal greco nella tarda latinità. Ma anche in tedesco l’espressione in einem Atem significa ‘in un attimo’ o ‘tutto d’un fiato’ come l’italiano in un soffio. Io credo che il Pianigiani avesse ragione, e ne indicherò subito il motivo.

   L’espressione gr. en atómǭ ‘in un attimo’ mostra tutte le caratteristiche di quelle locuzioni che io definirei innaturali, costruite, cerebrali.  Come mai essa compare abbastanza tardi in greco, e solo nel Nuovo Testamento (I sec.d.C.)? Normalmente lo stesso concetto indicato da questa espressione veniva espresso, sia nel greco classico che in quello della koinḗ, che è il greco diffusosi in quasi tutto il mondo antico dopo la morte di Alessandro Magno (323 a.C.), con altre espressioni, e, quello che più conta, immediatamente comprensibili per l’uomo greco, sia dotto che appartenente alla classe popolare, espressioni che mettevano in campo il concetto di ‘piccolezza, brevità massima’ che anche un ragazzino, che aveva cominciato ad apprendere la lingua, riusciva a capire senza eccessivo sforzo.  Espressioni che si ritrovano, generalmente, in ogni lingua. Ma per la locuzione en atómǭ la questione è tutt’altro che di facile comprensione.  Quando si cominciò a parlare di atomi, parti ultime infinitesimali, e non più divisibili, della materia, da parte di quei filosofi che furono detti appunto atomisti (Leucippo, Democrito, del V-IV sec. a.C.), naturalmente la lingua esisteva da decine di migliaia di anni e aveva trovato già i suoi modi di esprimere il concetto di “subito, in un soffio, sull’istante, in un istante, ecc.”; quindi, anche solo in base a questa riflessione, si dovrebbe almeno dubitare della genuinità della parola atomo, col valore di ‘istante’, nell’espressione di cui si parla.  Ma c’è molto di più.  In greco átom-os è essenzialmente un aggettivo dal significato di ‘indivisibile, indiviso, che non si può tagliare e che non è stato tagliato’: ora, ditemi voi, di grazia, come da questo significato l’uomo greco comune o di media cultura sia potuto arrivare a dare alla parola il significato temporale di ‘attimo, istante’ E’ semplicemente impossibile.  E non mi convince affatto la spiegazione che solitamente si dà intendendo atomo, in questo caso, come ‘parte piccolissima (del tempo)’. Il significato di ‘infinitamente piccolo’ si dovè sviluppare come conseguenza della teoria atomistica e certamente non prima; infatti esso appare abbastanza tardi, solo con Plutarco (II-III sec. d.C.).

   Questo tipo di spiegazione avrebbe potuto darla un filosofo o un intellettuale a partire dalla dottrina dell’atomismo, quando si sviluppò il concetto di “atomo” come parte ultima piccolissima della materia, ma sa anch’essa di un che di cerebrale: la Lingua non opera in un simile modo intellettualistico. Questo succede solo quando ci si trova davanti ad una parola incrociatasi nel tempo con un’altra che costringe l’etimologo a contorcimenti più o meno razionali per arrivare al significato originario della parola soggiacente, disturbata, nella forma o nel significato, dall’altra che vi si è depositata sopra.   Inoltre, se la parola fosse stata creata da qualche persona molto istruita a conoscenza dell’atomismo, come mai essa non si affermò nel greco classico, ma apparve solo molto più tardi nel Nuovo Testamento  (I sec.d.C.), nella lingua della koinḗ, per alcuni versi più aperta e popolare?   E come mai, questa parola fu usata solo per esprimere il concetto di “parte infinitesima” in una espressione temporale e non per designare parti ugualmente “infinitesime” del vario mondo reale in cui essa poteva sostituire alla grande concetti come ‘piccolezza, brevità, briciolo, granello, pulviscolo, ecc.’ rendendoli vieppiù espressivi?  

     La spiegazione, a mio parere, è una sola.  La parola nell’espressione di cui si parla in realtà non era quella originaria che era rimasta completamente sepolta sotto átom-os ‘atomo’.  Le parole a volte sono come vecchiette che non vogliono trasmigrare nel regno del nulla eterno e ricorrono a questi stratagemmi per continuare a vivere indisturbate e nascoste, l’unico modo loro concesso per restare in qualche modo a godere la vita, accontentandosi però solo di annusarla, guardarla di sottecchi, ascoltarla la vita, all’ombra della parola soprastante. Il termine  nascosto era senz’altro, a mio avviso, una variante di gr. atm-ós ‘vapore, esalazione’ (da cui deriva la nostra atmo-sfera), concetto molto vicino a quello di ‘soffio, fiato’ di ted. Atem che del resto si ritrovava anche nella parola greca simile  autm-é 'soffio, fiato, vapore, esalazione'.  Se ben si riflette, l’a. a. ted. atum ‘soffio, fiato’  si inserirebbe alla perfezione nel gr. átom-os ‘atomo’  generando così  la confusione fra l'atomo e il soffio. 

   Come se ciò non bastasse il greco átom-os ‘indivisibile’, aggettivo che può al neutro trasformarsi in sostantivo col significato di ‘atomo’, presenta anche una forma femminile.  Il vocabolario del Rocci, ma anche quello del Gemoll, riportano tra parentesi, per questa forma femminile dal significato normale di ‘atomo’,  il significato di ousía che in greco vale ‘essenza, sostanza, esistenza’.  Ora, per essere più sicuro di quello che penso bisognerebbe analizzare più a fondo i passi in cui questo termine ricorre, ma mi pare che si possa sostenere che anche qui conduca una sua vita dimidiata una parola sottostante col significato di ‘soffio, respiro, anima’ di cuisi è detto. Non per nulla nell’induismo  l’ atman, parola connessa col sscr. atman ‘respiro, anima’ e col ted. Atem ‘soffio, fiato’, indica l’essenza intima di ogni individuo, cioè la sua anima[1], termine che, come sappiamo, vale in latino ‘soffio vitale’ e gli animalia sarebbero gli esseri che ne sono dotati, compreso l’uomo.

    Forse non si è lontani dal vero se si suppone che la parola italiana attimo non derivi direttamente né dalla corrispondente tedesca Atem ‘fiato, respiro’ né da quella greca, copiata poi dal latino, presente  nell’espressione en atómǭ ‘in un attimo’.  Le tre parole greca, tedesca, italiana è molto probabile che esistessero nelle rispettive nazioni ab antiquo (quella italiana proverrebbe da qualche dialetto), portate da popolazioni cosiddette indoeuropee ivi sciamate lentamente a partire da diversi millenni fa, prima del formarsi delle rispettive nazionalità.
  
  




[1] Cfr. la parola greca ánem-os ‘vento’.

domenica 1 aprile 2018

Non veder l'ora


                                                                               

    Confesso che non avevo mai ben riflettuto sull’espressione italiana non veder l’ora (di fare qualcosa), e osservo che in genere i vocabolari vi girano attorno dandone sì la spiegazione ma astenendosi dal proporne un’origine.  Tra le poche lingue che ho potuto consultare ho notato che solo lo spagnolo usa un’espressione che sembra la fotocopia di quella italiana: no ver la hora.  Non penso tuttavia che una delle due lingue l’abbia presa dall’altra, ma che ambedue la derivino da uno strato precedente risalente ad un latino parlato, perché in quello classico si usavano altri modi per esprimere lo stesso pensiero.  Comunque sia, anche se l’espressione si fosse sviluppata in una sola lingua e poi passata all’altra, resterebbe sempre il problema di capirne il significato originario, che non sembra affatto dato per scontato.  Si potrebbe essere indotti a pensare che un forte desiderio, anche quando non sia espressione di una esigenza biologica, possa provocare, in chi ne è affetto, la sensazione di perdere la vista e, per questa via, arrivare a giustificare la locuzione suddetta.  Si suole in effetti dire non ci vedo per la fame, ma, se ci si riflette, questo modo di dire non è lo stesso di non vedo l’ora di pranzare.   Il primo vuole indicare tout court la causa impediente che provoca  in me l’obnubilamento della vista, il secondo, invece, sembra tutto teso a rivelare un forte  desiderio di arrivare al pranzo, che potrebbe essere sì provocato dalla fame ma, a seconda del contesto, anche da altro, come, ad esempio, dalla voglia di andare subito dopo a divertirmi, a fare una passeggiata o a trascorrere un’ora di piacere con amici o con una donna amata, o perfino dal piacere di gustare un pranzo prelibato che fa venire l’acquolina in bocca, anche se non si fosse molto affamati.  

     Una volta chiarito il senso di fondo dell’espressione si resta tuttavia insoddisfatti quanto al significato letterale preciso.  La lettera ci informa infatti solo sul fatto che l’ora (il momento) di fare qualcosa non la si scorge e pertanto potrebbe addirittura far nascere legittimamente la convinzione che essa andrebbe a pennello per esprimere non il desiderio, ma l’impossibilità di fare alcunché. Insomma, non vedo l’ora del pranzo dovrebbe più logicamente significare che io non potrò pranzare, resterò a digiuno saltando il pranzo, e magari dovrò attendere l’ora della cena, perché sto eseguendo un lavoro materiale o mentale così coinvolgente, o così necessario, che non posso assolutamente interromperlo o procrastinarlo.  O anche perché chi solitamente ha l’incombenza di preparare il pranzo è per qualche motivo assente, ed io che non so cucinare mi debbo adattare ad un frettoloso spuntino.

   A questo punto sembrerebbe inevitabile alzare le mani in segno di resa e dedurre, senza altre spiegazioni, che a volte la lingua è veramente illogica o almeno molto irregolare nel dar vita ai pensieri che vuole comunicare.  Ma questo succede, a mio parere, perché non ci rendiamo ben conto che le parole ci pervengono spesso da tempi lontani e anche remoti, remotissimi, in cui esse potevano avere significati anche molto diversi da quelli che ora ci mostrano in superficie.  Una prova di ciò possono darcela proprio alcune radici che significavano sia ‘guardare, vedere’ che ‘aspettare, attendere’ come il franco ward-ōn ‘stare in guardia’, da cui l’it. guard-are, e il ted. wart-en ‘aspettare’. Nell’it. guard-are è rimasto solo uno dei due significati originari ma in qualche dialetto rispunta anche l’altro, come negli abr. vardà e aguardà ‘aspettare’[1].  La voce aguardà ha subìto l’evidente influsso dello sp.  a-guard-ar ‘aspettare, attendere’.  Ricordo che quando ero un ragazzo ancora imberbe, mia madre qualche volta, quando l’acqua d’estate scarseggiava, mi mandava a “guardà” o a “guardà l’acqua” in una fontanella pubblica vicino casa nostra.  Già allora il verbo mi suonava un po’ strano, giacché non potevo certo capire che esso all’origine non indicava l’azione di ‘stare a osservare’ l’acqua, cosa un po’ ridicola, ma quella di ‘attendere l’acqua’, cioè il proprio turno per attingere l’acqua, visto che molte altre persone erano lì in attesa per lo stesso motivo. E ne ho viste di zuffe fra donne inferocite le cui idee sulla fila da rispettare evidentemente non collimavano!
  Anche l’ingl. wait ‘aspettare’ deriva da a. fr. waiti-er ‘guardare attentamente, osservare’, affine ad  a.a. ted. wahta, ted. mod.  Wacht ‘guardia’ con i quali ha qualcosa da spartire il letterario it. guat-are, diverso dall’it. guard-are sopra analizzato.  La stessa storia si ripete con l’it. a-spett-are proveniente dal lat. ex-spect-are ‘aspettare, attendere’: la radice spect- corrisponde a quella di lat. spect-are ‘guardare’ tratta dal supino del verbo lat. spic-ere ’guardare, osservare’.  Il latino in verità aveva anche il verbo ad-spect-are, più affine formalmente all’it. aspettare, ma col significato di ‘guardare’, non di ‘attendere, aspettare’. L’importante è che la stessa radice –spect- poteva assumere il significato di ‘aspettare’ oltre a quello di ‘guardare’, come attesta il sopra citato lat. ex-pect-are ‘aspettare, attendere’.

    Da quanto detto si può desumere che i concetti di “guardare, osservare” e di ”attendere, aspettare’  dovevano essere talmente simili, in diverse lingue, da poter essere contenuti in una medesima radice.  E in effetti, se ci si pensa un po’, si nota che alla base dei due concetti se ne trova un altro più generico ad essi sovraordinato: quello che esprime una tensione del nostro animo o della nostra facoltà mentale verso qualcosa o qualcuno che si trova nel nostro campo visivo, nel caso del significato di ‘guardare’, o verso qualcosa o qualcuno che attendiamo dal nostro più o meno prossimo futuro, nel caso del significato di ‘attendere, aspettare’[2].

Ora, la stessa tensione deve stare dietro al verbo vid-ere, sia che esso significhi ‘vedere’, cioè esercitare la facoltà della vista e percepire visivamente qualcosa che cade sotto i nostri sensi, sia che abbia, come spect-are, il valore di ‘guardare’, ‘essere prospiciente, dare su’ e simili, giacchè nei due casi la radice esprime sempre il protendersi idealmente o della nostra mente verso l’oggetto da vedere o di un edificio, un balcone, una finestra ecc. verso un luogo su cui guardano.  Io penso che anche il lat. in-vid-ere ‘invidiare’ debba essere inteso in questo modo, e non come generalmente si fa, considerando la preposizione in- come una negazione simile a ‘male’, cosa però poco usuale, e traducendo così il tutto con ‘lanciare uno sguardo bieco’ contro qualcuno o ‘gettare il malocchio’ contro una persona.  A me sembra che questi significati siano nati allorchè il verbo si specializzò nel significato di ‘vedere’ appunto, ma precedentemente esso ne aveva uno più generico (con in- illativo ‘verso, contro’) simile, ad esempio, a quello del verbo ad-vers-ari ‘avversare, contrariare, essere ostile, ecc.’ la cui tensione contro qualcuno è evidente, pur potendosi essa trasformare in una tensione positiva nel termine corradicale ad-version-e(m) ‘attenzione’ o nel verbo ad-vert-ere ‘volgere verso, guardare, vedere, ecc.’. Il lat. in-vidi-a(m), significando  anche ‘impopolarità, avversione’ contro un uomo politico non amato dal popolo, mi pare che abbia poco a che fare col concetto di “invidia, gelosia” bensì con quello di “ostilità, avversione, antipatia’, concetti che giustificano agevolmente quello di “rigettare, rifiutare, negare, rintuzzare” che il verbo in-vid-ere pur aveva. La radice di lat. vid-ere credo sia in rapporto con quella di ted. wid-er ‘contro’, a. sass. with, with-ar ‘contro, con’ ed altre lingue germaniche.  Secondo me essa riappare, con valore positivo, anche nel verbo it. guid-are derivante, attraverso il provenzale guid-ar, dal franco wīt-an ‘inviare in una direzione, indirizzare’. E non è escluso che il lat. vit-are ‘scansare, evitare’ ci sia pervenuto attraverso il concetto di respingere o declinare qualcosa che non piace e che avversiamo . Il lat. vet-are ‘vietare, interdire, negare, impedire, opporsi’ ha tutta l’aria di essere una variante della radice vid- nel significato di ‘avversare, essere contrario’.  Lo stesso lat. In-vit-are ‘invitare, accogliere’ presuppone un’idea di “spinta, incitamento” che può essere esercitata in una direzione o in quella contraria.  In Sardegna si può  facilmente sentir qualcuno chiedere ad altri di “invitargli un gelato”, cioè di offrirgli un gelato.   Tutto si spiega riflettendo sullo sp. en-vite ‘scommessa, spintone, offerta, proposta’ che però mi sembra diverso dalla radice di sp. in-vit-ar ‘invitare’ proveniente dal latino: probabilmente era una radice che si trovava in Spagna, in Sardegna e altrove da tempi preistorici col valore generico di ‘spingere’, il quale poteva poi specializzarsi in quello di ‘porgere, offrire’ ma anche di ‘indurre, allettare, invitare’.  Anche la “scommessa” si configura come una “posta (in gioco)” o una “offerta”. 

   E’ arrivata dunque l’ora di concludere l’articolo e di dare finalmente una spiegazione all’espressione, rimasta in sospeso, da cui siamo partiti, e cioè non veder l’ora (di fare qualcosa).   Dico subito che il significato originario che a me sembra il più probabile è: non posso attendere l’ora… nel senso di non sapere, non riuscire ad aspettare, tanto sono impaziente, l’ora in cui avverrà l’evento così desiderato.  Abbiamo visto infatti che la radice di lat. vid-ere ‘vedere, guardare’ poteva benissimo, nei primordi della sua storia, avere il significato di ‘aspettare, attendere’ come altri verbi esaminati, relativi all’area del senso della vista. Sappiamo poi che il latino era una lingua concreta e diretta, per cui essa faceva solitamente a meno dei numerosi verbi cosiddetti fraseologici e spesso riempitivi come appunto sapere, potere, riuscire, volere, che in italiano si accompagnano di frequente agli infiniti di altri verbi per specificarne il colore.   Perciò  il semplice non video horam ‘non vedo l’ora’ si può rendere in italiano con ‘non riesco (non posso, non so, ecc.) a vedere l’ora…’.  Infatti una frase latina come eum non fero si tradurre ‘non lo sopporto’ o anche, ugualmente bene e a seconda dei gusti o del contesto ‘non riesco a sopportarlo’ o ‘non posso sopportarlo’ o ‘non so sopportarlo’. E’ vero che l’espressione non affiora nel latino scritto che conosciamo, ma essa poteva certamente vivere nella lingua parlata come in qualche modo dimostra la sua presenza nello spagnolo no ver la hora ‘non veder l’ora’.  Anche altre lingue europee confermano lo stesso cliché dell’attesa per esprimere lo stesso concetto, come l’ingl. I can’t wait ‘non vedo l’ora’ ma letteralmente ‘non posso (non so) aspettare’.  Ricordiamoci di aver incontrato più sopra il verbo wait ‘aspettare’ che all’origine significava anche ‘guardare, vedere’.  In inglese si usa anche la locuzione I’m looking forward to…  per esprimere lo stesso concetto, col significato letterale di ‘guardo in avanti (con impazienza) verso..’. C’è sempre questa idea di “guardare”.    In tedesco si ha l’espressione ich kann nicht die Zeit erwarten ‘non posso (non so) aspettare l’ora…’. Il verbo er-wart-en ‘aspettare’ richiama il semplice wart-en incontrato più sopra, che aveva in lingue germaniche sia il significato di ‘guardare’ che quello di ‘aspettare, attendere’.  E’ sempre lo stesso cliché!  Chi ci libererà mai dalla mortifera ripetitività presente nelle cose della lingua e della vita? Eppure, nel mio piccolo, imbocco imperterrito sentieri mai calpestati da altri!

                                                              Deo gratias!
  
  
    




[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq  2004.

[2] Cfr. l’articolo Principi di gnoseologia, presente nel mio blog pietromaccallini.blogspot. it, agosto 2013.