giovedì 29 aprile 2021

Capelli brizzolati.

 


 

L’aggett. brizzolato presenta due significati: quello più comune si riferisce alla barba o ai capelli di chi comincia ad incanutire, l’altro vale ‘pezzato, maculato, screziato’. 

    L’etimo è considerato incerto, e spesso si propone un incrocio di brinato  con pezzato, che a me sembra come minimo artificioso.  Il verbo brinare significa ‘ricoprire di brina’ ma anche, figuratamente, ‘screziare di bianco, rendere canuto’, come attraverso una spruzzatina di bianco.

    Ora in inglese brizzolato si traduce grizzly, grizzled che significano ‘grigio, brizzolato’, propriamente nel senso di ‘spruzzato, screziato di grigio’ corrispondente esattamente al secondo significato di it. brizzolato, di cui sopra.  Mi pare abbastanza chiaro che nei due termini inglesi ci deve essere stato un incrocio tra l’antico alto ted. gris ‘grigio’ (presente in diverse altre lingue germaniche) e l’ingl. grit ‘polvere, granelli di polvere o sabbia’, il quale corrisponde al ted. Gries o Griess ‘semolino’ oppure ‘rena grossa (perché incrociato con ted. gross ’grosso, grande’, ingl. great ’grande’)’. Questo fatto avrà generato il significato di ‘spruzzare , screziare di bianco o grigio’  I due significati di it.  brizzolato erano già presenti, allora, nell’ingl. grizzly, grizzled ‘grigio, brizzolato, screziato’.

Conseguentemente si rafforza la mia ipotesi che l’it. brizzolato sia un derivato dell’ingl. grizzled ‘brizzolato’, un participio passato del verbo ingl. grizzle ‘ingrigire, diventare grigio’, e ne spiego il perché.

    Nei nostri dialetti a volte la velare sonora –g- iniziale di parola seguita dalla liquida –r-  si trasforma in fricativa sonora-v- (seguita o meno dalla vocale indistinta –ë-, come nel trasaccano vërόtta ‘grotta’.  La maggior parte delle volte, comunque, la fricativa sonora –v-  proviene, in questi casi, dalla labiale sonora –b-, come in aiellese vëràccë < lat. brachi-u(m)’braccio’.

   Ora, un probabilissimo dialettale *vrizzolàte < grizzled, una volta arrivato nella lingua italiana, sarà stato per forza corretto in brizzolato. In italiano, del resto, non c’è nessuna parola che inizi col nesso consonantico vr-.  

    Sarei molto curioso di sapere se nei dialetti esiste qualche forma del tipo *vrizzolate ‘brizzolato’: in quei pochi che conosco non l’ho incontrata, ma potrebbe essere  caduta in disuso come un possibile verbo del tipo *brizzolar(si) che non esiste nemmeno in italiano dove però brizzol-ato sembra un participio passato di un verbo in –are.   C’è anche da notare che un’eventuale forma dialettale del tipo *vrizzolate ‘brizzolato’ si sarebbe per forza assimilata a quella italiana, unico punto di riferimento dopo la scomparsa nei dialetti e in italiano stesso del verbo relativo *brizzolar(si)’divenire grigio, brizzolato’.

    Particolarmente interessante questo brizzolato!


mercoledì 28 aprile 2021

Abbronzare, abbronzatura, bronzo.

 

 

Solitamente il verbo abbronzare viene messo in rapporto dai linguisti  col sostantivo bronzo per via del colore simile a quello del bronzo che la pelle dell’uomo prende con l’esposizione ai raggi solari.

   Ora mostrerò come, invece, sia il termine bronzo sia il verbo abbronzare indichino in realtà direttamente i loro significati senza che uno di essi debba essere considerato metafora dell’altro: ho detto spesso che la Lingua preferisce questo rapporto diretto con le cose da nominare, e che spesso solo la nostra miopia ci impedisce di scoprirlo.

   Esiste un it. bronza ‘brace accesa’, che si ritrova anche in molti dialetti, derivato da una forma germanica (probabilmente gotica) corrispondente al ted. Brunst ’fiamma, ardore’, legato a sua volta alla radice del verbo brunn-en ‘bruciare, ardere’.  Ora, come tutti sappiamo, il bronzo è una lega metallica di rame e stagno, ottenuta per fusione dei due elementi attraverso il calore, come altre leghe. 

Si dà inoltre il caso che nel dialetto molisano di Baranello-Cb la voce vronza (bronza) indichi la ‘saldatura’, significato che deriverà senz’altro da quello di ‘brace accesa’ o simili dell’it. bronza di cui sopra. Ora, sia per ottenere una lega metallica sia per ottenere una saldatura c’era bisogno di raggiungere una temperatura alta: quindi questo processo è naturale che spesso prendesse il nome da quello del fuoco o del riscaldamento necessario per l’operazione, come è avvenuto per l’ingl. weld ‘saldare’, alterazione del medio ingl. well-en ‘bollire, saldare’, e quasi sicuramente per l’ingl. brass ‘ottone’, un’altra lega tra rame e zinco.  Questo ingl. brass può essere apparentato col verbo fr. brass-er ‘mescolare, fare la birra’, che implica un rimestare e ‘fermentare’, ma anche col verbo fr. bras-er ‘saldare a fuoco’, radice che ricompare nell’it. bras-are ‘cuocere sulla brace, arrostire’ ma anche ‘saldare’, e nello svedese brasa ‘fuoco’.

  Nel medio inglese la distinzione tra bronzo ed ottone non era chiara: entrambi erano chiamati bras.

    L’abbronzatura, quindi, non deve il suo nome a quello del bronzo (il cui solito etimo, che arriva fino al persiano, è piuttosto strampalato a mio parere) per il semplice motivo che il suo colore, anche se simile al bronzo, le viene dal calore del sole e non da altro.

  Le voci bronza e bronsa indicano, nel settentrione d’Italia, anche una loffa più o meno smorta (come la brace sotto la cenere) ma debbono il nome allo sconvolgimento, agitazione, ribollimento e spinta  provenienti dagli intestini, simile all’agitazione della fiamma del fuoco.

   L’it. sbronza contiene tutta l’accensione dei carboni ardenti perchè essa indica appunto l’ebbrezza, l’eccitazione delirante dell’animo provocata dall’alcol ingurgitato. Anche l’it. sbornia è  della stessa pasta: oltre alla solita –s- perfettiva richiama direttamente l’ingl. burn ‘bruciare, ardere’, metatesi di ted. brunn-en ‘bruciare, ardere’.  Apparentemente le cose coinvolte sembrano inconciliabili, ma questa è la Lingua: una radice abbraccia concetti sempre più distanti tra loro, a mano a mano che la si libera dai significati specifici acquistati strada facendo.

   A suggello di tutta la questione cito il termine botanico abbronzatura che indica una malattia delle piante che le porta all’essiccamento.  Un sinonimo è proprio bruciatura o brusone, termine che suppone il verbo dialettale brus-àr ‘bruciare’, da una radice brus-, variante a mio avviso di svedese bras-a di cui sopra.

    Un linguista con i piedi per terra sarebbe dovuto partire da questi significati relativi al bruciare per evitare il falso collegamento abbronzare < bronzo.

 

   

   




domenica 25 aprile 2021

A bocca a casa.

 

                                

Di primo acchito ho dato una spiegazione superficiale dell’espressione marsico-abruzzese, ed oltre, a bocca a casa che significa ‘proprio davanti a casa’, la prima che mi è venuta in mente, commettendo l’errore che solitamente rimprovero ai linguisti: quello di non ricordare il fatto che di solito le parole e le espressioni nascono con un significato generico per poi specializzarsi, principio fondamentale della mia linguistica.  La spiegazione ‘all’ingresso (della casa), all’imbocco di essa’ è troppo specializzata per essere vera, in quanto ieri ho addirittura letto, su internet, questo suo uso: a bocca al fuoco che significa ‘davanti, di fronte al fuoco’.

   Il significato generico dell’espressione doveva essere pertanto proprio ‘davanti, contro, di fronte’, senza indicare il luogo.  A bocca a casa doveva allora significare solo ‘davanti, di fronte a casa’ e non ‘all’ingresso della casa’: tanto è vero che si usa anche l’espressione “a bocca alla porta” la quale conterrebbe un’inutile ripetizione del concetto di ‘apertura, porta’ incluso già nel termine “bocca”.   L’espressione quindi aveva all’inizio un significato generico (di fronte, davanti) che, incrociatosi con quello di “bocca”, non potè fare a meno di specializzarsi in quello di ‘apertura (della casa): tanto è vero che a Trasacco il solo “abbocca” significa ‘sull’uscio, poco davanti o dietro l’uscio’. Ma, ripeto, è solo un significato specializzato causato dall’inevitabile incrocio con “bocca”.

    Tanti anni fa (nel 2013) scrissi l’articolo “La grande famiglia di parole, anche italiane, collegate al ted. biegen ‘piegare’…” (scrivendo questo titolo su internet esce fuori il mio articolo che è nel mio blog).  Sarebbe ora troppo lungo riferirne anche la sintesi: dico solo che lì sono elencate molte parole con la radice bog, boc e simili che hanno assunto il significato di ‘spingere, premere’ per cui non è un grande sforzo pensare che nel nostro caso a bocca a non aveva nulla da spartire col termine bocca ma doveva significare proprio ‘presso’, il quale etimologicamente vale ‘premuto’, quindi ‘accosto, addosso, adiacente a’, come volevasi dimostrare.

    Ho scoperto proprio ora che a Luco dei Marsi l’espressione abbόcca alla porta significa ‘accanto, davanti alla porta’ e abbόcca ssa porta significa ‘accosta codesta porta’[1], cioè, inizialmente, ‘spingi codesta porta’. Spingendo, la si accosta allo stipite della porta, in posizione di chiusura.

   La parola bocca in questo contesto doveva aver avuto un significato come ‘pressione, contatto, annessione, adiacenza, vicinanza’.

 



[1] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche CelliniAvezzano-Aq, 2006.

mercoledì 21 aprile 2021

Squëlόcchië.

 


 

A Trasacco-Aq nella Marsica, il termine squëlόcchië, anche sculόcchië[1], indicava la ‘buccia dell’uva’ come nella voce abruzzese sclòcchië ‘fiocine’, presente nel vocabolario di Domenico Bielli.  Questo significato a mio parere lega il termine all’ingl. slough ‘pelle di serpente’, medio alto ted. slūch ‘pelle di serpente, calza’. 

 Nell’articolo precedente abbiamo parlato dell’inserimento della gutturale c- nel verbo dialettale sclucchià, sclocchià ‘ingoiare’ proveniente da una forma germanica *sluck presente nel ted. schluck-en ‘inghiottire’.  Anche per l’abruzz. sclòcchië è successa evidentemente la stessa cosa, ma nelle forme trasaccane sopra citate si è verificato un successivo inserimento, per così dire eufonico, di un suono vocalico –u-, onde evitare la successione di tre consonanti nel gruppo scl-.

    A Trasacco il termine serviva anche ad indicare  i petali del papavero o rosolaccio, i quali erano simili a squame della pelle dei serpenti. 

    C’era un caratteristico divertimento ottenuto dai ragazzi di Trasacco ma anche di Aielli ed altrove con i petali del papavero: si poneva il petalo disteso sul piccolo foro formato dall’indice e pollice congiunti di una mano e su di esso si batteva col palmo dell’altra mano in modo da generare, con la compressione dell’aria, un piccolo scoppio.  Ad Aielli noi ragazzi facevamo la stessa cosa, solo che con la parola sclocchjë ci riferivamo solo al rumore o scoppio prodotto. Gli altri significati di ‘petalo di papavero’ e ‘buccia dell’uva’ erano evidentemente andati perduti: la buccia dell’uva noi la chiamavamo scrëffùjjë, voce di cui mi pare di aver parlato in altro articolo diversi anni fa. 

    Interessantissimo è notare, comunque, che questo divertimento dei ragazzi di allora, i quali certo non avevano tutte le possibilità di quelli di oggi, quasi certamente risaliva ai primordi della nostra civiltà, dato che  esso coinvolgeva vari significati legati alla parola in questione: quelli di buccia, pelle, petalo nonché quello di colpo, da cui si genera il significato di scoppio del petalo.  Nell’articolo precedente abbiamo visto i significati del dialettale sclocchià connesso anche col la radice dell’ingl. slog ‘colpire duro’.

     Come i ragazzi di allora abituati a ricavare i loro divertimenti dal poco che avevano, così la Lingua  è ineguagliabile nel ricavare molti significati da una stessa radice, dato che ognuna di esse, sempre a mio parere, potrebbe indicarli tutti.  Ma siccome la Lingua ha bisogno di una certa varietà di significanti per non divenire incomprensibile, ecco che essa crea una varietà di radici, varietà che però induce l’uomo a credere che ognuna di esse abbia ricevuto all’origine un suo significato specifico, attaccato come un’etichetta. Falso.

 



[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z. Grafiche Di Censo, Avwzzano-Aq,2003.

martedì 20 aprile 2021

Sclocchià.

 

 

Il verbo è del dialetto di Aielli (il mio paese), di quello di Avezzano[1], e probabilmente di altri.  Il suo significato è ‘infliggere, assestare, lanciare, inferire’: in altri termini esso indica uno spingere qualcosa con una certa forza verso qualcuno: cë so’ sclucchiàtë quattrë pugnë ‘mbàccia ‘gli ho assestato quattro pugni in faccia’. Ad Aielli, però (ma forse anche ad Avezzano), il verbo veniva usato anche ad indicare il trangugiare voracemente qualcosa: s’è sclucchiatë nu litrë dë vinë (oppurë  ddu piattë maccarùnë) chë cinguë mënùtë! ‘ha trangugiato un litro di vino (oppure due piatti di maccheroni) in cinque minuti!’. In avezzanese si ha anche la variante scrocchià. 

  Ora l’etimo, di primo acchito, non sembra a portata di mano ma con un po’ di riflessione esso finisce con lo sfavillarci davanti sbalorditivamente.

   E’ il nesso iniziale  scl- che lascia un po’ frastornati, perché in effetti la lettera –c- (velare sorda) non era all’inizio presente nel verbo in questione che è una quasi esatta copia del ted. schluck-en ‘trangugiare, ingoiare’.  Qui il nesso sch- sta ad indicare la fricativa palatale -š- proveniente dalla fricativa sorda  –s- del medio alto tedesco sluck-en ‘ingoiare’.  L’inserimento della gutturale –c- tra la s- e la -l- è un fenomeno che si riscontra anche nell’it. schiavo < slavo e nell’it. schiatta< got. *slahta ‘stirpe’. Nel Friuli la voce sluc vale ‘sorso’ come il ted. Schluck ‘sorso’.

    Che piacevole stupore constatare che l’aiellese sclucchià   ‘ingoiare, tracannare’ è quasi la fotocopia del ted. schluck-en ‘trangugiare’! 

    Ma il significato di ‘infliggere, assestare’ da dove è spuntato? Da una radice simile a quella del verbo ted. schlag-en ‘battere, colpire, suonare, abbattere, sprizzare (delle scintille), ecc.’, che al perfetto presenta la forma apofonica schlug. Nel dialetto di Avezzano la voce scrόcchjë < *sclόcchjë significa infatti ‘tuono’.  Ritorna anche in questo caso, come in quello dell’articolo precedente sul verbo it. scocc-are, l’intercambiabilità tra un significato luminoso ed uno sonoro delle rispettive  radici. Pensate che il ted. schlag-en si usa anche per indicare il ‘cantare’ degli uccelli.  Nel fondo l’idea di “suono” corrisponde a quella di “luce” perché ambedue sono concretizzazioni diverse di uno stesso significato originario di ‘forza, spinta, emissione’ .  I significati cosiddetti figurati sono una nostra comodità, perché raramente abbiamo chiara nella mente la parentela d’origine delle parole. 

    Anche in inglese la radice di cui si parla compare in diverse forme come nel verbo slaugh-ter ‘massacrare, macellare’, nel verbo slog (slug) ‘colpire duro’ oppure ‘farsi strada con fatica’, significato quest’ultimo che ci fa capire tutta la dinamica del significato originario di ‘spinta’, la quale sta dietro sia al significato di ‘colpire’ sia a quello di “farsi strada con fatica’. E può stare ugualmente dietro sia al significato di ‘colpire’ sia a quello di ‘trangugiare, ingoiare, ecc.’: si usano, infatti, espressioni come mandare giù, buttare giù (che indicano una spinta) sostitutive di ‘ingoiare’.  Anche il verbo in-ger-ire è, letteralmente, un portare dentro’ o ‘spingere dentro’.

     Non posso trascurare il ted. Schlacht ‘battaglia’ che, come forma antiquata e dialettale, significa anche ‘schiatta’ allo stesso modo del già citato gotico *slahta ‘schiatta, stirpe’. Scusate, ma sono proprio soddisfatto.

   

  



[1] Cfr. Buzzelli-Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese, senza editore2002.

 


lunedì 19 aprile 2021

Scoccare.

 


 

Pochi etimi sono più infelici, a mio avviso, di quello dato dai linguisti per il verbo scocc-are.  Infatti essi sostengono che il verbo sia formato dal termine cocca preceduto da una –s- estrattiva o di allontanamento o simili.  Ma io non riesco a capire, in questo modo, da che cosa si libera o si allontana, ad esempio, una freccia che scocca o viene scoccata.  Dalla cocca? Ma questa è, vivaddio, la tacca all’estremità della freccia che permette l’aggancio alla corda, quindi la cocca, quando la freccia scocca, vola via con la freccia stessa, e, semmai, è essa che si stacca dall’arco, non la freccia dalla cocca! Anche a voler intendere cocca come ‘parte dell’arco da dove scocca la freccia’ saremmo sì soddisfatti dal punto di vista grammaticale: la freccia si stacca allora dalla cocca dell’arco, ma ugualmente insoddisfatti dal punto di vista logico: ma come! Tutta la veemenza della freccia che vola e sibila nell’aria si ridurrebbe al fatto sottilmente e meschinamente tecnico che essa si è staccata dalla cocca?  

   Le cose stanno in tutt’altro modo, sempre a mio avviso. La cocca in questo caso non c’entra affatto, perché il verbo ha un etimo che lo collega all’ingl. shock ‘urto, colpo’ derivante da fr. choc ‘colpo, urto’ il quale, però, aveva a sua volta una radice di origine germanica come quella del medio olandese schock-en ‘scuotere, sobbalzare’ simile all’ingl. shake ‘scuotere’, antico norreno skaga ‘lanciare, scagliare’. L’antico slavo skoku vale ‘salto’. Non si scappa. Questa soluzione è agile, semplice e naturale rispetto a quella cerebrale proposta dai linguisti.  

     A scoccare  non è solo la freccia, ma anche le ore, le quali suonano dall’orologio del campanile, ad esempio, come effetto di un martelletto che batte, colpisce una campanella. Ma anche la scintilla scocca, dando l’idea di qualcosa che si sprigiona, esplode, guizza e si slancia con tutto il suo vigore. Questo dimostra, tra l’altro, che una stessa radice può indicare il movimento, il suono o la luce come espressioni diverse della  forza nativa o spinta  all’interno di essa, e niente affatto come significati figurati sviluppatisi a partire da quello considerato proprio, in questo caso lo scoccare della freccia. 

 


domenica 18 aprile 2021

Scarciafronne.

 

                                      

 

     Ieri ho letto il termine abruzzese o molisano scarcia- fronne ‘fionda’, ma non ricordo il nome del paese da dove esso proviene.  Termine interessante per più di un motivo.  A vista d’occhio esso è tautologico con le sue due componenti.  La seconda, -fronnë, è una evidente distorsione di fionda, atteso che quest’ultima parola deriva da una precedente *flunda < lat. fund-ul-a(m) ‘fionda’(con metatesi), diminutivo di lat. fund-a(m)’fionda’.  La fund-a(m) etimologicamente è diretta formazione dal verbo lat. fund-ĕre ‘ versare, scagliare, gettare, ecc.’. Il dialettale –fronnë ‘fionda’ (da *flunda) presenta la liquida –r- al posto della liquida –l-, fenomeno abbastanza diffuso (cfr.franc.fronde’fionda’), oltre all’assimilazione regressiva di –d- ad –n-, normale nei nostri dialetti. E forse in questa trasformazione ci sarà stato anche l’influsso del termine it. frombola, altro nome per ‘fionda’. 

     Il bello è che –fronnë in molti nostri dialetti significa ‘fronda, fronde’: quindi si ha, nel caso in questione, una  netta sovrapposizione di questo significato a quello sottostante di ‘fionda’, anche perché il primo membro di scarcia-fronnë appare come voce del verbo dialettale scarcià ‘strappare’, forse variante di dialettale scorcià ‘scorticare’, simile  a it. scorza, da una radice indoeuropea skert- ‘tagliare via’ presente, secondo i linguisti,  nel lat. scort-u(m) ‘pelle, cuoio’, nell’ingl. share ‘parte, porzione ’, ted. Scharschiera, drappello, branco (reparto militare)’, abruzz. sciarrë ‘branco di animali, moltitudine di uomini’[1] e nel  ted. Schere ‘forbici’.  Sicchè la voce scarcia-fronnë viene a significare, in superficie, ‘strappa-fronde’.  Di conseguenza nell’immaginario collettivo di chi usa questo termine, la fionda  viene a configurarsi come un’arma, in fondo innocua, perché, come dice la parola stessa, si limiterebbe a strappare le foglie degli alberi colpiti.  Una sorta di eufemismo, dunque, visto che nell’antichità i frombolieri erano addirittura soldati armati di fionda

    Questa è la superficie del vocabolo, ma, per uno come me che ha fatto della tautologia un principio fondamentale della Lingua, dietro l’apparenza di scarcia- deve a tutti i costi starsene ben acquattato un significato equivalente a ‘fionda’.  Ma quale?  Non quello dell’ingl. share ’porzione’, naturalmente, ma quello dell’ingl shake ‘scuotere, agitare, ecc.’, ant. norreno skaga ‘lanciare, scagliare’nella forma del nome d’agente shak-er  ‘scuotitore’ cioè, nel nostro caso, l’arma che lancia, l’arma da getto. La grafia inglese della parola era all’origine skak-er, la quale poteva benissimo generare, nel suo lungo percosrso per arrivare ad incastrarsi nella nostra scarcia-fronnë ‘fionda’, una metatesi *skarke- da cui scarcia-.   Pensate qualsiasi cosa a proposito di questo mio etimo, ma per favore non dimenticate la sua composizione tautologica che costringe assolutamente a trovare per scarcia- un significato equivalente a quello di –fronnë ‘fionda’. 



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla edit., Cerchio-Aq, 2004.

     

venerdì 16 aprile 2021

Arister-όs.

     

    L’aggettivo greco ar-ister-όs ‘sinistro, a sinistra’ ma anche ‘maldestro, inabile, goffo, stupido, traviato’ è considerato eufemistico perché esso cancella, in un certo senso, tutta la negatività attribuita alle cose provenienti da sinistra.  Infatti il gr. ár-ist-os  è un superlativo che vale ‘ottimo, eccellente, il più forte, il più bravo, nobile, ecc.’ e l’aggett. ar-ister-όs sembra una sua espansione.  Ora, finchè l’aggettivo si limita ad indicare strettamente la mano sinistra o la direzione a sinistra o la posizione a sinistra di qualcuno o qualcosa, proponendo eufemisticamente un concetto opposto a quello da indicare, mi pare che tutto fili liscio senza grandi difficoltà, ma se esso viene usato contemporaneamente ad indicare qualità negative di qualcuno, come quelle elencate sopra (piuttosto lontane dal concetto di “sinistra”), sorge qualche difficoltà logica: ma perché un uomo maldestro o inabile o inetto o stupido deve essere   indicato con un aggettivo usato solo eufemisticamente per indicare la posizione a sinistra? mi sembra che la Lingua possa sfiorare in questo modo il ridicolo, il lambiccamento cerebrale gratuito o addirittura l’incomprensibilità, applicando l’etichetta di ottimale (ar-ister-όs) ad una qualità pessima di qualcuno.   

     Già altrove ho mostrato che  i cosiddetti eufemismi in realtà all’origine  non erano tali, indicando essi inizialmente le cose per quello che sono.  Chi  volesse saperne di più legga il mio art. “Fischia-froce…” del 1 apr. 2011 e l’art. Va’ ffà l’ova! del 10 febbr. 2019, presenti nel blog: pietromaccallini.blogspot.it. 

    Spinto dalla mia certezza di quanto ho detto sugli eufemismi, sono andato a frugare nei vocabolari di greco che posseggo (Gemoll e Rocci) e vi ho trovato la conferma materiale della mia intuizione secondo cui arister-όs ‘sinistro’ non era molto probabilmente un eufemismo.  Non posso conoscere tutte le parole greche a memoria, anche se i miei compagni al liceo lo affermavano, esagerando!  Naturalmente non si tratta di un termine bello e pronto ma di qualcosa di simile: un paio di aggettivi di cui uno composto di due parti tautologiche e la radice di un verbo che fa al caso nostro. Ho avuto una fortuna sfacciata!

    L’aggettivo è arai-όs ‘raro, tenue, debole’ da una radice indoeuropea ere-, con il sostantivo araíō-ma ‘lacuna, vuoto’. C’è anche un altro aggettivo tautologico araiό-por-os ‘dai pori rari, floscio’ presente nel vocab. del Rocci.  Il primo significato deve essere una spiegazione del Rocci, il quale non conosceva certo la composizione tautologica delle parole, e quindi non poteva accorgersi che il concetto di rarità combacia con quello di porosità, come ad esempio nel lat. rari-tat-e(m) ‘porosità, rarità, scarsezza’. Ma comunque l’aggettivo composto poteva essersi specializzato anche come ‘dai rari pori’.  Quindi questa radice idoeuropea ere- sarebbe andata a pennello ad indicare la mano sinistra, che non per nulla è detta anche mano manca, perché mancante  (di forza), debole, inabile.

   Ora, in greco esiste anche il verbo y֑steré-ein ‘arrivare tardi, mancare, aver difetto, soffrire la mancanza, ecc.’ tutti significati generati dall’aggett. gr. ýster-os ‘ultimo, che sta dopo, che non raggiunge, è privo di qualcosa’. 

  Ora, in possesso di queste radici, non mi pare impossibile supporre un aggett. composto di due radici tautologiche*ar-ýster-όs ‘debole, inabile, sinistro’, il quale, fatalmente, sarebbe diventato appunto il gr. ar-ister-όs ‘sinistro, a sinistra’: dico “fatalmente” perché esso non potè evitare di incrociarsi col gr. ár-istos ‘ottimo, eccellente, il più forte, ecc.’ che proveniva, però, da altra radice similissima  formalmente.  Anzi, direi che quest’incrocio contribuì alla scomparsa dalla lingua della forma originaria *ar-yster-όs.  

  Ecco come è nata tutta la storia del presunto eufemismo di arister-όs con tutte le difficoltà interpretative, però, di cui ho parlato più sopra.  In questo modo il suo significato riacquista la naturalezza primigenia, anche se, formalmente, la sua nettissima somiglianza e conseguente confusione con ar-istos non può essere negata.  Gli eufemismi in genere si formano automaticamente, attraverso gli incroci,  in stati linguistici successivi a quelli più lontani nel tempo, spesso, a quanto pare, ignorati o misconosciuti dai linguisti.

    Lo stesso gr. ár-ist-on ‘colazione’ potrebbe confermare la mia supposizione. Questo termine doveva avere il significato originario di ‘pasto’ che si specializzò come pasto del mattino o pasto rompidigiuno (cfr. ingl. breakfast ‘colazione’, letteralmente ‘rompidigiuno’) perché venuto a contatto con una parola originaria per ‘digiuno’, il quale è molto simile ad un’idea di “manchevolezza (di cibo)” o divuoto (di stomaco)  che poteva essere espressa dalla radice o due radici in questione, cioè ar-  e ist-er-. 

         

    

giovedì 15 aprile 2021

Scaià.

 

                                             

 

    È un verbo in uso un tempo ad Aielli-Aq, che però non ho avuto la fortuna di incontrare, finora, in altri dialetti: il significato è un po’ particolare, indica l’inclinarsi, il mettersi in posizione obliqua del carico di una bestia da soma e del suo basto, rispetto alla schiena dell’animale. Ciò succedeva evidentemente quando il carico era stato mal legato al basto, o il suo peso era abbastanza squilibrato nei due sacchi o nelle due ceste di destra e di sinistra.  Per dare una spiegazione visiva, guardando l’animale di fronte si vedeva l’insieme formato dai due sacchi e dal basto pendere appunto più da una parte che dall’altra, prossimo magari a rovesciarsi.

    Allora, chi conduceva l’animale tenendolo per la cavezza e ancora non si era accorto della cosa, incontrando qualcuno per strada si sentiva dire:”sì scaiàtë!”, espressione che, adattata in italiano, significa ‘hai scaiato!’, come se lo scaiare fosse stata un’azione compiuta dal conducente; e in effetti la colpa, se pure involontaria, era sua perché aveva caricato male la bestia (ammesso che questo lavoro l’avesse compiuto lui e non altri al momento del caricamento), anche se la causa immediata era stata lo sballottamento continuo del carico   dovuto al camminare. 

    In altro articolo scritto anni addietro mi pare di ricordare di aver collegato questo verbo alla voce dialettale aiellese-abruzzese la caia ‘cestone di vimini’ la quale, di forme diverse, era utile a trasportare i covoni di grano nelle aie o lo sterco essiccato nei campi.   La parola deve derivare dal lat. cave-a(m) > *ca(u)i-a ‘recinto, cavità, alveare, gabbia, cavea (del teatro)’, attraverso la caduta della semivocale latina  v-.  Ma scaià non mi pare che possa intendersi come verbo denominale da caia ‘cesta’ giacchè esso non ha il significato di ‘togliere la caia’ o di ‘rompere la caia’ o simili, bensì quello molto diverso dello squilibrarsi dei pesi del basto; questo squilibrio, inoltre,  si può verificare non solo con le caie ‘ceste’ ma con qualsiasi altro tipo di carico.  Non ho quindi nessuna difficoltà, considerate anche le molte parole di natura greca pervenuteci in epoca preistorica, di cui ho parlato in articoli specifici, a collegare il nostro scaià al gr. skai-όs (lat. scaev-um ‘sinistro’) ‘sinistro, occidentale, infausto, stolto, inetto, rozzo, obliquo, tortuoso’ e spiego perché.

   Il significato di ‘obliquo, storto’ fa al nostro caso: abbiamo detto che l’insieme del carico e del basto appare inclinato rispetto alla schiena dell’animale, in posizione obliqua dunque.  Non si scappa: la visione dell’inclinazione è netta da parte di chi guarda da davanti o da dietro. Il significato di ‘occidentale’ non è dovuto, a mio avviso, dal fatto che l’augure in Grecia guardava verso nord ed aveva così a sinistra l’occidente, ma dal fatto che molto probabilmente l’aggettivo aveva avuto in lingue o dialetti precedenti al greco il significato di ‘declinante, inclinato, pendente’ in riferimento al sole che volgeva al tramonto. Il significato di infausto si ritrova nelle lingue un po’ dappertutto collegato con gli uccelli provenienti dalla sinistra, quando l’augure guarda a nord, ma se l’augure guarda a sud gli uccelli provenienti da sinistra sono propizi, favorevoli, perché arrivano da oriente.  Insomma l’oriente è propizio perché vi nasce il sole, simbolo di vita, l’occidente è sfavorevole perché indica la morte del sole.  I significati di ‘stolto, rozzo, inetto, ecc.’ credo che si siano sviluppati da quello di ‘obliquo, storto’.

     Nel dialetto di Aielli esiste un altro verbo che apparentemente potrebbe dare qualche fastidio alla spiegazione che ho dato sopra.  Esso è il riflessivo ‘ngai-àsse (col partic. passato  ngai-atë) che indica la condizione di chi per età o altro cammina a mala pena oppure si tiene in piedi a mala pena.  Dopo averci riflettuto abbastanza ho tratto la conclusione che esso è composto dalla prepos. in-, che qui ha un valore intensivo, e dal verbo greco khalá-ein ‘allentare, abbassare, rendere floscio’ ma anche ‘diventare floscio, perdere la propria tensione, cedere’.  In italiano il verbo greco ha dato calare: si consideri l’espressione il vento è calato , cioè ha perso la sua forza. Sicchè uno che si è ‘n-gai-àtë è uno che ha perso il suo vigore. Ah! dimenticavo! La liquida –l-  di *‘n-gal-atë si è palatalizzata, come avviene in tantissimi casi nei dialetti: ne cito solo uno, il luchese (Luco dei Marsi-Aq) cùjë perculo’.  Per capirci meglio, il valore intensivo del prefisso in- di cui ho detto più sopra è quello di lat. in-can-esc-ĕre ‘incanutire, imbianchire’ rispetto al semplice can-esc-ĕre ‘imbianchire’ o quello di lat. im-minu-ĕre ‘diminuire’ rispetto a minu-ĕre ‘diminuire’, ecc.

   Oh se, nella lontana adolescenza, quando nella scuola media di Celano leggevo con passione e stupore le imprese di Achille, Ettore ed altri eroi nell’iliade di Omero tradotta dal Monti, qualcuno mi avesse detto che le famose porte Scèe (Skai-ái), cioè porte occidentali della città di Troia, condividevano la radice con il verbo scaià del mio paese!

mercoledì 14 aprile 2021

Muzio Scevola.

 

                                       

 

   Notissima a quasi tutti gli italiani è la leggenda  di Gaio Muzio Scevola, il nobile romano il quale, intrufolatosi nel campo nemico degli Etruschi che assediavano Roma intorno alla fine del VI sec. a.C., tentò di uccidere il capo  Porsenna, come narra Tito Livio. Purtroppo il suo pugnale si infilò sulla schiena di un collaboratore di Porsenna, scambiato da lui per il re avversario.  Muzio non si perse d’animo, anzi, per mostrare tutto il suo coraggio, pose la sua mano destra, che aveva commesso lo sbaglio, sulle fiamme di un braciere ardente che era lì davanti e ve la tenne fino a quando non si bruciò interamente. Porsenna, ammirato di tanto coraggio, lo lasciò libero e fece la pace con Roma.

    Il nome del nobile romano era esattamente Gaius Mucius (Gaio Mucio), ma Mucius aveva la variante Mutius ‘Muzio’: sta di fatto, comunque, che a noi la leggenda è arrivata col nome Muzio, e non Mucio. Dopo il fatto Gaio Muzio fu chiamato Scevola (termine che deriva dal lat. scaev-u(m) ‘sinistro’) perché era rimasto solo con la mano sinistra. Tutta la leggenda in verità non si riferisce a qualche fatto  realmente accaduto, ma pare avere una forte motivazione  eziologica,  mirante a trovare l’origine del cognomen Scaevola proprio della gente Mucia. 

    Però mi pare che nessuno abbia fatto attenzione al nome Mutius ‘Muzio’ che offre un’esca prelibata alla supposizione che sto per fare: il nobile e leggendario Gaio Muzio in realtà doveva avere già la mano mozza, prima del verificarsi del famoso episodio, dato che nel latino parlato, già a partire dai suoi antichissimi tempi (VI sec. a.C)  e forse prima, doveva esistere  un aggett. *mutj-u(m) ‘mozzo, tagliato’, variante del classico mut-il-u(m) ‘mutilo’ e generato, credo, dalla palatalizzazione della –l-, fenomeno attestato già da epoca romana, anche se non si può escludere una diretta drivazione dalla radice mut-.  Aveva ragione Mario Alinei nel supporre che le forme dialettali sono più antiche o, semmai, coeve di quelle classiche. Ad Aielli-Aq, Cerchio-Aq ed altrove un coltello am-muzz-ìte< *ad-mutj-ite è un coltello che ha perso il filo, che taglia poco, che si è smussato, verbo anche questo collegato, attraverso il franc. mousse ’mozzo, troncato’, al lat. *mutj-u (m)  ‘mozzo’.

  La bella leggenda di Muzio Scevola, che appresi la prima volta dalla bocca della mia maestra di III elementare rimanendone colpito, si è autosviluppata certamente a partire dal nome Muzio del presunto protagonista. E questo dimostra che tutte le leggende sono, dal punto di vista linguistico, dei tesori che nascondono e contemporaneamente attestano stati della lingua, che possono raggiungere anche la preistoria.

     Ad onor del vero debbo riconoscere che nell’etimo proposto per l’aggett. mozzo da Ottorino Pianigiani (presente in rete), magistrato e linguista dell’Ottocento, si accenna anche al lat. mut-ilus nonché al lat. mutius, “usato –come lui si esprime- dai Latini solo come pronome (la  sottolineatura è mia)”.  Mi pare evidente che qui egli volesse intendere prenome invece di pronome, riferendosi al nome, però, piuttosto che prenome, Mutius ‘Muzio’.  Il prenome, secondo il sistema onomastico latino dei tria nomina, era Gaius ‘Gaio’(il nostro nome proprio); il nome era Mutius ’Muzio’ che individuava la gens cui si apprteneva (il nostro cognome); Il cognome  o soprannome era Scaevola (il nome della famiglia nucleare).               Comunque, onore e gloria al Pianigiani, spesso misconosciuto.

 

 

martedì 13 aprile 2021

Scapë-cërrà.

 

                                     

 

      Il verbo è del dialetto di Trasacco-Aq e significa ‘cimare, spuntare, togliere la cima di una pianta, colpire qualcuno in testa’.  Anche qui, come nello scapë-cioccà di Luco dei Marsi-Aq, di cui  nell’articolo precedente, si ha  la conferma  che il significato di ‘colpire’ equivale a quello di ‘tagliare, cimare’; e allora bisogna ricavarne il principio che le  due idee sostanzialmente sono le stesse, l’una derivata immediatamente dall’altra, anche se noi oggi, vittime della precisazione a tutti i costi, a cui ci ha abituati una Lingua che da millenni tende a specializzarsi, proprio per essere più aderente e chiara, siamo spesso tentati a non condividere del tutto il dato di fatto.

    Ora, nel dialetto lucano di Gallicchio-Pz si incontra l’aggettivo e sostantivo scapë-cërr-àtë ‘scapestrato, senza regole, stravagante’.  Che si tratti dello stesso verbo non mi pare che si possa negare, ma il significato è piuttosto diverso.  Dinanzi a simili casi si rimane un po’ sconcertati ma In verità la questione si può risolvere facilmente se si parte dal concetto fondamentale di “forza, spinta” e lo si cucina in tutte le forme possibili.  Il ‘colpire’ e il ‘tagliare’ trovano unità nel concetto di “spinta”, concetto che a mio avviso sta dietro anche a quello di “libero, fuggevole, staccato dalle regole”.  Uno scapestrato è libero di fare quello che vuole, rifuggendo da ogni norma, e pronto a correre dietro i suoi capricci.

     Negli articoli precedenti abbiamo sottolineato il valore di ‘forza d’urto, spinta, fretta,ecc.’ della radice scap-, scaf- presente in questa componente  scapë-, valore che deve ripetersi tautologicamente nella componente   cërr-, la quale in effetti potrebbe avere la stessa radice kers del lat. curr-ĕre ‘correre’ e dare quindi al participio passato  scapë-cërr-àtë il significato di ‘corrivo, imprudente, sfrenato, scatenato’. D’altronde anche per la prima componente scapë- abbiamo citato, vedi caso, nell’articolo Scoppola  di qualche giorno addietro, la voce abruzz. scap-ëlë che vale proprio ‘corsa’. E il significato di ‘tagliare, cimare’ del trasaccano scapë-cërrà?  La prima componente, carica della forza di cui parlavo prima, l’abbiamo incontrata più volte nel gotico skab-an ‘tagliare, raschiare’, nell’ingl. shave ‘radere’: la seconda componente –cërrà è quella del gr. kéir-ein ‘tagliare, distruggere, rodere’, lat. cari-e(m) ‘carie’.  Ora io suppongo che questi vari significati che vanno dal correre al colpire al tagliare ecc. in realtà scaturiscano tutti da quello originario di ‘spingere, far forza’ e così essi non ci dovrebbero più ingannare con le loro diversità, talora apparentemente inconciliabili, e con la loro presenza sparsa qua e là nelle varie aree indoeuropee. 

   Un’ultima interessantissima notazione circa l’origine di it. scap-estr-ato riportato da tutti al lat. capistr-u(m) ‘capestro’, sicchè lo scapestrato sarebbe chi si è liberato di un capestro che lo teneva legato, come un animale che spezza la cavezza e fugge a scavezzacollo.   Di questo abbiamo già parlato a proposito di scavezza-collo ed altre espressioni dell’articolo precedente, ed abbiamo visto che in realtà l’idea che sta dietro queste espressioni non è quella di “liberarsi della cavezza, dal cappio o dal capestro” ma quella di “liberarsi e basta”.  Anche in questo caso lo scap-estr-ato non indica chi si libera di un improbabile capestro ma chi ha un furore interno che lo eccita e persino lo fa imbizzarrire perché spinto inesorabilmente da un estro irrefrenabile. Il lat. oestr-u(m) ‘tafano, assillo, ispirazione, foga’ è traslitterazione di gr. oĩstr-os ‘tafano, passione violenta, furore’. In greco c’era anche il verbo oistrá-ein ‘spronare, eccitare, rendere furioso’ che va  a fagiolo per spiegare la seconda componente di scap-estr-ato. La prima componente è inutile che la spieghi, visto che  l’abbiamo incontrata e analizzata già diverse volte usque ad nauseam.

    Il termine estro  può sembrare alquanto strano nei nostri dialetti che usano in genere al suo posto l’espressione mosca cavallina. Ma esso doveva in antico circolare abbondantemente se si usa, o si usava fino a poco tempo fa (almeno ad Aielli, Cerchio, Celano), l’espressione cana gnèstra, cioè ‘cagna in calore’. La voce gnèstra deriva da ‘in estro’, con la caduta della vocale –i- e la palatalizzazione della –n-.  Secondo me è incerto, poi, se queste forme dialettali abbiano preso dall’italiano o non piuttosto dal proprio antichissimo retroterra linguistico: scapë-cërrà  non esiste in italiano, come pure scapë-cioccà ‘tagliare, colpire di netto la testa’ del dialetto di Luco dei Marsi-Aq, citato all’inizio.

     La vita è fatta di compromessi, così una voce come scap-estr-arsi  ha dovuto scendere a patti per sopravvivere, cedendo il suo impagabile e sorgivo estro al lat. cap-istr-u(m) ‘capestro’, come se lo spirito furioso si potesse scatenare solo liberandosi da una corda.