venerdì 27 dicembre 2019

Una stranissima espressione aiellese: vérdë i missë




La usava abbastanza spesso mio padre riferendosi, ad esempio, ad un piatto di maccheroni ingurgitati in men che non si dica.  I contadini un tempo tornavano a casa affamati e certo non badavano alle  buone maniere.  Il piatto, quindi, era vérdë i missë.  Il significato letterale della locuzione è ‘verde e messo’, e sembrerebbe non avere alcuna attinenza col significato che ho detto. 

   L’espressione, lo confesso, mi ha dato molto da fare e, a dirla tutta, non sono nemmeno sicuro al cento per cento di aver trovato la strada giusta, anche se qualche indizio  mi conferma la cosa.  Anzi, è stata proprio una voce riportata dal Bielli ad illuminarmi definitivamente.  Essa è missë ‘tigna’, con la variante mizzë ‘tigna’.  La radice deve essere la stessa dell’ingl. mite ‘acaro, baco’, termine che si riferisce ad un varietà di piccoli insetti atti in genere a rodere e corrodere come la tigna e il cheese mite , il baco del formaggio.  Il suo significato di fondo doveva essere quello di rodere, rompere, spezzare’, simile a quello dell’antico alto tedesco meiz-an ‘tagliare’, dell’antico norreno meit-an ‘tagliare’   e pertanto adatta ad esprimere i significati di ‘triturare, rodere’ e anche di ‘mangiare, divorare’.  

   Ma l’elemento vérdë cosa potrebbe significare?  Esso, a mio avviso, ha lo stesso significato di missë ‘rodere, roso’  potendosi ricollegare, come vedremo,  all’ingl. fret ‘rodere, corrodere’, in antico ‘mangiare, divorare’ corrispondente al ted. fress-en  ‘mangiare  con avidità, divorare, corrodere’.  Il significato si capisce meglio se si tiene presente il gotico fra-it-an,  formato da gotico fra- (che sta per la preposizione for ‘per’ corrispondente al latino per ) e gotico it-an ‘mangiare’  che al participio passato inglese (eat-en ‘mangiato’) presenta quasi la stessa forma dell’infinito gotico.

   Allora si può supporre una forma *for-it, *fer-it antecedente  quella  di vérdë, frutto quest’ultima di reinterpretazione influenzata dall’aggettivo lat. vir-id-e(m) ‘verde’.   L’espressione intera di cui si parla doveva significare così qualcosa come ‘divorato e trangugiato’. A ben pensarci il verbo gotico citato è molto simile al verbo lat. per-ed-ĕre ‘mangiare, divorare, corrodere’. Basta una semplice metatesi pre-ed-ĕre per ottenere una forma pred- quasi uguale a quella dell’ingl. fret ‘rodere, corrodere’, data la solita trasformazione in fricativa sorda della labiale –p-.  Anche in latino esisteva infatti il verbo ed-ĕre ‘mangiare’ con la stessa radice.  Solo che su suolo italico avremmo avuto due forme *feret- e *peret- una con l’iniziale fricativa sorda –f- e l’altra con la labiale sorda –p- . ma ciò non dovrebbe costituire una difficoltà, dato che in abruzzese, ad esempio, si incontrano forme come péschë ’macigno’ e fischë ’macigno’, con trattamento diverso dell’iniziale.

    L’idea di  corrosione  può produrre il significato di ‘sgretolamento, rottura, rovina, consunzione’ e arrivare quindi al significato di fallimento, come nell’inglese broke ‘spiantato, al verde, rovinato’ che ha la radice di ingl. break ‘rompere, spezzare’.  Allora anche nell’espressione italiana essere al verde , il verde può essere ricondotto all’ingl. fret ‘corrodere’, come abbiamo visto, e significare in questo caso  ‘essere in rovina, a pezzi, fallito’. Non per nulla l’abruzzese vèrd-ëlë, vèrd-ïë, vird-ënë significa ‘trapano’ uno strumento che corrode, fora gli oggetti duri.  L’ggettivo it. verde-secco  è riferito a fiore o pianta mezzo secco o quasi appassito.  E già! Lo dice lo stesso nome, come se questo fosse stato creato ieri! La sua prima attestazione risale al XVI sec. ma sono sicuro che esso ha vivacchiato nei dialetti chissà per quanto tempo.  Stando a quello che ho detto sopra per il termine verde io credo che si tratti di vocabolo tautologico in cui l’elemento verde- aveva un significato uguale o simile a quello di –secco , cioè ‘rovinato, consunto, inaridito’.  Anche perché questo modo di indicare un fiore mezzo secco è molto insolito, quasi irrazionale: non posso dire, ad esempio, per sottolineare la condizione di disfacimento di un uomo cadente per età che è vecchio-giovane o giovane-vecchio, perché la definizione sarebbe incongruente col concetto da esprimere. Tutte le lingue credo che abbiano modi di dire come è molto vecchio, è quasi secco, oppure non è più verde, è quasi secco, è mezzo secco.  Per quanto riguarda i colori le espressioni che ne accostano due indicano ambedue le colorazioni e non una sola risultante dalla loro mescolanza: ad esempio i bianconeri sono i calciatori della Juventus che indossano una maglia a strisce bianche e nere.
 

 Si sa che le parole, di epoca in epoca, cercano di adattarsi a questo o quel significato, sotto la pressione di altre voci, ma spesso il loro tentativo non riesce a pieno, come in questo caso.  Nel vocabolario del Bielli[1] la voce verdë-sécchë significa ‘vanume’ sorta di malattia del grano e altri cereali che fa seccare una parte di essi prima che giungano a maturazione.  Anche qui il termine ha cercato e realizzato un adattamento: immaginiamo un campo di grano affetto da questa malattia: vedremo delle chiazze secche sparse qua e là tra altre, forse più vaste, verdeggianti: in questo caso però il termine si è adattato quasi perfettamente alla situazione, anche se esso qui indica non esclusivamente la malattia di per sé, ma come l’intero campo appare agli occhi.  Si deve pensare quindi che esso viene da molto lontano, forse prima della diffusione del latino nelle varie regioni italiche, e indicava anche con verde, il significato di rovina, distruzione, malora.  Che Dio ci salvi dai molti inganni delle parole!

     Nel Bielli è citata, sotto la voce mittë, anche l’espressione  se n’è jitë a mmittë ‘è andato in rovina, a rotoli’.  A me sembra che si tratti sempre della stessa radice dl significato di ‘corrodere, sgretolare, rovinare, corrompere, guastare’.  Il lat. mit-e(m) ‘tenero, maturo’ e l’it. mézzo ‘molto maturo, sfatto, guasto’ penso che siano della partita.
    






[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla Editore, Cerchio-Aq. 2004. 
        





martedì 24 dicembre 2019

Ambiguità di una espressione dialettale.




   Credo che in quasi tutti i dialetti abruzzesi ricorra l’espressione (chë) scì mbìsë!  la quale viene solitamente spiegata come che tu sia impiccato! Ma siccome l’espressione è usata in tono bonario e scherzoso (come tutti sottolineano nelle loro spiegazioni), ed è rivolta solitamente a qualche  ragazzo, essa ha  bisogno, a mio avviso, di ulteriori indagini.  Ma perché mai, in effetti, dall’idea forte di impiccare si passa ad indicare un qualcosa di molto meno grave? Non mi pare che la frase possa avere un valore antifrastico e significare che tu non sia impiccato! Perché semplicemente non avrebbe senso. 

   Esiste anche l’espressione chë sci mbìsë chi t’à fattë! intesa come che sia impiccato chi t’ha fatto!  Sembra un voler far ricadere la colpa di un comportamento di un ragazzo maleducato sui suoi genitori! Ma anche qui mi pare eccessiva l’impiccagione richiesta.  Io suppongo, tagliando la testa al toro,  che quel mbìsë  non sia il participio passato del verbo mbènnë, mpènne ‘appendere’, in uso anche a Trasacco-Aq[1], dal lat. im-pend-ēre ‘appendere’,ma sia la forma dialettale abruzzese dell’aggettivo  lat. in-vis-u(m) ‘inviso, odiato, odioso, sgradito’, coincidente col participio passato di lat. in-vid- ēre  ‘invidiare, essere mal disposto (verso qualcuno)’.  Nel vocabolario del Bielli l’aggettivo-participio mpisë significa infatti, oltre ad ‘impiccato’ anche ‘malizioso, briccone, impertinente’. In dialetto il nesso consonantico –nv- si trasforma in –mm- per cui da lat. invidi-a(m) si passa a mmìdia e quindi da invis-u(m) si dovette avere *mmisë e poi mb-isë per influsso di mpìsë, mbìsë ‘appeso’ dal verbo im-pend-ēre ‘appendere’. 

   Secondo me, allora, il significato di (chë) scì mbìsë  chi t’à fattë doveva significare all’origine ‘che sia odiato, maledetto chi t’ha fatto’ e successivamente, usandosi essa in modo incompleto nei riguardi di un ragazzo,  il participio mbìsë  si caricò di un valore negativo riferito al ragazzo, tanto è vero che nel Bielli il termine in questione ha anche il significato, come ho detto sopra, di ‘malizioso, briccone, impertinente’.  In diversi dialetti scì è anche la seconda pers. dell’indicativo presente tu sei,  sicchè l’espressione poteva anche significare semplicemente ‘tu sei impertinente, briccone, maleducato’ . Una volta scomparso dal vocabolario dialettale il lat. invis-u(m) ‘odiato, odioso, (maledetto)’ era fatale che la forma dialettale corrispondente cadesse in braccio a mbìsë ‘appeso’.  Destino di un termine!
     
      Ambiguità di una espressione dialettale.

 

   Credo che in quasi tutti i dialetti abruzzesi ricorra l’espressione (chë) scì mbìsë!  la quale viene solitamente spiegata come che tu sia impiccato! Ma siccome l’espressione è usata in tono bonario e scherzoso (come tutti sottolineano nelle loro spiegazioni), ed è rivolta solitamente a qualche  ragazzo, essa ha  bisogno, a mio avviso, di ulteriori indagini.  Ma perché mai, in effetti, dall’idea forte di impiccare si passa ad indicare un qualcosa di molto meno grave? Non mi pare che la frase possa avere un valore antifrastico e significare che tu non sia impiccato! Perché semplicemente non avrebbe senso. 

   Esiste anche l’espressione chë sci mbìsë chi t’à fattë! intesa come che sia impiccato chi t’ha fatto!  Sembra un voler far ricadere la colpa di un comportamento di un ragazzo maleducato sui suoi genitori! Ma anche qui mi pare eccessiva l’impiccagione richiesta.  Io suppongo, tagliando la testa al toro,  che quel mbìsë  non sia il participio passato del verbo mbènnë, mpènne ‘appendere’, in uso anche a Trasacco-Aq[1], dal lat. im-pend-ēre ‘appendere’, ma sia la forma dialettale abruzzese dell’aggettivo  lat. in-vis-u(m) ‘inviso, odiato, odioso, sgradito’, coincidente col participio passato di lat. in-vid- ēre  ‘invidiare, essere mal disposto (verso qualcuno)’.  Nel vocabolario del Bielli l’aggettivo-participio mpisë significa infatti, oltre ad ‘impiccato’ anche ‘malizioso, briccone, impertinente’. In dialetto il nesso consonantico –nv- si trasforma in –mm- per cui da lat. invidi-a(m) si passa a mmìdia e quindi da invis-u(m) si dovette avere *mmisë e poi mb-isë per influsso di mpìsë, mbìsë ‘appeso’ dal verbo im-pend-ēre ‘appendere’. 

   Secondo me, allora, il significato di (chë) scì mbìsë  chi t’à fattë doveva significare all’origine ‘che sia odiato, maledetto chi t’ha fatto’ e successivamente, usandosi essa in modo incompleto nei riguardi di un ragazzo,  il participio mbìsë  si caricò di un valore negativo riferito al ragazzo, tanto è vero che nel Bielli il termine in questione ha anche il significato, come ho detto sopra, di ‘malizioso, briccone, impertinente’.  In diversi dialetti scì è anche la seconda pers. dell’indicativo presente tu sei,  sicchè l’espressione poteva anche significare semplicemente ‘tu sei impertinente, briccone, maleducato’ . Una volta scomparso dal vocabolario dialettale il lat. invis-u(m) ‘odiato, odioso, malvisto,(maledetto)’ era fatale che la forma dialettale corrispondente cadesse in braccio a mbìsë ‘appeso’.  Destino di un termine!

    L’altra espressione indicante, come la precedente, un blando rimprovero verso un ragazzo è “chë scì mmallìttë!”, letteral. ‘che tu sia maledetto!’.



[1] Q.Lucarelli, Biabbà F-P,grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2002. 



[1] Q.Lucarelli, Biabbà F-P,grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2002.

sabato 21 dicembre 2019

Un’altra espressione aiellese-abruzzese da conservare come un cimelio: “të chënόscë pirë!”



     

    L’espressione è usata  (era usata) da parte di chi, di fronte a qualcuno che vuole sembrare diverso da come effettivamente è, esclama ,invece, di ‘conoscerlo bene’.   Ma la traduzione letterale dà lo strano ‘ti conosco pero!’.  Cosa c’entra il pero? Nulla, a mio avviso.  Infatti, dietro di esso, si deve nascondere il gr. perí ‘intorno’, gr.  péri, avverbio-preposizione, talora in anastrofe, anche col significato di molto, assai, grandemente, in sommo grado.  La radice è la stessa di quella del lat. per ‘attraverso’, usato talora in anastrofe come nel lat. parum-per  ‘per poco (tempo)’.  In latino la preposizione per, preposta all’aggettivo, ne  formava anche il superlativo in alternativa alla forma normale col suffisso issimus, a , um.  La forma per-ralt-us ‘altissimo, molto alto’, ad esempio, equivaleva ad alt-issim-us ‘altissimo, molto alto’.  Quel per- , insomma, assumeva in questi casi il valore di ‘molto’.  Nei molti verbi a cui si premetteva aggiungeva l’idea di perfezione, completamento, oltre che di durata.   Non poteva mancare il lat. per-cognosc-ĕre, lat. per-nosc-ĕre ‘conoscere bene, alla perfezione’ che fa al caso nostro, in qualche modo.

   Nel Bielli[1] leggo questa frase: t’ajjë cunusciùtë pérë!  rivolta a chi per un po’ di fortuna si fa grande quando invece era stato abbastanza misero per l’innanzi.  Anche qui, secondo me, si esprime lo stesso concetto di “bene, alla perfezione” con il termine pérë.  Solo che ci deve essere stato anche l’incrocio con un aggettivo *pérë che doveva significare ‘povero’ e che corrisponde alla seconda parte del lat. pau-per ‘povero’.  Secondo i linguisti, però, questo –per aveva la stessa radice del lat, par-ĕre ‘produrre, partorire’, e l’aggettivo significherebbe ‘che produce poco’, perché il pau-  sarebbe, ed è vero, lo stesso di lat. pau-c-u(m) ‘poco’, lat. pau-l-u(m) ‘poco, piccolo’, gr. paύ-ein ‘smettere, cessare’, gr. paû-r-os ‘piccolo, poco, scarso’. Ma c’è anche il lat. par-u(m) che secondo me, non è metatesi dal suddetto  gr. paûr-os > lat. parv-u(m) ‘piccolo’ > lat. par-u(m) ‘poco’, ma forma autonoma variante di –per di lat. pau-per ‘povero’ il quale ripeteva tautologicamente nei due membri il valore di ‘piccolo, poco, scarso’.   E questo  conferma quello che ho detto già in altro articolo di cui non ricordo il titolo.   Faccio notare che la radice pau- è presente anche nell’ingl. few ‘poco, pochi’.   La radice par, per  col valore di ‘scarso’ credo sia presente anche nel verbo lat. par-c-ĕre ‘risparmiare’, lat. parc-u(m) ‘parco, moderato, spilorcio, taccagno’ e nel dialettale (abruzzese-meridionale) pìr-chië ‘gretto, spilorcio, tirchio’ oppure piérchië  da un precedente *pirc-ul-u (m) ‘spilorcio’ o pierc-ul-u(m) (cfr.perfetto  lat. pe-perc-i ).   In abruzzese abbiamo anche li fiche[2] ‘i faggi’ (non gli alberi del fico, il quale veniva e viene in genere chiamato ficura come il frutto), probabilmente dal lati. fag-u(m), che in greco era phēg-όs ‘faggio, quercia’, dorico phag-όs. Io preferisco pensare che si trattasse di forme indipendenti, che invece erano considerate derivanti l’una dall’altra. 

   Interessante è l’espressione luchese  a ttì të conoscë da quandë ivë pirë [3]letter.  ‘ti conosco da quando eri pero’ per significare ‘ ti conosco bene, non mi inganni’.  Il Proia riferisce quanto segue per spiegare il significato della frase: “ (detto del contadino che aveva tagliato un albero di pero perché a lungo infruttuoso e non aveva alcuna fiducia di ricevere grazie dal crocefisso che era stato ricavato dal legno di quell’albero)”.  E’ evidente che la frase in questione aveva dato il via, all’epoca lontana del suo originarsi, ad una storiella in cui l’albero era diventato un crocifisso: in abruzzese pirë  significa ‘piolo, cavicchio’ ma anche ‘grosso bastone’[4]; si può  pensare allora che un’idea di ”palo” fosse insita in quella voce, idea da cui scaturì il significato di croce , allo stesso modo in cui dal gr. staur-όs ‘bastone, palo’ si ebbe il significato di ‘croce’. La storiella, con qualche variante, è nota anche nel napoletano, dove il piro ‘pero’ si trasforma in statua  da tutti pregata tranne dal contadino che l’aveva conosciuta come pero improduttivo nel suo orto. La statua, secondo l’etimo, è un qualcosa che si erge dritto: la parola in latino vale anche ‘colonna’, molto vicina a ‘palo’. Credo che anche il valore  di ‘attraverso’ della radice per abbia contribuito a formare l’idea di traversa, il palo incrociato con quello di sostegno in una croce.  Sempre a proposito dell’alternanza a/i in abruzzese faccio notare che ad Aielli-Aq, il mio paese, esisteva il termine parë ‘paletto’ (ribadito nell’abr. par-acchi-àtë[5] ‘bastonatura’) che si usava soprattutto come sostegno delle viti.  Si dirà che questa forma sia un allotropo di it. palo , dato il frequente scambio l/r nei dialetti, ma sta di fatto che nel nostro dialetto esiste anche palë ‘palo’; che quest’ultimo sia antichissimo è dimostrato , a mio avviso, dalla palatalizzazione della –l-  di questo vocabolo nel dialetto di Luco dei Marsi, dove si ha pajë ‘palo’. La palatalizzazione è fenomeno antichissimo, addirittura prelatino.

   Ora che ci penso, anche l’infruttosità dell’albero del pero nell’aneddoto citato è un altro aspetto del concetto di “avarizia, scarsezza, spilorceria, povertà’ insito nella radice per, perc, par, parc, di cui sopra, e nella frase abruzzese  del Bielli più sopra citata: t’ajjë cunusciùtë pérë! diretta a chi si vantava e si fa grande per un po’ di fortuna senza ricordarsi di quando se la passava invece male; questo è la conferma che tutti i racconti mitici o leggendari sono il risultato dell’incrociarsi delle radici fondamentali di ogni racconto con altre uguali o simili avvenuto nel corso dei millenni precedenti.

  L’it. par-ecchio  deve essere un prodotto della stessa radice di cui sopra col valore iniziale di ‘poco, non molto, pochi, non molti’, ma che, come l’ingl. a few ‘qualche, alcuni’ se preceduto dall’avverbio quite ‘completamente, addirittura, proprio, ecc.’ assume il significato di ‘parecchi (cfr. a few people ‘poca gente’ ma quite a few people ‘molta gente, un bel po’ di gente’) così esso è passato da ‘qualche, qualcosa, qualcuno’ al significato di ‘una qualche quantità, una certa quantità,  una più che sufficiente quantità di uomini o cose’.  C’è chi sostiene che par-ecchio sia dal lat. par-e(m) ‘pari, paio’ pensando, forse, al ted. Paar ‘paio, coppia, che ha anche il valore di ‘alcuni’, come in ein paar Tage ‘alcuni giorni’. Ma in questo caso , secondo me, o si è avuto un incrocio col germanico bar ‘nudo, scoperto’, ingl. bare ‘nudo, scoperto, scarso, sprovvisto, povero’ o, all’origine, paar significava ‘poco’ incrociatosi con ted. Paar ‘paio’, proveniente forse da antica data dal latino.  A me sembra che anche l’ingl. pare ‘spuntare, pareggiare, sbucciare, pelare, assottigliare, ridurre’ ricondotto, attraverso il francese, al verbo lat. par-are ‘preparare, adornare’  sia invece una forma della radice  di cui si discute: soprattutto il significato di ‘sbucciare’ non riesco a farlo rientrare in quello di ‘adornare’ bensì in quello di ‘denudare, spogliare’ dell’allotropo ingl. bare ‘nudo’. Certamente sarà avvenuto l’incrocio col medio francese par-er ‘preparare, ornare’. 

  Anche l’it. par-eggiare  nel significato, ad esempio, di pareggiare l’erba d’un prato credo che debba ricondursi al significato iniziale di ridurre, tagliare prima che si incrociasse con il lat. par-e(m) ‘pari’, come nell’ingl. pare the nails ‘spuntare le unghie’, ad esempio.

  Ma non ho finito. In greco esiste l’aggettivo pēr-όs ‘ storpio, mutilo, privo di qualche organo o senso’ (sostantivo: pêros, eolico pȃros) che doveva avere il significato di fondo di ‘manchevole, monco, privo, debole, scarso, difettoso’ e quindi passibile di rientrare nel concetto di ‘povero, impotente, ecc.’.    

  Ma non ho finito. E’ straordinario!  Nel dialetto di Gallicchio-Pz si incontra l’espressione scì péra pérë ‘barcollare’, letter. ‘andare pera pera’[6].   Che cosa è questo pera pera? Secondo me si tratta della stessa radice del gr. pēr-όs di cui sopra dal significato di ‘storpio, manchevole’ e quindi il significato originario della frase gallicchiese doveva essere ‘andare, procedere da storpio, ciondolando’ (la ripetizione di uno stesso aggettivo o avverbio è comunissima nel linguaggio soprattutto dialettale e parlato, come ad esempio nelle espressioni ricchë ricchë ‘molto ricco, ricchissimo’, léstë léstë ‘molto lestamente, lestissimamente’).  Il composto greco pēro-mel-ḗs vale, infatti, ‘rilasciato nelle membra (mélos=membro)’, esso è quindi prossimo al valore di ‘con le membra ciondoloni, flosce, cascanti’.  Non si scappa.  La radice in questo caso equivaleva al concetto di “dinoccolato”, quasi spezzato, rotto nelle membra, allo stesso modo in cui un frutto molto maturo si corrompe, si disfa, si guasta: questo è il motivo per cui il lat. per-coqu-ĕre secondo me aveva all’origine il significato di ‘rendere morbido, molle, maturo’ (il cibo) in ciascuno dei due elementi tautologici (per- e coqu-). Ma, una volta scomparso nella coscienza del parlante questo significato originario di per, non mantenuto con chiarezza nella lingua, il valore durativo o perfettivo di per ‘attraverso’ subentrò al suo posto. La cosa è confermata dal lat. per-ire con i suoi vari significati di ‘perire, andare in malora o in rovina, scomparire, disfarsi, morire’ che traevano la loro linfa dal significato primordiale di ‘divenire maturo, fatto, sfatto, marcio, guasto’. Allora il lat. per-ire non è altro che la versione latina, appunto, di un antico italico ire per, con l’aggettivo-avverbio in anastrofe.  Naturalmente a Gallicchio pensano che l’espressione derivi proprio dal frutto della pera , che quando è matura cade facilmente, come una pera cotta, come si dice appunto, nel senso di mela morbida, maturata dal sole. Esiste a Gallicchio anche l’altra espressione sta péra pérë ‘sta malissimo, gravemente ammalato’, “sul punto di cadere come una pera dall’albero” chiosa, un po’ artificiosamente, la curatrice del dizionario dialettale di Gallicchio.  Anche qui io vedrei dietro l’espressione sempre la stessa radice che indicava il disfarsi dei frutti e, figurativamente, degli uomini.  Usiamo anche oggi l’espressione è cotto riferendoci ad un uomo stremato e distrutto.

 E’ curioso, ma il lat. pir-u(m) ‘pera’ veniva quasi a coincidere con questa radice per ‘morbido, molle, maturo’, comunque sta di fatto che le pere mature cadono dai rami più facilmente di altri frutti maturi.

 

               With this paper I think I’ve outdone myself!



[1] D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A.Polla Editore, Cerchio-Aq, 2004

[2] Cfr. Bielli, cit.

 

[3] G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini,A vezzano-Aq, 2006

 

[4] Cfr. Bielli, cit.

[5] Cfr. Bielli, cit.


    







giovedì 19 dicembre 2019

Sottigliezze grammaticali dei nostri dialetti.




   Ricordo che quando ero ragazzo ed entravo in dissidio con un altro usavo rivolgermi adirato a lui con l’esspressione  vàttën’a jì rafforzata magari da camì(na), sca(ppa)!  che letteralmente significava vattene ad andare, cammina, scappa!  Ora quel vàttën’a jì  mi sembra abbastanza strano, quasi incomprensibile a fil di logica, tanto più che l’espressione esisteva solo all’imperativo: non si diceva affatto, ad esempio, më në jéva a jì all’imperfetto, ma semplicemente më në jéva ‘me ne andavo’.  La spiegazione è, se ci si riflette, abbastanza facile. All’inizio doveva aversi solo una serie di imperativi, cioè: vattene, vai (cammina, scappa)! Si sa che vat-tene risponde al lat. vade inde, ma il verbo più usato per la nozione di “andare” in latino era i-re che all’imperativo, sec. persona sing., faceva i ‘vai’.

   Pertanto si deve desumere che in antico l’espressione dialettale aiellese vàttën’a jì doveva suonare semplicemente vàttënë, con l’aggiunta dell’imperativo di i-re ‘andare’, come succede anche in italiano in questi casi di ripetizione concitata di ingiunzioni, comandi, ecc.: l’espressione  latina doveva essere vade, i ! (vai via, vai!).  Una volta caduto dall’uso, nei nostri dialetti, l’imperativo lat. i ’vai’ sorgeva per la lingua la necessità di spiegare quell’imperativo rimasto incapsulato e cristallizzato nella suddetta espressione. Essa trovò la scappatoia di trasformare l’imperativo nell’infinito  i-re ‘andare’ ancora in uso nei dialetti nella forma apocopata i(re) diventata ‘andare’, uguale all’imperativo lat. i ‘vai’.  L’infinito preceduto da –a- è normale dopo andarsene e verbi simili (sia in italiano che in dialetto), in tutti i tempi, come ad esempio in se ne andava a lavorare. Ripeto, che questa sia la verità è dimostrato dal fatto che l’espressione vattën’a ji è limitata all’imperativo e non negli altri modi e tempi.

  Il fenomeno sopra descritto, dell’imperativo sostituito dall’infinito,  mi pare ripresentarsi nelle espressioni dialettali come vattë (vattënë) a ddùrmë ‘vattene a dormire’ o vattë a ‘mbìcca ‘vai ad impiccarti’ in cui mi sembra presente l’influsso dei rispettivi imperativi dùrmë, ‘mbìccatë con l’accento ritratto rispetto agli infiniti durmì ‘dormire’ e ‘mbëccassë ‘impiccarsi’. 

   L’imperfetto dialettale del verbo ‘andare’ era, ed è tuttora, jéva alla prima persona, ma jìvë alla seconda.  La prima persona mantiene la desinenza latina a(m) dell’imperfetto.  Precisamente il latino era i-ba(m):  la –m- finale, poco marcata nella pronuncia già nel latino classico, finì col cadere completamente.  Anche nell’italiano arcaico si aveva una prima persona in –a (io parlav-a).  Siccome ogni piccolo fenomeno linguistico deve avere una ragione, come ho spesso ribadito, possiamo chiederci perché mai l’imperfetto indicativo dialettale è jéva invece dell’originario latino i-ba(m). lo scambio b/v nei dialetti è talmente diffuso che non è necessario parlarne più di tanto, ma resta da spiegare la –e- che si inserisce tra la –i- iniziale e la b/v  successiva.  Anche qui la spiegazione non è così difficile come sembra, se si riflette che nel dialetto tutti gli imperfetti delle tre coniugazioni italiane e delle quattro latine assumono l’unica forma eva, alla prima pers. sing. ( i’ parl-éva ‘io parl-avo’, i’ lëgg-éva ‘io legg-evo, i’ sall-éva ‘io sal-ivo’). Questa forma è talmente diffusa che raggiunge anche l’imperfetto i-ba(m) del verbo anomalo lat. i-re, trasformandolo così in i-e-ba(m), e quindi in  jéva ‘andavo’. 

   La seconda persona tu sembra lasciare intatto il lat. i-ba(s) che nel frattempo era diventato i-ba, i-va con la caduta della –s- finale, e poi aveva chiuso il timbro della –a- finale nel suono indistinto ë- per distinguere questa voce dalla prima e terza persona singolare. Ma le cose non stanno esattamente così.  La forma precedente a tu doveva essere senz’altro  tu  con la –e-, in ottemperanza alla norma generale, di cui sopra, che voleva la desinenza in –eva per tutti gli imperfetti dialettali. Ma la chiusura del timbro della –a- finale aveva innescato un altro fenomeno, quello dell’alterazione  della vocale tonica di una parola, in conseguenza appunto della chiusura del timbro della vocale successiva o finale della parola. Sicchè la –e- tonica della seconda pers. sing. jéva si mutò in –i-.  Questa alterazione della –e- in –i-  rientra nel ben noto fenomeno chiamato dai linguisti metafonia o metafonesi.

   Che l’imperfetto dialettale aveva le uniche forme in –éva, évano non è completamente vero perché alla prima e seconda pers. pl. ricompariva una desinenza in –av-àmo, -av-àte per le tre coniugazioni, uguale a quella dei verbi della prima coniug. in –are: evidentemente bastò lo spostamento in avanti della vocale tonica per trasformare la precedente –e, della sillaba -év-,  in av-.  La terza voce pl. tornava ad essere, per tutte le coniugazioni, con la e (es. parl-év-anë ‘parlavano’, lëgg-év-anë ‘leggevano’,  sall-év-anë ‘salivano’) perché l’accento tonico cadeva sulla –e- .  La desinenza –anë continua il lat. –ant ma con la caduta della dentale  –t-  finale sostituita dal suono indistinto della –ë-.  Molti quando scrivono parole dialettali non tengono conto di questo suono indistinto detto anche schwa, e fanno malissimo, anche se  apparentemente sono più vicini al parlato.

   In ultimo, mi piace concludere citando una strana voce verbale dialettale riportata dal Bielli[1] che suona j-a ‘scaturisce, scorre’ detto dell’acqua. Si tratta di una terza pers. sing., probabilmente della prima coniugazione, con l’accento tonico sulla semivovale j-, altrimenti il Bielli avrebbe posto l’accento sulla –a- come l’ha messo in j ‘giù’.  Ma comunque la questione non altera i termini del problema.  Detto velocemente, io penso che si tratta di un verbo in –are, appunto, preceduto dalla radice che è presente nel verbo greco -ein ( la lettera h- sta per lo spirito aspro del greco) ‘piovere’, in un significato generico di ‘scorrere, fluire’. D’altronde anche il lat. plu-ere ‘piovere’ assumeva il significato di scorrere, fluire’ ad es. nel tedesco fliess-en ‘fluire, scorrere’, dove si nota un ampliamento in -ss della radice, e negli idronimi come torrente  Piove  (che non ricordo in quale parte del Veneto scorra), e lo stesso fiume Piave.

   E così abbiamo messo i puntini sulle i per alcune questioni grammaticali: il dialetto non è, come si è portati a pensare, una incontrollata e incontrollabile deformazione della lingua italiana.


[1] D.Bielli, Vocabolario abruzzese. A. Polla editore, Cerchio-Aq 2004.

martedì 17 dicembre 2019

Le forme verbali aiellesi-trasaccane lassapémë, lassapétë (lasciamo, lasciate)




    Oggi non credo che siano più in uso queste forme imperative se già quando ero ragazzino si criticava, soprattutto da parte delle giovani donne, chi le usava perché esse erano sentite come molto arcaiche e denotanti una certa rozzezza di modi della persona che le usava. A dire il vero mi pare che si usassero anche le voci dell’imperfetto come lassapéva, lassapévanë (lasciava, lasciavano), ecc. In antico quindi, doveva esserci nel nostro dialetto un verbo lassap-e’ col significato di ‘lasciare’ nel senso di ‘permettere’ seguito da altro verbo all’infinito: ad es. lassapétëmë fa’ (lasciatemi fare).  Contemporaneamente esisteva ed esiste nel nostro dialetto il verbo lassa’ ‘lasciare’ che poteva sostituire comunque l’altro verbo di cui si parla.

   Siccome sono convinto che i fenomeni linguistici non sono mai gratuiti ma debbono avere sempre una spiegazione, mi sono detto che anche in questo caso quella -p-  che sembra disturbare, con la sua aggiunta, il normale verbo lassa’  doveva trovare una ragione. Che l’espressione, infatti, non sia un atto particolare di Aielli, il mio paese, è dimostrato dalla presenza di essa anche nel dialetto di Trasacco-Aq, dove lassapémë pèrdë!, ad esempio, significa ‘lasciamo perdere!, lasciamo andare!, abbandoniamo!’[1]. E si poteva avere anche la voce della seconda pers. pl. lassapétë ‘lasciate’.  Il Lucarelli, che non è un linguista, pensa curiosamente che il nesso –pe-  in lassasia dovuto all’influsso del successivo  rdë. Evidentemente a Trasacco l’epressione si era cristallizzata in quel solo modo di dire, mentre ad Aielli essa poteva avere anche altri infiniti come  in lassapétëmë fa’  ‘lasciatemi fare’.

   Molte sono le parole di origine greca che ho riscontrato nei nostri dialetti, di cui ho parlato abbondantemente in altri articoli. Improvvisamente mi è balenata la possibilità che il problema si potesse sciogliere pensando ad un incrocio tra la forma lassa’, dal lat. lax-are ‘allentare, diradare, lasciare’, e una forma più antica, esistente  prima dell’arrivo del latino dalle nostre parti, che aveva qualcosa da spartire col verbo gr. aph-eî-nai ‘mandare via, lasciare, permettere’, composto dalla prepos. apό (lat. ab) ‘via da’ più l’infinito aoristo del presente infinito hi-é-nai ‘mandare, inviare’. La forma ionica, corrispondente alla forma attica aph-eî-nai  (che aveva subito la trasformazione della labiale sorda –p- in aspirata -ph- per via dello spirito aspro dell’infinito aoristo heînai ‘mandare, inviare’ reso qui con la lettera –h-) era semplicemente ap-eî-nai ‘mandar via, inviare, lasciare, permettere’ con la labiale sonora –p-  senza aspirazione.  E’ bene ricordare che la radice nuda e cruda di questo verbo greco hi-é –nai ‘mandare, inviare, lasciar cadere’ era -se-  che, con la caduta della sibilante iniziale aveva dato il semplice –(s)e che facilmente poteva confondersi con la vocale finale della preposizione apό- premessa al verbo. 

    Allora non era impossibile nei nostri dialetti un incrocio tra la radice del verbo lat. lax-are ‘allentare, lasciare’ e un verbo omosemantico di sapore greco *ap-ere, *ap-are o simili, già presente da noi, prima che arrivasse il latino.  Il possibile incrocio aavrebbe dato come esito proprio *lax-ap-ere ‘lasciare, permettere’ da cui sarebbero derivate le sopracitate voci dell’imperativo lass-ap-émë, lass-ap-étë ‘lasciamo, lasciate’. Faccio notare che l’imperativo aoristo, seconda pers.  pl. del verbo greco era proprio áph-ete ‘lasciate’ o, in ionico, áp-ete ’lasciate’. Il verbo non potè resistere autonomamente, con il succedersi e sovrapporsi della nuova civiltà latina alla precedente italica, se non a stento, nella forma ibridata con la radice vincente di lax-are, forma ibridata arrivata fino a noi, ma che credo sia ormai veramente agli sgoccioli per quanto riguarda il dialetto parlato.

  C’è un’altra possibilità, a mio avviso. Siccome nei primordi della lingua forse ancora non si erano ben create le distinzioni tra le funzioni di preposizione, di verbo ed altro, allora può essere possibile pensare che un verbo dialettale come lass-apsi sia formato con la consueta giustapposizione originaria della due radici di lax- are e di ap- di uguale significato, indicanti, insomma, un distacco, una partenza, o un lasciar fare, un abbandono.
   





[1] Cfr. Q.Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2002.