giovedì 28 novembre 2019

L’abruzzese “préggë”.





     Il valore della parola in epigrafe è ‘garante, mallevadore’[1] e si confonde con l’altra parola, talora presente nei nostri dialetti, che suona allo stesso modo, préggë, ma significa  ‘pregio’.  Quest’ultimo termine deriva dal lat. preti-u(m) ’prezzo, costo, valore’ che in italiano ha dato come esito anche l’altra variante pregio, con valore spesso ideale di qualità, virtù diverso da quello prettamente mercantile di prezzo.  Ad Aielli-Aq, guarda caso, non mi pare che ci sia una voce u préggë né nel significato di ‘il pregio’ né, tanto meno,  in quello di ‘il garante’.  A Trasacco-Aq, invece, si incontra sia il sostantivo préggë, con il doppio significato di ‘pregio’ e di ‘garante’, sia il verbo prëggià sempre col doppio significato di ‘apprezzare, stimare, pregiare’ e di ‘garantire, dar sicurezza’[2].

   E’ a mio parere molto chiaro che il significato di ‘garante’ fa derivare il vocabolo dal lat. praes, gen. praed-is che significa ‘garante, mallevadore’ ma anche ‘garanzia, pegno’.  Ugualmente il lat. praedi-u(m) ‘fondo, podere’, ha, secondo i linguisti, la stessa radice indicante la ‘garanzia, cauzione’, essendo automaticamente qualsiasi proprietà un bene utile ipotecabile per ogni eventualità.  Come per il lat. di-urn-u(m) l’elemento di- si è trasformato nel suono palatale –gi-, così  per quanto riguarda praes, praedis ‘garante, garanzia’ si è avuto l’esito dialettale préggë, anche se l’accusativo, da cui solitamente derivano i corrispettivi termini italiani e dialettali, è praed-e(m): ma evidentemente è intervenuto un incrocio, al livello del parlato, con lat. praedi-u(m) ‘fondo, podere’, il quale in italiano è presente solo con la voce dotta predio, che è quindi un ripescaggio diretto da parte dei dotti del sec. XV, e non una voce passata per la bocca del popolo, che spesso nei dialetti ha confuso questo termine con l’it. pregio, come abbiamo visto.

   
     Una curiosità.  Navigando in internet ho incontrato l’espressione ‘U pregge riferita ad una singolare e molto seguita cerimonia che si svolge nel corso della festa patronale dedicata a san Cataldo a Taranto.  Prima che inizi la festa un corteo composto dalle autorità civili, con in testa il sindaco, si reca alla cattedrale dove è in attesa il vescovo con tutto il Capitolo Metropolitano. Le autorità religiose consegnano al Sindaco la statua argentea di san Cataldo, da essere portata in processione per terra e per mare, dopo aver stilato e firmato un verbale dove esse hanno indicato con meticolosità il comportamento da tenere, durante la processione, dal popolo e dalle stesse autorità. Una volta c’era addirittura la presenza di un notaio a garantire la legalità del verbale.

    Attualmente il significato preciso dell’espressione dialettale ‘U pregge non è noto; il vocabolo deve essere caduto dall’uso se qualcuno, compreso il vescovo, tenta di darne il significato di ‘prestigio’ o di ‘privilegio’, basandosi su una certa assonanza e sul fatto che la consegna della statua di san Cataldo deve essere considerata un privilegio per il Sindaco e la cittadinanza tutta che rappresenta.  A me pare quasi inspiegabile la scomparsa del significato di questo vocabolo dal dialetto tarantino, soprattutto perché il termine, essendo legato a questa sentita cerimonia religiosa, avrebbe incontrato un ostacolo insormontabile per la perdita del suo significato, visto anche che l’origine del culto di san Cataldo non può risalire più indietro del VII sec. d. C., epoca in cui sarebbe vissuto il monaco irlandese Cataldo divenuto poi santo.   Ma già lo storico irlandese John Colgan (sec. XVII) sosteneva che il monaco fosse vissuto tra il IV e il V sec. d.C., nell'epoca di san Patrizio.

    Ora, avrete forse già capito che io sarei propenso a dare a questo pregge lo stesso significato di ‘garante, garanzia’ di cui ho parlato sopra. Secondo me, con questa voce, all’inizio,  indicava il certificato di garanzia stilato dal vescovo o dal notaio, nella singolare cerimonia di inizio festa. Successivamente l’espressione passò a designare la cerimonia stessa. Ho visto, però, che in alcuni commenti internettiani relativi a questo evento appaiono quasi di soppiatto le parole garante o garanzia nel senso che il sindaco si farebbe garante dinanzi alle autorità religiose di quello che era stato scritto nel verbale, o che il Santo, uscendo dalla basilica, sarebbe garanzia, per tutta la città, della sua amorosa protezione.  Ora, se si potesse appurare che in tutti i dialetti meridionali, o almeno nelle zone attorno a Taranto  dove il termine in questione eventualmente compaia, esso ha il significato di aggettivo o di aggettivo sostantivato ‘garante’ e non di sostantivo ‘garanzia’, allora si avrebbe un argomento in più per sostenere che a Taranto  l’espressione  ‘U pregge  proviene direttamente dal latino, in cui la voce corrispondente aveva anche il significato di ‘garanzia’, e che essa non vi è pervenuta da qualche dialetto delle vicinanze.

    In casi come questo, io sono in genere propenso a far risalire alla romanità, o addirittura alla preistoria, l’origine di un culto, inizialmente  pagano, su cui andò a sovrapporsi quello cristiano di san Cataldo, col favore, magari, di qualche toponimo preesistente.  Bisognerebbe però confortare questa ipotesi con qualche altro elemento concreto. 
   
  
  
  
  




[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq, 2004.
   
[2] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di censo. Avezzano-Aq,2002..

       








martedì 26 novembre 2019

L‘aiellese-abruzzese "capës-dòzië"




   Sono pochi, e di una certa età, quelli che nel mio paese di Aielli-Aq conoscono il significato della parola in epigrafe che è ‘capo, caporione’, usata, come ben ricordo, ad indicare il capo di una combriccola, magari di ragazzi, che hanno commesso qualche marachella o atto non proprio lodevole nei riguardi di una persona o di tutta la comunità. 

  Ora a me pare che il primo elemento del termine capës-  non debba essere altro che il supposto lat. volgare o medievale *capus, oris ‘capo, testa, comandante’ il quale sarebbe alla base di it. capor-ale e sarebbe una variante di classico cap-ut, -itis ‘capo, testa, persona, comandante, ecc.’. E fin qui tutto mi sembra scorrere accettabilmente. Le difficoltà si affollano intorno al secondo elemento –dòzië.  A mio parere in questo caso siamo di fronte ad un termine composto tautologico, come ne abbiamo incontrati tanti nei miei articoli. La seconda componente –dozië deve quindi avere lo stesso significato di ‘capo’. 

   Il termine ricorre anche a Luco dei Marsi col significato di ‘caporione’ e anche, spregiativo[1], di ‘capo scarico’. Ora, siccome l’espressione italiana capo scarico non mi pare del tutto negativa equivalendo a quella di capo ameno riferita ad un a persona ‘allegra, un po’ bizzarra e mattachiona’ ma in fondo ‘simpatica’,  credo che il Proia, autore del libro citato, intendesse indicare una persona poco assennata, sconsiderata, come può essere talora un caporione  che sobilla il popolo.  Ma a San Demetrio nei Vestini-Aq. la parola, scritta capes-dòzie,  indica un ‘capo’ senza nessuna  sfumatura negativa, anzi, l’opposto, visto che quel termine accompagna anche il nome del protettore San Demetrio, capes-dozie ‘capo’ di tutto il paese[2].  Ad Avezzano-Aq. il suo significato è quello di ‘comandante’[3]. 

    Io non ho mai incontrato nei dialetti abruzzesi una voce dozië, dozë, duzië, duzë, ecc. che significasse qualcosa come ‘capo’.  Si incontra certamente la voce duce riferita però solo al capo del fascismo, troppo recente per essere presa in considerazione per il nostro problema; si trova anche il termine storico it. duca che è voce tratta dal greco bizantino doύka, accusativo di doύks, preso a sua volta dal lat. duc-e(m) ’duce, guida’ o direttamente dal nominativo lat. dux ‘duce, guida’.  Credo anche che sia da scartare la voce veneziana e genovese dòge (con la –ò- aperta) ‘capo supremo della repubblica’, che oltre tutto pare sia una correzione toscana dell’originario veneziano dόse o dόze (con le due –ό- chiuse e con pronuncia fricativa sonora della –z-).  Nel nostro –dòzië si ha una pronuncia affricata dentale sorda della –z-, equivalente a un –ts-.

    Tagliando la testa al toro, io credo che la radice di questo –dozië sia da ricercare tra le diverse varianti della radice della voce familiare tetta ‘mammella, capezzolo’ diffusa quasi dappertutto in Europa comprese le lingue germaniche.  La radice, quindi, a mio parere dovrebbe indicare, nel fondo, un rilievo, una protuberanza,  sia essa piccola o grande. In  inglese si ha tit ‘mammella, poppa’, teat ‘capezzolo’; in tedesco Zitze  ‘capezzolo’[4]; in greco si ha titth-όs ‘poppa, petto materno’; in spagn. teta ‘mammella, poppa’; in francese tét-on’mammella, tetta’, e anche tét-in ‘capezzolo’.  In latino doveva evidentemente esistere una parola  simile, vista la presenza della radice in tutte le lingue romanze.  Difatti si cita una forma  *titt-a(m) ‘tetta’ che io scrivo con l’asterisco non avendola trovata nei miei vocabolari. Qualcuno indica anche una variante *titi-a(m) ‘tetta’[5].  Non so se queste forme siano attestate da qualche parte, ma è molto probabile che esistessero, sia pure in un latino parlato, popolare.

   In inglese si ha anche il termine dot ‘punto, puntino’ che è messo in relazione con la radice dei citati tit ‘mammella’ e ‘capezzolo’. In antico inglese dott indicava la ‘testa, punta  di un foruncolo’ e nell’antico alto tedesco tuta valeva appunto ‘capezzolo’.  Che questi nomi potessero indicare, oltre alla mammella e al capezzolo, anche  punte, cime, alture  ci è garantito  dall’island. tūta ‘acuta sporgenza’ e dall’altra forma zinna presente nei dialetti abruzzesi, laziali e umbri col valore di ‘mammella, seno’ e nel dialetto corso, con la forma zénna ‘estremità, punta’[6].  La parola si fa derivare dal longobardo zinna ‘merlo, prominenza, sporgenza’ ed è presente anche  nel tedesco Zinne ‘merlo, picco, cima’ che confronta con l’ingl. tine  ‘punta di forca o forchetta’. Una curiosità: a mio parere anche il monte Tino, altrimenti noto come la Serra di Celano-Aq, appartiene a questa radice.  Anche un capezzolo si può trasformare in cima, punta come nello spagnolo cabez-uelo ‘cima di una collina’[7], diminutivo di spagn. cabeza ‘testa’.  Il monte Pizzo Deta che con i suoi 2041 m. svetta sui monti Ernici, al confine tra la valle Roveto (Marsica) e il Lazio meridionale, a mio avviso non fa altro che ripetere, con Pizzo, lo stesso significato preistorico di Deta, cioè ‘pizzo, punta, protuberanza’. Naturalmente si crede popolarmente che il nome indichi le   di una mano, chiamate in dialetto deta < lat. digit-u(m): con la  normale caduta della gutturale –g- si è avuto al singolare  ditë, in it. dito, e   al pl., corrispondente all’italiano pl. irregolare dita. Ma la sagoma triangolare e appuntita del monte, visto da una certa distanza, narra tutt’altra storia.

   Senza farla troppo lunga, io credo che la seconda componente di capës-dozië ripeta tautologicamente il significato di ‘capo’ della prima componente, e che essa sia il derivato di una forma volgare latina*dot-em oppure *doti-um con i significati di punta, capo (anche con valore metaforico di ‘comandante’) ma scomparsa nell’uso isolato non tautologico . Essa è presente anche nel lat. sacer-dot-e(m) ‘sacerdote’ nel significato di ‘capo’ in ambedue le componenti, o anche nel significato di ‘capo, padre santo’.  Non condivido l’etimo solito con cui si spiega il termine più o meno come ‘colui che effettua i sacrifici’ quindi ‘ministro addetto ai sacrifici’, attraverso la radice verbale indoeuropea /dhe/  col significato di ‘porre’ o ‘fare’.  

   In ultimo vorrei citare il lat. tut-ul-u(m)  ‘berretto a forma di cono’ e ‘acconciatura dei capelli a forma di cono’ da confrontare con it. tut-olo, il torso a punta della pannocchia di granturco.  E così trova pace, almeno spero, anche l’etimo del lat. tit-ul-u(m )il quale, come il lat. capit-ul-u(m) ‘piccola testa, capitolo, titolo’,  indica qualcosa che ha a che fare con la testa, il capo, la punta, la sommità.

    In alcuni paesi si incontra anche la forma capataz ‘capo’ e simili. In questo caso credo si si avuta la sovrapposizione dello spagnolo capataz ‘capo’ su un originario capes-dozie.




[1] Così si esprime G. Proia, autore del libro La parlata di Luco dei Marsi,, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq 2006.

[3] Cfr. Buzzelli-Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese,, (senza indic. dell’editore), 2002.

[4] Cfr. veneto zizza ‘mammella’; abruzz. zìzzë  e  zézzë ‘mammella, poppa’, diverso da aiellese-abruzz. sésa  ‘mammella’ , abruzz. sìsë  ‘mammella’, aiellese masch. sìsë ‘capezzolo’, da connettere col serbo-croato sisa ’mammella’.

[6] Cfr, Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET Torino 1998, s.v. zinna,

[7] Cfr. il vocab. etimologico di O. Pianigiani in rete, s.v. capezzolo.

domenica 24 novembre 2019

L'aiellese "oddìa!".



  Penso che nessuno abbia mai fatto ben caso alla interiezione aiellese (ma anche trasaccana[1]) oddia! che a prima vista sembra corrispondere all’it. oh Dio! o anche oddio! esprimente dolore o sorpresa, come del resto sostiene lo stesso Quirino Lucarelli autore del libro citato, sul dialetto di Trasacco-Aq. E’ quella –a- finale che chiede, birichina, di essere spiegata, come sfidandomi, data la mia vantata conoscenza in materia di derivazione dei vocaboli. 

   In verità già in altra occasione mi pare di averne  data una spiegazione che ripeto anche qui, magari ampliandola. L’it. masch.  Dio nel nostro dialetto, ma anche nelle altre parlate marsicane a me note, suona Ddi’ oppure Ddìë, mai Ddia o Dia, e non ci sono cristi che tengano! E’ vero che esiste in dialetto anche l’altra espressione oddì’ che potrebbe essere fatta derivare dall’it. oddio! con la pronuncia dialettale di Dio, cioè Ddì’, ma data la presenza del nostrano oddìa! mi pare preferibile trarla da quest’ultima con la normale caduta dell’ultima –a- oppure con la sua riduzione al suono indistinto ë- (come avviene a Celano-Aq per la –a- femminile  finale di parola dove essa resiste - forse  anche maschile), anche se potrebbe essere comunque intervenuto l’influsso della rispettiva forma italiana.  Da ragazzo sentivo spesso, anche da mia madre, l’espressione simile uddé, sempre col significato di oddio!; qui mi pare evidente la presenza del lat. de-u(m) ‘dio’, che potrebbe anche essere al caso vocativo de-us, uguale al nominativo de-us. La /u/ iniziale potrebbe risalire all'interiezione lat. heu 'ahimé' , esprimente dolore. I dialetti talora conservano forme simili di varia origine.  Ribadisco che in linguistica non c’è nulla, o quasi, che possa attribuirsi al ghiribizzo o fantasia del parlante.

  Allora, concludendo, quella birichina –a- di aiellese-trasaccano o-ddìa! quale spiegazione può avere? Io non sono riuscito a trovarne una migliore di quella che vede in ddìa il gr. Dia, accusativo di Zes ‘Giove’, la somma divinità indoeuropea della luce del giorno la cui radice di- la ritroviamo nel lat. di-e(m) ‘dì, giorno’ e nel lat. di-urn-u(m) ‘diurno’, da cui l’it. giorno.  In greco esisteva l’interiezione   con valore vocativo, di sorpresa, di dolore ed era seguita in genere dal vocativo, nominativo, o genitivo. In genere, però, le interiezioni non avevano funzione di elementi reggenti, e potevano essere seguite da qualsiasi caso.   Normalmente però in greco l’espressione o Giove suonava ṓ Zeῦ  con il nome al vocativo, ma chi ci può dire quello che poteva essere avvenuto nelle molte parlate locali, della Grecia, e di quelle che sono arrivate fin nei nostri dialetti, ricchi di espressioni e termini greci, come ho mostrato in diversi articoli del mio blog?  La particella affermativa greca nḗ ‘sì, certo’ era, infatti  quasi sempre seguita dall’accusativo come, appunto, in nḗ Dia ‘sì, per Giove’. 

   Ma non abbiamo finito! Ecco che viene ad intorbidare ancora le acque l’espressione del nostro dialetto a-ddìa che ha mantenuto, della corrispondente  esclamazione di commiato dell’it. addio, solo il valore di disappunto e di perdita di qualche cosa, come, ad esempio, nell’espressione addìa alla bella bëcëchëllétta! (addio alla bella bicicletta!) in riferimento, non so, ad una bicicletta rubata o ridotta ad un mucchio di ferraglie dopo un incidente.  Allora c’è da supporre che l’espressione dialettale sia arrivata da quella italiana in quel significato di disappunto e che essa abbia subito l’influsso formale della preesistente espressione dialettale oddìa!, influsso che non si è verificato,però, nel trasaccano addìë ‘addio, ciao’, dialetto in cui esisteva la forma oddìa col valore di dolore, come nella identica espressione aiellese. 

   Credo che sia chiaro il motivo per cui, prudentemente, considero la mia soluzione dell’espressione oddìa! preferibile a qualche altra che rimandi semplicemente alla parola it. Dio, ma non certa al cento per cento. 



[1] Cfr. Q.Lucarelli, Biabbà, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003.

venerdì 22 novembre 2019

I vari significati di “albero”



    In alcuni dialetti, anche settentrionali, la voce albero con varianti o derivati, come àlbera e arbùccë, significano ‘pioppo bianco, pioppo'.  I linguisti, credo tutti quanti, osservano che il significato di ‘pioppo bianco’, e successivamente di ‘pioppo’ in genere, è nato dall’incrocio del nome con l’aggett. lat. alb-u(m) ‘bianco’.  Ed effettivamente il ragionamento sembra fin qui filare liscio come l’olio.  Esso però improvvisamente comincia a traballare quando si scopre che nel paese di Pero dei Santi, fraz. di Civita d’Antino, nella Valle Roveto (Marsica) la voce albrë presenta l’insolito significato di ‘olmo, albero dell’olmo’.  C’è forse anche qui da ricercare l’influsso dell’aggett. lat. alb-u(m) ‘bianco’? Non mi pare che ciò sia possibile dato che non esiste una varietà di olmo designata con l’aggettivo suddetto. 

   Io ho sempre pensato che questi significati particolari di pioppo e di olmo, non fossero altro che specializzazioni del termine lat. arbor-e(m) ’albero’, secondo la norma generale della mia linguistica che vuole che tutte le parole nascondano dietro di sé un significato generico che ha poi dato origine a quello o quelli specializzati. E questo esempio ne è, a mio parere, una prova inconfutabile.  

   Ora, tramite internet, ho scoperto che una delle voci dialettali per ‘olmo’, nel dialetto emiliano e reggiano (ma anche in zone della valle del Rosa, in Piemonte)  è elber[1], vocabolo a mio avviso molto simile strutturalmente ad it. albero, considerato anche il fatto che la prima –e- potrebbe essere l’esito di una primitiva -a- , per quanto io conosca poco il vocalismo del dialetto emiliano-reggiano, dove però si hanno, ad esempio, forme come chèrna ‘carne’  o come èlt ‘alto’.

   Credo si possa (o si debba) anche supporre che l’albrë ‘olmo’ di Pero dei Santi-Aq e l’elber ‘olmo’ di Reggio Emilia non abbiano dovuto aspettare che in epoca storica arrivasse dalle loro parti il lat. arbor-e(m) ‘albero’ (che non so come oggi si chiami in quel dialetto emiliano), ma che quella voce, simile o uguale al lat. arbor-e(m) con cui poteva facilmente confondersi (come è avvenuto a Pero dei Santi-AQ, nella Marsica), esistesse già da gran tempo prima della romanizzazione, anche se forse essa originariamente era nata come semplice variante della corrispondente voce latina.

   E’ bene ricordarsi che la Lingua è antichissima, molto più delle piramidi d’Egitto, e che moltissime parole sfidano imperterrite decine di millenni. E’ pertanto facilissimo, se non si va veramente a fondo, abboccare alle molte trappole che esse, le parole, hanno avuto modo di tendere, nel corso di un lungo ordine di secoli, nei riguardi di chi vuole scoprirne l’origine.  

  Ps. Tramite internet ho potuto solo appurare  che in romagnolo, varietà dialettale alquanto diversa dal reggiano, l’albero è comunque chiamato elbere[2], molto simile al reggiano elber ‘olmo’, come avevo supposto.

lunedì 4 novembre 2019

La morte



(Ti assicuro, gentile lettore, che vale la pena sorbirti il mio discorso sulla Morte, per la presenza in esso dell'etimologia eclatante di lat. spirit-u(m) 'spirito, soffio, ecc.) 

    Gli animali non si chiedono perché muoiono. Muoiono e basta. Sembra che essi per questo siano molto inferiori a noi che, al contrario, siamo capaci di creare persino delle filosofie o escogitare  delle credenze a partire da essa. Chi muore, nostra madre, nostro padre, nostro fratello sembra che non possa scomparire nel nulla, pur tornando col suo corpo  ad alimentare il gran ciclo dell’esistenza materiale: nascita, vita, morte, ritorno alla materia. Quando pronunciamo questo termine gli attribuiamo, quasi senza accorgercene, uno status molto meno importante di quello che attribuiamo allo Spirito, che nel linguaggio costituisce il polo opposto. Ed è un fatto che con lo Spirito e il Linguaggio (suo prodotto) noi uomini siamo riusciti perlomeno a scalfire il bozzolo del Mistero totale che ci circonda, anche solo al livello della materia, che è l’unica che abbiamo imparato a scandagliare e conoscere con qualche sicurezza (la Scienza).  Grande allora è l’opera dello Spirito in noi, ma è anche un fatto –cosa di cui non tutti ci rendiamo conto – che il nostro Linguaggio crea fantasmi nella nostra mente, a cui siamo portati a credere, proprio perché prodotti dal nostro Spirito, non solo quando scherziamo o fantastichiamo, ma quando con tutta la serietà possibile, cerchiamo di capire la Realtà, la quale cominciò allora ad apparire non unica e costituita da cose “concrete”, ma soprattutto da idee che non hanno nessun riscontro obbiettivo nella realtà materiale.
  
   Ecco nascere quel dualismo filosofico tra Mondo ed Oltremondo, tra Fisica e Metafisica che si stenta a superare. Creature, quelle al di là del mondo, cui obbiettivamente non dovremmo dare nemmeno un briciolo di credito, essendo la nostra conoscenza scientifica (che è l’unica degna di fiducia e che ha bisogno di un continuo contatto con le cose del mondo) completamente inadeguata, non dico a capire in qualche modo le ‘cose’ della Metafisica, ma nemmeno a darcene un cenno attendibile: le nostre parole, in questo campo, sono solo flatus vocis, fiato che esce dalle nostre bocche da un sacco di millenni, e che ha attribuito la natura divina, e quindi un’anima (intesa prima come “soffio vitale” naturale, e poi come vera e propria entità metafisica),  a tutte le cose del mondo, spingendoci a confermare l’esistenza prima degli dei e poi del Dio unico, nostre creazioni. Non credo che il monoteismo sia stato originario, come pensano alcuni.  

   Questa dimensione divina ha finito col farci  immaginare un rapporto dicotomico, e non realistico, tra  le cose del mondo (ritenute imperfette, manchevoli, materiali, destinate a perire e scomparire) e le cose divine (ritenute perfette, autosufficienti, spirituali, eterne). L’uomo delle origini, molto  più vicino alla Natura e agli animali da cui proveniva, vedeva la spiritualità come inerente alle cose stesse, non perché create da un Dio alla cui nozione non era ancora arrivato, ma perché esse erano espressione di  una vitalità racchiusa dentro di esse, anzi coincidente con esse. 

  Io mi sono interessato in passato di toponomastica (lo studio più difficile di tutti e mai completamente certo) per molto tempo, e così capii quasi subito, dopo aver macinato centinaia di nomi, dinanzi ad un idronimo come Fonte Spirito o dello Spirito (nel comune di Arsoli o di Roviano, in prov. di Roma. Non ricordo bene), e tanti altri simili,  che quel nome derivava alla fonte non da qualche favola, racconto o accidente qualsiasi con cui essa era stata connessa, ma solo perché lo Spirito (in latino: ‘soffio’, come lat. anima ‘soffio vitale, respiro’) non era altro che la stessa cosa di fonte, cioè una “realtà viva e pulsante”: l’etimo di lat. font-e(m) è incerto ma sono convinto che esso significasse, nel fondo, ‘soffio, vita, vento, scaturigine, fonte ecc.’ appunto, nella fase cosiddetta “animistica” dell’umanità, e che lo Spirito di queste fonti avesse proprio il significato di ‘fonte’, visto che uno dei valori di lat. spir-are ‘soffiare’ è anche ‘sgorgare, scaturire’ (Lucrezio).  Pertanto gli ingl. spirt, sprit, spurt ‘zampillare, sgorgare’ sono da assimilare, a mio avviso, al lat. spirit-u(m) ‘spirito, soffio’, unitamente all’it. spruzz-are, sprizz-are che i linguisti considerano, ahimè, tutti onomatopeici, compreso il lat.  spir-are ‘spirare, soffiare’. Ma come fanno!

                           

  Tutto quello che l’uomo, con il linguaggio ha creato successivamente riguardo alle entità metafisiche, è da considerare pura invenzione senza riscontro nella realtà, se non proprio come falsità tout court.  Il Mistero della Materia resta  grandissimo e può includere anche il concetto di Dio, non c’è bisogno che ad esso venga aggiunto, lontano e irraggiungibile, un altro Mistero, quello di Dio, tanto per il gusto di complicare le cose, credendo invece di risolverle. Il principio metodologico filosofico-scientifico chiamato rasoio di Occam ci ammonisce a non preferire ipotesi complesse nella soluzione di problemi, ma di affidarci alle ipotesi semplici e concrete che sono quelle più probabili. Bisogna quindi gettare al mare quelle soluzioni, magari avvincenti, ma prive di semplicità e linearità. La Materia e la Metafisica sono già di troppo per spiegare la realtà, visto che la seconda è una mera ipotesi ben al di là delle nostre capacità conoscitive.

venerdì 1 novembre 2019

L’amore per la parola peregrina dialettale



    Quando nella mia ricerca (divenuta ormai compulsiva e quindi indice anche di una nevrosi psicopatologica) incontro una voce dialettale, negletta da tutti i linguisti, e vivente magari di stenti nello stesso paese d’origine, sento che dentro di me qualcosa si agita più che mai, come dinanzi ad una povera donna sconosciuta che passa per strada e gli altri disprezzano o semplicemente ignorano, perché malvestita, triste e silenziosa.  Dietro quel silenzio totale io scorgo un’anima in pena che suscita automaticamente in me un moto di forte simpatia e finanche  d’amore.  Povera donna, così trascurata da tutti, che nessuno chiama per nome, lontana dai suoi e dalle sue origini che potevano essere anche grandiose! Quanta saggezza è racchiusa in quel silenzio, la saggezza di una che dall’alto della sua età conosce le miserie, non tanto sue proprie, quanto dell’umanità tutta che moralmente non migliora mai di un ette, a partire dai suoi tempi d’origine lontanissimi; umanità tutta immersa nelle apparenze del presente il quale, per definizione, nega il passato che pure, dietro ad esso, ha raggiunto dimensioni enormi e lo pedina col fiato sul collo ad ogni istante che passa.  Al massimo essa si proietta distrattamente in un futuro dalle dimensioni incerte (un grosso meteorite potrebbe abbattersi improvvisamente sulla Terra distruggendo gran parte della vita, come è successo in passato!), che immagina come il luogo in cui i suoi desideri diverranno una realtà.  Se ci pensiamo, in effetti è solo il passato a dominare concretamente la scena del mondo, visto che il presente muore subito nel momento stesso che lo pronunciamo, e il futuro è più una forma astratta del nostro pensiero  che una realtà viva e pulsante.

   Amiamo quindi il passato! Rispettiamo i vecchi i quali oggi, purtroppo, non solo sono poco considerati, ma essi stessi tendono purtroppo ad adeguarsi alla nuova mentalità, che vuole tutti in forma, esorcizzando appunto l’orribile senescenza e cercando di vivere in un’eterna ma fittizia giovinezza!

   Tornando alla mia donna, pardon, alla mia parola incontrata di recente, c’è da dire che essa si chiama ‘nzulfanarsë[1] ’indebitarsi’, una voce ignota ai normali vocabolari dialettali, che evoca realtà lontanissime e a noi estranee quasi come se essa fosse, non so, il nome di Huitzilopochtli, che per noi che viviamo nel presente e di presente, non significa nulla (sembra uno scioglilingua), ma che per gli Aztechi indicava il dio della guerra e del sole anche se il significato letterale del termine era ‘colibrì del sud’ o ‘colui che viene dal sud’. Il che ci fa pensare che anche quella lingua veniva da molto lontano e che la parola aveva subito nel frattempo diversi incroci con altri vocaboli. Quasi ogni parola, soprattutto quelle per noi stranissime, per la loro venerandissima età, meriterebbero di essere scritte a caratteri d’oro in una plaquette e conservate nelle nostre case in una sorta di pio sacello riservato agli antenati, per poterle ammirare ed adorare adeguatamente tutti i giorni. Quello che noi siamo lo dobbiamo a loro, e questo sia detto non solo figuratamente, ma anche concretamente perché esse sono presenti nei nostri geni linguistici, se è vero che non esiste pensiero, e quindi uomo, senza una lingua attraverso cui esso si esprima.  Non è dato prima il pensiero e poi una lingua che lo esprima, come a noi apparentemente sembra avvenire: il pensiero è la nostra lingua. Può sembrare razzistico ed eccessivo dire che chi non possiede un vocabolario decente per esprimersi, almeno nella propria lingua, non può sperare che gli altri lo considerino  interiormente ricco e dirozzato nelle idee, dato che questa ricchezza proprio non esiste nel suo interno in quanto non è stata mai riconosciuta né portata alla vita da parole corrispondenti: intendiamoci, egli può essere un uomo civile, accorto, zelante, abile nel suo mestiere e rispettoso degli altri ma è nel contempo un uomo dimidiato, perché ha una conoscenza ristretta della lingua, la quale è come un marchio necessario a dar forma e fare emergere porzioni del nostro animo che altrimenti rimarrebbero ignote, a noi e agli altri. In altri termini un animo “umano” senza l’uso della parola è, estremizzando, come quello dell’animale: informe, senza idee, senza autocoscienza, e senza capacità di conoscere nel vero senso della parola , quindi, nemmeno quello con cui viene strettamente a contatto per motivi di sopravvivenza: cibo, sesso, individuazione di animali più o meno pericolosi per sé, ecc. Certamente egli sente questi bisogni ma non vi riflette nemmeno una frazione di secondo sopra.  E così si è creduto che le bestie non avessero la parte nobile dell’animo, quella che religiosamente chiamiamo anima e che generalmente crediamo immortale, donataci da Dio al momento del nostro concepimento.  Questo io non lo credo, essendo convinto che essa sia un portato della nostra evoluzione che ci ha distinto, attraverso l’invenzione della parola, dagli animali , esseri viventi e mortali come noi, benchè dotati, anche nel nome che include anche noi, di quella anima (che significa: soffio vitale) di cui ci siamo indebitamente ed egoisticamente appropriati negandola ai nostri fratelli animali.  L’uomo che cominciava a parlare non faceva le improbabili ma comode distinzioni cui ci siamo successivamente abituati, riconoscendo la forza della vita in tutte le cose del creato, comprese le piante, l’acqua, l’aria, le rocce e i monti (animismo).  Possiamo senz’altro affermare che quest’uomo delle origini conosceva molto meglio di noi l’essenza unitaria delle cose, di cui successivamente ha notato e snocciolato via via nascita, vita e miracoli, ma sempre al livello delle caratteristiche di superficie, apparentemente l’una diversa dall’altra. In questo modo arrivò a credere la sua vita intellettiva e spirituale  irriducibile alla realtà oggettiva dinanzi ai suoi occhi, abissalmente inferiore alla sua vita e al suo spirito, e a spiegare la sua permanenza nel mondo terreno come conseguenza di un allontanamento da un paradiso celeste in cui prima viveva, a causa di qualche grave peccato commesso nei confronti del Dio che doveva senz’altro esistere, come spiegazione metafisica di tutte le cose del creato appartenenti ad una sfera contingente e infinitamente inferiore a quella celeste verso cui cominciò quindi a  guardare in cerca di aiuto e comprensione da parte del Dio che credeva di aver  offeso e che tutto poteva.  E’ incredibile come l’uomo abbia profondamente creduto alle immagini e ai pensieri metafisici di cui si rese capace con la parola, dimenticando che questa era stata, nella filogenesi, una sua invenzione, lenta, laboriosa, difficile, e certamente molto utile nella sua vita quotidiana e in vista della nascita di una comunità, ma che portava con sé i difetti che ogni cosa umana ha, quello, soprattutto, di far credere che la logica dei pensieri sia solida e incontrovertibile: c’è voluto molto tempo per capire che la nostra logica è spesso fallace se non confrontata continuamente con i risultati della osservazione concreta e scientifica, e che non si può credere a nulla definitivamente, nemmeno alla scienza che attua questa ricerca a contatto costante con la realtà: l’unica certezza incrollabile che essa infatti ha faticosamente guadagnato, nel corso ormai di circa quattro secoli, è che tutto il nostro sapere  può essere rovesciato da un momento all’altro con una rivoluzione copernicana.  Lo so, l’uomo forte è una creatura rara nel gran cimento della vita, e pertanto non possiamo e non vogliamo né vilipendere né deridere chi si aggrappa al fantasma del Dio che ci attende nell’aldilà. La realtà è unica, per quanto complessa e straordinaria essa sia (come sa benissimo la fisica quantistica), e non si può a mio avviso accettare la dicotomia irreversibile tra materia e spirito. L’idea di un Dio, o riusciamo ad inserirla in qualche modo in questa unica realtà, o non sappiamo proprio che farcene.

   “La parola è tutto” si sente spesso ripetere, ma è anche vero che essa, creata dall’uomo, lascia comunque, anche quando è magnificamente usata, un che di amaro in bocca come se essa non avesse soddisfatto appieno la nostra sete di assoluto, e ci lasciasse nel tormento di trovarne una definitiva e totalizzante: pura illusione, a mio avviso, perché quando questo ci succede  significa che stiamo lasciando la Realtà per varcare le soglie della  metafisica la quale è, come dire, solo il segno di una insufficienza nativa, una mancanza perenne  del nostro essere uomini, che siamo solo una parte infinitesima  della misteriosissima Realtà, la quale è la nostra Divinità: estremamente vasta e sempre sfuggente, ma con i piedi ben saldi nelle cose del Mondo. Sono un panteista?  Probabilmente sì. E sono contento di vivere in questo nostro tempo aperto a tutte le possibilità, perché in altre epoche, come sappiamo, avrei potuto fare la fine di Giordano Bruno, pur non essendo degno nemmeno di legargli i lacci dei sandali.

   Ora torniamo al compito meno attraente per i più, ma basilare per la conoscenza piena di una parola,  di trovare l’origine del verbo abruzzese  sopra citato, cioè ‘nzulfanàrsë  (indebitarsi).  Il significante è molto simile a quello dell’aiellese-abruzzese ‘nzulfënà ’instigare malevolmente qualcuno contro altra persona’, ma il significato, appunto, ne nega la parentela vicendevole.  Quest’ultimo non dovrebbe essere altro che l’it. insufflare, dal lat. in-suffl-are ‘soffiare sopra, dentro; infondere’ con l’aggiunta di un riferimento, magari, al tono insinuante di colui che vuole suscitare avversione verso qualcuno. Naturalmente c’è stato l’incrocio con il verbo dial. ‘nzulfà ‘insolfare, inzolfare’ che indica d’altronde un’operazione simile a quella di colui che semplicemente soffia dentro, infonde senza riferimento allo zolfo che viene irrorato e come soffiato dall’inzolfatrice sulle foglie, soprattutto della vite, per proteggerla da malattie crittogamiche. Tanto è vero che a Trasacco-Aq esiste anche il verbo ‘nzëlfà[2] , che ha i due significati di ‘inzolfare’ e di ‘instigare’, oltre al verbo ‘nzëlfinà, ‘nzëffinà, ‘nzuffianà ’instigare, accendere un litigio, mettere uno contro l’altro, ecc.’.  Queste forme ci dicono che l’insufflare originario si è incrociato con l’it. zuffa, azzuffare.

    L’altro verbo sosia ‘nzulfanàrsë ‘indebitarsi’ deve avere un’origine del tutto diversa, ma quale?  La soluzione ce la offre il trasaccano-abruzzese zélla che presenta vari significati tra cui quello di ‘debito’ come nell’abr. zéllë[3] che al singolare vale ‘tigna’, al pl. ‘taccoli, chiodi, piccoli debiti’.  Il Bielli, di Lanciano-Ch, usa spesso termini del dialetto toscano (sarei curioso di appurare perché!), che risultano un po’ ostici anche a me, come qui taccoli e chiodi   che significano ‘(piccoli) debiti’.  Ora, questa zélla ‘debito’ non può che essere una variante del ted. zoll ‘tributo, dazio’ corrispondente all’ingl. toll ‘pedaggio, dazio’ e nell’inglese-americano ‘addebito (per chiamata in teleselezione)’. Tutti termini che i linguisti sanno benissimo che combaciano con il gr. télos dai diversi significati tra cui quelli di ‘imposta, gabella, tributo’ ma anche ‘premio’ (nel vocabolario Rocci). Qui c’è da puntualizzare che spesso  i termini che indicano lo scambio di beni tra una persona e un’altra si sono specializzati ad indicare il ricevere o il dare, mentre il significato più a monte era quello di ‘tendere (la mano)’ sia per dare sia per prendere o ricevere. Ecco perché, a mio avviso, in gr. télos vale sia ‘tributo’ che ‘premio’. Etimologicamente il tributo è qualcosa che si dà, mentre il premio è qualcosa che si prende.  Anche la radice /do/ di lat. dare ‘dare’ nell’area ittita valeva ‘prendere’[4].  Il lat. cred-it-um vale sia ‘credito’ che ‘debito’. Il gr. dảnos vale sia ‘prestito, dono’ che ‘debito’. Il gr. chréos significa in genere ‘debito’, talora ‘credito’ ma il corradicale verbo  gr. chra-ein significa solo ‘prestare’. Indipendentemente dalla considerazione testè fatta della “mano che si tende” ce n’è da fare un’altra: i significati di questi termini che indicano il passaggio di beni tra una persona e l’altra cambiano natura a seconda della persona che li considera: un credito fatto a qualcuno è un debito per quel qualcuno e viceversa. D’altronde lo stesso etimo di lat. deb-ēre < lat. de-hib-ēre ‘dovere, essere debitore’ pare indicare qualcosa che è stata ricevuta (cfr. lat.hab-ēre’avere, ottenere’ ) e che quindi bisogna ridare come un debito. 

   Ora, fatte queste importanti osservazioni, possiamo passare ad analizzare il verbo gr. tel-ōné-ein ‘fare l’appaltatore, il gabelliere, riscuotitore di imposte, riscuotere le imposte’.  Il termine è composto  da due elementi sostanzialmente tautologici , e cioè tel-  <tél-os ‘tributo, imposta, premio’ e -ōnḗ che in greco valeva ‘compera, affitto, appalto, prezzo (della cosa comprata)’ ma in latino aveva assunto il valore di ven-dĕre ’vendere’< ven-um dare ‘dare in vendita’. La parola greca aveva un digamma iniziale (poi caduto) che possiamo indicare con -w- (wōnḗ ‘compera’) corrispondente, appunto, alla semivocale iniziale –v- di lat. ven-um ‘vendita’ e al sscr. vasnà ‘prezzo della vendita, affitto, nolo’.  Ora, già il concetto di “appaltare” implica un contratto di vendita da una parte e compera dall’altra (i due poli del prendere e del dare), perché l’appaltatore è colui che, a suo rischio, ottiene dallo Stato la facoltà di riscuotere tributi o tasse trattenendo una percentuale: l’appaltatore si indebita nei confronti dello Stato con la promessa di consegnargli, ad un tempo stabilito, la somma delle  tasse, anche se per caso quelle tasse non dovesse raccoglierle, per un motivo o per un altro. Allo stesso tempo egli, nei confronti dei cittadini,  è come un creditore che riceve da loro quanto essi sono per legge tenuti a pagare allo Stato. 
  
   Ora, tornando al nostra peregrina parola abruzzese ‘n-zul-fan-arsë ‘indebitarsi‘ si possono chiaramente riconoscere le due radici tautologiche che la formano, cioè -zul-  (parente, come abbiamo visto di trasaccano zélla ’debito’ e ted. zoll ‘tributo, dazio’) e –fan, chiara variante di quella lat. ven- e di sscr. vasnà ‘prezzo della vendita, affitto’. Il verbo gr. tel-ōné-ein ‘riscuotere, esigere la tassa’ nella forma medio-passiva tel-ōné-esthai significava ‘dover pagare l’imposta’ e, quindi, essere in una condizione di indebitamento nei confronti dello Stato o del gabelliere. L’espressione greca tel-ōné-ein toὺs lόgous significa addirittura ‘vendere l’istruzione, le parole’.  Si è passati dall’idea di “riscuotere” a quella di “vendere”.  E così con il medio-passivo tel-ōné-esthai siamo arrivati al dunque, addirittura con la coincidenza delle due forme passive, nel dialetto e nel greco, che forse è casuale. La fricativa sorda –f- della parola dialettale abruzzese è quasi sicuramente dovuta all’incrocio col dialettale ‘n-zulf-ënà ‘instigare’ che ha tutt’altra storia come abbiamo visto.

    Che  bello aver riscattato la donna malvista e negletta da tutti, di cui ho parlato all’inizio dell’articolo, e aver strappato da lei sorrisi di compiacimento,  avendole riconsegnato le sue splendide vesti di un tempo lontano, che parlano della sua invidiata e radiosa esistenza, mentre tutti ora, chiusi nel loro cieco  presente, la disprezzano ignorandola!

   Gli incroci cui vanno soggette le parole sono sempre dietro l’angolo.  In abruzzese la voce zéllë[5]   indica la ‘tigna’, una brutta micosi del cuoio capelluto, oggi scomparsa. A Trasacco lë zéllë[6] sono le aree senza capelli del cuoio capelluto attaccato dalla tigna.  Questa zélla deve condividere la radice con il verbo gr. tíll-ein ‘pelare, spennare, strappare’, ma anche (nel vocab. del Rocci) ‘vessare, maltrattare, spennare’ significati che spiegano quello dell’aiellese-trasaccano-abruzzese-meridionale zëllùsë, aggettivo  appioppato a chi non sta alle regole del  gioco, si arrabbia, tergiversa, litiga, cavilla, ecc. In napoletano però lo stesso aggettivo si riferisce a chi ha le zélle, cioè le aree senza capelli a causa della tigna, mentre a Trasacco indica anche chi è oberato di debiti, e con questo siamo tornati a quanto detto precedentemente.

   Ma la cosa più interessante, secondo me, è che sempre a Trasacco la zélla indica anche la ‘sporcizia’, in particolare i grumi di sterco che si formano intorno ai peli degli animali, come le vacche, abituate ad accovacciarsi anche sui loro escrementi.  In questo senso il termine deve essere strettamente apparentato con la radice di it. zolla (di zucchero, di terra, ecc.), il quale è la copia del medio tedesco Zolle ‘massa compatta (di sterco)’. 

   Per ora mi fermo qui, contento di aver esplorato una porzione sia pur minima di passato e di aver fatto una conoscenza più stretta e cordiale con molte persone, pardon, parole che ci ammiccano sornione da tanto lontano!


Ps.

   La tenacia, testardaggine, foga e persitenza che caratterizzano in genere la persona zëll-όsa ‘litigiosa, cavillosa, ecc.’ mi fanno pensare che questa voce si sia molto probabilmente incrociata col gr. zẽl-os ‘ardore, zelo, gelosia, invidia’ e con il tardo lar. zel-os-u(m) ‘pieno di zelo’.  Epperò anche l’it. regionale-meridionale  tigna vale ‘cocciutaggine, testardaggine’. Come possiamo spiegarlo? Pensando che questa voce abbia assunto questo valore agendo, come  dire, per simpatia  sotto la spinta dell’altro termine omosemantico zélla ‘tigna’ e ‘litigio, cavillo, ecc.’?.  Mi pare di no.

    Il fatto è che il lat. tine-a(m) ‘tigna (malattia del cuoio capelluto)’ a mio avviso ha una radice tin-e- che dovrebbe corrispondere a quella di lat. tenu-e(m) ‘tenue, sottile, esile’, ingl. thin ‘sottile, raro, ecc.’, ted. dünn ’sottile, raro, ecc.’. Ora, questa sottigliezza deve essere conseguenza di una tensione, ben evidente nel verbo latino corradicale ten-d-ĕre ‘tendere, dirigersi, sforzarsi di, applicarsi, ecc.’. La lettera –d- non è altro che un ampliamento della radice. Anche il lat. ten-ēre ‘tenere’ è formato da questa radice che indica la ‘tensione (magari del braccio) verso qualcosa o qualcuno per contattarlo, prenderlo, sostenerlo, sorreggerlo, ecc.’ Ma poteva forse indicare anche la tensione esercitata nel tirare e strappare un capello (ecco la tigna!). Allora diverrebbe chiaro il significato del regionale tigna ‘testardaggine’ (tign-oso ‘testardo), in quanto esso dovrebbe scaturire da quello di ‘perdurare, continuare, persistere (in una medesima condizione)’.

    E non ci inganni il fatto che la radice lat. ten- ‘tendere’ appare nella forma tin- solo in sillaba interna come in ob-tin-ēre ‘ottenere, tener fermo,ecc.’, in abs-tin-ēre ‘tener lontano, astenersi’, ecc. Questa può essere una regola intervenuta nella lingua successivamente alla sua situazione iniziale, in cui la radice tin-poteva essere usata anche in altre condizioni, come sembra suggerire l’ingl. thin ‘sottile’ di cui sopra e anche l’ingl. tin-y ‘minuto, molto piccolo’ . 

   Il lat. tin(n)-ire ‘risuonare, squillare’ e lat. tin-tin(n)-ire ’squillare, tintinnare’ per tutti i linguisti sono parole chiaramente onomatopeiche: ma io che non credo in essa, come abbiamo visto in altri articoli, considero la radice come espressione della tensione che anima il suono.  D’altronde l’it. ten-tenn-are, considerato metaforico rispetto a  lat. tin-tin(n)-are, tin-tin(n)-ire ‘tintinnare’, è a mio avviso  solo il significato concreto, e tra gli originari della radice, che indicava il vacillare e lo scuoter(si)  di qualcosa o qualcuno: un muover(si) e un agitar(si), dunque, espressione anch’essi  di una tensione. 

   A me sembra, inoltre, che quando in italiano usiamo l’espressione: Quanto viene (quanto costa)?, rivolta ad un commerciante o venditore ambulante o a chicchessia, noi stiamo usando indebitamente una voce del verbo it. venire, ma molto tempo fa, quando l’italiano era di là da venire, quella stessa voce apparteneva al verbo latino testè indicato ven-ire ‘essere messo in vendita’, sicchè tutta l’espressione suonava: quanti venit? ‘a quanto è venduto?', cioè ‘quanto costa?’.  E’ certamente sorprendente la Lingua!

    Un’ultima osservazione, e poi mi taccio. Esiste l’uso popolare e volgare di it. venire, nel significato di ‘raggiungere l’orgasmo’.  Anche qui il verbo it. venire funge da mascheramento del significato sessuale, ma senza che ci sia stata la volontà espressa di farlo, da parte del parlante: egli si è solo approfittato opportunamente di qualche coincidenza: questo venire, infatti, nel senso sessuale, credo che risalga a qualche verbo volgare e popolare nientepopodimeno che  della stessa radice di lat. Ven-us ’Venere’, dea romana dell’amore e della fecondità naturale. Tanto è vero che il suo nome era anche sinonimo di piacere dell’amore, accoppiamento.  Il lat.venus-tat-e(m), oltre a ‘bellezza, leggiadria’ significava anche ‘piacere, gioia’. Ancora, il lat. veni-a(m) indicava il ‘favore, la grazia’ concessa dagli dei e magari da una donna. 

    E così siamo finiti in bellezza! Deo gratias!





[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A.Polla Editore, Cerchio-Aq, 2004.

[2] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà, grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

[3] Cfr. D. Bielli, cit.

[4] Cfr. G. Devoto, Dizionario etimologico, Edit. Felice Le Monnier, Firenze, 1968, sub voce “dare”.

[5] Cfr. Bielli, cit.

[6] Cfr. Q. Lucarelli, cit.