sabato 27 luglio 2019

Il verdetto







Il famoso matematico, e non solo, Piergiorgio Odifreddi nel tentativo di spiegare cosa possa significare il termine verità (lat. veritat-em, da lat.ver-um ‘vero’) cerca giustamente (in un video  intitolato Che cos’è la verità) gli etimi delle parole che in alcune altre lingue, oltre al latino, indicano la ‘verità’. Non che l’etimo debba essere considerato la via maestra  per definire l’essenza di un “concetto” ma esso comunque può darci una valida mano in tal senso, anche se spesso è disturbato dall’incrocio con altre radici simili, di cui magari si è persa persino la traccia.

   Il matematico teorizza su quella che a lui appare come evidenza, cioè sul fatto che i romani consideravano verità quella demandata al giudice che esprime la sua  sentenza: il ver-detto, espressione di ascendenza latina tramite l’inglese, sarebbe appunto il giudizio della giuria che si esprime secondo verità. Ma qui, a mio parere, c’è un grosso fraintendimento. Il latino vere dic-ere ‘pronunciarsi (dic-ere) secondo verità (vere) si è, credo, sviluppato  da un precedente verbo tautologico *ver-dic-ere che esprimeva solo l’azione del ‘dire’ in ambo i componenti, di cui il primo, ver-, si ritrova ampliato nel lat. ver-b-u(m) ‘parola’ e, con diverso ampliamento, nel ted. Wor-t ‘parola’, ingl. wor-d ’parola’.  La radice protoindoeuropea è were ‘parlare, dire’.  Insomma l’originario significato dell’espressione latina  vere dictum <*ver-dictum doveva essere semplicemente ‘pronuncia’, termine quest’ultimo che giuridicamente vale proprio ‘sentenza, verdetto’. In greco la parola díkē, apparentata con la radice di lat. dic-ere, aveva assunto diversi significati giuridici come ‘processo, sentenza, verdetto, giustizia’. E’ chiaro che la confusione è nata quando si è verificato l’incrocio col lat. ver-u(m) ‘vero, reale, autentico, sincero, ecc.’, tutto da comprendere nel suo valore etimologico.  In tedesco si ha wahr ‘vero’, una variante della forma latina.

   I più accostano la radice ver- al termine dell’a. slavo  vera ‘fede’ da cui il significato di ‘cosa meritevole di essere creduta’, una cosa a cui  insomma va tutta la nostra fiducia.  Ma questa definizione mi sembra un tantino artificiosa e pertanto preferisco l’altra di chi chiama in causa l’island. vera ‘esistenza’, svedese vara ‘esistenza’ e intende l’aggettivo latino come ‘rispondente alla realtà’.  Sarebbe dunque “vero” quello che ha le caratteristiche di cose veramente esistenti. 

   Infatti anche l’aggettivo it. reale (proveniente da lat. rem ‘cosa’) ha il significato regionale (toscano) di ‘schietto, franco’, valori questi, che sono assunti  sovente dall’it. vero. Anche nel mio dialetto di Aielli l’aggettivo riàlë, riferito a persona, valeva ‘schietto, sincero, leale veritiero’. Allora, a pensarci bene, anche il concetto di “fede”, espresso dall’ a. slavo vera ‘fede’, può rientrare in quello di “lealtà”: la lealtà e la fede sono le qualità di chi rimane saldamente   legato a qualcuno o qualcosa, rivelando la solidità propria della realtà delle cose. Anche l’ingl. true ‘vero’ e talora ‘fedele’ fa capo ad una radice indoeuropea *deru ‘essere fermo, solido’ presente anche nel lat. dur-u(m) ‘duro’ e naturalmente nel ted. treu ‘fedele, sicuro, preciso’. Il concetto di “fedeltà” e di “verità” si incontrano in quello di “stabilità, costanza”.  
  
    Concluderei quindi asserendo che il concetto di “verità”, che per noi ha assunto un’aura astratta proprio perché manca di un sicuro aggancio, nella coscienza del parlante, a qualcosa di concreto,  quasi certamente invece era sinonimo di realtà. A me pare anche che il lat. veri-fic-are ‘provare come vero’ in realtà significasse all’origine tautologicamente solo ‘provare, produrre, sperimentare’ dovendo il primo membro veri- essere ricondotto alla radice che significa ‘esistere’ e, con valore causativo, ’far esistere’.  L’it. verificarsi, poi, non significa propriamente un ‘farsi vero’ ma semmai un ‘farsi, esistere, venire alla luce, accadere, succedere’. 

  Il matematico Odifreddi analizza anche la parola greca alḗtheia ‘verità’ dandone una lettura piuttosto singolare come ‘qualcosa che non si dimentica’[1] e associandola,  a suo dire,  alla verità matematica immutabile, non a quella scientifica che sarebbe di un gradino inferiore all’altra. E questo è vero, cioè il fatto che la scienza non è così credibile come la matematica.  La scienza è sempre una conoscenza superiore a quella  della gente comune, ma comunque ormai abbiamo capito, dopo Einstein,  che le sue “leggi” non durano per sempre.

  La normale interpretazione di gr. a-lḗtheia ’verità’ parte dalla constatazione che la parola è composta dal prefisso alfa (a),  cosiddetto privativo (ha la stessa funzione di lat. in negativo), seguito dalla parola -lḗtheia che contiene un significato di ‘tenere o stare nascosto’: a-lḗtheia sarebbe quindi un alcunchè di “non nascosto”, cioè qualcosa di ‘chiaro, evidente, alla luce del sole’ e quindi di ‘vero’.  Il ragionamento di per sé mi pare accettabile, ma è un po’ strano il fatto che la lingua, nei primordi, pur avendo senz’altro a disposizione aggettivi e sostantivi relativi al concetto di “luce, chiarezza, certezza” si sia, come dire, impelagata in un’espressione che indica indirettamente la chiarezza e la verità da esprimere ricorrendo al concetto opposto di “non  oscuro” . Per la verità qui non si tratterebbe nemmeno del concetto opposto, ma di uno simile, quello di “nascosto” che ha assunto anche il significato di ‘dimenticanza’.
  
 A me sembra che ci sia sotto qualche incrocio che ha prodotto, in una fase linguistica posteriore a quella iniziale, questo modo un po’ artificioso di ragionare. Ne parlerò prossimamente, spero.



[1][1] A dire il vero, già il filosofo tedesco Martin Heidegger, verso la metà del XX sec. a più riprese parlò di questo termine che pare indicare qualcosa di ‘non nascosto’ o di ‘non dimenticato’. Heidegger  in sostanza tentenna circa il significato della parola greca la quale indicherebbe un ‘disvelamento’ delle cose che, secondo lui, non sarebbe ancora la piena verità.  L’usare un’ espressione negativa per la ‘verità’  comporterebbe una diminuzione della positiva verità.






lunedì 22 luglio 2019

Il verbo aiellese zërvëllà ‘mulinare velocemente in aria’.



Detto in genere di pietra scagliata con forza in aria e che magari procede sibilando, nel mio paese di Aielli-Aq, ai tempi andati della mia fanciullezza.  Il verbo mi fa l’effetto di un cimelio raro da conservare con amore. La /z/ iniziale è dolce o, altrimenti detto, affricata sonora. Non ho potuto riscontrarlo nei pochi vocabolari dialettali che posseggo, relativi a qualche paese della Marsica. Ma per fortuna l’ho riconosciuto, un po’ malconcio per gli anni, nella forma zarravullïà (con la /z/ dolce) del Vocabolario abruzzese di D. Bielli, spesso citato nei miei articoli.  I suoi significati sono due: 1) Andar gironi, di persona oziosa che girella;2) Il girare vorticoso degli oggetti menati in aria dal vento.

  Ai non addetti ai lavori questo verbo può sembrare non corrispondere a quello aiellese, ma alcune osservazioni faranno cambiare parere. La /e/ accanto alla lettera /r/ in parole arcaiche facilmente si trasforma in /a/ come nel nome proprio Sarrafìnë per Serafino o nel sostantivo tarramùtë per terremoto. Anche qui si ha allo stesso tempo il raddoppiamento della /r/.  Si ha inoltre, rispetto alla forma aiellese, il fenomeno noto dell’anaptissi (inserimento) della vocale /a/ tra tra la consonante /r/ e la consonante /v/.  La forma dialettale carëvόnë per carbone presenta, ad esempio, l’anaptissi della vocale evanescente /ë/ tra la /r/ e la /v/. Le altre variazioni sono facilmente comprensibili. 

   La forma aiellese zërvëllà ‘passare roteando in aria’ mi piace moltissimo ma non saprei dire perché. Certamente ha un sapore un po’ strano e per questo forse la adoro, come una donna diversa da tutte le altre, con una voce, uno sguardo e un modo di muoversi   particolare.  E’, come ho detto, un prezioso cimelio e per questo voglio che non vada perduto.

  Resta però da scovarne l’origine che non potrà essere latina, data anche la sua aria fortemente esotica che la rende ancora più irresistibile.

   Cara mia parola, è inutile che cerchi sorniona di nasconderti in ogni modo perché oltretutto sei giustamente gelosa della tua origine e certamente non ti abbassi  all’altezza di chiunque voglia coglierti nella tua intimità. Hai un carattere un po’ austero ed aristocratico  nonostante il suo risvolto talora un po’ sbarazzino e vivace. Io credo che tu sia sosia dell’ingl. swirl ‘girare, roteare, turbinare’, ma, date le tue piroette appositamente fuorvianti, sembra che io sia effettivamente fuori strada. E alla fine sarai sempre tu ad avere l’ultima parola, io non voglio affatto costringerti togliendoti antidemocraticamente la sacra facoltà di parlare e dire la tua.  Il sibilo connesso al significato del verbo aiellese credo sia un’acquisizione successiva dovuta all’incrocio con una radice swer diffusissima in area indoeuropea e significante ‘sibilo, suono, sussurro’ . Risparmiatemi l’elencazione delle diverse parole nelle diverse lingue che la contengono.

   Una improvvisa metatesi (scambio, spostamento) di una componente della  tua snella, sfuggente e sinuosa sonorità  ti ha trasformato prima in *srwil, quindi in *serwil e in ultimo in *zërvëllà per inserirti nei verbi della prima coniugazione latino-italiana.  Qualcosa di simile, per lo spostamento della /r/, è capitato al dialettale crumpà dall’it. compr-are. Fantastico è il duplice spostamento della /r/ e della /l/ nell’aggett. spagnolo peligroso ‘pericoloso’ dal lat. periculos-u(m).   Per il passaggio dalla sibilante /s/ iniziale all’affricata sorda si tenga presente l’olandese zwirrel-en ‘vorticare, mulinare’, l'abruzzese zézze o zìzze per 'mammella', varianti del dialettale sìse 'mammella',  l'abruzz. zëppόntë, variante di aiellese sëppόnda 'puntello, cuneo' dal lat. spond-a(m) ‘legno da letto, sponda’e l’abruzz. zëffunnà  ‘sprofondare mandare a fondo’, da una forma precedente sfunnà.

    

  

sabato 20 luglio 2019

La voce cerchiese currë




Il termine del titolo si riferisce ad un cerchietto ligneo con al centro un foro, e sul dorso un incavo, dove passavano fili di canapa, lino o lana allorchè era in auge l’arte domestica della tessitura, tanti anni fa. Per chi volesse rendersi conto direttamente e meglio dell’attrezzo può visitare il Museo Civico di Cerchio-AQ, allestito dall’antiquario Fiorenzo Amiconi.

    Questa è sicuramente un’altra parola la cui origine si perde nella notte dei tempi (10-20mila anni fa, e anche oltre), perché c’è da considerare che la sua radice indicante una rotondità, una spirale e simile, può essere ben antecedente all’invenzione dell’arte della tessitura e del telaio.

     A me pare evidente che la radice di currë è la stessa dell’ingl. cur-l ‘ricciolo, truciolo, spirale (di fumo)’e che sia imparentata con il lat. cirr-u(m) ‘ricciolo, ciuffo (sulla fronte)’, attraverso la pronuncia dentale del nesso ci-. La stessa parola ha dato origine al dialettale abruzzese zurrë ‘capelli disordinati’ o ciurrë ‘capelli in disordine, appiccicaticci’ come a Luco dei Marsi[1].  L’idea di “girare”, insita nella radice, è tutta presente nel verbo dialettale abruzzese[2] zurrià ‘frullare, di cosa che gira rapidamente; rammulinare, degli oggetti menati in aria da un nodo di vento; girellare, trottolare di bambini; girandolare, girellare in genere (non solo dei bambini)’.

    In inglese esiste anche il termine whorl  (da precedente hworl che rimanda a sua volta ad un *kworl con velare iniziale) il cui significato di’verticillo, spirale’  in sostanza è lo stesso di ingl. curl ‘ricciolo, truciolo, spirale’, ted. Quirl 'frullatore, frullino' e di ingl. whirl  ‘mulinello, turbine, vortice, vertigine’. Non è errato, a mio avviso, rivolgere lo sguardo anche all’it. ciurl-are se ciurl-òtto (nel dizionario etim. in rete del Pianigiani) vale ‘giro che il ballerino fa su un solo piede’.

  Nel mondo della lingua tutto si tiene, nessuno resta solo.
    



[1] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche CelliniAvezzano-Aq,, 2006.

[2] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla Editore, Cerchio-AQ.2004.

giovedì 18 luglio 2019

La serpa currë currë



C'è qualcuno che ricorda cosa significasse in passato ad Aielli "la serpa currë currë"? Io la sentii da ragazzo questa espressione ma non me ne rammento il significato. Nel dialetto avezzanese[1] essa significa 'abbondante urina che si sparge nel terreno compatto e che quindi avanza a zig-zag come usa fare il serpente'. Nel vocabolario abruzzese di Domenico Bielli "currë currë" significa, per celia, 'diarrea', ma anche 'impiccione, faccendone'. Ora è chiaro che il significato iniziale di tutta la locuzione doveva essere quello di qualcosa che 'procede più o meno lentamente, anche se la dia-rrea di solito è veloce; letteralmente però il suo etimo greco indica un 'procedere, scorrere attraverso (dià-), trasudare' senza altre determinazioni. Alcuni vocabolari ne danno l' etimo errato di 'scorrere velocemente o abbondantemente'. Il significato di 'impiccione, faccendone' sarà derivato da un senso antecedente, volto in negativo, di 'accorrere (per aiutare), interessarsi a qualcosa o qualcuno', incrociatosi, magari, col lat. cur-are ‘curare, amministrare, occuparsi’. La "serpa" corrisponde all'it. serpe, serpente, e questo fatto ha prodotto l'idea aggiuntiva del 'procedere serpeggiando'. Il serpeggiare , però,è una specializzazione di un primitivo significato, attestato in lingue ariane, di 'strisciare (procedere strisciando)' non necessariamente a zig-zag come fa il serpente. Il significato iniziale, che sta dietro l'espressione "currë currë" del Bielli e quella di Avezzano, così specializzata, è il semplice 'scorrere'. Non ci inganni l'it. "correre", che possiede in più la velocità nel procedere: il lat. per-curr-ere 'percorrere' dice, a chi sa aguzzare l’ingegno, che il movimento espresso da lat. curr-ere 'correre' inizialmente non era specializzato nel senso della velocità: si può infatti percorrere uno spazio lentamente o velocemente, a proprio piacimento. Et voila!

Tonino Maccallini, detto 'i rusce (il rosso)', vecchio pastore che si avvicina ai 90 anni di età, stasera mi ha gentilmente informato che con l'espressione "serpa currë currë" ad Aielli si indicava il  'fuoruscire del vino dalla botte' quando si apriva la  cannella per prelevarne un po'. Siamo quindi sempre nell'ambito del concetto generale e generico di "scorrere", come ho fatto notare prima. Questo della "serpa currë currë" è un caso da manuale e conferma, come vado sostenendo da molti anni, che dietro i vari e a volte diversissimi significati specifici che una parola o una locuzione possono di volta in volta, di dialetto in dialetto assumere, ce n'è sempre uno molto generico che li comprende tutti, fino ad arrivare a quello originario di "forza, spinta, anima, vita, ecc.".

    Va da sé che espressioni come la serpa currë currë possono a volte acquisire, in qualche dialetto, il valore aggiunto di espressioni scherzose senza che originariamente fossero tali, quando, ad esempio, la voce serpa non indicava il ‘serpente’, ma il semplice ‘strisciare, scorrere’.




[1] Cfr. Buzzelli-Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese,(senza indicazione dell’editore),Avezzano-Aq,  2002.

mercoledì 10 luglio 2019

Bocca di lupo.






Nel linguaggio marinaresco la bocca di lupo è un tipo di nodo scorsoio, come ho già fatto notare nell’articolo In bocca al lupo! Crepi! ripubblicato nel mio blog nel giugno scorso.  Lì la bocca di lupo la riferivo, secondo il mio ragionamento, alla cavità del laccio teso ad intrappolare qualche animale di passaggio: il lupo lo spiegavo come connesso all’ingl. loop ‘noto scorsoio’ di cui la bocca pensavo fosse, tautologicamente, la cavità.  Ma in realtà dietro il termine bocca si nasconde altra parola inglese, e cioè bow ’arco’ da ant. ingl. boga ‘arco’, simile formalmente a it. bocca. Lo attesta, senza ombra di dubbio, il composto ingl. bow tie ‘farfallino, cravatta a farfalla’ in cui tie vale ‘nodo’ e bow ugualmente ‘nodo’. Infatti ingl. bow indica di solito l’arco, o qualche oggetto sinuoso come la cravatta a farfalla, ma anche un looped knot ‘nodo (knot) scorsoio (looped)’. 

   La radice di ingl. bow ‘arco’ è quella di ted. bieg-en ‘piegare’. In altro articolo la abbiamo vista operare in diverse parole italiane o dialettali.  Il fatto che in inglese il significato di ‘nodo scorsoio’ di bow  appare un paio di decenni dopo il 1500 non vuol dire granchè: le parole, come ho notato altrove, a volte dormono sonni lunghissimi all’ombra di qualche oscuro dialetto, per poi esplodere improvvisamente con un’aria di falsa novità. 

   L’espressione bocca di lupo ricorre in italiano ad indicare in genere un passaggio, una cavità, un cunicolo, un’apertura, a seconda dei contesti: siamo sempre nell’ambito del concetto di “cavità, rotondità” connesso con l’ingl. loop ‘nodo scorsoio, avvolgimento, apertura’. Cfr. il composto tautologico loop-hole ‘feritoia’ in cui è il valore di buco, apertura a farla da padrone nei due membri, anche se loop nell’inglese storico sembra prediligere il significato di ‘avvolgimento, cerchio, anello’.

   Nell’it. bocca-porto si ripete lo stesso cliché con l’idea fondamentale di “passaggio” nei due membri.

  Vi sono poi quelle sottili differenze etimologiche tra il mio modo di spiegare le parole italiane o dialettali apparentemente derivanti  da bocca e quello dei linguisti.  L’it. boccola, it.  boccolo non possono essere riportati spensieratamente a bocca senza riflettere che fondamentale è il significato di ‘avvolgimento,  cerchio’ che opera nella radice di ted. bieg-en ‘piegare’, ted. Bogen ‘arco’,  ingl. bow ‘arco’ e nell’abruzz. vùcch-ëlë ‘campanella per tirare l’uscio’.  Il bocch-ino (per fumare le sigarette, od altro tipo) non deve la sua esistenza ad una supina derivazione da bocca, ma dal concetto di “cavità, cunicolo, passaggio’ e quindi di “cannello” (ma, se possibile, senza l’intervento del significato specifico di ‘canna’) proprio della radice, indipendentemente dal significato specifico di ‘bocca’, la quale in superficie è cosa molto diversa da bocch-ino.  Anche il significato volgare di questo termine (‘fellatio’) deve prendere le distanze da bocca, perché in questo senso il bocchino è qualcosa di diverso dalla bocca, anche se l’atto sessuale che indica si realizza attraverso la bocca: me lo fa capire la voce del dialetto di Trasacco[1] che suona vùcchë  ‘sorso di acqua o di vino’.  Il bocch-ino volgare è quindi null’altro che un ‘sorso’, una ‘succhiata’, come volevasi dimostrare e come poteva già farci supporre l’altro termine volgare con cui si indica, pompa o pomp-ino.  Non chiedetemi l’etimo, perché purtroppo non lo so. So solo che la radice potrebbe indicare, nel fondo, l’azione di spingere, far scorrere se si assimila all’aiellese vuccàta ‘folata, raffica (di vento)’ oppure  ‘ondata (d’acqua)’.  Anche il verbo vuccà[2] signfica ad Aielli ‘spingere, dirigere con energia verso un luogo’. Il fr. vague ‘onda’ nonché il ted. Woge ‘onda’ confermano l’idea di “movimento, spinta”.

    Il sunnominato termine aiellese vuccàta ‘folata’ mi fa supporre che esso sia imparentato con la radice di ted. weh-en ‘soffiare’ ma anche ‘trasportare’ detto, per inevitabile specializzazione, del vento, parola che usa, in forma participiale (*we-nt), la stessa radice ma senza l’ampliamento in *wegh-.    A mio avviso il soffio del vento e il portare o trasportare si incontrano nell’idea di spinta.  Il vucchë ‘sorso d’acqua o di vino’ di Trasacco prsenta anche l forma diminutiva vucch-ìttë ‘sorsetto, goccetto’ ma anche ‘bocconcino, bolo’.  Ci risiamo! Che non ci venga in mente di riportare il termine a bocca!  Un bocc-one a mio parere trova la sua origine nel significato di ‘zolla, globulo, massa compatta, palla, rotondità, ecc.’ e credo che richiami anche l’ingl. wedge ‘cuneo’ (cfr. medio olandese wegge) ma pure ‘zolla, tozzo’.  Ogni parola è un centro di attrazione di molti altri termini e significati.  Nella Lingua nulla è isolato sincronicamente e diacronicamente. 

Pë mmό  dë ppiù nën zaccë.

 Adelante, Pedro, con juicio!
  





[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

[2] Cfr. G. Gualtieri, La crestonta, Edizioni dell’Urbe,Roma 1984






lunedì 1 luglio 2019

Ancora parole di struttura greca nei nostri dialetti




L'aiellese 'ncacàsse non mi pare presente in altri dialetti della Marsica, ma quasi sicuramente mi sbaglierò: in qualcuno di essi potrebbe incontrarsi. Sembra un banale e brutto verbo,  tratto da cac-arsi col prefisso in-, ma non è così. Il significato che pressappoco è 'diventare indolente, inetto, incapace' mi sorprende, e non poco, perchè punta dritto con la sua radice cac- al notissimo aggettivo greco kak-òs dal valore generico di 'cattivo (di carattere)' ma anche 'privo di buone qualità, inabile, inetto'. Esso non credo ci pervenga dal greco storico ma molto prima, probabilmente dalla preistoria. L'aggettivo dovrebbe essere noto anche alla maggior parte degli italiani, pur se poco acculturati per quanto riguarda le lingue. Esso costituisce infatti, ad esempio, il primo membro del termine dotto caco-fonia 'espressione composta di suoni piuttosto aspri, stridenti', preso direttamente dal greco storico. La lingua non finisce mai di stupire!

   Caca-mèlë è un’altra voce dialettale, in genere aggettivo ma anche sostantivo, che ho talora sentita anche ad Aielli, ma credo sia di importazione da qualche altro paese marsicano, come Luco dei Marsi o Avezzano, dove effettivamente è attestato. Il suo significato superficiale e letterale sarebbe caca-miele, ma se così fosse realmente dovrebbe indicare qualcuno che parla con dolcezza, che usa modi melliflui e sdolcinati per natura o, piuttosto,  per secondi fini, più o meno subdoli.   Ma le definizioni che se ne danno a Luco dei Marsi[1] (insulso) e ad Avezzano[2] (aggettivo spregiativo attribuito a persona di scarsa personalità, insignificante) non lasciano scampo: l’espressione viene riferita a chi non ha affatto le qualità per svolgere una qualsiasi attività, o che manca di qualsiasi requisito per essere considerato un uomo sveglio, posato e affidabile.  A Borgorose-Ri, paese confinante con la Marsica nord-occidentale, cacamèle significa 'persona indifferente, che non reagisce'[3]. Una specie di disutilaccio, insomma.

   Secondo me qui siamo di fronte ad un composto tautologico, di origine preistorica, nel cui primo membro riappare il gr. kak-όs ‘vile, inetto, incapace’ citato sopra, e nel secondo membro il gr. méle-os  ‘vano, ineffettivo, nullo, misero, infelice’.  In greco il miele era chiamato méli, in lat. mel.  Nei nostri dialetti esso suona mèlë; non esistono altre voci con cui poteva confondersi il gr. méle-os ‘vano, nullo, ecc.’ tranne la parola mélë ‘mele’, ma un composto del tipo caca-mélë  sarebbe stato incomprensibile e inaccettabile. Il dialettale caca-mèlë (cacamiele) avrebbe potuto significare, come abbiamo detto sopra, ‘mellifluo’ e forse in qualche dialetto potrebbe essersi verificato, se si considera che un uomo incapace, essendo consapevole della sua triste situazione, potrebbe talora cercare di sviluppare capacità lusingatrici e insinuatrici per sopperire in qualche modo alle sue deficienze. 

  Un altro aggettivo abruzzese suggella bellamente quanto detto sopra sul significato dispregiativo-negativo della radice cac-. Esso è cacca-vànnë[4] che significa ‘andato a male nella covatura’, detto di uovo.  Il secondo membro –vànnë , che ripete tautologicamente il significato del primo, è il lat. van-u(m) ‘vano, vuoto, inutile, vanesio, ecc.’.  In questo caso non bisogna pensare che un aggettivo della radice cac- uguale a quella di gr. kak-όs ‘cattivo, inutile, vano, ecc.’ si sia unito  all’aggettivo lat. van-u(m) su suolo italico: presumibilmente lo sposalizio avvenne in tempi preistorici, chissà dove. Ma perchè altri, anche più acculturati di me, non ci sono arrivati? E' altrettanto semplice: nessuno, che io sappia, ha mai parlato di composti tautologici, con lo stesso significato nei due membri. Di conseguenza, dinanzi a questi composti al massimo tentano di cercare un significato passabile che si accordi con quello indiscutibile di cac-are 'andare di corpo' e simili. In questo modo non potevano arrivarci mai, e così è stato. Questo composto cacca-vànne ci dice anche un'altra cosa importante: l'unione dei due membri è avvenuta non quando, ipoteticamente e casualmente, il termine greco si è incontrato con quello latino, ma semplicemente perchè essi erano a portata di mano per chi doveva comporre un aggettivo di quella natura. La tautologia è una risorsa importante nella formazione delle lingue, che altrimenti avrebbero dovuto accontentarsi di soli termini monosillabici, insufficienti per una completa descrizione della realtà fisica e psichica. Credo di aver capito perchè si è verificato il raddoppiamento della /c/ in cacca- e della /n/ in -vanne. Sempre in abruzzese vannine significa ‘puledro’, sicchè tutta l'espressione poteva assumere il significato superficiale di 'cacca di puledro' che risponde poco alla realtà dell'uovo non schiuso nella covatura, ma dà comunque un valore spregiativo al termine.

  Leggo, sempre sul Bielli, l'aggettivo caca-sìcche 'cacastecchi, magruzzo, scheletrico, secco stecchito'. L'aggettivo, dunque, indica chi è veramente magro, secco ma non mi convince la spiegazione che credo se ne dia: esso indicherebbe uno che mangia talmente poco che, di conseguenza, caca secco. Questa spiegazione non regge, per il semplice motivo che si può cacare secco perchè si è stitici, non perchè non si mangia granchè. Quando si è convinti di questo, si è costretti di conseguenza a guardarsi intorno cercando in altre lingue, per vedere se si possa uscire dall'impasse. Ed ecco venirci incontro il gr. sikkh-òs 'delicato, che non può mangiare tutto, che ha disgusto, nausea (per il cibo)' incrociatosi con l'it. secco (magro). Allora il più è fatto. Per me anche l'ingl. sick 'malato, nauseato, disgustato' rientra in questo concetto. il verbo to sick 'vomitare' indica la stessa cosa di ingl. keck 'vomitare', di ingl.dial. cack 'vomitare' per cui un composto *caca-secco avrebbe potuto benissimo significare anche 'disgustato, nauseato. In alcuni dialetti del meridione, però, caca-sicche significa 'tirchio, tirato'. Io credo che questo significato sia derivato da quello precedente di 'magro, stecchito' giacchè dall'idea di "magro, scarso " deriva anche quella di "parsimonioso" dalla quale, in senso dispregiativo, può svilupparsi l'idea di “tirato, stretto, tirchio”. Gesummaria, che sorta di intrigo di cui però di può ritrovare, con pazienza, il bandolo!

  





[1] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.

[2] Cfr. Buzzelli-Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese, (senza indicazione dell’Editore), Avezzano –Aq, 2002.
[4] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.