sabato 30 maggio 2020

Non abbiamo ancora abbandonato il paganesimo. L’aiellese oddìa! lo dimostra.




                  

    Già altra volta ho avuto modo di parlare del nostro dialettale oddìa! ‘oddio!’ che ricorre anche a Trasacco-Aq, a Villetta Barrea-Aq. (udìa!), ecc. Io sono del parere che esso non è uno storpiamento dell’it. Dio ma l’accusativo del gr. Zéus ‘Zeus, Giove’, come nell’espressione greca nDìa ‘sì per Zeus’.  Ad Aielli si incontra anche la forma oddi’! che mi sembra però un’italianizzazione della precedente; esisteva anche la forma uddé! (la sentivo talvolta da mia madre) la quale rimanda al lat. deus ‘dio’, nominativo o vocativo. Il Dìa quindi non può essere da lat. deu(m) ‘dio’.  Inoltre anche la formula di saluto it. addio!, sempre ad Aielli, era  addìa!, anche se solo per significare  la perdita di qualcosa.

   Ma c’è di più. Interessantissima è ad Avezzano-Aq l’interiezione oddié![1] (accanto a oddì’) che non può derivare da fr. Dieu ‘Dio’ in quanto sempre ad Avezzano l’it. Dio fa normalmente Di e non si può sostenere alla leggera che un’espressione così intima e personale sia stata mutuata da una lingua straniera[2].  Allora deve per forza trattarsi della forma che sta dietro il gr. Zéus ‘Giove’< *Diēus, sscr. Dyāus ‘Giove’, e il lat. Diēs-piter ‘Giove Padre(-piter)’. Il nome Zéus aveva diverse varianti dialettali  anche nel greco, tutte riconducibili comunque, come del resto il lat. de-u(m)’dio’, alla radice indoeuropea per ‘cielo, giorno’, da cui anche il lat. di-e(m) ‘giorno, dì’.  Molto probabilmente la forma oddié! è il risultato del troncamento di tutto quello che segue l’accento tonico nell’invocazione latina oh Dies-piter! > oh Dié-!, come succede quando si chiama qualcuno, ad esempio o Pié-! (Pietro), o Luì-! (Luigi), o -! (Nestore).

    Sulla base dell’avezzanese oddié! ‘oddio!’ si potrebbe anche supporre una derivazione dell’aiellese- trasaccano oddìa! ’oddìo!’ dalla forma simile al sanscrito Dyāuș-pitŗ ‘Zeus Padre’ incrociatasi con l’accusativo gr. Dia ‘Zeus, Giove’. Tutte forme molto simili a quelle latine appena precedenti la fase storica rappresentata da lat. Iu-ppiter ‘Giove padre’ e lat. Iov-e(m) ‘Giove’, rispettivamente da *Diu-piter e *Diuv-e(m).

    Quando si passa da uno strato religioso-culturale ad un altro, non può succedere mai che il precedente venga completamente cancellato: anche senza accorgercene, infatti, tratti chiaramente appartenenti alle civiltà anteriori rispuntano sempre, magari senza dare troppo nell’occhio.    



[1] Cfr. Buzzelli-Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese,, (senza Editore) 2002.

 

[2] Ho saputo che la forma “oddié “ ricorre anche a Luco dei Marsi-Aq. 

    



sabato 23 maggio 2020

L’urogallo e l’aurora. Come la Lingua inganna i suoi utenti.



   

    Ho iniziato la ricerca linguistica sull’urogallo cercando la voce nel vocabolario italiano di Devoto-Oli, dove ho letto che si tratta di “nome volgare degli uccelli appartenenti al genere Tetraone”.

   Il detto vocabolario, però, dando l’etimologia di uro-gallo, rimanda espressamente, per il primo membro uro-, al gr. ourá ‘coda’ volendo così intendere che la diffusione del nome volgarmente si è avuta a partire dal nome scientifico della nota tassonomia del Linneo (metà del sec.XVIII) dove appare l’espressione latinizzata tetrao uro-gallus . L’urogallo in effetti, altrimenti noto come gallo cedrone, è diffuso in zone montuose o selvatiche dell’Europa e dell’Asia, e il maschio ha una vistosa coda arrotondata, spesso aperta a ventaglio.

   Ora, però, è noto che il Linneo latinizzava spesso termini già in uso in qualche parlata locale, e qui si deve trattare proprio di questo, nonostante l’ostacolo rappresentato dal nome dell’animale  che potrebbe soddisfare una definizione scientifica fatta a tavolino di un gallo con una coda vistosa .  E lo dimostro. 

    In tedesco ricorre il composto Auer-hahn ‘urogallo, gallo di montagna’: anche qui si è avuta la diffusione della parola scientifica linneana uro-gallus? Non credo, anche perché contemporaneamente, l’eventuale diffusore della parola scientifica, dovette fare pure la traduzione in tedesco del –gall-us latino, e cioè ted. Hahn ‘gallo’. Ma è mai possibile che in quella lingua non esistesse un termine tradizionale, che pure avrebbe dovuto esserci, relativo all’urogallo? E sì che esisteva! Era proprio Auer-hahn! La cosa è certissima in quanto esiste in Germania la famiglia nobiliare Auer-hahn[1] il cui nome risale al sec.XIII (molti secoli prima della classificazione del Linneo) e rimanda al medio alto tedesco ûr-han, or-han ‘urogallo’.  La Lingua ricorre a tutti gli stratagemmi pur di sviare le indagini su di lei! In tedesco si incontra anche auer-ochs ‘uro, bue selvatico’ che è l’ur-u(m) ‘uro’ di Cesare e altri+ il ted. ochs ‘bue’. Probabilmente la parola aveva nel fondo il significato di ‘animale’, in ciascuno dei suoi due membri tautologici.

   Ma il vortice degli inganni non finisce qui, perché è ben più profondo e vertiginoso.  Nel sanscrito si incontra il composto usa-kala ‘gallo’, letter. ‘che canta (-kala, la stessa radice di gr. kalé-ein ‘chiamare’, lat. cla-m-are ‘gridare, chiamare’)  all’alba (usa-), cfr. gr. éōs = alba, aurora’.  

    Il fatto è, però,  che usa-kala significava anche ‘alba’ perché molto probabilmente dietro il secondo membro –kala si nascondeva una radice tautologica originaria per ‘alba’, apparentata senz’altro con altra radice per ‘forza vitale, anima, animale’.  Anche il primo membro usa-, rispondente chiaramente al gr. éōs ‘alba’, doveva essere aperta a significati quali ‘forza vitale, anima, animale’,  sicchè l’intero composto poteva prestarsi, e si prestò, ad indicare un animale, l’uro-gallo (la coda non c’entra!), appunto con il primo membro che subì il fenomeno del rotacismo us-/ur-, verificatosi nel latino e in altre lingue, come in alcune di quelle germaniche.  L’italiano uro-gallo, allora, non è altro che il sanscrito usa-kala ‘gallo’ restituito alla sua natura profonda di animale (con o senza coda).

     Abbiamo d’altronde già visto[2] come l’abruzzese cal-ina ‘scintilla’ sia diventato caglin-ella ‘lucciola’ in quel di Pisoniano-Rm   trasformandosi, non per virtù di pratiche magiche come pensa l’Alinei ed altri, ma per il semplice motivo che la voce cal-ina è andata a costituire l’anima, non solo della lucciola ma  evidentemente anche della gall-ina.  Esiste in greco (non l’ho trovato nei vocabolari ma in una dispensa universitaria: sarà una glossa) il composto ēï-kan-όs ‘gallo’, inteso letter. come ‘che canta (-kan-os) all’alba (ēï-, da éōs ‘alba’)’.  L’elemento –kan-όs è, secondo me, il ted. Hahn ‘gallo’ ma non in quanto ‘cantore’ bensì in quanto ‘animale’, simile quindi al lat. can-e(m),fr. cane ‘anatra femmina’, fr. can-ard ‘anatra’. Ma  l’elemento –kan-όs poteva benissimo unirsi al precedente nel significato possibile, se pur non attestato, di ‘alba’: basta pensare all’aggett. lat. can-u(m) ‘bianco’.  La forma non rotacizzata del primo membro di usa-kala ‘gallo’ credo si ritrovi nel termine augurale latino os-cen, genitivo os-cin-is ‘uccello augurale’. Il secondo membro richiama l’ingl. hen ‘gallina’, variante del succitato Hahn ’gallo’.

   Come si è visto nel mio articolo citato anche il lat. galli-cini-u(m) poteva indicare il ‘canto del gallo’ ma anche l’ ‘alba’ e non per metafora.  La Lingua era, all’origine, una formazione aperta, anzi apertissima, sia per quanto riguarda il significante, sia per il significato: solo così poteva avere, per virtù naturale, quella incredibile e meravigliosa duttilità pronta a dar vita a questo o quel concetto.  La Lingua non è nata come un insieme di concetti particolari fin dall’origine, ma come fucina di ogni concetto possibile in ciascun tratto di sonorità.

Dimenticavo di dire che anche il lat. aur-or-a(m) ‘aurora’ proviene da una precedente forma *aus-os-a(m) con una radice raddoppiata aus-os, us-os (gr. éōs ‘aurora’).

 

    

 



[2] Cfr. il mio articolo Le sviste di personaggi i

 

    








[2] Cfr. il mio articolo Le sviste di personaggi importanti […] presente nel blog pietromaccallini.blogspot. com(10 dic. 2019.




venerdì 22 maggio 2020

Il mito del centauro Folo.




     Per caso mi sono imbattuto , navigando in internet, nel mito del centauro Folo (gr. Phόlos) che conoscevo già ma su cui non avevo riflettuto linguisticamente, ed ho potuto constatare che, come avviene per tutti gli altri miti, esso si può considerare un prodotto di incroci di vocaboli avvenuti nel corso dei diversi millenni che ci sono voluti perché esso nascesse e si sviluppasse, con la complicità di  forme allotropiche dialettali, poi magari cadute dall’uso.

    Il centauro viveva in un grotta del monte Foloe (gr. Pholόē) in Arcadia, secondo qualcun altro sul monte Pelio in Tessaglia. Il nome del monte risalirà a mio parere ad un radice per altura, mentre il nome del centauro molto probabilmente deriverà dalla natura animale del centauro (essere mezzo uomo e mezzo cavallo) come fa supporre, in questo caso di Phόl-os, la parola greca simile pôl-os ‘puledro, cavallo’ (cfr. ingl. foal ‘puledro/a, ingl. filly ‘puledra’, lat. pull-um ‘piccolo animale, germoglio’, lingua rom filo ‘puledro’): il fonema iniziale di Phόl-os, cioè /ph-/ era in greco un’aspirata, come è ben messo in rilievo dalla grafia latina, e non una spirante /f/.  Qualcosa di simile avviene oggi in inglese nella pronuncia delle occlusive sorde in principio di sillaba, che dà vita ad un tratto ridondante subfonematico caratterizzato da un leggero soffio.  Il mito, dunque, ci attesta a mio parere una forma allotropica non più presente nel greco storico.  A meno che non si voglia pensare all’azione della etimologia popolare che facilita le cose.

   Phόl-os  viveva dunque in una grotta, e starei per dire che non poteva essere diversamente, data la presenza, in greco, del termine phōle-όs (anche se con l’omega in prima sede) ’buco, covo, tana, grotta, cavità’, dalla radice indoeuropea bhol- (cfr. ingl. bowl ‘ciotola, tazza, cavità, boccia’, parola che spiega divinamente anche il tratto del mito in cui il centauro Phόl-os solleva una coppa o cratere per lanciarlo contro i Lapiti (cfr. P. Stazio, Tebaide 2, 563); e spiega divinamente anche l’altro tratto del mito che vuole che Pholos, dopo la sua morte, fosse stato assunto in cielo, secondo qualche mitologo, a formare la costellazione Cratere, come ricompensa per la sua ospitalità e in ricordo della sua coppa o giara di vino.  Ma secondo altri mitologi egli sarebbe stato incluso, naturalmente, nella costellazione del Centauro.

    Se si fa attenzione al fatto che i cen-tauri (che nel nome avevano incluso il termine per toro oltre probabilmente a quello simile al cane) erano rappresentati più spesso come caproni (cfr. R. Graves, I Miti Greci, p. 439, n.3) che come cavalli e che il gr. phόly-s  indica un ‘tipo di cane’, non si può essere lontani dal vero se dietro questa radice mettiamo un significato più generico ancora, quello di ‘animale’,come fa intravedere anche il lat. pull-u(m) con la sua polisemia che va dal virgulto vegetale, a quello animale (di tutti gli animali). A mio parere questa radice ha, a monte, quella del gr. phý-ein ‘generare, nascere, germogliare, crescere, essere’. 
 
   Mi rendo conto che questa mia visione del fatto linguistico potrebbe essere un terremoto per i linguisti e distruggere quasi tutti i loro principi, ma ciononostante credo che essa, la mia visione, sia perlomeno degna di essere discussa senza pregiudizi.  
  

sabato 2 maggio 2020

Il solstizio


                                  

    Il termine solstizio astronomicamente indica i due momenti dell’anno in cui il Sole raggiunge la massima declinazione dall’equatore celeste, determinando il giorno più lungo in un emisfero e contemporaneamente la notte più lunga nell’altro.  Ci sono due solstizi, uno estivo (pressappoco 21 giugno) e l’altro invernale (pressappoco 22 dicembre).  In latino la parola era sol-stiti-u(m) composta da sol- (lat. sol-em ‘sole’)  + stit-iu(m) ‘fermata’ < lat. st-are ‘fermare, fermarsi’.

   In italiano il termine solstizio, con l’aggett. solstiziale, si riferisce quindi ad un momento particolare dell’apparente orbita del sole intorno alla terra, e indica un solo momento, lo ribadisco, quello del  passaggio da una stagione ad un’altra, fra la primavera e l’estate e fra l’autunno e l’inverno.  Però si dà il caso che in latino la parola sol-stiti-u(m) indicava sia il solstizio astronomico, sia l’estate, la calura estiva. Come mai? Per estensione del suo significato astronomico si dirà, che però indicava solo l’arrivo dell’estate.  Ancora più sorprendente è il significato dell’aggettivo lat. sol-stiti-al-e(m) che, oltre al significato, diciamo così, astronomico aveva normalmente il senso di ‘solare, estivo’ e addirittura ‘di piena estate’. 

    Ora, questi fatti non si spiegano secondo me con il ricorso all’estensione dei significati ma con fenomeni linguistici più diretti. Il termine dovrebbe essere composto di due membri tautologici, e cioè sol- + -stiti-u(m) , che qui sarebbe variante di stat-, presente in it. stagione < lat. stat-ion-e(m) che in molti dialetti significa ‘estate’ e simili, come abbiamo visto negli articoli La stagione e La stagione (seguito) di qualche giorno fa, presenti nel mio blog (aprile 2020).

   Esistono in italiano e nei dialetti forme come stizzo e stizzone, ricondotte dai linguisti all’it. tizzone < lat. titi-on-e(m) ma che invece erano a mio avviso autonome, derivanti dalla suddetta radice. 

   Il lat. sol-stiti-u(m) , inizialmente ‘sole, estate’ o qualcosa di simile, si incontrò con una forma del verbo st-are ‘fermarsi’ e si specializzò ad indicare appunto il momento astronomico del solstizio, ma, insieme all’aggettivo sol-stiti-al-e(m), non potè cancellare, anche i precedenti significati di ‘calore, calura estiva’, benchè nella coscienza del parlante dovesse essere ben chiaro l’apparente etimo legato al verbo st-are ‘fermarsi’.  

    E' vano credere che la lingua sia un meccanismo creato in vista dei concetti da esprimere: lo spirito si insinua in una materia data e la vivifica. La maggior parte dei filosofi della lingua ignorano questa concezione, e tuttavia nulla è più importante dal punto di vista filosofico[1].
   




[1] Cfr. F. de Saussure, Corso di linguistica generale Editori Laterza1976. (traduzione e commento di

T. De Mauro):
    



venerdì 1 maggio 2020

La subbia.





    Quando ero ragazzino passavo felice delle ore ad osservare un calzolaio al lavoro vicino a casa.   Nel nostro dialetto di Aielli-Aq, come in tanti altri (visto che il termine ricorre, sebbene raramente, anche in italiano), la subbia corrisponde all’it. lesina, forse di origine germanica.  Ma a Trasacco-Aq[1] indicava, oltre alla lesina, un punteruolo (come in italiano) a punta piramidale o quadrata, usato anche dai calzolai.  

   Si sa che i linguisti derivano questa voce dal latino su-bul-a(m) ‘lesina’, dal verbo lat. su-ĕre ‘cucire’.  Ora, questa derivazione potrebbe calzare per il significato di ‘lesina’, strumento per forare e cucire il cuoio,  ma sarebbe un po’ forzata per indicare la subbia, punteruolo usato in genere per sgrossare le pietre.  Si dirà che ciò si è verificato per estensione partendo dal significato particolare di ‘lesina’, vista la sua somiglianza con un punteruolo

   Io penso, invece, che il termine su-bul-a(m) non presupponga direttamente il verbo lat. su-ĕre ‘cucire’ ma che abbia molto da spartire, data la somiglianza appunto, con il lat. sib-ĭn-a(m), lat. sub-ĭna-a(m) ‘spiedo illirico da caccia’, gr. moder. soúbla ‘spiedo’.   Ora questi termini per ‘spiedo’, il quale non è in fondo che una punta,  possono essersi sviluppati certamente da una base su-, si-, se- coincidente con quella di lat. su-ĕre ‘cucire’, ammesso però che essa indicasse un ‘pungere’, ma nel contempo hanno mantenuto autonomamente il loro significato originario di ‘punta, protuberanza’.  Di conseguenza è a mio avviso antistorico partire da un significato particolare, specializzato, di ‘cucire’ per arrivare a giustificare anche quei termini che non indicano il ‘cucire’: ecco, la linguistica deve fare un passo verso l’universale e non verso il particolare: il lat. su-ĕre ‘cucire’ doveva forse avere all’origine il significato di ‘pungere’, che così veniva ad allinearsi con quello sottostante a ‘punta, spiedo’.


  Comunque sia, la mia idea è che il lat. sub-ul-a(m) ‘lesina’ non è affatto un diretto derivato dal verbo lat. su-ĕre ‘cucire’, e non va quindi segmentata in su-bul-a(m). La coincidenza casuale col lat. su-ere ‘cucire’ fa sì che il suo significato generico di ‘spiedo, punta’ (come suggeriscono i termini sopra citati) assuma il significato particolare di ‘lesina’.



[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-AQ, 2003