mercoledì 31 marzo 2021

Paravéspere.

 


 

    Le para-véspërë sono le ‘sorbe’ nel dialetto di Ariano Irpino-Av,  mentre in un dialetto abruzzese sarebbero i ‘frutti della rosa canina’. Sempre di rotondità si tratta, e ora sappiamo benissimo che i nomi all’origine sono generici, non creati apposta per quella cosa o per quel frutto. Essi, poi, sono costituiti da uno o più elementi tautologici.

    Per para-vés-përë suppongo che l’ultimo membro –përë sia da confrontare con l’it. pera <lat. pir-u (m), rumeno pară ’pera’, corrispondente, quest’ultimo, al primo membro para-, una variante di pera. Il secondo membro -vés- lo abbiamo già incontrato e analizzato in uno dei precedenti articoli, quello intitolato Vescia. Esso è variante del secondo membro del diffuso abruzzese caca-váscë, il frutto della rosa canina, ma in alcuni dialetti vale ‘gallozzola’ escrescenza rotondeggiante che si sviluppa generalmente nelle foglie o nei rami delle querce, in seguito a puntura d’insetto.  Non si scappa.

     L’elemento caca-, che in quell’articolo abbiamo giustamente accostato al sscr. kak-ra ‘ruota’, si ripresenta nelle cac-acci-elle (mi si perdoni la probabile imprecisione fonetica) del dialetto di Larino-Cb, le cac-azzelle di Capistrello-Aq, le cac-azz-éttë di Aielli-Aq, termini significanti tutti ‘ escrementi di pecore o capre’, che sono simili a nere palline.  Solo che in questo caso la radice kak- per ‘rotondità’ ha finito per incrociarsi con quella omofona per ‘escremento’, la quale, coprendo quella originaria, finisce per farla da padrone. 

      Una variante di kakra ‘ruota’ è da riscontrarsi nel primo membro della voce cuccuru-mmella ‘frutto della rosa canina’ nel dialetto di Camarda-Aq: il membro –mella equivale a it. mela. Si incontra anche, non ricordo dove, la voce cucchera-valle sempre per lo stesso frutto della rosa canina, il cui secondo membro è da confrontare con termini come valle, palla, balla, ecc. indicanti rotondità o cavità.  Non si scappa.

lunedì 29 marzo 2021

I capëfùchë.

 

                                

    Sono gli alari nel dialetto di Aielli e in molti altri, al sing. capëfόchëLetteralmente significano ‘capi del fuoco’ lasciando un po’ tentennanti su questa definizione: sarebbero i capi del focolare, o in capo al focolare? Ambedue le possibilità non calzano bene, sono come scarpe un po’ troppo strette o larghe che danno fastidio nel camminare.

    A mio parere si tratta di un precedente nome del focolare stesso, adoperato per indicare gli alari, come spesso succede: una parola desueta o sostituita da un’altra per vari motivi, cerca di non scomparire e, se può, si adatta, non sempre però a pennello, ad indicare qualcosa in rapporto  col precedente  significato, come gli alari in questo caso.

   Il primo membro di capë-fόchë deve corrispondere al primo membro di marsicano-abruzzese cap-ërna-tura, cioè ‘capruggine’, intaccatura delle doghe, nella quale si commette il fondo della botte o del bigoncio. Ho potuto notare, nel corso della mia ricerca, che più di una volta la labiale sorda –p- viene sostituita dalla fricativa sorda –f- come in aquilano cap-urchjë ‘cesto, cavità, caverna’ rispetto ad aiellese-abruzzese caf-urchjë ‘cesto, caverna, bugigattolo’.  A Luco dei Marsi caf-òrgna vale ‘cavità, grosso buco’[1]. Possiamo quindi con una certa sicurezza affermare che in questi casi il membro caf- è equivalente al cav- di it. cav-erna e al capë-  di *capë-fόchë nel significato, però, di ‘cavità del focolare’ non di quello di ‘alare’ assunto successivamente.

     Riflessione finale. Queste radici o gruppi di radici li abbiamo incontrati a proposito di fonti (fonte Cap-erno nel Sirente), monti, alture, punte (pizzo Caf-ornia, sul Velino): non si tratta di coincidenze casuali, ma coincidenze che chiamerei illuminanti (per chi ha occhi per vedere), perché una fonte o un corso d’acqua nasconde dietro di sé una forza che lo spinge a scorrere; il monte nasconde (mica tanto, poi, stante il suo chiaro etimo) una forza che lo spinge verso l’alto; la valle nasconde una forza che la spinge verso il basso, la de-prime.  L’uomo parlante non poteva creare nomi specializzati fin dall’origine, a meno che non avesse voluto legarsi le mani: il suo istinto naturale, e per questo di una intelligenza sorgiva, lo spinse a creare radici e parole aperte a moltissimi significati.

   

   



[1] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.

 

    

domenica 28 marzo 2021

Il focolare.

 

                                     

                                                  

 

     Il focolare sappiamo benissimo cos’è, anche se le case di oggi  ne fanno spesso a meno, dato che il riscaldamento, per tutte le stanze della casa, viene assicurato da sistemi moderni alimentati a gas.

   L’etimo da tutti accettato, parte dal latino foc-ul-u-(m)  ‘piccolo focolare (mobile)’ come un braciere, scaldino, scaldavivande e simili.  Un problema è costituito dal lat. foc-u(m) che significa, anch’esso, ‘focolare’ ma anche (forse successivamente) ‘fuoco’, per incrocio, credo, con radici come quella di gr. phṓg-ein ‘arrostire, abbrustolire’.

   Sulla scia dell’articolo precedete La vescia in cui ho parlato abbondantemente della voce dialettale foca ‘cavità, buca, grotta’ propendo per la spiegazione di lat. foc-u(m) ‘focolare’ secondo cui esso doveva indicare nella preistorica il luogo o la buca (circondata da un muretto) al centro della capanna, in cui si accendeva il fuoco. E il focolare?

   Si sostiene da tutti che il termine, del tardo latino, è un ampliamento in –are di lat. foc-ul-u(m) ‘focolare (mobile)’ diminutivo di foc-u(m)’focolare’. Però mi pare un po’ strano questo giro che, pur partendo dal nome alterato  diminutivo, torna ad indicare il significato del nome primitivo foc-u(m) ‘focolare’. Qualcosa non quadra, se un termine come it. cas-ol-are mantiene sostanzialmente il valore in qualche modo diminutivo di lat. cas-a(m) ’tugurio, casa di campagna,capanna’ e del suo effettivo diminutivo cas-ul-a(m) ‘casetta, capanna, indumento’.  La faccenda può essere risolta bellamente dal meccanismo della tautologia, di cui vado parlando da anni: il foco-lare non è altro che un composto tautologico il cui secondo membro risponde al lat. Lar, laris, divinità del focolare, spagn. lar ‘casa, focolare’.

   Ora, siccome in una tautologia i due o più membri che la costituiscono debbono avere lo stesso significato, qui è giocoforza che –lare abbia lo stesso significato di foco-, cioè ‘cavità, avvallamento, buca’, come abbiamo visto. E quale ne può essere l’etimo? A mio parere non può essere che un termine come il ted. Lager ‘giaciglio, letto, giacimento, strato’, l’igl. lair < *lagir ‘nascondiglio, tana’, ant. ingl. leg-er ‘luogo in cui si giace’, got. ligrs ‘luogo in cui si giace’, ted. lieg-en ‘giacere’, ingl. lie ‘giacere’ ingl. lay ‘coricare, deporre’, lat. lec-t-u(m) ‘letto’, ecc.  Pertanto il lat. Lar  dovrebbe provenire da una forma *lagr- con la caduta (come nell’it. maestro, mastro < lat. magister) della velare  –g-. La forma Las-es ‘Lari’ del latino Carmen arvale, può essere l’antecedente non rotacizzato di Lar-es, ma nel significato di ‘spiriti, demoni’, non in quello di ‘focolare’.  Del resto in italiano ci sono anche gli alari, arnesi di ferro disposti ai lati del focolare su cui poggiare la legna. Si sostiene che la parola viene dal lat. lar-e(m) ‘focolare’ incrociato con it. ala, o lat. al-a(m) perché appunto posti di lato rispetto al focolare. Ma io azzardo, non del tutto vanamente, che il termine nasconda qualcosa come il ted. An-lage ‘impianto, base, disposizione’, ted. an-leg-en ‘appoggiare, accostare’ dalla radice lag-,leg- ‘deporre, appoggiare, giacere’ già incontrata, e suppongo una forma originaria an-lager ‘appoggio’> *alagr > alare riferita agli alari, arnesi d’appoggio. Il ted. an ‘addosso, vicino’ equivale all’ingl. on ‘su’. La stessa radice lag-, leg- può avere il valore di ‘abbassamento, depressione (buca del focolare)‘ o di accostamento, appoggio (alare).

   Benedetta, ma trascurata tautologia!  Che mai più nessuno spieghi l’ingl. fox-hole ‘tana di volpe’ o ‘buca di appostamento (dei soldati)’ nel solito modo in cui si spiegano i composti germanici, in cui il primo membro è chiamato ‘determinante’ perché specifica il significato generale del secondo membro! No!!! Si trattava inizialmente di tautologie, che la Lingua sfruttò facendone dei composti di tal fatta.  I vari tedeschi fuchs-höhle ‘tana di volpe’, fuchs-loch ‘tana di volpe’, fuchs-grube erano all’inizio solo delle ‘tane, buche’ come chiaramente affermano, in tedesco, i secondi membri.  

    Si tratta di cose semplicissime, a mio parere, che aprono panorami inconsueti sulla natura delle parole e della Lingua. Ci vorranno ancora secoli per apprenderlo?                           






sabato 27 marzo 2021

La vescia.

 


 

    E’ sicuro che la vescia (lat. parlato *vissja) indichi il fungo che sappiamo, e di cui ho parlato abbastanza in precedenti articoli, per il fatto che esso, se premuto leggermente quando è più che maturo emette una nube di spore e gas (cfr. latino delle glosse viss-ire ’spetezzare’)? Abbiamo visto che questo ragionamento non regge nemmeno per l’espressione dialettale loffa o loffa di lupo.

    Eppure anche in tedesco si ha Bo-fist (o Bo-vist)‘vescia’ in cui il secondo membro fist sembra alludere all’idea di “ventosità”: cfr. medio alto ted. vist, fist ‘emissione di gas dall’intestino’, ingl. feist ‘emissione di gas dall’intestino’ che rimandano sempre alla radice vis(s)- presente in latino.       Ma ecco apparire i vari ingl. fist ‘pugno’, ted. Faust ‘pugno’ < a. a. ted. fust ‘pugno’, ted. feist ‘grasso, grosso’ a far propendere per l’idea di ‘rotondità, palla, massa’ propria del fungo in questione. Inoltre in tedesco Fȁust-ling significa ‘guanto monchino, pietra grossa come un pugno’. Allontaniamo quindi da noi la falsa idea della “ventosità” che ci tallona da presso per farsi accreditare come vera ed originaria, mentre è falsa e secondaria, pur avendo avuto, per così dire, fortuna, nel gran giuoco degli incroci, data la particolarità della nube di gas.

    La nostra vescia credo che abbia a che fare con la radice indoeuropea vas(t), ves(t) indicante qualcosa che avvolge, contiene, copre come lat. vest-e(m) ‘veste’, lat. vas ‘vaso, capsula’, got. weina-basi ‘uva, acino d’uva’, dialettale (ad Aielli e altrove) caca-vascë ‘frutto della rosa canina’, il cui primo membro richiama il dialettale (ad Ovindoli-Aq) caca-fugnë ‘vescia’, caca-mmani ‘ciclamino’, così nominato, in italiano, dalla parola greca kýkl-os ‘cerchio’, riferita alla radice tuberosa, sferica della pianta.  Molto probabilmente in questi casi l’elemento caca- richiama il sscr. kakra ‘ruota’. La vescia, comunque, potrebbe derivare anche da una forma *vestia: cfr. it. biscia< *bistia< lat. besti-a(m).

    Una curiosità, illuminante. Il primo membro del ted. Bo-fist ‘vescia’ che, di primo acchito, potrebbe essere accostato al ted. ‘colpo improvviso di vento’ seguendo lo schema della ventosità è invece una riduzione alterata di un originario medio antico ted. vohen-vist ‘loffa (peto) di volpe’, il cui primo membro corrisponde all’ingl. fox ‘volpe’. Proprio come l’espressione  nostrana loffa di lupo. Nel caso della volpe (fox)  l’animale è costretto a darsela a gambe non appena si pensa ai dialettali ingl. fogou, fougo, ecc.’caverna’, una cavità o rotondità, dunque.

      Così anche l’ingl. fox-glove ‘digitale purpurea’, letter. ‘guanto della volpe’, la pianta con i suoi caratteristici fiori a ditale (una cavità), trae il nome da essi, appunto.  La radice la si ritrova anche da noi, nel dialettale ( a Venere dei Marsi-AQ) fua ‘avvallamento del terreno’ < *fuga e in diversi toponimi foca, foche che indicano delle cavità.  A Collelongo nella Marsica foca significa ‘piccola buca, avvallamento nel terreno’;  in varie parti d’Abruzzo vale ‘caverna’.

     A me pare che anche il Fuc-ino debba il nome al suo essere una conca, una cavità, un lago.

    

    




venerdì 26 marzo 2021

A perdifiato.

 

                                  

 

   La locuzione avverbiale a perdifiato potrebbe riservare sorprese impensabili.  Essa, come è noto, significa generalmente ‘a più non posso, a rotta di collo, ecc.’ e letteralmente ‘fino a perdere il fiato’, compiendo un’azione, non so, come quella di correre.  Non comunemente essa significa anche a tutta lena, come se fosse ‘a tutto respiro’, concetto, nella sostanza semantica, simile all’altro ma formalmente opposto ad esso: con essa si sostiene, infatti, che il respiro ( cfr. fr. haleine ‘respiro’) non viene a mancare, bensì è presente in tutta la sua forza. 

   In questi casi, allora, come ormai sapete, io non posso non drizzare le orecchie per avvertire i minimi segni di una realtà diversa. Si aggiunga il fatto, non secondario, che la Lingua usa solo l’espressione a perdi-fiato e non altre precedute da perdi- come potrebbero essere a perdi-voce, *a perdi-conoscenza, *a perdi-forza, ecc. 

     Quindi deduco che all’origine perdi-fiato era il solito composto tautologico, con il perdi- corrispondente pari pari al gr. pérd-esthai ‘emettere peti’ e richiamante il ted. Furz ‘peto’, ingl. fart ‘peto’. Il suo significato doveva essere quindi a tutto fiato, a tutta lena, non fino a perdere il fiato. Non lasciatevi disturbare dall’odore perché molto probabilmente il suo valore originario era quello di ‘aria, vento’.

  Il sostantivo perdi-giorno potrebbe essersi sviluppato da un aggettivo latino non registrato, però,  dai vocabolari,  cioè *per-di-urn-u (m) ‘che dura tutto il giorno’, un incrocio tra l’aggett. lat. per-di-u (m) ‘che dura tutto il giorno’ e l’aggett. lat. di-urn-u(m) ‘diurno, giornaliero. Secondo la mia ipotesi *per-di-urn-u(m) si incrociò a sua volta, nel latino parlato, col verbo perd-ĕre ‘rovinare, perdere’ assumendo naturalmente il significato di ‘perdi-giorno’, appunto. L’it. giorno (dialett. jurnë) deriva da lat. (tempus) di-urn-um tempo della luce del giorno’, radice  ben nota, presente nella divinità del cielo indoeuropea, lat. Iu-ppiter ‘Giove’, gr. us ‘Giove’.

   E il perdi-giorno, nome regionale che indica diversi uccelli palustri, come si spiega?. Senza andare troppo per le lunghe io suppongo una precedente voce *perdi-órnis intesa come *perd-iórnis > perdi-giorno: l’elemento perdi-, col significato generico di ‘animale, uccello’ richiamerebbe il lat. perd-ic-e(m) ‘pernice’, gr. pérd-iks ‘pernice’ da taluni connessi con gr. pérd-esthai 'spetezzare', per via di certi rumori emessi dall’uccello; l’elemento órnis in greco vale ‘uccello’, da collegare a mio avviso con ted. poetico Aar ‘aquila’, lat. ar-de-a(m) ‘airone’ uccello acquatico, nome regionale ar-éna che indica il turdus viscivorus.

giovedì 25 marzo 2021

Lavandare.

 

                   Lavandare

 

«Nel campo mezzo grigio e mezzo nero

resta un aratro senza buoi, che pare

dimenticato, tra il vapor leggero.

 

E cadenzato dalla gora viene

lo sciabordare delle lavandare

con tonfi spessi e lunghe cantilene:

 

Il vento soffia e nevica la frasca,

e tu non torni ancora al tuo paese!

quando partisti, come son rimasta!

come l'aratro in mezzo alla maggese.»

 

    Il Pascoli evoca alla perfezione, in questo madrigale, il senso di solitudine di una lavandaia abbandonata in paese dal suo uomo andato via. Il verso finale "come l'aratro in mezzo alla maggese", cioè come l'aratro abbandonato nel campo mezzo arato e mezzo sodo è un simbolo carico di significati. Il maggese in italiano è 'il campo arato, dopo essere stato lasciato incolto a riposare'. Nei dialetti suona "maésa" (Aielli) o altrove, più spesso, "majésa". La voce è fatta derivare dal lat. Maius 'maggio', perchè solitamente (così si dice) il campo veniva arato di maggio. Ma questo è un fatto secondario. Nella poesia siamo addirittura in autunno (l'aratro è dimenticato nel campo tra il vapor leggero della nebbia). Ora, la pronuncia aiellese di "maesa" mi fa pensare che in origine tra le due vocali doveva esserci la velare sonora -g-, come nello stesso  nome dialettale di Aéjje < Ag-ell-u(m) con pronuncia gutturale della –g-, come del resto nell’it. maestro < lat. magis-tru-(m).La radice quindi doveva essere *mag-, quella del gr. mass-ein 'impastare, preparare'. La maésa  era quindi un terreno lavorato, preparato per una nuova coltivazione.

 

mercoledì 24 marzo 2021

Guardà l'acqua.

 


    Le rare volte in cui, nel cuore dell’estate in cui l’acqua mancava, mia madre mi metteva a “guardà l’acqua” cioè a fare la fila aspettando il mio turno per attingere il prezioso liquido dalla fontanella vicino casa, lo facevo con un certo rincrescimento.  Qualche volta riflettevo sull’espressione ma naturalmente non andavo più in là del verbo guardare che anche in dialetto significava ‘osservare, volgere lo sguardo’, e non si poteva dire che in fondo in quella operazione non si guardasse l’acqua, anche se l’espressione sembrava un po’ strana.

   Ora, l’it. guardare è di origine germanica (cfr. franco wart-ōn ‘stare in guardia, ted. wart-en ‘aspettare’, ingl. wait ‘aspettare’): la radice doveva avere il significato di tendere, attendere sia nel senso di ‘tendere (gli occhi)’ sia in quello di ‘rivolgere l’attenzione, la cura, curare’ o anche quello di ‘aspettare’, che, guarda caso, è dal lat. ad-spect-are ‘guardare con attenzione, fissare’, incrociato con lat. ex-spect-are ‘aspettare, attendere’.  Nel Vocabolario abruzzese del Bielli si ha sia vardà che aguardà col significato di ‘aspettare’ e ‘guardare’.

  Insomma, basta poco per confondere le idee ad un semplice parlante che manca di una prospettiva storica.

 

 

martedì 23 marzo 2021

Non c’era un cane in piazza!

 


 

    Il modo di dire popolare non c’era un cane sappiamo tutti che significa ‘non c’era nessuno’. Come mai si ripresenta anche qui questo benedetto animale? Come al solito suppongo che l’espressione si sia sviluppata da un precedente strato linguistico in cui doveva essere presente un pronome o aggettivo di tipo germanico come l’ant. sassone nig-ēn, neg-ēn ’nessuno’, ant. alto ted.nihh-ein, noh-ein ‘nessuno’. Il primo elemento nig-, neg- corrisponde alla particella negativa latina ne ‘non (arcaico)’, nec, neque ‘e non, ma non già, neppure, ecc.’.  Il secondo elemento  è l’ingl. one ‘uno’,ant. ingl. ān ‘uno’ ted. ein ‘uno’, got. ains ‘uno’.

     Ora, a me pare che lo spagn. ning-uno ‘nessuno’  e il  port. ningu-ém, nenh-um ‘nessuno’ non debbano per forza essere considerati  come generati dal lat. nec + un-u(m) ‘non uno’, cioè ‘nessuno’.  Essi potevano essere sopravvivenze nel latino parlato di forme di origine più antica, indoeuropea.   E’ chiaro che una forma come quella anglosassone neg-ān ‘nessuno’, se fosse sopravvisuta anche nei dialetti italiani, avrebbe quasi sicuramente provocato il fraintendimento di ‘un cane’.  Un indizio molto forte a favore della sopravvivenza anche in Italia della detta forma è costituito dal fatto che l’espressione del linguaggio popolare non c’era un cane si usa solo in frasi negative.  E allora essa doveva provenire proprio da espressioni germaniche negative con la presenza di pronomi o aggettivi negativi come appunto neg-ān ‘nessuno’ che in tedesco ha generato l’aggett. kein, keine, kein ‘nessuno’ e il pronome kein-er, keine, kein-es ‘nessuno’, nei quali la particella negativa neg- si è ridotta al solo –k-.  Si noti la frase Es war keiner da! (Non c’era nessuno!). Non mi pare esista altra spiegazione.    Nelle frasi positive subentra magari il gatto, accompagnato solitamente dal numerale quattro, forse per una certa assonanza tra quattro (napol. quattë ‘quattro’). In francese, però, il gatto, da solo, è presente in frasi negative come il n’y avait pas un chat ‘non c’era un cane’, letter. ‘non c’era un un gatto’.  Se si va a controllare il Merriam-Webster si scopre per l’ingl. cat ‘gatto’ un uso gergale col significato di ‘individuo, persona, tipo’:  il fatto potrebbe spiegarsi ricorrendo al significato generico di fondo: essere vivente, animale o persona.

    A proposito di quattro gatti colgo l’occasione per ricordare (e lo farò sempre) la magnifica locuzione avverbiale in quattro e quattr’otto che significa ‘ in men che non si dica, in un attimo’. Come mai tra le diverse operazioni aritmetiche la scelta di chi pronunciò per primo questa espressione cadde sul numero quattro?  Come non mi stancherò mai  di ripetere (anzi, facendo ciò, in me stesso m’essalto, come avrebbe detto il sommo Dante, al quale non son degno nemmeno di allacciare le scarpe) che l’espressione è passata dallo strato linguistico latino a quello italiano senza che nessuno se ne accorgesse, perché essa mantenne lo stesso identico significato di prima ma espresso, come per magia inconsapevole e inspiegabile, con parole singolarmente prendevano un significato diverso dando vita, in italiano, ad altra espressione che però non mutava di un ette nel significato metaforico. La metafora! Ecco perché ogni significato metaforico mi fa drizzare le orecchie!  L’espressione latina precedente e originaria, credo di natura colloquiale, era coacte coacte, ociter ‘alla svelta alla svelta, velocemente’, e divenne tra le mani dei parlanti coacte coacte, octo > quattë quattë, ottë ‘quattro e quattr’otto’, naturalmente senza che qualcuno si voltasse indietro a controllarne il percorso.

    Il lat. coacte è avverbio col significato di ‘alla svelta’ o anche ‘in modo conciso, stringato’, dal verbo cog-ĕre  ‘spingere insieme, raccogliere, addensare, condensare’ e quindi  i  quattro gatti (persone), anch’essi, non dovevano essere quattro di numero ma, più genericamente, ristretti, pochi , scarsi. Concetto espresso, per essere chiaro, in modo diretto, non figurato-metaforico! Amen.

    

lunedì 22 marzo 2021

Vita da cane.

 


 

    Che vita da cane! Che vita da cani! Più comunemente sentivo esclamare in passato da miei  compaesani in difficoltà, con accoramento ma talora anche con una certa esagerazione, chë vita cana!, cioè che  vita assassina, balorda!  C’entrano i cani nell’espressione? non credo, soprattutto dopo aver letto le puntigliose e realistiche osservazioni di Daniele Reale che ha riflettuto sull’espressione e che ho condiviso.

     Senza andare troppo per le lunghe  suppongo che in questo caso il cane, la cagna o i cani siano da paravento posticcio rispetto alle radici antichissime secondo me   coinvolte: non voglio  naturalmente dire che invece la radice di lat. can-e(m) sia piuttosto recente rispetto a quelle che dirò. 

     In greco è presente l’aggett. kaín-όs ‘nuovo, recente, inaudito, strano’. La radice è kan-, ricorrente anche nel lat. re-cent-e(m) ‘recente, nuovo’, e poteva benissimo, nella locuzione in questione, aver assunto il significato di ‘inaudito’, cioè, riferito alla vita, ‘di una gravità senza paragoni’: una vita cana  sarebbe quindi una vita balorda, assassina, dato che in greco esisteva anche il verbo kaín-ein ‘uccidere’, con radice kan- omofona rispetto all’altra.  Non si scappa, spesso basta scavare un po’ per scoprire la vera sorgente da cui provengono le parole, e così restituire al fedele amico dell’uomo, fin troppo coccolato e viziato, la sua atavica dignità, per quanto meno nobile rispetto a quella orgogliosissima del lupo.  Comunque se il cane perse la sua originaria fierezza, la sostituì con una fedeltà a tutta prova, qualità rarissima tra gli umani.

   In conclusione, però, non me la sentirei di escludere del tutto, nella spiegazione della nascita di queste espressioni, la forte tendenza dell'uomo a scaricare sugli animali le proprie brutture e viltà. 

domenica 21 marzo 2021

Šti gnë na vèsprë.

 


 

    L’espressione dialettale abruzzese[1] merita un primo piano tutto per sé, dopo i riferimenti da me fatti a diverse parole inglesi e tedesche a proposito della voce abruzzese loff-ët-èllë ‘panino dolce’ di cui al precedente articolo di ieri. 

    Questi rimandi a lingue germaniche, specialmente l’inglese, sono più che giustificati, ancora una volta, dalla locuzione suddetta Šti gnë na vèsprëpungi come una vespa’.  Qui il verbo Šti (2° pers. indicat. pres.) non può essere che l’ingl. sting ‘pungere’: la parte finale –ng cade per evitare l’orribile cacofonia che si sarebbe prodotta con la particella successiva gnë ‘come’, considerando anche il fatto che il verbo poteva aver assunto una pronuncia palatalizzata del nesso –ng, come nel dialettale tégnë ‘tingere’ dal lat. ting-ĕre ‘tingere’.

  Invito quindi chi è abituato a storcere il muso per questi “azzardati” confronti a darmi una spiegazione diversa o a rassegnarsi all’evidenza. Grazie.

     Per l’etimo della congiunzione gnë ’come’ invito a leggere il mio articolo Particolari locuzioni avverbiali dei nostri dialetti presente nel mio blog (maggio 2012).

     A conferma di quanto sopra, nel dizionario etimologico I dialetti italiani di Cortelazzo-Marcato ho potuto notare la voce umbro-marchigiana stongà ‘imbastire’, giustamente ricondotta a termini  gotici per ‘colpire (con punta)’ da confrontare, insieme al lombardo stongià ‘cucire’, con l’ant. alto ted. stung-en ‘pungere’. La variante apofonica stung è sfruttata in inglese per il preterito e il part. passato. 

     



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004, s.v. vèspra.

sabato 20 marzo 2021

Loffa di lupo.

 

                 

 

   E’ nome regionale della vescia, fungo commestibile a forma di palla. Come  si spiega una simile espressione? C’è da precisare subito che si incontra anche il semplice loffa, termine che, nel significato di ‘peto silenzioso’, corrisponderebbe allo spagn. lupia secondo il Pianigiani, dizionario etimologico online. Uso il condizionale perché, stando a quanto leggo nel web, la voce spagnola lupia significherebbe ‘malattia del lupus’. Il fungo in questione, quando è più che maturo, emette, se premuto, un polverio bruno di spore, da cui sarebbe derivato il nome. Ma perché, poi, questo peto silenzioso sarebbe quello del lupo? Roba da chiodi! A voler seguire i significati di superficie c’è da rimanere confusi e frastornati.  Ma questa volta c’è una spia inconfondibile, a mio parere, che balza evidente negli occhi al di là di ogni incertezza e di ogni dotta disquisizione: la parola loffa presenta una radice che dovè essere variante di quella di lupo, lupa, dial. lopo, lovo, lopa e dovè indicare proprio la palla del fungo, e il fungo stesso.

     Abbiamo parlato nel precedente  articolo della Valle del Lupo ad Aielli, e di altre omonime, il cui nome rimanda al gr. lóp-os  ‘tazza, corteccia’. Si tratta di un significato che ha, nel fondo, un valore di ‘cavità, avvallamento, rotondità’ e quindi adatto ad indicare un qualcosa di rotondeggiante, come la palla di cui sopra.  Esiste, manco a farlo apposta, un monte Loffa in provincia di Verona dove sono stati scoperti insediamenti preistorici. La radice del nome  di questo monte è la stessa del termine gr. lóph-os ‘colle, poggio, cervice, cresta (di gallo)’, pennacchio’, la quale conferma il suo significato nei vari monte Lupo in Italia. E già! Il monte  non è altro, anche etimologicamente, che una protuberanza e, quindi, qualcosa di tondeggiante anch’esso: ogni monte, per quanto possa avere pareti dirupate, nel suo complesso stilizzato è rappresentabile da una linea  curva elevantesi dal terreno e in esso ricadente. Il concetto di “rotondità” non comprende solo cerchi, circonferenze e archi di circonferenza, ma anche sfere con annessi e connessi: la sfera, appunto, della loffa di lupo.  

    Ora, siccome il fungo ha quella caratteristica di emettere una nubecola di spore quando è ormai quasi fradicio, c’è stato un inevitabile e diffusissimo rincorrersi di radici simili nella forma, ma non omosemantiche, per indicare il fungo.  Benchè anche i significati di ‘vento, ventosità’  e di ‘monte, rotondità’ e simili siano nel profondo collegabili tra loro, in quanto la spinta o anima di un vento è esattamente la stessa di quella che dà origine ad un monte. Ma non è mia intenzione di approfondire qui questo rapporto, basta sapere che ci sono monti chiamati Vento.

  Molti sono i termini che smentiscono il significato di ‘vento, ventosità, flatulenza’ della radice in questione, come il friulano lòp ‘mela selvatica’, piacentino lòfa ‘sterco di cavallo (è rotondeggiante), ingl. loop ‘cappio, laccio ad anello’, it. bocca di lupo ‘sorta di nodo scorsoio’, inglese lap ‘giro (di pista)’, ingl. lapp-et ‘bargiglio, falda, lembo, lobo’, ingl. lap-el ‘bavero (in quanto piega), ingl. love-apple 'patata' (letter. 'mela dell'amore'), serbo-croato lopta ‘palla’, serbp-croato lup-ina ‘buccia’, it. lupo ‘uncino’ (nel vocab. del Petrocchi), spagn. lupa ‘lente di ingrandimento’, italiano lup-ino. Anche il ted. Laib ‘pagnotta’ e inglese loaf ‘pagnotta’ fanno parte del gruppo, anche se precedentemente il termine era hlaf, hleib ‘pagnotta’. Incredibile! ma questa radice si ritrova anche nell’abruzz. loff-ët-èllë ‘panino dolce’(vocab. del Bielli), abruzz. loff-όnë ‘buzzone, grassone’, radice che deve essersi incrociata con quella di igl. love ‘amore’ e ted. Liebe ‘amore’ se ted lieb-lich vale ‘gradito, ameno, dolce, soave’ e ingl. love-ly vale ‘amorevole, gradito, squisito (detto di cibo). Incredibile davvero!                    

 

   

venerdì 19 marzo 2021

Fossa del Lupo.

 

        

   La Fossa jji Lupë di Aielli, nominata  nell’articolo precedente, non prende certamente il nome dall’animale, a mio modo di vedere le cose.  La denominazione ricorre abbastanza spesso nella Marsica ed altrove come Fossa del Lupo e fossa Lup-ara a Collelongo-Aq, Valle Lup-ara a Pescina-Aq, Val di Luppa a Sante Marie-Aq, Valle del Lupo a Pescasseroli: e poi Grotta della Lupa sulla Maiella, Valle del Lupo, a San Ginesio nelle  Marche, ecc.   Per essere precisi, la Fossa jji Lupë di Aielli non è una fossa più o meno grande ma una valle grosso modo a forma di un semicono capovolto, col diametro pressappoco di un chilometro.

   Nella Marsica mi pare che non si incontra nessun Monte del Lupo e quindi, secondo il modo comune di intendere questi toponimi, dei lupi avrebbero spesso bazzicato le valli o sarebbero stati avvistati in esse, cosa che non sta né in cielo né in terra, frequentando questi animali piuttosto le alture, i monti e magari le valli nei monti: ma guarda caso nessuna valle o valletta del Sirente, ad esempio, ne porta il nome.  A non considerare poi il fatto che questi toponimi potrebbero scendere ben in fondo nella preistoria, quando magari l’animale era noto dalle nostre parti con tutt’altro nome.

    Suppongo, pertanto, che il nome Lupo in questi casi abbia qualche rapporto col gr. lop-όs o anche lόp-os ‘tazza, buccia, corteccia’, gr. lop-ás ‘tazza, scodella, ostrica’ latino mediev. luppa ‘tazza, scifo,coppa’ ed indichi quindi proprio la fossa, la valle, la grotta e simili.  Il membro –ara di valle Lup-ara non è il solito suffisso ma un vero e proprio sostantivo tautologico, che abbiamo già incontrato nella Val d’Ar-ano ad Ovindoli.

      Il termine regionale, e molto diffuso, loffa di lupo ‘vescia’ lo tratteremo domani, se Dio vuole.

  

 

                           

 

   

giovedì 18 marzo 2021

Fonte Canala.

 


 

    La fonte Canala si trova a mezza costa nel versante orientale del monte san Pietro ad Aielli.  Qualche centinaio di metri più in là si incontra la fonte Canal-ìcchia, in territorio di Cerchio però. Le due fonti sono munite di fontanile e hanno, mi pare, la stessa portata d’acqua; anzi, in estate inoltrata l’acqua di Canala scompare, mentre quella di Canal-icchia persiste: quindi il nome ci inganna col suo presunto diminutivo. Un’altra fonte, sempre ad Aielli, porta il nome di Lë cannèllë (Le cannelle, plurale: la –a- del singolare nel dialetto aiellese non si oscura nel suono indistinto di –ë-). 

   Abbastanza numerose sono le fonti di questo nome nella Marsica e altrove, credo, come fonte Canale a Collelongo e la fonte Candelecchia a Trasacco dove esiste anche una chiesa di tal nome nei pressi. E’ chiaro che il fumo delle candele accese nel santuario ha facilitato l’italianizzazione in Candelecchia dell’originario e dialettale Cannelécchia.  Una fonte Candelecchia scorre anche a Fano Adriano-Te. a ridosso del Gran Sasso. Un rio Can-aglia segna il confine tra l’Emilia-Romagna e la Toscana.  A non parlare dei diversi fiumi Cane, Canedo, ecc in Colombia e probabilmente nel resto dell’America latina.

    Ammesso che parte di questi idronimi italiani siano dovuti alla radice di lat. can-al-e(m) e che essi talora derivano dalla cannula, rubinetto da cui vengono fatti sgorgare, resta sempre il fatto, grosso come una montagna a mio parere, che rarissimamente si ha un minimo sentore del nome che queste fonti dovevano pur avere prima dell’inserimento di queste cannule. 

     Come lectio difficilior io preferisco di legare la gran parte di questi idronimi alla parola somala ganale ‘fiume’ che evidentemente si diffuse da noi moltissimo tempo prima che arrivassere i cosiddetti Indoeuropei.