martedì 26 gennaio 2021

Dalle nostre parti, per ordinare al cavallo di mettersi in moto, gli si grida: “Uì!”. Agganci dell'interiezione col concetto di "via, strada".


     

      Mi pare che nell’articolo Espressioni di richiamo e di comando impartiti agli animali [] presente nel mio blog (2 sett. 2014) non ho preso in considerazione l’interiezione “uì! usata per ordinare al cavallo di mettersi in moto.  D’altronde si tratta di un’interiezione poco studiata dai linguisti, credo, perché non l’ho trovata in nessuno dei lavori dialettali da me posseduti.

      Io suppongo che essa sia il risultato dell’imperativo latino vige ‘muoviti (con energia) dal verbo vig-ēre ‘avere forza, vigore; muoversi con vivacità’.  La sillaba finale –ge cade, come avviene quasi sempre con queste espressioni di comando, data la forte enfasi che caratterizza la sillaba accentata. A Cerchio-Aq è ricorrente l’espressione léstë ‘sbrigati!, svelto!, dai!, su forza!’.  Quasi sicuramente, poi, quel vì  deve essere ricondotto meglio ad un verbo indicante il ‘muoversi’ senza altra specificazione, e l’espressione all’origine doveva significare precisamente ‘svelto! muoviti!’. A mio parere si dovrebbe trattare della radice dello stesso lat. vi-a(m) ‘via, strada, cammino, marcia’, derivante da arcaico veh-a(m) ‘via’ (cfr. ted. Weg ‘via’, ingl. way ‘via’), dal verbo lat. veh-ĕre ‘trasportare col carro, condurre’ di matrice indoeuropea,  da cui lat. vect-ur-a(m) ‘vettura, carro’.  Ma, secondo me, c’è da fare un’osservazione: il significato di fondo della radice doveva essere semplicemente quello di ‘muovere, muoversi’, non di ‘trasportare col carro, condurre col carro’ come quasi tutti affermano.  Il lat. vi-a(m) < veh-a(m) non doveva avere il significato etimologico di ‘strada per carri’ ma semplicemente quello di ‘percorso, corso, movimento’ anche se successivamente si ebbe la specializzazione che non poteva fare a meno dell’idea di “carro”.   Esiste infatti l’ingl wigg-le ‘muovere, scuotere, far ballare (un dente)’, l’antico ingl. weg-an ‘muovere’, il ted. be-weg-en ‘muovere, agitare’ che ci fanno capire che il significato della radice indoeuropea *wegh- aveva anche quello dimovimento’.  

    Se ben si riflette, poi, lo stesso significato di ‘essere forte, energico, muoversi con vivacità’ di lat. vig-ēre non è molto lontano da quello del semplice ‘muoversi’.  La stessa radice assumeva quello di ‘vigile, sveglio, attento’ nel lat. vig-il-e(m) il quale sembrerebbe diverso da quello di lat. vig-or-e(m) ’vigore’ e di lat. veg-ēre ‘essere vivo, animato, svelto; animare, vivificare’, variante del suddetto  vig- ēre.  Notevole è il lat. veg-et-ation-e(m) ‘movimento (in Apuleio)’. Con cui si ritorna all’idea fondamentale.  Credo che anche il lat. vag-u(m) ‘errante, vagabondo, mobile, incostante, ecc.’, considerato di etimo oscuro, contenga una variante delle radici precedenti, come il ted. Wag-en ‘vagone, carro’, il lat. vac-ill-are ‘vacillare, barcollare, tentennare, essere malfermo’, il toscano vagell-are ‘vacillare, vaneggiare, farneticare’ nonché l'ingl. wake 'svegliare, destare', il ted. wach ‘sveglio e il ted. wack-el-n ‘tentennare, vacillare’.   Secondo me nella Lingua tutto si tiene, e bisogna ammettere l’esistenza di molte varianti delle radici fin dalle origini. 

     Gli it. via-vai e vi-andante si possono risolvere  bene, nonostante la loro apparente evidenza,  non ricorrendo al facile via per il membro iniziale, bensì al significato originario di ‘muover(si), procedere, andare, venire’ della sua radice *wegh.  Nel primo composto essa ha assunto il valore di ‘venire’, per cui esso doveva valere ‘ vieni e vai’ come  nell’it. andi-rivieni, con andi- imperativo arcaico di it. and-are.  Il vi-andante non è quindi ‘(quello= che procede per la via’, ma semplicemente ‘(quello) che cammina, procede, va, vaga’ : è un composto tautologico di due componenti omosemantiche. 

    L’interiezione “!”,allora, con la pronuncia latina della fricativa sonora –v-, pronuncia molto ricorrente, per esempio, a Trasacco-Aq nella nostra Marsica, doveva significare nient’altro che ‘muoviti!’.  D’altronde non è senza significato il fatto che, non ricordo in quale lingua europea del presente o del passato, il cavallo era chiamato pressappoco  wigge, wicke. 

     

 

      




lunedì 25 gennaio 2021

Latina sub velamine verba Italico vel rustico incredibiliter latentia.

 Latina sub velamine verba Italico vel rustico sermone incredibiliter latentia.

 Mi sono divertito a scrivere in latino, lingua da molti anni da me trascurata. Il pezzo è per i latinisti, se ne resta ancora qualcuno; ne traduco solo il titolo: "Parole latine incredibilmente nascoste sotto il velo dell'italiano o del dialetto". Si tratta di espressioni e parole di cui ho già parlato in altri articoli.

 

Haud facile credideris nonnulla esse vocabula cum rustici tum Italici sermonis quae, tamquam sub veste nova, pristinas formas Latinas ac significationes attamen abscondant.

Etenim si intentis oculis illa rustica et quasi obscena verba « va’ a ccàca!» observas, quae Italice valent «vai via (stupido)!»,quaeqe non solum in cotidianis Marsicis sermonibus,verum etiam apud alias gentes nonnumquam audiri possunt, etsi aliquanto mutata (va’ a cacare), et si tenue velamen Italicae vel rusticae vestis ab eorum superficie removes, magno cum stupore atque admiratione pura verba Latina subter invenies, id est «va(de)!a-g(e),age,(vade!)», quae et Latinae linguae appellationi litterarum antiquae, adhuc in scholis parum adhibitae etsi ratione et doctrina repertae, fidem addunt.

 

Facile autem intellegitur verba quae supra memoravimus minime obscena initio fuisse, sed talia in itinere facta, obsolescente duplice voce Latina «ag(e), age» in rustico sermone, et plebeio verbo «cacare», simili sonitu, in eius locum succedente.

Eodem modo explananda igitur rustica vox est «‘ngorë a ssolë»,id est «incoram solis» et non «in intima solis parte», etiam nunc in mea parvula patria, cui nomen est Agello, in usu nec non in nonnullis vicis oppidisque Marsicis, etsi quis iam patrio sermone populo coram uti veretur, o tempora o mores!

 

Haud pauca autem in Italico sermone reperiuntur vocabula quibus lingua Latina sublatet. Si hoc consilio enim Italica verba «amici per la pelle» intueris, pristinam huius locutionis vestem, mea quidem sententia,facile invenies,id est «perbelle»,quod valet «perfecte, mirabiliter, optime, et cetera».

 

Alia Italica vox «per la quale» cuius vis est «aptus,conveniens,adaequatus» ad Latinum superlativum «peraequalem» referenda est,ita ut Hispanica quoque verba «perro viejo», quae hominem rerum humanarum peritum indicant, a latino superlativo «pervetere» sunt repetenda.

Me iuvat vero extremum exemplum, quasi aliquid luminis in hoc non aliter atque in superiora infundam, denique afferre, cum mentionem Italicorum verborum secchia vel secchione faciam, quae sedulissimum translaticio sermone declarant discipulum non alia de causa quam quod adiectivum sedulum, in sermone cotidiano mutatum in sed(u)lum, facile cum nominibus sit(u)lum vel sit(u)lam,rursus postea sicli et siclae, sit confusum. Quae formae proxime ante Italicos secchio vel secchia fuere, ut mea est opinio, cum contra vox sedulo a doctis viris in Italicam linguam recentiore scilicet memoria sit admissa.

 

Grammatici autem ante hoc tempus mihi neglexisse videntur has iucunditatis atque utilitatis plenas res et necopinantes his etiam temporibus in opere perseverare.

Petrus Maccallini

 

 

Su consiglio dell'amico Sandro Maccallini propongo questa traduzione.

 

Parole latine incredibilmente nascoste sotto il velo dell’italiano o del dialetto.

 

Non facilmente si potrebbe credere che esistono parole sia italiane che dialettali le quali tuttavia nascondono, come sotto una nuova veste, antiche forme e significati latini. Infatti se si osservano con attenzione le parole dialettali quasi oscene va’ a ccàca che in italiano significano ‘vai via, (stupido)!’ e che si ascoltano non solo nei discorsi quotidiani dei dialetti della Marsica, ma talora anche presso altre popolazioni, sebbene un po’ mutate nella forma (va’ a cacare!), e se ne rimuovi il sottile velo della veste italiana o dialettale, con grande stupore ed ammirazione scoprirai al di sotto di esse veri e propri vocaboli latini, e cioè Va(de)! Ag(e), age(vade!), parole che attestano (nell’incrocio verificatosi in dialetto) anche la pronuncia gutturale del latino, la quale ancora oggi è poco usata nelle scuole, sebbene abbia i crismi della scientificità. Si capisce quindi facilmente che le parole sopra citate non erano affatto oscene all’origine, ma lo diventarono strada facendo, cadendo dall’uso la doppia voce latina Ag(e), age nel dialetto che venne sostituita dal verbo volgare cacare di simile suono.

Nello stesso modo si deve spiegare quindi la voce dialettale ‘ngòrë a ssòlë che significa, come nel latino incoram solis ‘di fronte al sole’e non ‘nel cuore del sole’, espressione ancora oggi usata nel mio piccolo paese di Aielli e in altri della Marsica, anche se taluni si vergognano di usare il proprio dialetto, o tempora o mores!

Anche in italiano si incontrano non poche parole che nascondono il latino. Infatti se si osservano con questa intenzione l’espressione italiana amici per la pelle non sarà difficile, mio parere, scovarne l’antica veste, ciè il lat. perbelle che significa ‘perfettamente, mirabilmente, ottimamente, eccetera’.

L’altra espressione italiana per la quale il cui significato è ’adatto, a modo, adeguato’ è da ricondurre al superlativo latino peraequalem ’molto conforme, pari, all’altezza’ così come l’espressione spagnola perro viejo’cane vecchio’, la quale indica un uomo esperto delle cose del mondo, è da ricondurre al superlativo latino perveterem ’molto vecchio’.

Mi piace ancora fare quest’ultimo esempio di italiano secchia o secchione, come per gettare luce anche sui precedenti esempi. Questi termini indicano, con linguaggio metaforico, un alunno che studia assiduamente, e ciò si è verificato per nessun altro motivo se non quello per cui l’aggettivo latino sedulum ‘assiduo, diligente’, mutato in sedlum nel linguaggio quotidiano, si confuse facilmente con i termini sit(u)lum ’secchio’ o sit(u)lam ‘secchia, successivamente diventati a loro volta siclum, siclam’. Queste furono, a mio avviso, le forme immediatamente precedenti a quelle italiane secchio e secchia, mentre la voce.dotta sedulo è stata introdotta piuttosto recentemente.

A me sembra infine che i grammatici precedenti abbiano trascurato questi fenomeni pieni di piacevolezza ed utilità, e che senza pensarci continuano a farlo anche oggi.

 





domenica 24 gennaio 2021

Va' a ccàca!

 



   Incredibile! L’espressione volgare va’ a ccàca! ‘vai via, vai in malora!’ letter. ‘vai a cacare!’  detto in malo modo, all’origine non aveva questa carica oscèna.  Essa doveva essere la seguente, in latino: vade; age,age, (vade)! ‘vai; orsù vai!’.  L’imperativo ag-ĕ del verbo ag-ĕre ’fare, agire, spingere’ si sa che, anche ripetuto, fungeva da interiezione col significato di ‘orsù, suvvia, ebbene’.  Sicchè la frase dové essere pronunciata dal popolo più o meno così: va(de)  ag’-àghĕ!, o meglio v’ag’àghĕ, inteso, quindi, quando subentrarono i dialetti italiani come ‘va’ a ccàca’.  L’espressione presuppone la sua presenza già nel latino classico, in cui la lettera –g- di agĕ aveva suono velare non palatale.  Che non si tratta del verbo latino cac-are ’cacare’ ce lo dice non tanto la ritrazione dell’accento sulla prima sillaba -ca- (si può usare, in dialetto, anche la forma italianeggiante va’ a cacà), quanto il fatto che all’imperativo plurale si ha stabilmente la forma jàt’ a ccacà! ‘andate a cacare’ e non jat’a ccàca!.  Una forma latina dell’imperativo plurale, corrispondente a quella dell’impertivo singolare, sarebbe stata vadite; agite, agite, (vadite) ‘andate, orsù (andate)’ la quale  non si sarebbe prestata, però, alla confusione  col verbo lat. cac-are.

  A Trasacco-Aq nella Marsica la stessa espressione valeva, metaforicamente, ‘ vai via stupido’ o ‘vattene, perché  non servi a nulla’[1].  In altri articoli ho avuto modo di rintracciare parecchie parole greche  nei nostri dialetti marsicani, sicchè quello stupido o inetto, incapace dell’espressione trasaccana mi pare attestare l’incrocio con il gr. kak-ós ’cattivo’, il quale aveva anche il significato di ‘inetto, incapace, inadeguato’. 



[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-AQ, 2003.

   


venerdì 22 gennaio 2021

Le mura ciclopiche.

 



 

   E’ abbastanza facile che le espressioni che si usano normalmente nella lingua di tutti i giorni, essendo spesso antichissime, nascondano un significato poco o molto diverso da quello usuale eppure nessuno si sogna di andarlo a scovare: si può dire, insomma, che talora usiamo locuzioni di lingue del lontano passato senza averne la pur minima contezza. 

  Una di queste locuzioni è, appunto, mura ciclopiche il cui significato di superficie è ‘mura costituite da massi poligonali piuttosto grandi, tanto che sembrano essere stati messi in opera dai famosi giganti mitologici dotati di un solo occhio al centro della fronte, come le mura di Argo,Tirinto e Micene nel Peloponneso, attribuite talora anche ai Pelasgi preellenici.  In realtà sappiamo benissimo che gli antichi conoscevano bene i sistemi e le tecniche per poter spostare e collocare al loro posto grandi macigni.  Se ad Atene esisteva una muraglia  chiamata muro pelasgico è quasi sicuro, a mio avviso, che l’aggettivo non si riferisse al supposto popolo preellenico che l’avrebbe costruita, ma alla muraglia stessa, di cui doveva essere un antico nome, poi caduto dall’uso.  Da noi ad Aielli-Aq la voce muràjja ’muraglia’ viene riferita solo ad un muro a secco, tipico delle mura ciclopiche.

    Anche per questa parola ciclope si verificò quello che succede più o meno a tutte le parole che  circolano da molti millenni: l’incrocio con altri termini simili.  La cosa, relativamente a ciclope, si può di primo acchito sospettare anche solo riflettendo sul racconto omerico a tutti noto dell’incontro del ciclope Polifemo con Ulisse e i suoi compagni.  Il ciclope era solito chiudere l’ingresso della grande grotta in cui abitava con un enorme macigno; enormi macigni confitti nel terreno costituivano  il recinto dinanzi ad essa, e quando Ulisse e i suoi compagni, dopo averlo accecato, risalirono precipitosamente sulla loro nave per sfuggire alla sua ira, il mostro imbestialito lanciò verso il mare massi enormi come cocuzzoli di montagna che, per fortuna, mancarono il bersaglio. Le Isole dei Ciclopi, faraglioni  dinanzi ad Aci Trezza nella provincia di Catania in Sicilia,  non traggono naturalmente il nome  dall’episodio  raccontato da Omero ma quasi sicuramente si trovavano lì, con quel nome, già in tempi precedenti a quelli del racconto, sebbene mitici[1],e, anzi, dovettero contribuire certamente alla nascita o sviluppo della narrazione omerica.

    Nel monte Cimo (Val d’Adige) si trova una strapiombante parete nota come Scoglio dei Ciclopi: molti penseranno che il nome sia dovuto alla reminiscenza degli Scogli dei Ciclopi siciliani di Aci Trezza, ma a riportarci con i piedi per terra sono umili voci dialettali abruzzesi come chichil-ònë (Lanciano-Ch.) ’pietra grande, grandine’ o come cìcëlë ’ciottolo, endice’[2]. Questi ultimi due significati, in particolare, sembrano sottolineare la ‘rotondità’ del sasso arrotondato (ciottolo) e dell’uovo, vero o finto, che si metteva nel nido dove le galline deponevano le uova.  Allora è molto appropriato supporre che i due termini dialettali non sono altro che l’esito del gr. kýkl-os ’circolo, ruota, ecc.’ attraverso l’inserimento  di una vocale anaptittica tra le lettera –k- e –l- che ha generato, appunto, chichil-òne e cìcë, quest’ultimo con la palatalizzazione della velare sorda –k-.  L’it. bicicletta, infatti, nel dialetto di Aielli-Aq, ad esempio, si trasforma in bëcëchëllétta. Ora bisogna osservare, però, che  il concetto di “rotondità” includeva, all’origine, anche quelli di “curva, piega, piegatura” nonché di “massa, masso, macigno”. Sia detto en passant, anche il macigno è un prodotto della ‘macina’, pietra cilindrica o comunque circolare dei mulini.

    I mostruosi e giganteschi  ciclopi  probabilmente erano stati originati proprio dai significati di ‘scogli, grandi rupi(minacciose)’ e successivamente si erano arricchiti di altri significati come quello di ‘occhio (-ṓps) rotondo (kýkl-)’. Del resto il gr. kýkl-ōps, come aggettivo (v. vocab. del Rocci), vale solo ‘rotondo, circolare’(altra spia della ripetizione tautologica). E non si è prestata attenzione al fatto che in greco anche il solo kýkl-os ’cerchio’ significava ‘bulbo dell’occhio, occhio’ e che quindi il termine kýkl-ōps ripeteva tautologicamente, nei due membri, lo stesso significato di ‘occhio’ o di ‘pietra, scoglio’. 

   Bisogna conoscerli questi fenomeni essenziali della Lingua per riuscire a sfuggire alle interpretazioni tradizionali di questi racconti, interpretazioni che altrimenti restano quasi obbligate, come è successo  da migliaia di anni a questa parte.

     



[1] Per una più dettagliata disamina della questione si legga il mio articolo  Isole dei Ciclopi. Genesi e sviluppo del mito (presente nel mio blog, 29/6/2018).

 [2] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla  Edit. Cerchio-Aq, 2004.

     




mercoledì 20 gennaio 2021

La formula omerica “parole volanti, alate”.

 

          

  

 

   Si sa che Omero, o chi per lui in tempi più antichi, usava un linguaggio formulare, che ripeteva spesso epiteti esornativi fissi, relativi ad un personaggio, ad un oggetto o alle stesse parole, indicate appunto come épea pteróentaparole(épea) alate’.  Ora, che io sappia, tutti i commentatori, antichi e moderni,  spiegano questa formula osservando che le parole sono paragonate dal poeta a frecce volanti, scoccate dalla bocca di chi parla.  A parte la considerazione che non sempre le parole escono dalla bocca con la stessa veemenza di una freccia scoccata dall’arco e che Omero usando quest’epiteto non lo riferisce a questo tipo di parole, credo, ma soprattutto alle parole in genere,  mi pare opportuno fare la seguente osservazione: le parole sono composte di suoni uscenti dalla bocca e diretti a qualcuno, esse sono semplicemente  suoni la cui natura è quella di espandersi e fluire nell'aria, non importa se in modo pacato o violento.  Non per nulla il lat. son-u(m) ’suono’ significa anche ‘parola’ come il gr. phō-n- ‘suono, voce, parola, espressione, lingua’ apparentato con gr. phá-sthai  ‘dire, parlare’, gr. phmē (dor. pháma) ‘voce, parola, fama’, lat. fam-a(m) ‘fama, voce, notizia, diceria’. C’è da notare en passant che questa radice indicante il ‘suono’ combaciava con quella di gr. phaín-ein ‘portare alla luce, mostrare, rendere noto, annunziare’ ma anche, intransitivamente ‘ apparire, brillare, splendere’. Esisteva anche una forma secondaria phá-ein ‘splendere’. Io sono dell’avviso che il significato di ‘rendere noto, annunziare’ richiami quello di ‘suono’ della radice suddetta di phá-sthai ‘dire, parlare’, la quale poteva prestarsi però anche ad indicare la ‘luce’, in quanto emanzazione (di fotoni, diremmo oggi) uguale all’emanazione del suono di cui ho parlato prima. Infatti Omero (Od. 8,499), parlando del cantore Demodoco nella reggia di Alcinoo, usa l’espressione phaîne d’aoidn che letteralmente varrebbe ‘fece vedere, mostrò il suo canto’ ma che logicamente vale ‘espresse, spiegò, intonò,  fece risonare il suo canto, in quanto bisogna dare al verbo un significato sonoro, non visivo.    

   Inoltre la radice di gr. pter-ón ‘penna, piuma, ala, freccia, ecc.’ è la stessa, ridotta, di gr. pét-esthai ‘volare, sfuggire, cadere’, gr. pí-pt-ein ‘cadere’, pot-am-ós ‘fiume, corrente’, lat. pet-ĕre che ha sia un significato per così dire normale di ‘andare, dirigersi, rivolgersi, chiedere’ sia uno violento di ‘assalire, aggredire’. In verità il valore originario doveva essere quello del semplice  ’movimento’ senza specificazioni, come avviene, secondo me, anche nelle parole greche citate. 

   Ora, senza andare troppo per le lunghe, tornando alle omeriche épea pter-óenta parole volanti’ credo che bisogna intendere quel pter-óenta come aggettivo riferito, all’origine, proprio e solo alle parole stesse, di cui indica la natura profonda di emanazione, espansione: la parola, insomma è un suono che si espande, si diffonde, significati ben esprimibili dalla radice suddetta pet- per ‘movimento’.  Omero, o i cantori a lui precedenti vissuti nella preistoria, non avevano voluto istituire insomma un paragone, che poi è parso facile e, direi, obbligato nello stadio successivo della lingua, tra le parole e le frecce volanti  ma solo definire le parole stesse.  Un’altra possibilità, forse quella vera, è che il termine pter-óenta significasse proprio ‘parole’, in qualche dialetto del passato, e fosse unito tautologicamente alla parola precedente (come, ad esempio, nell’it. gira-volta) finito poi come forma aggettivale aggiunta per ornamento ad épea ‘parole’.  A me non pare troppo casuale, infatti, la somiglianza della radice pet, pt con quella aspirata di gr. phth-éng-esthai ‘risuonare, parlare’, gr. phth-óng-os ‘suono’. E non è da sottovalutare la radice dell’importante dio egizio Ptah o Peteh, gr. Phthá, protettore degli artigiani ed artisti, creatore di tutte le cose del mondo: gli bastò pronunciare il nome delle cose perché esse acquisissero forma e vita.  Ci dovrà essere stato, quindi, l’incrocio della radice del nome di questa divinità che è quella del verbo pth ’plasmare, formare, creare’ con qualche altro termine per ‘lingua, parola’ corrispondente alla suddetta radice greca phth- il cui etimo è molto incerto.

  

 

 





sabato 16 gennaio 2021

Con la coda dell'occhio.


    

 

    Mi pare di non aver mai ben riflettuto sull'espressione "seguire (guardare) con la coda dell'occhio" di cui tutti, credo, conoscono il significato: guardare non direttamente ma lateralmente e, talvolta, come per non farsene accorgere, facendo finta di non vedere. Ora, secondo me, non esiste espressione metaforica più infelice di questa, in cui si adoperi la parola "coda" con significato figurato. La "coda" va a pennello per indicare, ad esempio, la parte estrema di una fila di persone o la fila stessa, le ultime carrozze di un treno, l’estremità posteriore di un aereo o la fine di un discorso, le conseguenze di un'azione, ecc. La "coda" di un occhio, sinceramente, mi pare almeno un uso improprio della parola. Penso, pertanto, che l'espressione sia il risultato finale di un'altra che aveva però un significato opposto, quello di guardare con occhio "cauto", cioè attento. L'agg. "cauto" viene dal lat. caut-u(m), dal verbo cav-ere 'far attenzione, guardarsi, ecc.'. Esso avrà messo in moto, già nel latino parlato, l'operazione metaforica favorita dalla somiglianza tra l'agg. caut-um ’cauto’ e la parola lat. caud-am 'coda', per cui "con cauto occhio (lat. cauto oculo)" si trasformò in " con la coda dell'occhio (lat. caudā oculi)". La lingua approfitta sempre di situazioni adatte a produrre significati particolari da altri precedenti, anche opposti. Tutte le volte che può non si sforza di creare ex novo ma comodamente ricicla il materiale preesistente. Viva la Lingua riciclona!

    Un'altra possibilità, forse quella giusta (perché più semplice e diretta) è che la parola "coda" ricicli un precedente termine kut 'angolo' di origine serbo-croata, variante di slavo katu'angolo' , e indichi l'angolo dell'occhio, appunto, formato dalle due palpebre. Infatti nelle lingue che in qualche modo conosco si insiste sull' "angolo" dell'occhio. In ingl. la frase suona: to look out of the corner of one's eye; in tedesco si ha : aus dem Augenwinkel schauen; in francese: regarder du coin de l'oeil. Anche in portoghese e in greco moderno compaiono termini per “angolo”. Direi, pertanto, che anche l'italiano, a voce di popolo, per così dire, dové usare una simile parola, che però ebbe la disavventura di incrociarsi con l'inopportuna "coda".

    Ma ora che ci penso bene, la soluzione finale potrebbe essere ancora più semplice e diretta, e quindi più vera. La parola coin'angolo' della locuzione francese precedente, viene dal lat. cune-u(m) 'cuneo, triangolo, figura triangolare': esso infatti è una "punta" a sezione triangolare. L'ingl. corner 'angolo' richiama il lat. cornu'corno, punta, rigonfiamento'. Allora c'è da fare la considerazione che il significato originario di lat. caud-a(m) 'coda, membro virile' dovesse per forza essere quello di 'protuberanza, sporgenza, prominenza', significato generale che comprendeva gli altri due specializzati di 'coda' e 'punta': quest'ultimo diede anche quello di 'membro virile'. La stessa cosa ritorna nel ted. Schwanz'coda' ma anche 'membro virile', nello spagn. rabo ‘coda’ ma anche ‘membro virile’, e in altre lingue. Allora si capisce meglio anche l’espressione spagnola mirar con el rabillo del ojo ‘guardare con la coda dell’occhio’ in cui rabillo più che ‘codino’ doveva significare all’inizio ‘punta, angolo’. Stando così le cose non ci sarebbe stato bisogno nemmeno dell'incrocio di lat. caud-a(m) 'coda' con il serbo croato kut 'angolo' o slavo katu 'angolo' per dar vita al significato di 'angolo (dell'occhio)' essendo ben sufficiente il lat. caud-a(m) da solo a generarlo, ma non come valore figurato di coda bensì come significato originario di lat. caud-a(m).-a(m). In questo caso, però, bisogna supporre che l'espressione "guardare con la coda dell'occhio" fosse già viva nel latino parlato, benchè il suo significato di ‘membro virile’, e quindi ‘punta’, si sia trascinato anche nell’it. coda usato, sia pur raramente, con tale significato (v. vocab. De Mauro). Il latino classico usava l'espressione "spectare limis oculis" cioè 'guardare con occhi obliqui'. In greco antico kanth-όs valeva ‘angolo dell’occhio, occhio’ ma anche ‘cerchione (di una ruota)’. I due significati sembrano essere inconciliabili, ma in realtà fanno capo entrambi ad un‘idea di “curva” la quale poteva avere anche una forma alquanto appuntita e trapassare così, facilmente, all’idea di “spigolo, angolo, punta’: oh, meravigliosa iridescenza dei significati! Anche il bulbo dell’occhio può rientrare nel concetto di “curva, rotondità”. In latino si ebbe, come calco dal greco, canth-um ‘cerchione della ruota, ruota’, ma in portoghese canto significa ‘angolo’ senza riferimento obbligato all’occhio. In italiano abbiamo cantocantone ‘angolo di una stanza, edificio’. In greco moderno sarà andato perduto il kanth-όs ‘angolo dell’occhio’ del greco antico e si ha il generico gōni ‘angolo’, il quale esisteva anche nell’antico, con l’accento ritratto sulla –i-, cioè gōní-a angolo, canto’, termine che nella Bibbia dei Settanta appare col significato di ‘capo, principe’: come mai? Non si tratta di incrocio con altra radice, ma sempre della stessa radice che, col significato di ‘angolo’, poteva passare ad indicare anche una ‘punta’, sia in senso proprio che metaforico. In greco moderno angolo dell’occhio si traduce gōniá (angolo) tou matioú (occhio). Credo sia opportuno introdurre anche il grkṓn-os ‘cono, pino’ che ha tutta l’aria di una variante originaria, in velare sorda, dell’altra radice. Anche in questo caso il termine maschile ho kṓn-os il cono’ non è metafora dell’altro femminile  kṓn-os ‘il pino’, o viceversa, ma ambedue sono tributari del significato di ‘protuberanza, punta’ che contengono al loro interno, prima delle relative specializzazioni, sebbene lo schema del cono sia uguale a quello della chioma del pino.

    Questo articoletto mi pare molto interessante perchè evidenzia la mia marcia di avvicinamento graduale, con relativo aggiustamento del tiro, alla soluzione finale, la quale elimina stupendamente le precedenti due supposizioni meno dirette, in quanto cercavano la soluzione fuori del termine caud-a(m) 'coda' mentre essa se ne stava ben nascosta sotto il termine stesso. Che caud-a(m) significasse originariamente 'punta' è in qualche modo confermato anche dallo stesso termine latino caut-e(m) 'scoglio', quasi omofono, che in fondo deve essere considerato una sua variante, dato il probabile significato originario di 'punta'. Significato che va soggetto anch’esso a specializzazioni, prestandosi ad indicare sia la parte estrema di un oggetto più o meno sottile, sia l’intero oggetto. Ad Aielli-Aq, il mio paese, la cote era chiamata coda ed aveva sempre il profilo uguale a quello di due triangoli isosceli uniti per la base. In latino cot-e(m) ‘cote’ significava anche ‘scoglio’ e quindi era variante del sopracitato lat. caut-e(m) ‘scoglio’.

   Tutto questo girovagare in cerca della vera soluzione è dovuto al fatto che per noi poveri uomini di oggi la coda è principalmente la parte estrema del corpo di un animale (un quadrupede, ad esempio), il quale ha una testa e una coda, appunto. Mentre all’origine coda valeva solo ‘estremità, punta, protuberanza’ senza riferimento alcuno ad un corpo d’animale, e avrebbe potuto significare anche ‘testa’ se la Lingua avesse voluto fare questa scelta.



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Mi pare di non aver mai ben riflettuto sull'espressione "seguire (guardare) con la coda dell'occhio" di cui tutti, credo, conoscono il significato: guardare non direttamente ma lateralmente e, talvolta, come per non farsene accorgere, facendo finta di non vedere. Ora, secondo me, non esiste espressione metaforica più infelice di questa, in cui si adoperi la parola "coda" con significato figurato. La "coda" va a pennello per indicare, ad esempio, la parte estrema di una fila di persone  o la fila stessa, le ultime carrozze di un treno, l’estremità posteriore di un aereo o la fine di un discorso, le conseguenze di un'azione, ecc. La "coda" di un occhio, sinceramente, mi pare almeno un uso improprio della parola. Penso, pertanto, che l'espressione sia il risultato finale di un'altra che aveva però un significato opposto, quello di guardare con occhio "cauto", cioè attento. L'agg. "cauto" viene dal lat. caut-u(m), dal verbo cav-ere 'far attenzione, guardarsi, ecc.'. Esso avrà messo in moto, già nel latino parlato, l'operazione metaforica favorita dalla somiglianza tra l'agg. caut-um ’cauto’ e la parola lat. caud-am 'coda', per cui "con cauto occhio (lat. cauto oculo)" si trasformò in " con la coda dell'occhio (lat. caudā oculi)". La lingua approfitta sempre di situazioni adatte a produrre significati particolari da altri precedenti, anche opposti. Tutte le volte che può non si sforza di creare ex novo ma comodamente ricicla il materiale preesistente. Viva la Lingua riciclona!

 

   Un'altra possibilità, forse quella giusta (perché più semplice e diretta) è che la parola "coda" ricicli un precedente termine kut 'angolo' di origine serbo-croata, variante di slavo katu 'angolo' , e indichi l'angolo dell'occhio, appunto, formato dalle due palpebre. Infatti nelle lingue che in qualche modo conosco si insiste sull' "angolo" dell'occhio. In ingl. la frase suona: to look out of the corner of one's eye; in tedesco si ha : aus dem Augenwinkel schauen; in francese: regarder du coin de l'oeil. Anche in portoghese e in greco moderno compaiono termini per “angolo”. Direi, pertanto, che anche l'italiano, a voce di popolo, per così dire, dové usare una simile parola, che però ebbe la disavventura di incrociarsi con l'inopportuna "coda".

    Ma ora che ci penso bene, la soluzione finale potrebbe essere ancora più semplice e diretta, e quindi più vera. La parola coin 'angolo' della locuzione francese precedente, viene dal lat. cune-u(m) 'cuneo, triangolo, figura triangolare': esso infatti è una "punta" a sezione triangolare. L'ingl. corner 'angolo' richiama il lat. cornu 'corno, punta, rigonfiamento'. Allora c'è da fare la considerazione  che il significato originario di lat. caud-a(m) 'coda, membro virile' dovesse per forza essere quello di 'protuberanza, sporgenza, prominenza', significato generale che comprendeva gli altri due specializzati di 'coda' e 'punta': quest'ultimo diede anche quello di 'membro virile'. La stessa cosa ritorna nel ted. Schwanz 'coda' ma anche 'membro virile', nello spagn. rabo ‘coda’ ma anche ‘membro virile’, e in altre lingue. Allora si capisce meglio anche l’espressione spagnola mirar con el rabillo del ojo ‘guardare con la coda dell’occhio’ in cui rabillo più che ‘codino’ doveva significare all’inizio ‘punta, angolo’. Stando così le cose non ci sarebbe stato bisogno nemmeno dell'incrocio di   lat. caud-a(m) 'coda' con il serbo croato kut 'angolo' o slavo katu 'angolo' per dar vita al significato di 'angolo (dell'occhio)' essendo ben sufficiente il lat. caud-a(m) da solo a generarlo, ma non come valore figurato di coda bensì come significato originario di lat. caud-a(m). In questo caso, però, bisogna supporre che l'espressione "guardare con la coda dell'occhio" fosse già viva nel latino parlato, benchè il suo significato di ‘membro virile’, e quindi ‘punta’, si sia trascinato anche nell’it. coda usato, sia pur raramente, con tale significato (v. vocab. De Mauro). Il latino classico usava l'espressione "spectare limis oculis" cioè 'guardare con occhi obliqui'. In greco antico kanth-όs valeva ‘angolo dell’occhio, occhio’ ma anche ‘cerchione (di una ruota)’.  I due significati sembrano essere inconciliabili, ma in realtà fanno capo entrambi ad un‘idea di “curva” la quale poteva avere anche una forma alquanto appuntita e trapassare così, facilmente, all’idea di “spigolo, angolo, punta’: oh, meravigliosa iridescenza dei significati! Anche il bulbo dell’occhio può rientrare nel concetto di “curva, rotondità”.  In latino si ebbe, come calco dal greco, canth-um ‘cerchione della ruota, ruota’, ma in portoghese canto significa ‘angolo’ senza riferimento obbligato all’occhio. In italiano abbiamo canto, cantone ‘angolo di una stanza, edificio’. In greco moderno sarà andato perduto il kanth-όs ‘angolo dell’occhio’ del greco antico e si ha il generico gōni-á ‘angolo’, il quale esisteva anche nell’antico, con l’accento ritratto sulla –i-, cioè gōní-a  angolo, canto’, termine che nella Bibbia dei Settanta appare col significato di ‘capo, principe’: come mai? Non si tratta di incrocio con altra radice, ma sempre della stessa radice che, col significato di ‘angolo’, poteva passare ad indicare anche una ‘punta’,  sia in senso proprio che metaforico. In greco moderno angolo dell’occhio si traduce gōniá (angolo)  tou matioú (occhio). Credo sia opportuno introdurre anche il gr. kṓn-os ‘cono, pino’ che ha tutta l’aria di una variante originaria, in velare sorda, dell’altra radice. Anche in questo caso il termine maschile ho kṓn-os il cono’ non è metafora dell’altro femminile kṓn-osil pino’, o viceversa, ma ambedue sono tributari del significato di ‘protuberanza, punta’ che contengono al loro interno, prima delle relative specializzazioni, sebbene lo schema del cono sia uguale a quello della chioma del pino.

    Questo articoletto mi pare molto interessante perchè evidenzia la mia marcia di avvicinamento graduale, con relativo aggiustamento del tiro, alla soluzione finale, la quale elimina stupendamente le precedenti due supposizioni meno dirette, in quanto cercavano la soluzione fuori del termine caud-a(m) 'coda' mentre essa se ne stava ben nascosta sotto il termine stesso. Che caud-a(m) significasse originariamente 'punta' è in qualche modo confermato anche dallo stesso termine latino caut-e(m) 'scoglio', quasi omofono, che in fondo deve essere considerato una sua variante, dato il probabile significato originario di 'punta'. Significato che va soggetto anch’esso a specializzazioni, prestandosi ad indicare sia la parte estrema di un oggetto più o meno sottile, sia l’intero oggetto. Ad Aielli-Aq, il mio paese, la cote era chiamata coda ed aveva sempre il profilo uguale a quello di due triangoli isosceli uniti per la base. In latino cot-e(m) ‘cote’ significava anche ‘scoglio’ e quindi era variante del sopracitato lat. caut-e(m) ‘scoglio’.

    Tutto questo girovagare in cerca della vera soluzione è dovuto al fatto che per noi poveri uomini di oggi la coda è principalmente la parte estrema del corpo di un animale (un quadrupede, ad esempio), il quale ha una testa e una coda, appunto. Mentre all’origine coda valeva solo ‘estremità, punta, protuberanza’ senza riferimento alcuno ad un corpo d’animale, e avrebbe potuto significare anche ‘testa’ se la Lingua avesse voluto fare questa scelta.