venerdì 31 maggio 2019

La cantilena sulla lumaca a Pagliara dei Marsi.







Esci, esci, ciammaruca
màmmata s’è peruta,
pàtrete s’è ‘mpiccato
alla forca deglio pelato.

Pagliara dei Marsi è l’unica frazione di Castellafiume-Aq, composta di poche decine d’anime.  Riporto il testo per la sua forte somiglianza con quello di Aielli, il mio paese.  Ma il motivo dell’impiccagione del padre si ritrova anche in una filastrocca veneta, la n. 105 del catalogo di Giovanni Grosskopf di cui ho parlato.    Qui però si dice màmmata s’è perùta  (tua madre è morta) al posto di quella che dovrebbe essere formula normale màmmeta s’è morta (Aielli).  Ora, se nel dialetto di Pagliara che non conosco si dice normalmente s’è peruta (è perita) al posto di s’è morta, si tratterà di una probabile resa nel dialetto locale della formula s’è morta più generale. Altrimenti bisognerebbe cercare una radice attinente ai concetti di  chiocciola, corna o guscio.     Nel testo aiellese si nominano le forche di san Donato, che qui diventano la forca del pelato. Per forca abbiamo già individuato in latino e soprattutto nei dialetti il significato di ‘buco, tana’.  Resta il pelato che a mio parere non è altro che il gr. pýl(ai) Áid-ou ‘porte dell’Ade’. ‘Orco’, ‘mondo sotterraneo’. Il gr. Áid-ēs lo considero imparentato col lat. aed-e(m) ‘casa, tempio’.  Quindi il significato originario di questa espressione greca doveva essere quello di cavità, fossa, baratro e perciò adatto ad indicare anche il guscio della lumaca. Comunque non è impossibile che pelato sia ampliamento della base dell’it. pila ‘recipiente grande e profondo’ che nel lat. pil-a(m) valeva ‘mortaio’. I dialettali pil-όzzë, pël-όzzë indicano l’abbeveratoio. Numerose erano nell’antichità le grotte dell’Ade o di Plutone in Grecia e altrove come quella famosa di Eleusi, considerate ingresso per l’aldilà[1].

    Immagino uomini primitivi che con donne e ragazzi uscivano fuori dell’abitato in cerca di lumache dopo una pioggia in tutti i paesi in cui esse si trovano.  E li vedo recitare simili filastrocche, inserite forse in qualche cerimonia rituale o in qualche pratica magica, ma è un grande errore pensare che quelle che appaiono come incongruenze alla luce della logica siano il risultato di questa mentalità aperta alla magia e al fantastico. Le parole delle loro filastrocche erano il risultato anche per loro dell’incrociarsi di termini nel corso dei millenni, cosa che semmai favoriva ed alimentava la loro apertura al fantastico.   Nel numero prossimo di Quaderni di Semantica porterò un esempio inconfutabile che qui non posso rivelare.




[1] Cfr. nel blog  il mio articolo Epiteti di Ade (giugno 2009).



mercoledì 29 maggio 2019

La cornamusa




C’è poco da fare! Tutti gli etimologi vengono incantati dal suono caratteristico della cornamusa e, di conseguenza, ne danno una spiegazione sonora. Il termine verrebbe dall’unione dei due verbi francesi corner ‘suonare il corno’ e muser ‘suonare la cornamusa’ che, insieme, avrebbero generato cornemuser ‘suonare la cornamusa’.  In barba al fatto che le due componenti, come abbiamo visto in articoli precedenti, possono avere anche il significato di ‘cavità’ e riferirsi al caratteristico otre dello strumento.  L’incanto opera anche nella spiegazione dell’ingl. bag-pipe ‘cornamusa’ la cui componente –pipe, che ha diversi significati come ‘canna’ e ‘botte’, oltre a quello di ‘piffero’ viene riportata ad una radice sonora presente nel lat. pip-are ‘chiocciare’, lat. pipi-are ‘pigolare’, ecc.  La componente bag-  ‘ borsa, sacco’ non si è prestata ad una interpretazione sonora.  Anche in francese pipe ha il significato di ‘grossa botte’ oltre a quello di ‘pipa’. Il francese popolare pipel-et vale ‘portinaio’ e potrebbe alludere proprio alla porta in quanto cavità, buco. Naturalmente ci fu poi l’incrocio con radici corrispondenti formalmente ma con significato sonoro.

   Ma la denominazione più esilarante è quella di zi-peppe [1] ‘orinale (Toscana, Lazio, Campania, Abruzzo) che i linguisti non possono non attribuire alle numerose voci considerate scherzose: qui si indicherebbe un non meglio identificato zio Peppe!  In realtà si tratta, a mio avviso, sempre della stessa radice pip(p) con valore di ‘cavità, vaso’. Di zio parlerò fra poco. Esiste anche la variante romanesca don Pepp-ino per ‘orinale’; la componente don è, a mio parere, la stessa di ingl. tunn-el, fr. tonn-eau ‘botte’ di cui abbiamo parlato in articoli precedenti. Se essa provenisse da una forma dom (cfr. lat. dom-in-um ‘signore’) allora entrerebbe in ballo la radice dom- per ‘cavità’ di cui rimando agli articoli su san Domenico.

   Per la voce zio comincio col far notare che in toponomastica sono frequenti le denominazioni come Zia Maria (Aielli-Aq), Zio Angelino (Venere di Pescina-Aq), Zio Totò  (Ustica) riferite a grotte.

    Ma la cosa più interessante è l’esistenza di gr. dõ ‘casa’ considerata dai grammatici antichi come un’abbreviazione di dõma ‘casa’, lat. dom-u(m) ‘casa’. Ma già altri[2], prima di me, si erano accorti che questo dõ ’casa’ non aveva a che fare con dõma (questo, semmai, ne era, a mio parere, un ampliamento dovuto ad aggiunta di altra radice). Nel libro citato infatti (pag. 211, nota 176) si dice che probabilmente in origine il era un avverbio di luogo con il significato di «a» come suggerirebbe il lat. arc. en-do, in-du ‘in’.  Questo commento è, a mio avviso, esatto; solo preciserei che inizialmente il monosillabo in questione poteva fungere indifferentemente da avverbio o da sostantivo vero e proprio. Il monosillabo corrisponde all’ingl. to ‘a’, ted. zu ‘a’ e alle varie forme za, ze, zi registrate in area germanica. Ergo, lo zio suddetto dovrebbe rappresentare questo-avverbio-sostantivo ad indicare la cavità, della grotta o di qualsiasi vaso o recipiente.

   Altre considerazioni ci sarebbero da fare, ma, vi prego, abbuonatemele: al punto di conoscenza in cui mi trovo, mi basterebbe desumere subito da ogni termine, il significato giusto originario, senza tema di sbagliare e senza dover più sottopormi alla ricerca di conferme. Grazie.





[1] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998
[2]  Cfr. Heubeck- West, Omero, Odissea libri I-IV, Arnaldo Mondadori edit,1990.

martedì 28 maggio 2019

Filastrocca sulla lumaca a Crecchio-CH



    Il testo è il seguente: Ciammaiecchë a quattrë corna,/dimme, mammata addonna dorma./Dorma ‘m mezzë a la frattë,/ciammaiecchë a quattrë a quattrë. Ho sostituito solo gli apostrofi con il simbolo della /e/ muta o vocale evanescente.Trad: Lumaca a quattro corna, dimmi, tua madre dove dorme. Dorme in mezzo alla fratta, lumaca a quattro a quattro. La fonte di questa filastrocca è l’AIS (Atlante italo-svizzero compilato da studiosi elvetici intorno al 1915).

    Ritornano naturalmente le corna (che però sono quattro, come in altre filastrocche), la figura della mamma che dorme,  come abbiamo abbondantemente visto nell’articolo di qualche giorno fa. Qui essa dorme, con puntigliosa precisazione, in mezzo ad una fratta! Per il numero quattro rinvierei ad uno dei significati della radice catr-, ‘pollone, punta’ dell’articolo Quatranë,voce abruzzese irriducibile. Ma vi è un’altra possibilità, che il quattro debba intendersi come derivante dal lat. coact-u(m), part.passato del verbo cog-ĕre ‘raccogliere, conficcare, costringere, ecc.’ e riferirsi alle corna tenute serrate dentro il guscio.  Il verso finale ciammaiechĕ a quattrĕ a quattrĕ potrebbe essere molto chiarificatore ed indicare la chiocciola per così dire acquattata nel suo guscio (pensiamo al napoletano quattĕ ‘quattro’).  C’è una bella espressione italiana che, a mio avviso, chiarisce i diversi significati che uno stesso termine presenta. Essa è : in quattro e quattr’otto. Ne ho parlato non ricordo in quale articolo, e spesso la spiegavo ai miei studenti. In verità l’espressione è completamente fasulla per quanto riguarda il suo significato superficiale, la sua veste mostrata a tutti. Nessuno, o pochi, si chiedono il perché della locuzione e il motivo per cui tra le diverse operazioni possibili si sia scelto proprio quella. Il fatto è che, grattando grattando, si scopre che dietro il quattro (napoletano quattë ‘quattro’) si nasconde l’avverbio lat. coacte che vale anche ‘alla svelta, velocemente, in fretta’. Dietro l’otto si nasconde, sornione, l’avverbio lat. ociter ‘velocemente, rapidamente’. Naturalmente il trascolorare di ociter in otto presuppone (senza ricorrere all’etimologia popolare) la pronuncia dura della /c/, come avveniva ancora in epoca classica per il latino. Per capirci *okiter, in virtù dell’accento iniziale vedeva oscurarsi le vocali successive diventando *okt(r) da cui l’otto. Quindi il detto proverbiale non è stato inventato l’altro ieri, ma molto, molto tempo fa. Anche qui c’entra la mentalità dell’uomo primitivo tutto dedito alle sue pratiche magiche?

   Resta l’esilarante espressione ‘m mezzë a la fratte ‘in mezzo alla fratta: ma stava proprio comoda lì?.  In genere nei nostri dialetti ho potuto costatare che l’aggettivo mézzë proviene da un precedente mésë ‘mezzo’ come a Luco, Trasacco. A Cerchio-Aq la forma arcaica è imperante. Ad Aielli-Aq, mi assicurava il compianto Giuseppe Gualtieri, anticamente le due forme convivevano come si può del resto arguire dal verbo smësà ‘dimezzare’.  Quindi è presumibile che l’espressione in questione suonasse anticamente ‘m mésë a la frattë.  Io credo che la parola valesse in antico ‘cavità’ o simile, dato che in molti nostri paesi la voce mésa vale ‘madia’. Cfr. abruzzese mës-éllë [1]‘sacchetto in cui si fa mangiare la profenda’ ma anche ‘madia’, ligure-piemontese musa [2]‘natura della donna e delle bovine’, dialetto di Trasacco-Aq. mόscia [3]‘natura della donna’, fr. mus-ette ‘tascapane dei soldati, tasca mangiatoia per cavalli’, it. mus-er-uola . E’ proprio vero che è vano pensare che le parole siano state inventate per la funzione specifica che sembrano svolgere: la museruola fa pensare al muso dell’animale, ma questa è una semplice illusione  ottica!  Il mio fiuto di ricercatore mi dice che anche nel gr. més(s)-aul-os ‘cortile, stanza, dimora’ la prima componente non aveva all’origine valore d’aggettivo ma di sostantivo col significato di ‘cavità, cortile’.  Incredibile, ma molto indicativo, è anche il nome dello schiavo del porcaio  Eumeo, che porta il pane sulla mensa intorno a cui si trovano Ulisse, finalmente approdato alla sua terra, e Eumeo (cfr. Odissea, XIV, 449). Ebbene il nome del servo è Mes-aúli-os , e sembra fatto apposta per indicare, etimologicamente, l’addetto alla mesa ‘madia’, alla dispensa. Inoltre ho già potuto constatare ce in diverse filastrocche compare l’aggettivo mise, mese col valore di ‘mezzo’.  Non fatemi perdere tempo a ritrovarle. E la fratta che c’entra con la filastrocca di Crecchio? C’entra perché la fratta dal greco tardo phráktē ‘fratta, siepe’ (non si creda all’etimo da lat. frang-ĕre ‘rompere’, rami rotti) etimologicamente indica proprio il chiudere, assiepare, avvolgere come fa il guscio della lumaca.  Colophon.

 Nei libri antichi il colophon era la sigla finale di un libro con indicazioni in genere sulla stampa.  Io vorrei intenderlo come fine delle mie ricerche, visto che non posso andare oltre nella conoscenza della natura della Lingua.  Dovrei trovare un altro campo d’azione, perché tutto quello che potrò scoprire non sarà altro che una conferma dei principi che già conosco.

Ma il mio destino è vivere/ balenando in burrasca, qualcuno ha detto.

Vincenzo Cardarelli

Gabbiani

Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro
in perpetuo volo.

La vita la sfioro
com'essi l'acqua ad acciuffare il cibo.

E come forse anch'essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.

1932



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq.  2004

[2] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998.

[3] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq. 2003.

lunedì 27 maggio 2019

Filastrocca sulla chiocciola a Sorrento.



La filastrocca n.21 dell’elenco riportato nel sito di cui ho detto proviene da Sorrento-Na, ed è molto interessante. Si invita la chiocciola ad uscire perché la madre la incorna come nella cantilena di Gallicchio-Pt.dove abbiamo interpretato questo verbo come sinonimo di ‘avvolgere’. Qui si aggiunge che la mamma la incorna ncopp’ a l’asteco, cioè sull’attico: come mai?  Qui non è difficile arrivare alla verità, perché sappiamo che l’it. lastrico deriva dal latino mediev. astrac-u(m), ‘coccio’ dal gr. όstrak-on’ coccio, conchiglia’ con la concrezione dell’articolo. E allo stesso modo si comporta il napoletano astecho ‘terrazzo (dell’attico)’.  Ci risiamo, quindi, col concetto di “guscio, conchiglia della chiocciola”.  Ma il bello è dato dal fatto che anche l’espressione ncoppa ‘incima’ è stata suggerita da altro nome della chiocciola del lontano passato, se la cuppulata in corso e in un dialetto sardo vale ‘tartaruga’. Il nome deve avere per forza a che spartire con la radice di it.coppo, coppa che indica varie cose e recipienti incavati.    Subito dopo si dice che fa figli maschi.  Qui credo ci sia dietro il lat. pl. mar-es ‘maschi, (figli maschi). Dico questo perché in diverse altre filastrocche, specie dell’area spagnola, compare la voce mar ‘mare’. Essa non è altro che la radice mar- ‘cavità’ di cui abbiamo parlato a proposito del campano-calabrese-napoletano mar-uzza ‘chiocciola’ e del napoletano mar-uzz-ella ‘ricciolo, ragazza vivace’, nell’articolo di alcuni giorni fa La ciammaruca. .    I coppi ricompaiono in altre filastrocche col significato di ‘tetto, tegole’ (cfr. n. 23, n. 51) e si trasformano in verbo nel n.31 (zënza te copi -altrimenti ti uccido) in un dialetto ladino. 

   La filastrocca continua indicando luoghi precisi in cui avverrebbe  questo incornare, e cioè aret’a porta ‘dietro la porta’. La porta etimologicamente indica un passaggio, una cavità, concetto nascosto anche dietro a-rète ‘dietro’.  Per convincersene si abbia la pazienza di leggere nel blog il mio articolo intitolato I Marsi, popolo pacifico di contadini,pastori e pescatori (settembre 2013).  Spunta anche il diavule che se la porta via. Ma noi non ci crediamo perché in questo caso la parola diavule fa riferimento o al concetto di “animale” o a quello di “cavità”, in rapporto al guscio della chiocciola. Per farsene un’idea si legga il mio articolo Il paese di Gioia dei Marsi. Il suo vero etimo. Il diavolo di ha messo la coda ( agosto 2012).  La filastrocca finisce col dire che l’operazione dell’incornare avviene anche nel portone (purtusa), voce  che abbiamo già incontrata nella cantilena di Gallicchio-Pt, nel significato di ‘buco’ e con l’invito alla ciammaruca   di cacciare le corna.

    Ma è mai possibile che gli antropologi sdilinquiscano, cercando di dare spiegazione a questi nonsense  che a loro appaiono come effetti di una mentalità magica primitiva? Mah! io del resto non ho grossi titoli da esibire, ma credo di avere il diritto di dire la mia, surrogata da queste concrete osservazioni di natura sperimentale.  La ricerca diretta sul campo è dalla mia parte. Il nonsense, del resto, è molto chiaro: si tratta di una sorta di raccolta di nomi che hanno accompagnato l’uomo da epoche preistoriche! Una sorta di vocabolario costruito col favore di un accumulo durato millenni, vocabolario che apre un panorama straordinario e imprevisto sulla natura e l’origine della stessa Lingua dell’uomo.


domenica 26 maggio 2019

Quatrànë, voce abruzzese irriducibile.





Quatrànë, con le varianti quatràlë, quatràrë, significa ‘ragazzino, ragazzo’.  Non ne ho mai ascoltato un etimo soddisfacente. Del resto nemmeno io, che pure mi inerpico audacemente su sentieri di capra mai battuti,  finora sono riuscito a venire a capo di questa voce che sfugge a qualsiasi  approccio. Col mio fiuto, però, credo  di averne individuato, finalmente,  almeno le tracce. Seguitemi.

  Si incontrano non raramente nelle lingue termini indicanti i bambini   che coincidono con quelli indicanti polloni, getti, germogli, rampolli, ecc.  Valga uno per tutti, il gr. mόskh-os ‘rampollo, ramoscello, fanciullo, giovane, rondinino’. In it. il rampollo stesso  ha questo duplice valore come il lat. pull-u(m) da cui deriva, il quale ha anche quello di ‘pollo’.  Secondo il mio punto di vista ciò accade perché le radici all’origine esprimono una forza che, in questi casi, è quella che si trova dentro  un rampollo, sia esso da intendere come  piantina o come bambino o piccolo di altro animale. 

    Ora mi pare di aver individuato  nell’ingl. gad ‘pungolo (per animali)’, che etimologicamente vale anche  ‘barra, lancia, pertica, bastone’, l’origine prima dell’abruzzese quatrànë ‘ragazzino’. In antico norreno si ha gadr ‘punta, chiodo’ (fate ben attenzione alla /r/ finale in più).  Il ted. Gatter, variante di ted. Gitter, vale ‘cancello’, forse in riferimento alle sbarre lignee o metalliche del manufatto.   Della stessa origine è la voce toscana catro ‘cancello’. Tutto sommato, quindi, questo termine avrebbe potuto indi care anche un pollone cominciando così a dare una spiegazione della  voce abruzzese di cui si parla. Naturalmente è facile supporre, in questo quadro, che il nesso iniziale qua- sia dovuto ad influenza del latino  quadr-u(m) ‘quadro’. D’altronde dalle nostre parti è frequente la voce cèrca per quercia,in cui si è verificato lo stesso fenomeno, ma in senso inverso. In questo caso dovrebbe essere stato il latino ad innovare.

   E’ il momento di introdurre la voce calabrese catër-ìnë  ‘traversa del torchio nella quale gira la vite’ ma anche ‘scodella di legno dotata di un bastoncino graduato per misurare il latte’[1].  La parola significa anche ‘vulva’, una cavità, dunque. Allora è necessario supporre che il termine alludesse a due parole che si erano incrociate, una per cavità e l’altra per ‘stecca barra, bastone, ecc.’ di cui abbiamo parlato. E infatti ecco farsi avanti il composto tautologico abruzzese catra-fossë ‘burrone profondo’. La cui prima componente è ampliamento di ab. catë  ‘secchia’ che fa il paio con il lat. cad-u(m) ‘recipiente per vino’ di origine greca.

   Ad Aielli, il mio paese, con l’espressione la mmànnëla Sanda Catarìna si indicava sia il frutto che l’albero di un tipo di mandorlo che produceva frutti dal guscio piuttosto tenero, poco resistente.  Noi ne possedevamo una in contrada Rënìccia.  In abruzzese, toscano, laziale la càtera (e varianti) indica un tipo di mandorla, che si mangia tenera col guscio verde, quando essa è ancora immatura.  Ora i soliti ignoti fanno derivare il termine da Santa Caterina perchè  la càtera si comincia a mangiare intorno alla festa della Santa, il 29 aprile. Ma a questa spiegazione si oppone il significato del temine aiellese, che si riferisce sia alla pianta, sia al frutto che non è tenero perché immaturo, ma perché è tale per costituzione, anche quando si raccoglie verso settembre passato.

   Allora, stante quello che abbiamo detto,  io penso che la voce càtera  indicasse originariamente l’albero del mandorlo, in quanto estensione di quello di ‘pollone, piantina, pianta’ e che il frutto , pur considerabile una estensione di questo significato, abbia subito probabilmente l’influsso di quello di ‘cavità, rotondità’, data la presenza della doppia protezione  che difende il seme, il mallo all’esterno  e il guscio vero e proprio, duro,  al di sotto.  E’ molto interessante l’accenno alla ‘tenerezza e immaturità’ del frutto nelle voci citate: essa è una spia concreta che ci rivela l’esistenza di un significato, apparentemente perduto dalla parola, relativo all’immaturità del bambino o ragazzo, che si concretizza proprio nel valore di bambino che essa assume pienamente in quatr-ànë.  

  Nel libro VII dell’Eneide Virgilio, parlando di Tyrro, custode degli armenti del re Latino, lo descrive mentre spacca una quercia in quattro parti; quadri-fidam quercum…scindebat (v.509-10) “spaccava una quercia in quattro parti”. Ora, a mio avviso, questi racconti mitici che Virgilio dovè raccogliere prima di comporre il suo poema, si erano formati pian piano nel lontano passato, trascinando con sé termini che magari avevano indicato la stessa parola quercia: l’ggettivo quadri-fid-am letteralmente significa “spaccata (-fid-am)  in quattro (quadri-)” ma io sono convnto che esso valesse ‘, albero,quercia’. Il primo componente lo conosciamo da quello che abbiamo detto sopra, il secondo dovrebbe nascondere un termine simile al gr. phyt-όn ‘pianta, albero, pollone, figlio, tumore’. Les jeux sont faits!

    L’altra voce abruzzese per bambino (in fasce o anche un po’ più grandicello) e cioè cìt-ëlë o cìt-ërë la vedo, pensare un po’, come variante dell’altra radice cad-.  Essa certamente non ha a che fare con l’ingl. child ‘bambino’, come una volta mi propose qualcuno, ma, semmai, con l’ingl. kid ‘capretto’ ma usato spesso per ‘figlio’. Non bisogna passare sotto silenzio il toscano cìtto, cìtt-olo (arcaico)‘bambino, ragazzino’, divenuto spesso zito, zita, zit-èlla, e nemmeno il serbo-croato čedo ‘bambino, bambina’.





[1] Cfr. Cortelazzo-Marcato. I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998.





venerdì 24 maggio 2019

Viva la ruca-dorma-corna-luca-ciammarùca!





Ho scovato un sito internet che riporta centinaia di filastrocche sulla lumaca, prese non solo dai dialetti italiani ma  anche da quelli di altre lingue, tra le quali figura persino il cinese e il giapponese. In tutto saranno più di 900 filastrocche[1].  L’autore è il musicista milanese Giovanni Grosskopf.  Mamma mia, è proprio una manna per quelli come me, inseguitori delle parole!

    Come osservavo nell’articolo La ciammaruca di alcuni giorni fa l’aiellese ciamm-otta  doveva alludere ad una voce *ciamma ‘lumaca’: infatti nel dialetto di Fara San Martino-Ch., come ho potuto constatare in una di queste filastrocche (n.286), la lumaca viene chiamata ciamma-lӧechë e ciamma-cornëDella voce corno abbiamo assodato, nell’articolo precedente, anche il significato di ‘lumaca’.  Resta da chiarire la seconda componente di ciamma-lӧechë la cui liquida iniziale /l/ non è stata scambiata con la liquida /r/, come supponevo in quell’articolo, ma evidentemente era originaria se guardiamo il siciliano mamma-lucco ‘lumaca’ e la voce santa-locìa ‘coccinella’ di Luco dei Marsi-Aq[2].  La coccinella è un coleottero a forma di semisfera, di colore rosso, e quindi il suo nome deve indicare un’idea di cavità o convessità, fermo restando comunque che all’origine esso si riferiva al concetto di “animale”. Anche l’etimo del nome cocc-in-ella, che si fa derivare erroneamente dal lt. cocc-inu(m) ‘di color rosso’, va cercato nella direzione di cavità. La componente santa- abbiamo visto che valeva anch’essa cavità. La cosa più interessante, che conferma quanto stiamo dicendo, è che con  lo stesso termine santalucia si indica in diverse parti d’Italia  un mollusco con conchiglia e con un caratteristico opercolo ellittico, chiamato occhio di santa Lucia, che serve all’animaletto per chiudersi e tapparsi  dentro il guscio. Esso ha un disegno a spirale da un lato e viene usato come grazioso ciondolo.  La componente -luc-ia in questi casi rimanda a radice simile a quella di ted. Loch ‘buco’, come ho mostrato in un articolo scritto molti anni fa sulla dea Angizia, che aveva un luogo di culto importante proprio nei pressi di Luco dei Marsi-Aq. 

    Ha attratto la mia attenzione, tra molte altre, una filastrocca di area dialettale tedesca in cui compare anche la parola Turm ‘torre’, una torre sulla quale saranno  scaraventati il padre e la madre della lumaca se non caccerà le solite corna (n. 680).  Ora, questa torre che cosa c’entra (a parte la considerazione che magari sarebbe stato più naturale minacciare di scaranventarli giù dalla torre)?  Il fatto è, secondo me, che si tratta anche qui, originariamente, di termine legato alla chiocciola.  Non bisogna assolutamente credere, come fanno troppo spesso i linguisti, che siamo dinanzi a situazioni magiche in cui può succedere di tutto nella mente degli uomini primitivi. Io credo che questa loro tendenza esistesse davvero, ma alimentata proprio dagli incroci delle parole che ora spero ci siano diventati familiari. Un primitivo può pensare che una lumaca diventi, ad esempio, una lucciola ma solo perché ad un certo punto un termine con il significato di lucciola entra nel suo vocabolario sovrapponendosi ad un altro simile o uguale indicante la chiocciola, trasformando così, come d’incanto, una chiocciola in una lucciola

Ritornando al Turm ‘torre’ di cui sopra, faccio notare che nel dialetto di Cittanova di Reggio Calabria la voce durmi-turi dignifica ‘chiocciola, lumaca’[3].  Esatto! diranno i soliti studiosi di antropologia! La lumaca è usa cadere in letargo per molti mesi e anche quando si sveglia è molto guardinga, esce solo in occasione di piogge. Ma essi dovrebbero spiegare anche perché nella cantilena della chiocciola suddetta compare la voce Turm che, almeno, assomiglia molto alla prima componente di questo nome durmi-turi.  La seconda componente –turi riappare in altre voci calabresi per ‘chiocciola’, come verma-turu e anche papa-turnu.  Secondo me invece la radice ritorna anche nell’emiliano dormi-dòr ‘tempia’[4], ad indicare la leggera depressione, a volte ben accentuata, di quella zona del viso. I linguisti spiegano il termine con la credenza popolare della tempia come sede del sonno: così un opercolo come un macigno viene messo sopra la possibilità di trovare un’altra spiegazione. Esso presenta la stessa radice di gr. tόrm-os ‘bucco’.  Le famose Thermo-pýlai ‘Termopili’, stretto passo tra la Tessaglia e la Locride, reso celebre da Leonida e i suoi trecento eroi, che letteralmente vale ‘porte (-pýlai) calde’, non possono che essere un incrocio tra l’aggettivo gr. therm-όs ‘caldo’ e un termine per ‘passo buco’, anche se ci fossero state sorgenti termali in loco. Lo conferma il gr. thérm-os ‘lupino’ e il gr. thermo-kýamos ‘sorta di legume’: apparentemente quest’ultimo termine sembra una descrizione precisa di un legume a metà strada fra il lupino e la fava (ritorna la fava!), mentre in realtà è un composto tautologico in cui si ripete il concetto generico di ‘rigonfiamento, rotondità’. Anche l’ingl. drum ‘tamburo’ e il ted. Tromm-el ‘tamburo’ credo rimandino ad una idea di ‘cavità, rotondità’.  

     Aggiungo qui delle voci abruzzesi che sono vere e proprie chicche[5]. Esse sono: tarmë ‘ghiaccio’, tarma-tùrë ‘ghiaccio’ e trëm-όnë ‘bombola, vaso metallico con pancia rotonda per metterci acqua a ghiacciare’.  I primi due indicano appunto lo strato di ghiaccio, che magari si forma in un recipiente esposto ai rigori della notte. Il secondo prende due piccioni con una fava, aggiungendo il significato di cavità, recipiente, che d’altronde era già contemplato dalla radice, in quanto copertura.  Anche l’it. tar-tar-uga per la quale ci sono state tante osservazioni e soluzioni, mi pare che non possa sfuggire alla base della  radice darm-, dorm- di cui sopra che è presente anche nell’it. tar-taro. Sempre in conseguenza del concetto di “cavità” nel dialetto di Rocca di Botte-Aq. la voce tartaro[6] significa ‘burrone’. La forma tart-uca ‘tartaruga’ mi sembra un accorciativo influenzato dal lat. tort-u(m) ‘torto’. Si ritrova, credo, anche nell’ingl. turtle ‘tartaruga’ e nell’it. trott-ola <*tortola, incrociato col verbo trottare.  Un’altra chicca è costituita dall’abruzz. tar-tόrë [7] ‘pevera’ il quale mi dà la certezza che l’abruzz. tra-tùrë ‘tiretto’ non deriva dal verbo tirare. Il Tartaro, baratro infernale ritenuto addirittura al di sotto dell’Ade, significava appunto nient’altro che ‘baratro’.

   Ma la storia non finisce qui.  In sassarese si ha la voce drum-icci-όlu ‘crisalide della farfalla’ (un bozzolo!) fatta derivare dal verbo drumiccià ‘dormicchiare’. Le cose si complicano e sembrano dar ragione ai linguisti con il logudorese sόnn-iga[8] ‘crisalide’ che apparentemente richiama il sonno, termine quest’ultimo che, nelle varie inflessioni dialettali, indica anche la tempia come il dormi-dòr emiliano, sopra ricordato.  La radice suop-no di lat. somn-u(m) e lat. sop-or-e(m) ‘sonno, sopore, letargo’, ben attestata in area indoeuropea, a me pare collegata, ad esempio, col ted. ent-schweb-en ‘dileguarsi’ e col medio alto tedesco ent-schweb-en ‘addormentare’. L’ingl swoop ‘calare, picchiare (di uccelli rapaci) dovrebbe essere della partita.  A me pare che si possa notare in queste radici un’idea di “movimento, distacco, caduta, scivolamento’. In altri termini la nozione di sonno dovrebbe essere agganciata a quella di ‘andare, cadere, allontanarsi, svanire’.  Non per nulla nelle varie lingue esistono espressioni come cadere tra le braccia del sonno, di Morfeo, ecc.  Quindi anche la radice dorm- potrebbe almeno essersi incrociata con quella di gr. drόm-os ‘corsa, viale coperto, ecc.’ ed indicare, all’origine, il venir meno di chi si addormenta.

    Come mai nelle lingue si incontrano con una certa frequenza termini che indicano contemporaneamente il sonno  e la tempia?  Certamente non a causa della credenza della tempia come sede del sonno, ma a causa di incroci di termini simili che diedero origine a quella credenza, la quale  di rimando  fece sì che, quando in una parlata fosse arrivato un termine di tal fatta, esso avesse più possibilità di altri indicanti la tempia di continuare ad esistere e di sopravvivere.  

      Anche in altre filastrocche sulla lumaca, della raccolta citata, compare l’idea del dormire, come in quella campana (Acerno-Sa.) del n. 268, dove si chiede alla lumaca: màmmeta addove rormì? (tua madre  dove dormì?). Meno male che qui è la madre a dormire, altrimenti gli antropologi vi avrebbero trovato la conferma della tendenza delle chioccciole a starsene rintanate a dormire. La stessa domanda viene rivolta alla chiocciola, ma col tempo del verbo al presente indicativo, in una cantilena abruzzese (n. 284), proveniente da Crecchio-Ch. 

    Ce ne sono veramente delle sfiziose, spero di poterle commentare, ma sono troppe!






[2] Cfr. G.Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.

[4] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani,UTET, Torino, 1998.

[5] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq. 2004.

[6] Cfr. M. Marzolini, “ … me ‘ntènni?”, Arti grafiche Tofani, Alatri-Fr, 1995.

[7] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

[8] Cfr. Cortelazzo- Marcato, I dialetti italiani, UTET Torino,1998. 



martedì 21 maggio 2019

Avere più corna di una cesta di lumache.




Il modo di dire sembra essere stato inventato l’altro ieri da qualcuno che si sia messo a riflettere sulla triste condizione di chi è stato cornificato abbondantemente, escogitando l’icastica immagine. Ma, come sempre avviene, esso è antichissimo e si è formato quasi inconsapevolmente, piano piano, perché presuppone almeno la conoscenza di una parola,*corno,  usata per designare le lumache. Abbiamo visto nell’articolo precedente sulla cantilena per la lumaca di Gallicchio-Pt che questa voce corno si riferiva in epoca lontana al noto gasteropode, col significato di ‘guscio, cavità’. E in effetti ho scoperto proprio oggi la voce corgnolo ‘chiocciola’, usata in zone del Veneto[1], che deriva dal lat. corn-eol(u)m, diminutivo di lat. cornu ‘corno’: ma in questo caso il termine si riferisce ad una cavità  e non alle corna dell’animaletto, come sostiene il Cortelazzo nel libro citato. Questo conferma bellamente, ma non ce n’era bisogno, il mio ragionamento, fatto in quell’articolo, relativo al termine in questione[2]

   Nel dialetto di Venezia, inoltre, la voce gorna  significa ‘canale per l’acqua, grondaia’; sempre una ‘cavità’ dunque, come nel toponimo Le Gurne dell’Alcantara, un corso d’acqua di Francavilla di Sicilia-Me. Le gurne indicano esattamente le marmitte dei giganti, cavità rotondeggianti prodotte dall’acqua che ha eroso  la roccia sottostante nel suo lentissimo ma continuo lavorio.

    Per renderci conto meglio dei giochi ed incroci delle parole alla base della Lingua, faccio notare che nel dialetto di Pizzo in Calabria gurna vale ‘piccola polla d’acqua, e gurni-ale ‘grande polla d’acqua’: quindi il termine fa riferimento al una fonte, sorgente e simile. Nel dialetto di Aiello Calabro, però, ritorna, oltre al concetto dell’acqua, anche quello di cavità, perché lì gorna vale ‘gora’ o ‘buca piena d’acqua’. Ciò succede perché questo termine che indicava una cavità si è spesso incrociato con un altro che indicava la fonte, la sorgente, ecc. e che corrisponde al gr. kroun-όs ‘fonte, sorgente’, variante di gr, krḗnē ‘fonte, sorgente’, dorico krána ‘fonte, sorgente’. Da questa forma dorica faccio derivare, come ho indicato in altro articolo, la fonte Ranë di Celano, dove si è verificato la normale caduta della gutturale iniziale incrociatasi con quella di  (g)-rano, ranë in dialetto. 

  Mi pare che le corna, nel senso di cornificazione, possano farsi risalire, con qualche concreta possibilità di successo, al concetto di ‘giro, raggiro, inganno’ che la radice poteva esprimere. Già in greco circolava l’espressione kérata poi-eῖn ‘mettere le corna(kérata)’  Anche il detto avere più corna che capelli forse deve la sua esistenza all’incrocio tra il concetto di “corno” e quello di “capello”: sono entrambi delle protuberanze, escrescenze. Tanto è vero che il inglese i capelli si dicono hair, ted. Haare, la cui radice mi pare così vicina a quella di corno e di gr. kára ‘testa, capo, vertice, punta’, gr. r-as ‘corno’.

    Ma abbiamo perso di vista la cesta delle lumache.  Da quello che abbiaamo detto risulta evidente l’equazione corno=cavità=cesta=lumaca, equazione che naturalmente non si è attuata in un momento, ma col tempo. E la lingua ne ha veramente avuto di tempo!







[1] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET Torino, 1998.

[2] Oggi 28 maggio, ad una settimana dalla stesura di questo articolo, ho avuto la conferma del valore di ‘cavità’ della parola corno . Infatti in francese il termine corne significa, oltre a ’corno’,  anche ’piegatura, orecchio  (di un foglio di carta’.  Ma, il significato più parlante è quello di fr. cornette ‘cuffia’, una cavità, dunque.



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domenica 19 maggio 2019

La cantilena per la chiocciola ad Aielli.





E cosi siamo giunti alla nostra cantilena per la chiocciola. In verità non so se qualcuno la conosca ancora, dato che io stesso la imparai da un altro ragazzo, ma poi non la sentii recitare più da nessun altro. Essa suona così: Iscë ciammarùca,/ iscë dalla bùscia,/ ca màmmëta s’è morta i pa(t)rëtë s’è mbëccàte/ allë forchë sandë Dunàtë (Esci lumaca, esci dalla buca,/ perchè tua madre è morta e tuo padre s’è impiccato/ alle forche di san Donato).  Non si scherza mica, vi si parla di morte della madre  e di impiccagione del padre!  Ma naturalmente, come abbiamo visto nelle altre cantilene, si tratta di quelli che definirei effetti sonori causati dal solito incrociarsi dei termini nel corso dei millenni. Come in ogni filastrocca, si nota la presenza della rima o assonanza.  La voce bùscia è lo sviluppo di un precedente latino medievale  bucea ‘scorza’ ma che, a mio parere, è in connessione con buca, in quanto cavità, avvolgimento.  La ricerca della rima non deve far pensare che vi sia una volontà marcata del dicitore e quindi una possibilità di invenzione dei termini, i quali, se li si gratta, ci si accorge che riguardano i concetti fondamentali nella filastrocca.

  La bùscia ‘buca’ in genere non manca mai, anche se espressa con vocabolo diverso (a proposito! sarebbe interessantissimo raccogliere le filastrocche e cantilene dei vari paesi d’Abruzzo o almeno della Marsica che quasi tutti, credo,  non ne saranno sprovvisti, prima che la modernità ne spazzi via gli ultimi avanzi), dato che essa fa riferimento al guscio del gasteropode.  Ritorna anche la presenza della mamma del cui valore di copertura, guscio abbiamo già parlato nel commento della cantilena del paese di Gallicchio in Lucania.  Ma vi compare anche il padre, e non per fare un torto al genitore (che poveretto si impicca!), ma perché,  mio avviso, esso nasconde la radice di sscr. patram ‘secchio’, lat. patĕr-a(m) ’patera’, cioè una tazza o coppa.  La mamma si dice che sia morta, ma in realtà il termine nascondeva una radice per ‘cavità, recipiente’, come in lat. mort-ariu(m) ‘mortaio’ la cui radice è considerata piuttosto incerta.  Ma l’it. mort-asa ‘incavo (per incastro)’ dal fr. mort-aise dovrebbe indirizzare verso un significato di ‘cavità’ della radice in questi casi.

     L’ impiccato credo sia reinterpretazione di una voce precedente che faceva capo al ted. ein-bieg-en ‘piegare in dentro, svoltare’, ted. ein-bieg-ung ‘curvatura in dentro, concavità’, radice che andrebbe a fagiolo per indicare il guscio della lumaca con le sue volute.  Molti sono i termini sia germanici che anche italiani o dialettali i quali presuppongono tale radice Cito solo la voce dialettale ammëccàtë ‘ricurvo, inclinato’  della parlata di Chiauci-Is, che fa il paio col verbo abruzz, ammuccà ‘versare un liquido’ ma anche ‘curvarsi, cadere, tramontare’.  Queste voci presuppongono, come ammëlòppë ‘busta’ o ammastì ‘imbastire’ o ammàttë ‘imbattersi’, ecc., un *imbuccà da riportare, forse anche con il  lat. bucc-a(m) ‘bocca’, ad una radice simile o uguale a quella tedesca di bieg-en (passato bog) e ein-bieg-ung ‘concavità, curvatura in dentro’.  L’impiccato sarà stato dunque un sostantivo simile al ted. Bucht che significa ‘sinuosità, curvatura’ e, geograficamente, ‘baia, seno di mare’, corrispondente, a mio parere, al nome di  Cala Bucùto, piccola insenatura in provincia di Trapani.  Del resto la presenza della voce  buca>bùscia conferma,a mio parere, che l’interpretazione di m-bëcc-atë  deve andare in quella direzione.  Il concetto di “cavità “ continua con l’accenno alle forche: il termine forca geograficamente si riferisce a passi montani, in genere stretti o avvallati e magari con profilo a V, come le Forche Caudine dell’antichità. Ma non si trascuri il suo riferirsi in questo contesto anche alle due corna o antenne della lumaca (cfr. lat. furc-as ‘chele del gambero’).  Mi pare oltremodo esemplificativo  il nome della Grotta della Tana, nota anche come Furchio di la Zappa, in provincia di Lecce. La voce furchië nel mio dialetto di Aielli indica la distanza tra il pollice e l’indice aperti, che formano quindi una specie di forca. Ma nel toponimo la parola deve indicare la cavità della grotta, come  nell’abruzz. forchjë ‘caprile, stalla per capre’, nel pugliese,calabrese, lucano forchia ‘buco, tana della volpe’[1].    Anche la Zappa sta per cavità, e ci si può convincere se pensiamo allo sp. zapa ‘galleria sotterranea’, ingl. sap ‘trincea d’approccio’. Credo che anche la parola seppia, relativa al  noto pesce, tragga la sua origine da un significato di ‘cavità’, costituita più che dalla conchiglia interna (osso di seppia) dal mantello che avvolge il suo corpo come un sacco da cui fuoriesce la testa con i tentacoli. In inglese il cefalopode  viene chiamato cuttle o cuttle-fish in cui cuttle richiama termini dell’area germanica dal significato di ‘tasca, cuscino, guscio, scroto’.  

   Resta da spiegare il sandë Dunatë .  Senza dilungarmi troppo e lasciando la testa piena di dubbi, sostengo che la prima parola richiama la radice dell’ingl. sound ‘canale, stretto, vescica natatoria’, ted. Sund ‘stretto di mare’.  La parola Dunatë deve essere una variante di ingl. tunn-el ‘galleria’, fr. tonne, tonneau ‘botte’, medio irlandese tonne ‘pelle’.  Originariamente nella cantilena forse era presente una forma tonale diventata inevitabilmente Donato, per etimologia popolare, data la presenza del termine santo. Quest’ultima parte lascia un po’ a desiderare ma per l’interpretazione della  precedente metterei la mano sul fuoco.

   Ma debbo ricredermi.  In quel di Gaggio-Ve. si recita questa cantilena alla lumaca: Toni, Toni/tira fora i corni/  che to pare xè in preson par un gran de formenton (Antonio, Antonio/caccia fuori i corni/che tuo padre è in prigione, per un granello di mais)[2].  E’ a mio parere evidente che il nome Toni (Antonio), con cui è chiamata la lumaca, non è un appellativo scherzoso per il gasteropode, il quale viene invece indicato direttamente: esso costituisce la prima parte del Don-ato di cui sopra. La seconda parte potrebbe essere anche una radice simile a quella del lat. aed-es ‘casa, tempio’ di cui non condivido la solita etimologia  che  fa riferimento al gr. aíth-ein ‘ardere’.

   Già che ci sono faccio notare che il granello di formenton è stato suggerito, nella cantilena, dalla voce precedente corni in quanto il ted. Korn significa ‘grano’, corrispondente ad ingl. corn ‘grano’ ma anche (in americano) ‘frumentone, granoturco’, come nella filastrocca. La nozione di prigione ( che è quella di prendere, afferrare) deve essersi sviluppata da quella espressa dal verbo ngurnà usato nella cantilena di Gallicchio-Pt, che, come abbiamo visto doveva valere, in quel contesto, ‘avvolgere, coprire’, ma poteva aver sviluppato anche quello di ‘legare, ammanettare, arrestare’.    





[1] Cfr. Cortelzzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998, s. v. catafòrchia