lunedì 19 ottobre 2020

Altra parola/espressione strana: tavόtë ‘Dio voglia!’.

 



 

   Si tratta di espressione registrata sempre dal Bielli nel Vocabolario abruzzese. Ma dove è la radice che indica Dio, visto che in questi casi il suo nome deve necessariamente comparire, come nelle diverse espressioni simili delle lingue indoeuropee? Non si può pensare ad altro, secondo me, che a una radice Ta, Da col valore etimologico di ‘luce diurna’, come sarebbe confermato dal ted. Tag ‘giorno’, suo ampliamento, e da ingl. day <*dag  ‘giorno’, in fondo varianti di lat. di-e(m) ‘giorno, dì’, gr. Zé-us< *Di-éus ‘Zeus, Giove’, nome del supremo dio indoeuropeo.  Nei dialetti greci esistevano molte varianti del nome del teonimo, tra cui l’accus.  Tán, Dán con un vocat. Da da taluni riferito,però, alla ‘terra’.  

    Dalle nostre parti, nella Marsica, ricorrono varie espressioni riferite al Giove tonante e folgorante come tat-onë-vecchjë  ad Avezzano-Aq e Tat-onë cuscënarë ad Aielli-Aq di cui ho parlato in altro post del mio blog (16 febbraio 2020).  Tàta e tat-όnë indicano rispettivamente il ‘padre e il ‘nonno’, da una  ben nota radice indoeuropea: ma bisogna assolutamente tener conto del fatto che questa radice raddoppiata poteva riferirsi anche alla luce, come abbiamo visto, sicchè i due concetti di “luce” e “padre” generarono, a mio avviso, il mito indoeuropeo di Giove-padre celeste

   Allora l’espressione italica in questione, cioè ta-vόtë, deve essere sciolta in Ta vόtë, appunto, ed intesa come ‘Zeus voglia’ diventato nel cristianesimo ‘Dio voglia’. Del resto anche l’interiezione dialettale oddìa! 'oddio!' in uso ad Aielli-Aq, Trasacco-Aq. ecc. di cui ho parlato nel post Non abbiamo ancora abbandonato il paganesimo del mio blog (30 maggio 2020)  si riferiva all'accusativo greco di Zeus, che era appunto Dìa, non al Dio cristiano.  E quale potrebbe essere l’origine della voce –vόtë? Secondo me essa è la stessa di lat. vot-u(m) ‘voto, sacra e solenne promessa’ dal verbo vov-ēre ’dedicare, consacrare, fare solenne promessa’, termine d’ambito sacro che qui dovrebbe esprimere, sotto forma di verbo, la volontà di Zeus.  Ma forse si coglie nel segno se si suppone dietro -vόtë una forma rispondente al congiuntivo imperfetto tedesco wollte ‘volessi, volesse’, prima e terza persona singolare di ted. woll-en ‘volere’.  Nei nostri dialetti l’it. volta, ad esempio, diventa vòta, con la caduta della lettera –l-, come il participio passato colto del verbo it. cogliere diventa cόtë, e così via. Quindi un eventuale originario *Ta wollte (richiamante ted. Tag ‘giorno’) avrebbe significato ‘che Giove voglia!, volesse Giove!’. 

     Queste formule, attraversano intatte, o quasi, millenni e civiltà diverse.

 

   

  

   



Tïònëcë: che strana parola!

 


 

    Nel solito Vocabolario abruzzese di D. Bielli è registrata la voce tï-ònëcë ‘vicinato’. Cos’è? arabo? Con un po’ di pazienza, ed aguzzando bene gli occhi, si viene a scoprire invece che essa è di pretta origine italico-greca.

    Di primo acchito mi è venuto in mente, infatti, proprio il gr. di-oíkē-sis ‘amministrazione, governo familiare, diocesi, provincia’ per la presenza in esso della parola oĩk-os ‘casa’ che in latino ha assunto la forma vic-u(m) ‘quartiere, rione, strada, villaggio’, da cui l’aggett.lat. vic-in-u(m) ‘vicino, prossimo’.  La traslitterazione latina di-oecē-sis vale ‘circoscrizione, distretto’, che in Sidonio assume ll significato di ‘parrocchia’, altro termine di ascendenza greca composto dalla radice del  solito oĩk-os ‘casa’ preceduto dalla prepos. pará- ‘presso, vicino’, mentre in di-oikē-sis  è preceduto dalla prepos. diá- ‘attraverso’. 

    Ora, concludendo, l’abruzz. tï-ònëcëvicinato’ non può essere altro che una normale metatesi di un originario *tï-òcënë il cui secondo membro deve risalire ad una forma italica *oik-in-, parallela a quella lat. di vic-in-u(m) ‘vicinanza, luogo: ricordo, ai non addetti, che la pronuncia di lat. vic-in- era uik-in- simile ad *oik-in'.  La dentale iniziale -t- è dovuta ad un frequente assordimento nei nostri dialetti dell’originaria sonora d- come avviene in titë ‘dito’ e in tiàvëlë ‘diavolo’ a Trasacco-Aq ed altrove. Anche  l’it. diocesi perde la vocale –i- del dittongo originario greco –oi-.  

   Incredibile! E ribadisco che nulla è a caso in linguistica.

   

venerdì 16 ottobre 2020

J’ujjaràrë ‘Il venditore d’olio ambulante’

                           

 

    La voce abruzzese in epigrafe (Aielli, Celano, ecc.) è variante della voce in uso a Trasacco-Aq ojjàrë, ojjarόlë ‘venditore d’olio’.  Ora è chiaro che la forma ojj-àrë  è la fotocopia del lat. ole-ari-u(m) ’venditore d’olio’, da lat. ole-u(m) ‘olio’  e che la forma ojjar-όlë  è un suo derivato sul tipo, ad esempio, di it. centro-settentrionale stracci-ar-òlo.

    La forma ujjar-àrë, ojjar-àrë (a volte ujjar-alë), però, suona un po’ strana, come se avesse un doppio suffisso –arë. Perché mai?  Io credo che questa abbondanza di suffissazione sia stata favorita comunque anche  dal numero di sillabe del lat. ole-ari-u(m) ‘venditore d’olio’, che ne conta almeno quattro: la parola, passando al dialettale oj-jà-rë , diventava di tre sillabe: questo fatto poteva essere, a volte, inconsapevolmente avvertito dal parlante e poteva quindi indurlo automaticamente ad aggiungere il suffisso –arë che gli ronzava negli orecchi dal lat. ole-ari-u(m) ‘venditore d’olio’.

    Potrei in questo caso anche essermi sbagliato, ma una cosa è certa: in linguistica nulla avviene  per caso.

    La realtà linguistica è in effetti abbastanza complicata, fino a quando non si riesce a sdipanare il groviglio in cui essa si trova avvolta.  Si incontra nell’abruzzese anche la voce ujar-όlë ‘orzaiolo’[1] e la voce simile ojjar-όlë ‘orzaiolo’, a Trasacco-Aq[2].  Si tratta di voci ambigue perché possono avere, come abbiamo visto, anche il significato di ‘venditore di olio ambulante’.  Evidentemente il significato di ‘orzaiolo’ reclama un etimo diverso da quello indicato sopra per il significato di ‘venditore d’olio’.  E quale potrebbe essere? A mio avviso la radice base del termine è la stessa di it. orzaiolo, cioè il lat. horde-u(m) ‘orzo’.   L’orzo c’entra perché l’orzaiolo, il foruncolo che si forma sulla palpebra, assomiglia ad un chicco d’orzo, ma potrebbe assomigliare anche ad un chicco di grano (questo nessuno lo nota, e potrebbe essere invece di qualche importanza circa il significato originario del termine orzo). 

     Ora, nel tardo latino si incontra il vocabolo horde-ol-u(m) ‘orzaiolo’. L’it. orzaiolo  è in genere fatto derivare da quest’ultimo attraverso l’incrocio con un latino tardo variola’vaiolo’.  A me pare che si tratti semplicemente di un adattamento del comunissimo  suffisso –aiolo  (lat. -ari-olum), usato anche per aggettivi di relazione, alla radice horde-  che ha dato *horde-ari-ol-u(m), anche *hordi-ariol-u(m), da cui it. orza-iolo. 

       Nel dialetto abruzzese[3], però, si incontra anche orie ‘orzo’ evidentemente da un lat. *hordi-u(m) con la perdita della dentale –d-, allo stesso modo in cui il nostro jurnë ’giorno’ viene da lat. diurn-u(m) ‘diurno’.   Così un originario latino *hordi-ari-ol-u(m) col significato di ‘orzaiolo’ avrebbe dato in dialetto prima un *ori-ar-όlë e poi, per dissimilazione della prima lettera –r- assimilata peraltro alla –l- della sillaba finale, avrebbe dato oli-ar-όlë,  subito trasformato in ojjar-όlë, per la comunissima palatalizzazione della –l-, fotocopia ingannevole quindi dell’altro ojjar-όlë, col significato del tutto diverso di ‘venditore d’olio ambulante’. 

 

 



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese. A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

 

[2]Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E ,Grafiche Di Censo Avezzano-Aq, 2003.

[3] Cfr. D. Bielli, cit.


 

    

sabato 3 ottobre 2020

Le falloforie.

 

                                    

 

 

Le falloforie erano solenni processioni dell’antica Grecia in onore di Priapo e Dioniso, nelle quali si trasportavano enormi falli di legno, simbolo di forza generatrice e di virilità. A Roma, ogni casa che si rispettasse, aveva un giardino con un Priapo dal grosso fallo, che serviva anche da spaventapasseri.

   A noi imbevuti fino al midollo, specie in passato, degli insegnamenti della religione cattolica molto sessuofobica, soprattutto agli inizi, una simile processione può sembrare oscena e quasi inconcepibile. Ma le civiltà antiche avevano un rapporto stretto e profondo con la Natura e le sue manifestazioni. 

   E’ mia intenzione definire etimologicamente il termine fallo e quello  volgare le palle, dial. lë pallë, nel significato di ‘forza, capacità, determinazione, carattere ecc.’ come nell’espressione “tiene le palle”.  Ora, il gr. phall-όs corrisponde all’irl. ball ‘membro virile’ che è uguale nella forma esterna (significante) all’ingl. ball ‘palla’. L’it. palla è considerato di origine germanica.  Per quanto riguarda il significato, inoltre, quale differenza corre tra il concetto di "membro virile" e quello di "palla"? Etimologicamente tra i due concetti non vi è differenza alcuna, a mio parere: ambedue sono specializzazioni diverse del concetto ad essi sovraordinato di “protuberanza”, l’una rotondeggiante o proprio rotonda, l’altra sviluppata invece in lunghezza.  La radice indoeuropea bhel significa proprio ‘essere turgido, spuntare’ come nel sunnominato gr. phall-όs ‘fallo’ e anche nel gr. phál-os ‘cresta o frontale dell’elmo’ e, a mio parere,  il lat. pal-u(m) 'palo'.

      Allora non è campato in aria, come potrebbe sembrare, sostenere che l’espressione volgare le palle (dial. lë pallë) indicava  all’origine proprio il membro virile, quale simbolo di forza e di uomo dotato di una personalità maschia e imperterrita.   Si può supporre, infatti, che un dialettale *pall-ë ‘fallo’ si sia incrociato con un dialett. e it. pall-a (pronunciata  pall-ë in alcuni dialetti in cui la –a- finale si trasforma in schwa (-e- muta), e che l’originario fallo si sia mutato in palla o, meglio, nella forma dialett. plur. pallë ‘palle’, uguale al presupposto dialett. *pallë ‘fallo’, *ballë ‘fallo’.

    Naturalmente l’espressione avere le palle può usarsi, per estensione, anche per le donne che fisiologicamente ne sono prive.

    Si sente talora anche l’espressione avere le palle quadrate che rafforza il concetto.  Ma perché palle quadrate? Non è da credere che l’aggettivo qui alluda ad una forma effettiva delle palle: esso, a mio parere, esprime l’altro suo significato di ‘forte, vigoroso, solido ’, un riverbero dell’antico significato di *pallë ‘fallo’.