sabato 11 dicembre 2021

Strëllà cumma n’asprë.

 


    Strilla cumma n’asprë si diceva ad Aielli quando qualcuno gridava come un forsennato.   L’espressione sembra strana, dato che essa formalmente non è altro che l’it. strilla come un aspro, il cui significato è però incongruente con quello dell’espressione in lingua.  L’aggettivo dialettale asprë, in effetti, ha più o meno gli stessi significati di it. aspro, il quale indica una ruvidezza nel tatto, nel gusto e anche nel suono. Ma intendere la frase dialettale-italiana come se fosse ‘strilla come (una persona) stridente’ mi pare ugualmente una forzatura.

    Il problema si risolve bene, a mio parere, se solo si tiene presente tutta la gamma dei significati di lat. asper-u(m) tra i quali c’è anche quello di ‘violento, selvaggio’ e simili.  Quindi la frase dialettale non significa altro che ‘strilla come un (uomo) violento, furioso’ e quindi anche forsennato.

lunedì 6 dicembre 2021

Il maiale.

 


   Credo che tutti gli etimologi sostengano che l’it. maiale, lat.  maial-e(m), sia stato forse così chiamato perché a Roma si era soliti, in genere il primo giorno di maggio, sacrificare un maiale a Maia, dea della fecondità. Il nome, insomma, deriverebbe da quello di Maia.

   Noi però sappiamo che i nomi non nascono in genere in questo modo perché essi dovrebbero fare riferimento, invece, alla natura del referente e non agli accidenti che possono riguardarlo.

    Dico subito che non conosco il vero etimo della parola in questione, ma mi preme comunque sottolineare alcuni fenomeni che la toccano e che illuminano i fatti linguistici in genere, con la loro complessità.

   Si narra, infatti, fin dall’antichità, che il primo di maggio, come ho accennato or ora, si sacrificava a Maia un maiale il quale, stando ad alcune delle fonti, doveva essere castrato, mentre secondo altre si trattava di scrofa gravida, pregna, significato contrapposto al precedente. Sono forse questi dei fatti casuali su cui non vale la pena soffermarsi? Non credo, dato che essi possono essere spiegati puntualmente.

    Una scrofa pregna, infatti, è appunto una maiala gravida, grossa: due aggettivi i cui concetti possono essere espressi anche dal lat. mag-n-u(m) ‘grande, grosso, ecc.’ la cui radice mag- abbiamo visto (nell’art. precedente intitolato La maésa) che si ritrova nel nome Maia<*Mag-ia, e nel comparativo ma-ior-e(m) ’maggiore’ con la caduta della velare /g/.  E’ dunque questo il motivo per cui dietro il termine mai-al-e(m) è stato visto, dagli antichi, non un semplice maiale o porco, ma una maiala grossa, nel senso di pregna. Nel greco moderno la voce magiá, pronunciata majà, significa ‘lievito’, la sostanza che fa fermentare, crescere, gonfiare la materia organica.

    Nel Vocabolario abruzzese di D. Bielli compare anche la voce majàtëchë  ‘marchiano, grosso, madornale’ detto di animali, ciliegie, errori che conferma evidentemente la radice maia- < mag- .

    E il senso di porco castrato?  Il fatto è che il lat. maial-e(m) significa in genere proprio porco castrato. Ma perché questo avviene?  Come mai al semplice significato di porco deve aggiungersi anche la qualità dell’essere castrato? Anche in questo caso è il dialetto che ce ne svela il motivo.

    In Abruzzo[1], e anche in alcuni paesi della nostra Marsica come Trasacco[2], ricorre la voce majà, majjà ’castrare’.    Ora, la cosa importante è notare, secondo me, che questa voce molto probabilmente esisteva già, anche nel latino parlato, ai tempi della nostra Maia e del nostro maial-e(m) sicchè potè avvenire l’incrocio che fornì a maial-e(m)anche il significato di castrato: altrove ho già ricordato che questi fenomeni erano già presenti nel latino classico.

      Qualunque sia l’etimo di majà ‘castrare’, di cui comunque ho già parlato nell’articolo del mio blog La gramola e i suoi vari nomi dialettali (1 settembre 2012), resta il fatto che esso si è  incrociato con il lat. maial-e(m): anche l’abr. maial-éschë, infatti, ne ha mantenuto intatto il significato di ‘scrofa castrata’ accanto a quello generico di ‘maiala’.  C’è anche da ricordare che l’espressione usata in latino per indicare il porco sacrificato a Maia era sus Maialis intesa come ‘porco dedicato a Maia’ ma in realtà essa, prima che si incrociasse col nome della dea, doveva indicare proprio un ‘porco (sus) castrato (maialis, con la /m/ minuscola perché inizialmente non riferita a Maia)’. E’ chiaro che un animale castrato diventa pingue e  grasso ma solitamente continua ad essere designato come castrato. L’etimo primo di lat. maial-e(m) resta comunque ignoto; esso potrebbe indicare solo il concetto di “animale”.

    E questo è quanto. In simili storie nulla è dovuto al caso, ma è semmai la nostra ignoranza che ce lo fa credere.



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-AQ, 2004.

 

[2] Cfr.Q. Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003. 

   




Credo che tutti gli etimologi sostengano che l’it. maiale, lat.  maial-e(m), sia stato forse così chiamato perché a Roma si era soliti, in genere il primo giorno di maggio, sacrificare un maiale a Maia, dea della fecondità. Il nome, insomma, deriverebbe da quello di Maia.

   Noi però sappiamo che i nomi non nascono in genere in questo modo perché essi dovrebbero fare riferimento, invece, alla natura del referente e non agli accidenti che possono riguardarlo.

    Dico subito che non conosco il vero etimo della parola in questione, ma mi preme comunque sottolineare alcuni fenomeni che la toccano e che illuminano i fatti linguistici in genere con la loro complessità.

   Si narra, infatti, fin dall’antichità, che il primo di maggio, come ho accennato or ora, si sacrificava a Maia un maiale il quale, stando ad alcune delle fonti, doveva essere castrato, mentre secondo altre si trattava di scrofa gravida, pregna. Sono forse questi dei fatti casuali su cui non vale la pena soffermarsi? Non credo, dato che essi possono essere spiegati puntualmente.

    Una scrofa pregna, infatti, è appunto una maiala gravida, grossa: due aggettivi i cui concetti possono essere espressi anche dal lat. mag-n-u(m) ‘grande, grosso, ecc.’ la cui radice mag- abbiamo visto (nell’art. precedente intitolato La maésa) che si ritrova nel nome Maia<*Mag-ia,e nel comparativo ma-ior-e(m) ’maggiore’ con la caduta della velare /g/.  E’ dunque questo il motivo per cui dietro il termine mai-al-e(m) è stato visto, dagli antichi, non un semplice maiale o porco, ma una maiala grossa, nel senso di pregna. Nel greco moderno la voce magiá, pronunciata majà, significa ‘lievito’, la sostanza che fa fermentare, crescere, gonfiare la materia organica.

    E il senso di porco castrato?  Il fatto è che il lat. maial-e(m) significa in genere proprio porco castrato. Ma perché questo avviene?  Come mai al semplice significato di porco deve aggiungersi anche la qualità dell’essere castrato? Anche in questo caso è il dialetto che ce ne svela il motivo.

    In Abruzzo[1], e anche in alcuni paesi della nostra Marsica come Trasacco[2], ricorre la voce majà, majjà ’castrare’.    Ora, la cosa importante è notare, secondo me, che questa voce molto probabilmente esisteva già, anche nel latino parlato, ai tempi della nostra Maia e del nostro maial-e(m) sicchè potè avvenire l’incrocio che fornì a maial-e(m)anche il significato di castrato: altrove ho già ricordato che questi fenomeni erano già presenti nel latino classico.

      Qualunque sia l’etimo di majà ‘castrare’, di cui comunque ho già parlato nell’articolo del mio blog La gramola e i suoi vari nomi dialettali (1 settembre 2012),  resta il fatto che esso si è  incrociato con il lat. maial-e(m): anche l’abr. maial-éschë, infatti, ne ha mantenuto intatto il significato di ‘scrofa castrata’ accanto a quello generico di ‘maiala’.  C’è anche da ricordare che l’espressione usata in latino per indicare il porco sacrificato a Maia era sus Maialis intesa come ‘porco dedicato a Maia’ ma in realtà essa, prima che si incrociasse col nome della dea, doveva indicare proprio un ‘porco(sus) castrato (maialis, con la /m/ minuscola perché inizialmente non riferita a Maia)’. E’ chiaro che un animale castrato diventa pingue e  grasso ma solitamente continua ad essere designato come castrato. L’etimo primo di lat. maial-e(m) resta comunque ignoto; esso potrebbe indicare solo il concetto di “animale”.

    E questo è quanto. In simili storie nulla è dovuto al caso, ma è semmai la nostra ignoranza che ce lo fa credere.



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-AQ, 2004.

 

[2] Cfr.Q. Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003. 

   


sabato 4 dicembre 2021

La maésa.

 


 

 

   La voce femminile aiellese ma-ésa corrisponde al termine maschile (talora femminile) it. magg-ése, il quale indica generalmente un terreno messo a riposo per essere lavorato l’anno seguente, secondo una pratica agricola antichissima che ristabiliva la fertilità di un campo divenuto poco fecondo negli anni.

    La forma ma-ésa si riscontra anche nel dialetto di Luco dei Marsi[1] con la /è/ grave, in alternativa, però, alla forma ma-jèsa, la più comune in Abruzzo, benché in genere con la /é/ acuta.   In internet la voce ma-ésa  ‘terreno arato in attesa delle piogge’ è diffusa anche nelle Marche.  

    Ora, urge una importante precisazione: la forma in uso ad Aielli presume senz’altro la velare, non la palatale, /g/ (come succede nella stessa voce del nostro dialetto Aéjjë ‘Aielli’ < lat. classico Agell-um di cui ho trattato altrove) presente in una forma *mag-ésa immediatamente  precedente all’attuale,  e pertanto in forte contrasto con l’aggettivo latino Mai-u(m) ’di maggio’ da cui tutti i linguisti derivano l’it. magg-ese di cui sopra, dando una spiegazione che in effetti è poco convincente: la lavorazione del terreno avverrebbe nel mese di maggio. Ma, come leggo, La forma classica del maggese prevede quattro lavorazioni del terreno (arature) che si susseguono da marzo ad agosto, e possiedono profondità variabile: molto leggera l'ultima e più profonde la prima e la terza.  Dopo queste lavorazioni tese a ripulire e preparare l’appezzamento, si procede, verso ottobre-novembre, alla nuova aratura per la seminagione.

   A mio parere, quindi, il mese di maggio  non c’entra nulla, come confermato d’altronde dalla forma aiellese ma-ésa <*mag-ésa che ci spinge a procedere  verso altra direzione. Quale?  Secondo me anche l’aggettivo e sostantivo lat. Mai-u(m) ‘di maggio’ o  ‘mese di maggio’ poteva avere in precedenza una velare, poi caduta, in una forma *Magi-u(m).  Il mese di maggio era così chiamato perché dedicato a Maia, divinità che a Roma rappresentava la fecondità in generale e il risveglio della natura a primavera.  Ma allora non dovrebbero esserci dubbi! Il maggese, termine che certamente esisteva già nel latino parlato nella forma *mag-ens-e(m), o simile, indicava il terreno sottoposto a questa pratica e la pratica stessa che ne ristabiliva la fertilità compromessa, naturalmente sotto la protezione della dea Maia come avveniva in genere per ogni attività agricola, ciascuna legata a qualche divinità come  ad esempio Messor , dio delle messi; Puta, dea della potatura; Semo, dio della semina. Una pratica importante come quella del maggese poteva svolgersi senza la protezione di qualche divinità che, nel nome stesso, ne indicasse lo scopo?  Senz’altro no, giacchè secondo me è valida l’equazione: Maia<*Magia (fertilità, fecondità) = magg-ese (terreno reso fecondo, fertile –e pratica relativa).

    Nei nostri dialetti il significato di ma-ésa  e simili indica genericamente il ‘terreno  lavorato più o meno in profondità’ (magari per dissodarlo),  nonché la ‘profondità, più o meno marcata, di qualsiasi aratura (ad Aielli-Aq)’ senza riferimento alla pratica del maggese.

    Così stando le cose quale potrebbe essere il significato della radice mag- all’origine di magg-ese e di Maia? Essa dovrebbe essere la stessa di lat. mag-n-u(m) ‘grande, numeroso, molto’.  Nel comparativo di maggioranza di questo aggettivo la velare /g/ cade ugualmente dinanzi alla desinenza –ior: infatti si ha ma-ior ‘maggiore, più grande’.  Ma un termine così antico da arrivare senz’altro al neolitico non poteva, a mio avviso, non incrociarsi con altri termini simili nella forma.  Io penso che questa radice si sia incrociata con quella dell’ingl. magg-ed ’logoro, consunto’ derivato probabilmente dall’ingl. dialett. magg-ed ‘stanco, esausto’ considerato, del resto, di origine ignota. Un terreno esausto, impoverito è proprio quello su cui si  applica la pratica del maggese per la quale sono necessarie da una parte la presenza di un terreno sfruttato, poco fertile, dall’altra una serie di lavorazioni che lo maggiorino, lo riportino alla fecondità perduta: qui si dà il caso che le due radici, che indicano le due cose, combacino nella forma eguale  mag- anche se il loro significato è in qualche modo opposto. 

    Chiudendo, ribadisco con forza che la voce ma-ésa del dialetto di Aielli e di altri mi costringe a constatare che l’it. maggese non deriva il nome dal mese di maggio, in latino Ma-iu(m) ’maggio’, ma semmai dal nome della dea Maia  alla quale  esso era dedicato, nome che aveva il significato di ‘abbondanza, fecondità’, ed era collegato alla radice indoeuropea di lat. mag-n-u(m)  ‘grande, numeroso, molto’.  In somma l’it. maggese non scaturisce direttamente dala forma storica lat.  Ma-iu(m) ‘maggio’, ma da una precedente forma *Mag-iu(m) anche se non attestata: l’aiellese ma-ésa ne è in qualche modo una prova.

    C’è ancora da sfatare un altro dubbio, cioè che nella forma maj-ésa la semivocale  /j/ sia la continuazione della semivocale /i/ di lat. Ma-iu(m) ‘maggio’Essa invece è dovuta alla caduta della consonante velare /g/ che  tra due vocali nei nostri dialetti spesso scompare, come in fràula ’fragola’ < lat. fragul-a(m), oppure lascia per così dire un segno trasformandosi  in /j/ come nella voce del dialetto cerchiese Ajéjjë ’Aielli’ che ad Aielli suona invece, come abbiamo detto, jjë, con la caduta totale della velare.  Molto istruttiva è la voce abruzz. arcaica pajé ‘paese’ dal lat. pag-ens-e(m) (cfr. lat. pag-um ‘villaggio, paese’), la quale normalmente si affianca all’altra  psë, in cui si ha la lenizione totale della velare /g/ come del resto nell’it. paese. Anche all’inizio di parola avvengono queste trasformazioni come in abruzz.[2] nërë ’genero’, nèstrë ‘ginestra’, ecc.   

     I dialetti smentiscono abbastanza di frequente le false supposizioni dei linguisti. 



[1] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei MarsI, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.

[2] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq.  2004.

   




giovedì 11 novembre 2021

Ammizzë.

 

 

 

      Che peccato che una parola come l’aiellese ammízzë ’agnello’ debba essere condannata sicuramente all’estinzione!  Infatti la conoscono solo le persone anziane e, dato che la pastorizia ha fatto la fine che sappiamo (ad Aielli c’è solo un semipastore  con una trentina di pecore e capre, dedito anche all’agricoltura) .  Una parola legata anima e corpo alla pastorizia, non potrà sopravvivere una volta mutate radicalmente le condizioni economico-sociali che la tenevano in vita.

       Io finora non ho avuto modo di incontrarla nei dialetti della Marsica e d’Abruzzo: si tratterà di un unicum? Forse sì e forse no, e mi piacerebbe pertanto sapere se qualcuno la conosce. 

      Si tratta del puro greco bucolico amn-ís, idos ‘agnella’ (che forse si usava anche per il maschile), ampliamento del gr. amn-όs ‘agnello’ la cui radice comunque è messa in relazione con quella dello stesso lat. agn-u(m) ‘agnello’.   L’aiellese ammízzë  sembra essere proprio il nominativo amn-ís incrociato col dialettale ammízzë ‘avvezzo, abituato’, partic. pass. del verbo  ammëzzà  ‘avvezzare, abituare’ derivato dalla prepos. lat. ad ‘a, presso’ più lat. viti-um ’vizio’ da cui it. vezzo’abitudine’. In dialetto ha dato la forma ammezzà sulla scia di termini come lat. invit-are diventato ‘mmëtà ’invitare’.  Ma non è escluso che la forma dialettale derivi direttamente dal tema dell’accusativo  amn-íd-a ’agnella’.  Le parole greche nel mio dialetto sono moltissime e non possono tutte risalire agli influssi del greco parlato in città della Magna Grecia trattandosi spesso di parole non commerciali, economiche, artistiche, ecc. come ho spiegato in altro articolo. Esse quindi dovevano esistere da noi già da molto tempo prima.  La forma amn-ís  o amn-íd-a ‘agnello’ dovette rimanere  intatta fino a quando non si incrociò nel basso latino o nell’alto Medioevo con l’ amm-ìzze   di cui sopra.  

       Lo svolgimento normale del termine amn-id-a avrebbe dovuto dare prima un *ann-id-a (con la normale assimilazione della /m/ alla /n/ successiva) e quindi un *ann- id-ja>*ann-izza>*ann-izzë per influsso del verbo del basso latino *ad-viti-are ’avvezzare’ di cui si è detto.

        Nel dialetto napoletano la carne annecchia   è la carne di vitello. Il termine è fatto derivare dall’aggett. lat. anni-cul-u(m) ‘di un anno’ riferito al sottinteso bov-e(m) ’bue’.  Io invece penso che anche qui si doveva avere un originario *amni-cul-u(m) ‘agnello’, femm. *amni-cul-a(m) ‘agnella’> annécchia. Ma poteva derivare anche dal lat. agni-cul-a(m) 'agnellina' Il cambio di significato da agnello a vitello si deve spiegare col fatto che spesso i nomi di cuccioli sono uguali per più animali, come lat. vit-ul-u(m) ’vitello’ che poteva indicare anche il ‘cucciolo’ di cavallo, di elefante, di balena, ecc.

 

Per quello che posso non permetterò che questa chicca di nome dialettale finisca per sempre nel dimenticatoio.  Pubblico pertanto questo articoletto sul mio blog (pietromaccallini.blogspot.com), anche se probabilmente ne ho già parlato in altro articolo.

     

     



Originalità dell’articolo maschile singolare nel dialetto di Aielli.

 


    Forse nemmeno gli aiellesi hanno mai notato il comportamento dell’articolo maschile sing. nel loro dialetto, giacchè una lingua materna la si parla  automaticamente, senza la necessità di starci a riflettere sopra.

    Ora, il detto articolo presenta da noi quattro forme, cioè /i/, /lë/, /u/, /ju/.  Le ultime due sono in realtà intercambiabili come in u cavàjjë e ju cavàjjë ‘il cavallo’ oppure u trènë e ju trènë ‘il treno’. Le due varianti presuppongono un precedente *lu (lat. (il)lum ’quello’) con la perdita o la palatalizzazione della liquida /l/ iniziale.

    La forma // (con la –e- cosiddetta muta) ricorre, pure in altri dialetti, dinanzi a nomi neutri latini o sentiti tali  come in panë ‘il pane’: in latino si aveva, oltre al maschile pan-e(m), anche il neutro pan-e.  La stessa cosa si verificava per il lat. neutro vin-u(m) da noi diventato vinë ‘il vino’, benché in latino si incontri anche una forma maschile, in Petronio. Idem per il dialettale salë che in latino era sia maschile che neutro.

    La forma /i/, che nel nostro vernacolo indica stabilmente anche il maschile plurale, quando viene impiegata per il singolare? Per quale motivo normalmente (a parte i casi di maschile singolare visti in precedenza) si usa /u/ oppure /ju/ e in diversi altri casi si usa invece questo /i/?  Il fenomeno si capisce bene tenendo presenti gli articoli di alcuni nomi usati sia a Cerchio che ad Aielli, due paesi vicinissimi.  A Cerchio si dice, ad esempio, u fumë ‘il fumo’, u lupë ‘il lupo’, u murë ‘il muro’ mentre noi tassativamente in questi casi mutiamo l’articolo /u/ (che come abbiamo visto possediamo anche noi) nell’articolo /i/, cioè i fumë, i lupë, i murë.  L’unica riflessione che a mio avviso si può fare è che in questi casi l’orecchio degli aiellesi, nel periodo di formazione dei dialetti, durante il Medioevo, ha avvertito come cacofonica la ripetizione, in due sillabe successive, dello stesso suono /u/  ed ha optato, per così dire, per la eufonica successione di /i/ e /u/, considerato, d’altronde, che l’articolo maschile singolare /i/ già circolava probabilmente nelle vicinanze, in altri dialetti come quello celanese.

    Il fenomeno si estese probabilmente anche all’articolo maschile /u/ seguito da nomi con la sillaba iniziale in /o/, giacchè noi ad Aielli diciamo i mondë ‘il monte’, i rospë ‘il rospo’, i pondë ‘il ponte’ mentre a Cerchio dicono imperterriti u mondë, u rospë, u pondë. Se la vocale della sillaba inziale della parola è diversa da /u/ ed /o/ l’articolo maschile singolare aiellese ridiventa normalmente /u/ o /ju/: u canë ‘il cane’, u ràspë ‘il graspo’, u mérlë ‘il merlo’, u cítërë (oppure cítëlë) ‘bambino in fasce’.

     Ci sarebbe da dire ancora qualche altra cosa, ma mi fermo qui sperando di soddisfare almeno la curiosità di qualcuno.

    



mercoledì 10 novembre 2021

Etimo di “embrice”.

 


    Il termine it. embrice indica un tipo di tegola piatta.  Tutti i linguisti (mi pare) ne danno il facile etimo risalente al lat. imbric-e(m) ’embrice’ a sua volta messo in collegamento, senza pensarci troppo, con il lat. imbr-e(m) ‘pioggia’, parola che ha l’etimo in comune col gr. όmbr-os ‘pioggia, fiume, ecc.’.  Ma, perdinci, le tegole ed i tetti hanno forse solo la funzione di riparare dalla pioggia e non anche dal vento o dai raggi eccessivi del sole durante l’estate?  In effetti il lat. teg-ul-a(m) ‘tegola’ e il lat. tect-u(m) ‘tetto’ sfruttano ambedue la radice indeuropea del lat. teg-ĕre ‘coprire’.

    Mi è difficile pensare, pertanto, che prima della costruzione delle case in muratura i Latini non avessero termini che indicassero ogni forma di copertura o riparo, termini che automaticamente sarebbero passati poi ad indicare tegole e tetti.  Di conseguenza a me pare molto probabile  che il lat. imbr-ic-e(m) ’embrice’ possa essere variante, ampliata in –ic-, di lat. umbr-am ‘ombra’, parola incrociatasi con lat. imbr-e(m) ’pioggia’. 

     Nel  suo Dizionario etimologico CDE G.Devoto afferma che “In regioni calde l’ombra si associa all’imagine di ‘riparo (dal sole)’ “.  E in effetti il significato d’origine della parola doveva essere proprio ‘difesa, protezione, rifugio’ e persino tetto , nel senso di ‘vano, stanza, casa’ se il lat. umbr-a-cul-u(m) significava anche ‘sala (di studio)’ oltre a ‘luogo ombroso, ombrello’.

      E già! anche gli it. ombrello, ombrella  sembrano essere nomi che indicano strettamente solo un ‘riparo dal sole’  data la presenza, nel lessico italiano, della parola ombra col significato generico che sappiamo di ‘diminuzione o assenza di luce’.  Ma questo è solo un significato specializzato del precedente generico ‘riparo’ come è specializzato anche il suo significato più usuale di ‘paracqua, parapioggia’, perché molto probabilmente esso si è incrociato in tempi lontani col gr. όmbr-os più sopra citato o con qualche parola simile ed omosemantica come sarebbe un eventuale *umber, variante di lat. imbr-e(m) ’pioggia’.  Anche i tedeschi usano normalmente il termine generico schirm ‘schermo, riparo’  indifferentemente per il ‘parapioggia’ o per il ‘parasole’ ma, quando vogliono essere più precisi, usano Regen-schirm, letteral. ‘riparo per la pioggia’ e Sonnen-schirm, letteral. ‘riparo per il sole’.

     Si può dire che sin dall’inizio della mia ricerca ho incontrato parole i cui significati specifici rimandavano a precedenti significati generici delle radici.

 

sabato 6 novembre 2021

Significati del sardo "conca" ed altro.

 Significati del sardo “conca” ed altro.

     In tutta la Sardegna, che io sappia, l’appellativo sa conca significa ‘la testa’. L’etimo è abbastanza chiaro, e rimanda al lat. conch-a(m) ‘conchiglia, vaso, vasetto, misura di capacità’ nonché al gr. cόnkhē ’conchiglia, scatola cranica’. Ma basta dare uno sguardo ad alcuni toponimi sardi come Conca de su cuaddu (a Samugheo-Or e anche ad Asuni-Or) per dedurre che in tempi preistorici conca doveva significare ‘cavità, grotta’, almeno in questi casi in cui si riferisce a tombe preistoriche scavate nella roccia. La specificazione de su cuaddu ’del cavallo’ in realtà era altro nome per ‘grotta’.  Altro toponimo famoso in Sardegna è Sas Concas di Oniferi-Nu, un ipogeo costituito da una serie di tombe.

     Ora, per rendersi conto della mutevolezza dei significati delle parole, anche sarde, consiglio vivamente di leggere l’articolo intitolato Campo Cavallo presente nel mio blog (pietro maccallini.blogspot.com) del 20 marzo 2019.

 

      L'it. conca fissa l'attenzione, per così dire, soprattutto sulla parte interna di un recipiente, mentre il sardo conca la fissa sulla parte esterna. Ma alle origini quale era il significato del termine? Per il significato sardo possiamo supporre un precedente 'protuberanza' e per il significato italiano quello di 'cavità'. Ma inizialmente, insomma, questi due significati potevano essere riuniti in quello di 'spinta verso l'esterno o l'interno di qualcosa' e precedentemente solo in quello unico di 'spinta'.

 

     Il significato di 'cavità' ne genera altri simili come nell'abruzz. cònch-ele 'mallo', abruzz. conc-ulla 'mallo della noce o mandorle', abruzz. conc-ùjje 'buccia dell'acino d'uva' ed anche ‘mallo delle mandorle’. Pertanto quando in toponomastica si incontra un Monte Conca, bisogna pensare al significato di sardo conca 'testa' e supporre che Conca significhi in quel caso 'monte, cima, e simili'; quando invece si incontra una Fossa della Conca, bisogna andare subito al significato italiano di conca, e supporre che in quel caso il suo significato fosse quello di 'cavità, fossa'.

 

     Interessanti sono i significati di alcuni termini gergali inglesi come conk che vale sia ‘testa’ che ‘naso’, in effetti due protuberanze, come ho avuto modo di spiegare altre volte in passato. Il verbo to conk significa ‘colpire, soprattutto alla testa’. In effetti se analizziamo l’azione del colpire ci accorgiamo che essa, sostanzialmente, consiste nello spingere con forza un corpo contro un altro.  Ora questo spingere è tutto presente nel concetto di pro-tuber-anza come ho cercato di spiegare più sopra , fermo restando il fatto che la spinta poteva essere rivolta anche verso l’interno di qualcosa e dare il significato di ‘cavità, affossamento’ e, in un eventuale verbo, quello di ‘cedere, mancare, venir meno, ritirarsi’ come nell’ingl.(non gergale) to conk’rompersi, crollare, venir meno, mancare, morire’.  Questi verbi ci danno una mano a farci capire che la suddetta spinta poteva configurarsi  come un semplice movimento ed indicare anche il ‘fluire’ delle acque, e cioè un flu-men che in latino vale ’corrente, corso d’acqua, fiume’.  E’ il significato originario, almeno a mio parere, di idronimi come il fiume Congo (Africa), il rio sa Conca (Sardegna), il torrente Conca in provincia di Rimini, nonché il rio Conca in provincia di Latina. E non poteva mancare una Fonte la Conca, un fontanile nel territorio del comune di Roma.  E chissà quante altre fonti presentano  lo stesso nome nelle campagne d’Italia!

 

 

 

 

    



domenica 31 ottobre 2021

I mamuthones di Mamoiada: tracce del nome della famosa maschera sarda nell’Italia centrale e meridionale.

 

   I mamuthones di Mamoiada: tracce del nome della famosa maschera sarda nell’Italia centrale e meridionale.

   

      Nessuno, che io sappia, ha mai sostenuto che nei nostri paesi d’Abruzzo, Lazio e Meridione in genere si potessero riscontrare usi e soprattutto nomi di maschere e altro che possono essere messi in rapporto con i mamuthones del titolo (particolari maschere carnevalesche di cui hanno parlato illustri studiosi), simili ad altre figure adombrate in svariati appellativi sardi come:  mam(m)utt-one, mamucc-one, marmut-one, mamunt-omo, mumutz-one dal significato di ‘fantoccio, spaventapasseri, spauracchio dei bambini’ come momotti ’babau, befana, spauracchio’.  In lingue antiche del Vicino Oriente si incontrano i termini mot ,motu, momotti significanti ‘morte, caos’.  Anche l’appellativo sardo mommoi vale ‘babau, befana, fantasma, licantropo’ e simili.  Per quest’ultimo cito subito la voce simile abruzzese mamm-όvë ’babau’[1].   Il passaggio di significato da ‘figura rituale’ (di cerimonie antichissime, tramandate dalla preistoria e risalenti al periodo nuragico ed oltre) a ‘spaventapasseri, spauracchio, ecc.’ senza alcun riferimento al rito d’origine, credo sia dovuto all’avvento del  Cristianesimo che senz’altro cercava di svalutare questi riti pagani a tutto vantaggio di quelli della nuova religione.

    Ora, si dà il caso che nelle feste dei nostri paesi d’Abruzzo, generalmente verso la fine della festa patronale, compare (o meglio compariva in passato) una maschera chiamata mamm-occia, pup-azza, pandasima(fantasma) ed anche marmotta,pucca, puca costituita da una struttura di canne coperte di abiti vecchi o di cartapesta, con all’interno una persona la quale la fa  ballare in piazza tra le risate e  il divertimento dei presenti: alla fine la mammoccia viene addirittura bruciata, atto che sottolinea la fine della festa, ma che ha anche altre valenze, come  la distruzione del male che essa in qualche modo doveva pure rappresentare se, almeno  mio parere, doveva essere imparentata, nella notte dei tempi, con  il mamuth-one di Mamoiada e con le varie entità simili indicate dai diversi nomi sardi citati tra cui marmut-one , dal significato di ‘spaventapasseri, spauracchio, babau, ecc.’, la cui prima parte radicale è variante della suddetta marmotta, maschera dalle forme sgraziate che appare al termine della festa (ad esempio a Rocca di Botte-Aq), in uso anche nel Lazio.

     Anche il dialettale mammoccio (fantoccio goffo e rudimentale) secondo me rafforza la parentela esistente ab antiquo tra la mamm-occia (maschera della festa) e le figure sarde citate, una delle quali si chiama proprio mamucc-one, termine con la radice mam-ucc- uguale a quella di mamm-occia .  Io infatti non credo che l’etimo di mamm-occio rimandi all’it. bamb-occio ‘bimbo grassottello, fantoccio di pezza, bambola’: me lo garantisce  l’espressione viterbese di Pantasima di mammucco indicante una ‘persona insulsa, incapace di nulla’. Che la figura della mammoccia fosse di origine rituale e sacra lo spiega sinteticamente Amelia De Blasis in un suo articolo sulla mammoccia di Civitella Roveto-Aq[2], considerata simbolo del male. Essa veniva bruciata durante una festa e doveva avere anche il significato di ‘spauracchio, babau’ se ai bambini, per farli stare buoni, si diceva  minacciosamente: ecco la mammoccia!

   Conferma la mia idea un’altra voce del dialetto napoletano ma diffusa anche altrove nel Meridione, e cioè mamòzio[3]. A Napoli esiste pure la forma equivalente mammòccio la quale, se non proveniente autonomamente dalla suddetta radice mam-ucc-, sarà derivata  molto probabilmente dalla prima, per allineamento alle molte parole in -occio come carr-occio, figli-occio, bell-occio. I significati sono: ‘fanciullo grasso’, ‘bambola, marionetta’, ‘persona ingombrante’, ‘sciocco’, ‘persona di carattere chiuso’, ‘donna che si intromette’, ecc.  Bisogna tener presente anche l’abruzzese mamozzo col significato di ‘persona brutta’.  Ma, signori miei! quando si parla di persona ingombrante e di persona dal carattere chiuso non posso non pensare proprio ai mamuthones di Mamoiada, che procedono lentamente, con una maschera nera sul volto e una giacca di lana scura, senza emettere una parola, muti, mentre sono guidati dai cosiddetti issohadores (quelli con la   ’soga’ in mano), maschere dalle vesti chiare, agili nei movimenti e che quindi dovrebbero rappresentare gli uomini, non le bestie come i mamuth-ones. 

    Qualcuno potrebbe obbiettare che però tutti i significati del meridionale mamòzio si riferiscono alla sfera laica, per così dire, non a quella rituale e sacrale. Ma questo non è vero perché in Basilicata in varie festività viene  acceso un  fantoccio chiamato appunto mamozië[4], parola uguale al mamòzio napoletano suddetto, la quale presenta  laicamente, per così dire, i significati di ‘fantoccio, pupazzo’ ma anche di ‘statua, scultura’ e, in senso lato, di ‘persona stupida’.  Ad Amantea-Cs la mamozia indica una ‘donna inetta, intontita, incapace, impacciata’: quasi un’altra fotocopia della figura del mamuth-one muto, goffo, impacciato col suo carico di pesanti campanacci!

   L’etimo di napoletano mamòzio, quindi, in nessun modo può essere riportato al solito it.bamb-occio ma, semmai, a quello (tutto da scoprire) del sardo mamuth-one col suffisso accrescitivo-peggiorativo –one.  In linea suppositiva a me sembra che inizialmente esso avesse il significato generico di ‘animale’, magari relitto della civiltà nuragica o prenuragica apparentato con il termine mammut di origine russa (mamot o mamont), riferito ai ben noti animali ora estinti ma vissuti (alcune specie nane) fino a tre/quattromila anni fa. Così si spiegano, al posto dei mamuth-ones, anche i boes ‘buoi’ del carnevale di Ottana nonché gli urtzus ‘orsi’ di quello di Ula Tirso dove però  le maschere indossano pelli non di orso ma di cinghiali e di caproni. Naturalmente la parola sarda, data la sua estrema antichità, si sarà incrociata con altre parole simili nella forma ma diverse nel significato il quale, di volta in volta, avrà influenzato il significato e il comportamento della maschera. Si pensi, ad esempio, al gr. kápr-os’cinghiale, porco’, uguale nella forma al lat. caper, capr-i ‘capro’. 

    La maschera abruzzese, ma anche pugliese, pucca, puca penso che avrà qualcosa da spartire con l’inglese Puck, un genio folletto delle favole.  Per il significato della pup-azza, di cui si è parlato sopra come equivalente di mammoccia, non ci inganni il valore vezzeggiativo del suo significato italiano di ‘bambola’: nel ladino-veneto la voce pòp vale ‘statua, pupazzo’  ma anche ‘spaventapasseri’. A  La  Valle Agordina-Bl essa indica un ‘grande pupazzo fatto con culmi di granoturco e poi bruciato la sera precedente la festa di San Marco’[5].

    E’ veramente bello scoprire che i mamuth-ones sardi erano parenti stretti, molto probabilmente, delle nostre mammòccë , marmottë  e  dei nostri mamòzzë, mamòzië, abruzzesi e meridionali.

   

    

    



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A.Polla editore, Cerchio-Aq.  2004

 

[3] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino 1998.

 

[4] Cfr. G. Tardio, Fantocci nei rituali fest ivi, presente in rete, pag. 13 e nota 9.

[5] Cfr. Cortelazzo- Marcto, cit.

      




    

lunedì 13 settembre 2021

Ancora lucciole (6).

 


Lucciola lucciola.

 

Lucciola lucciola vien da me,
che ti darò il pan del re;
pan del re e della regina,
lucciola lucciola vien vicina.


Lucciola lucciola vieni da me,
ti darò veste da re,
veste da re e mantello da regina
lucciola, lucciola piccolina.


Lucciola lucciola vieni da me,
ti darò letto da re,
letto da re e lenzuola da regina,
lucciola lucciola maggiolina.

 

   Questa filastrocca mi ha colpito per alcune espressioni che richiamano chiaramente, a mio avviso, radici e parole che indicano la luce o il fuoco.  La prima strofe contiene termini già analizzati negli articoli precedenti.

   Nella seconda strofe si nomina la “veste da re”, la quale è pari pari il nome della dea latina del focolare Vesta, gr. hestíafocolare’, gr. Hestía dea del focolare’; un’altra parola è il mant-ello della regina la cui radice rimanda, a mio parere, al ted. Mond  ‘luna’, ingl. moon ‘luna’, olandese maan ’luna’.  Questi termini, in quanto luna, alludono per prima cosa alla luminosità del nostro satellite il quale, con le sue varie fasi, servì per misurare il tempo nei più antichi calendari.  I linguisti ritengono che la radice indoeuropea ME- avesse il valore di ‘misura’, ma questo può valere, a mio avviso, solo per il significato di ‘mese’, che nelle lingue germaniche è espresso in modo simile come ingl. month ‘mese’, ted. Mon-at ‘mese’.  Secondo me la voce germanica per lunapassò automaticamente ad indicare il ‘mese’ in questi calendari, dato che il moto di rivoluzione del satellite intorno alla terra è di circa 29 giorni. Naturalmente ci sarà stato poi un incrocio con la radice simile per ‘misura’.   La radice avrà qualche rapporto con l’aggett. lat. mund-u(m) ‘pulito, netto, mondo’ e con il sost. lat. mund-u(m) ‘mondo’ che in Manilio è usato col significato di ‘sole’.  Nelle Marche, a Fano, si incontra il verbo mantà ‘lampeggiare delle luci sul mare prodotto dai fanali delle barche, dal faro, ecc.’ che è risolutivo.  Nella seconda strofe compare anche l’aggett. picc-ol-ina riferito alla lucciola: sappiamo già, come ho detto in un precedente articolo, che picc-ol-ina è uno dei tanti nomi per la lucciola, che richiama a mio avviso il gr. pygo-lampís ‘lucciola’ , ingl. bick-er ‘brillare, vacillare (di luce)’, ecc.

    Nella terza strofe si dice che sarà dato alla lucciola addirittura un letto da re! Ma  come possono nascere simili idee nella mente di qualcuno che osserva questi animaletti? E’ piuttosto semplice se dietro la parola letto (lat. lect-um 'letto') riusciamo a scorgere il ted. Lichtluce’, che doveva essere altro nome per il coleottero.  E dietro le lenzuola che vengono nominate subito dopo che bisogna vedere? L’it. lindo, spagn. lindo ‘bello’ nonché il celtico lintz ‘brillante, rilucente’, seguito dall’altro elemento –ola, che abbiamo incontrato spesso, anche con sue varianti, negli articoli precedenti.

   La mia scorribanda tra le sfiziose lucciole credo che termini qui, ma non si sa mai.

 ma non si sa mai.