sabato 15 agosto 2020

L’istruttivo caso di it. pignatta e it. pentola.



    
    

  I linguisti solitamente sostengono che l’it. pignatta (dial. pignàta) sia il risultato di un ampliamento di it. pigna (derivante da un aggettivo sostantivato latino pine-am ‘pigna’),  con un passaggio semantico generato o dalla forma della pignatta o da quella del coperchio o da altro. E in effetti si incontra un uso del semplice  pigna col senso di ‘pignatta, pentola’ nel Lazio, Abruzzo, Umbria e Marche[1].  Il linguista G.B. Pellegrini rifiuta l’etimologia tradizionale e suppone un latino parlato *pinguiatta(m) da *pinguia(m) olla(m), pentola (oll-am) per la conservazione del grasso (aggett.lat. pingu-em ‘grasso) che poi avrebbe assunto il significato generico di ‘vaso, pentola’[2].

   Tutte queste supposizioni hanno, secondo me, il grave difetto di riportare l’etimo a qualche aspetto  secondario dell’oggetto, mentre la Lingua nomina solitamente le cose direttamente, per quello che sono.

    A me pare così più utile accostare la voce pign-atta al dialettale abruzzese pencë, pinchë ‘tegola’[3], ping-ula (Aielli-Aq) ‘coccio (di  vaso, di pentola)’.  Si tratta di radice indicante un oggetto di terracotta, atto a coprire o a contenere qualcosa, e che quindi ben potrebbe essere etimo di pign-atta, anche se il fatto, di primo acchito, non sembra evidente.  Ma tutto diventa chiaro se solo si riflette che il primo membro di pign-atta potrebbe facilmente provenire, attraverso una semplice metatesi, da un precedente *ping , presente in abr. pinchë, pinghë, appunto, col significato di ‘oggetto di terra cotta’, atto a coprire (tegola) o ad avvolgere e contenere (pentola, pignatta). La stessa metatesi si riscontra nel dialettale abruzz. tégnë 'tingere' per lat. ting-ĕre ‘tingere’ Nel dialetto di Luco dei Marsi[4] pìnqu-ele significa ‘trottola’, oggetto, come sappiamo, a forma di cono rovesciato che si fa girare vorticosamente.  È tutto un girare, contorcersi se l’etimo di trottola è a mio parere da ravvisare in una forma tort-ola

    Da un originario *pinga ‘pignatta’ si passò a pigna ‘pignatta’, per metatesi, come detto poco fa. Quindi il termine non ha nulla in comune con la pigna, frutto delle conifere, tranne la facciata esteriore, provenendo questa, a detta dei linguisti, dall’aggett. sostantivato lat. pine-am (pigna). In dialetto aiellese, e in altri, pigna vale  ‘grappolo d’uva’. Così le cose si complicano, dato che sia l’it. pigna, sia il dialett. pigna (grappolo), sia il dialett. pigna ‘pentola’, sia la pign-atta costituiscono grosso modo delle rotondità o ammassi, giacché anche la pign-atta  rientra in questo concetto generico che comprende sia le convessità (o protuberanze) sia le cavità (o pentole).  Secondo me, escludendo una derivazione di lat.pine-a(m)'pigna' dall’incrocio di lat. pin-u(m)’pino’ con questa radice *pinga ‘pignatta, rotondità’, si dovrebbe cercare una rotondità in qualche termine con la radice PIN-.  A me pare di poterla scorgere nel lat. pin-a(m) ‘tipo di conchiglia’ e nello stesso  lat. pine-a(m) ‘pigna’ ma anche ‘tipo di turbine’(Apuleio).

   In altri termini la pigna ‘frutto del pino’ non avrebbe nulla da spartire col pino bensì con una radice uguale formalmente a quella di pino, ma con un significato di rotondità del tutto diverso, che fatalmente sarebbe stata attratta dal pino, per indicarne il frutto il quale, nel nostro dialetto di Aielli, porta il bel nome tautologico di cucca-vèlla alludente ad una rotondità, appunto (cfr. it. cocco).

   Ma il bello arriva ora. Tutti i linguisti sono convinti che l’it. pentola deriva da un latino volgare *pinct-a(m) oll-a(m) ‘recipiente (oll-am) verniciato, dipinto’. Il lat. classico per ‘dipinta’ era pict-a(m). In realtà la parola latina volgare originaria per ‘pentola’ doveva essere *ping-at-ola(m), i cui due primi membri sono una fotocopia del termine *ping-at-a(m), da me posto all’origine di pign-atta. Nel caso di pentola essi si incrociarono effettivamente con latino volg. *pinct-a(m) ’dipinta’(spostando l’accento sulla prima sillaba) e diedero all’originaria *ping-at-ol-a(m)  la forma *pinct-ol-a(m) per caduta della-a-, forma da cui viene pentola, la quale abbaglia inesorabilmente  i linguisti col suo colore rossastro.  Ma, ripeto, la Lingua nomina le cose direttamente per quello che sono, non puntando lo sguardo su aspetti secondari come il colore.  Diversi sono in italiano i doppioni come pigione e pensione che indicano la stessa cosa e  contengono la stessa radice che ha subito, però, trattamenti differenti. 




[1]  Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998.

[2] Cfr. DELI, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Zanichelli, Bologna, 2004.

[3] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

[4] Cfr. G.Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.




domenica 2 agosto 2020

Il significato del dialettale (napoletano, abruzzese, romano, toscano) zi' Pèppe o, univerbato, zipeppe ‘pitale’.




     Pochi saranno quelli che ignorano, almeno nel centro-meridione d’Italia, la definizione di  scherzosa espressione riservata alla locuzione in epigrafe, come viene  classificata in genere da chi se ne è occupato dal punto di vista linguistico, guardandosi bene, però, dal darne poi un’etimologia concreta e accettabile.

     Dopo aver individuato l’etimo di dialettale pep-ar-ola ‘asso di coppe’, proprio nel suo primordiale significato di ‘cavità, recipiente, vaso’ nel post precedente L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare[1], mi viene molto spontaneo collegare il personale Peppe della locuzione di cui si parla (sovrappostosi probabilmente al termine pepe)  a quella stessa radice per ‘vaso’, specializzatasi in questo caso ad indicare il pitale, vaso da notte, orinale, forse per influsso della voce familiare pipì.  Il fatto stesso che si riesca, in base al ragionamento fatto per pepar-ola, a risolvere quest’altro caso rimasto insoluto per tanto tempo, credo che abbia il valore di forte indizio, perlomeno, della bontà delle mie idee.  Come diceva Einstein, una teoria è tanto più valida, quanto più varie sono le cose che collega e quanto più semplici sono le sue premesse.

    Il problema, a questo punto, è rappresentato dallo zi' o zi-  iniziale che apparentemente equivale ad it. zio < gr. theĩ-os ‘zio’, sp. tio ‘zio’, radice che si è probabilmente incrociata con una variante di greco omerico dō ‘camera, casa’, inteso dagli antichi grammatici come forma accorciata di gr. dōma ’camera, casa’; ma quasi sicuramente esso era una forma avverbiale  che significava ‘a, verso (l’interno)’ come la particella enclitica greca de, -ze ‘a, verso’ richiamante il latino arcaico endo, indu ‘in’. 
 
    In toponomastica diverse sono le grotte del tipo Zia Maria, Zia Concetta, Zio Totò, ecc. i cui nomi credo che raramente possano riallacciarsi veramente a qualche persona reale.  Nel Veneto c’è anche un Buso (Buco) di Zio, nel bergamasco un altro Bus del Zio.  Nel nostro caso zi, zi- sarebbe, allora, altro nome tautologico per ‘pitale’, forse collegabile anche alla radice di gr. diá ‘attraverso’.

     La variante romanesca don Peppino[2] ‘pitale’ è probabile che richiami, nel primo nome, il suddetto gr. dōma ‘camera, casa’ o lo stesso lat. dom-u(m) ‘casa’.

        Una gentile lettrice di questo articolo postato su facebook, tale Paola Romano Di Peppe, che vive in Toscana a Foiano della Chiana, mi ha informato che in quel paese lo zipeppe indica lo scaldino per il letto; si tratta sempre di un recipiente (per il fuoco), per il quale è meno calzante, a mio avviso, una definizione scherzosa. Si riconferma, così, il significato generico di fondo di ‘cavità, coppa, contenitore, ecc.’.   



[1] Cfr il mio blog pietromaccallini.blogspot.com (agosto 2020)
[2] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998 sub voce zipeppe

sabato 1 agosto 2020

«L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare!»



    Se l’interpretazione di alcuni fatti linguistici deve essere  quella che sto per mostrare, allora a mio parere è molto acconcia l’espressione in epigrafe pronunciata spesso  da Ginettone Bartali, uno dei ciclisti più in gamba che l’Italia abbia mai avuto.

     A fianco del lemma peparola  (marchigiano: Jesi) de I dialetti italiani[1] leggo il significato di ‘asso di coppe’ di cui si riporta la spiegazione data da Urieli[2], secondo cui l’immagine impressa sulla carta può ricordare il ‘vasetto per conservare il pepe’. E tutto sembra filare liscio.

   Ora, però,l’immagine impressa sulla carta non è altro che una coppa, dovendo rappresentare il seme di coppe. Che l’immagine possa richiamare una pepiera è anche possibile, se si vuole, ma l’idea che essa fa nascere  incontrovertibilmente nella mente di chi l’osserva non è obbiettivamente tale, bensì un contenitore del tipo delle coppe, appunto.   Allora si deve  almeno supporre che la pepiera sia una suggestione che sta tutta nel termine regionale pepar-ola, il quale, nel suo significante, non lascia scampo e induce a pensare che anche il suo significato d'origine faccia riferimento ad una pepiera ma, di fatto, come subito vedremo, potrebbe raccontarci tutt’altra storia che svela un significato originario di ‘recipiente, cavità, coppa’.  Questa non è una teorica ed astratta supposizione generata dalla mia tendenza al fantastico o dalla birichina voglia di imbrogliare le carte in tavola giocate dai linguisti, ma mi pare che essa abbia dei riscontri concreti e attendibili.

    Tutto parte dal significato generico di fondo della parola pepe < lat. piper-e(m) ‘pepe’< gr. péperi ‘pepe’, significato che, come abbiamo visto nel post precedente (Abruzzese cëtërόnë ‘cocomero’),  corrisponde al concetto generico di "granello, bacca, ecc." come nel corrispondente  nome dell’ant. indiano pippala ‘bacca’, il quale rimanda ad un significato  più generico di ‘rotondità, cavità, contenitore, coppa’.   La cosa è a mio avviso pienamente confermata dalla voce abr. papar-òzzë[3] ‘grosso nicchio marino’, cioè una grossa conchiglia monovalve: una cavità, recipiente, dunque, che non ha nulla a che fare col palmipede papera . A Trasacco-Aq nella Marsica la voce papara[4] indica la ‘papera’ ma anche il 'sesso femminile'.  Il concetto di cavità riappare nell’abr. pappar-òzzë[5] ‘pozza formata dall’acqua piovana’.  Con questi concreti punti di riferimento è molto probabile che la nostra pepar-ola ‘asso di coppe’ contenga nel profondo  il significato generico di ‘cavità, contenitore’ e non abbia costituzionalmente a che fare col pepe in sé, con cui condivide solo il significato d’origine di ‘rotondità, cavità’; pertanto, era fatale che la eventuale  *pepar-ola ‘contenitore in genere’, incontrato poi per caso il suo lontano parente, cioè il pepe, rinunciasse (preso da un moto di irrefrenabile altruismo) alla sua funzione generica di contenitore per diventare un esclusivo e servile contenitore del pepe, il quale addirittura è ben felice di derivare il valore di contenitore non dai suoi strati profondi (dove, pure, quel valore realmente esisteva) ma proprio dal nome del pepe, come un sorta di valore aggiunto proveniente dalla sua funzione di contenere di fatto  (e non in virtù della sua primigenia natura di contenitore)  un po’ di pepe tritato. Spero di aver spiegato decentemente il mio pensiero.

    Ora, anche il peper-one (in dialetto pëparόlë, paparόlë, pl. paparùlë, ecc.), ortaggio originario dell’America centro–meridionale e giunto in Europa dopo la scoperta di quel continente da parte di Cristoforo Colombo, presenta un nome molto simile a quello del pepe.  Si sostiene che si tratti di un nome imposto ex novo e basato sulla piccantezza di alcuni peperoni simile a quella del pepe.  A me pare, invece, che la piccantezza sia stato un motivo in più per far accreditare, come adatto a designare il nuovo ortaggio venuto dall’America, un nome che già esisteva probabilmente su suolo italico (come dimostrano le voci abruzzesi sopra citate) ad indicare qualche contenitore o magari qualche frutto rotondeggiante o a capsula, qualche bacca simile a quella dei peperoni, una cui specie, come sappiamo,  porta il nome scientifico latino di Capsicum annuum, dal lat. caps-a(m) ‘cassetta, capsula’, data la forma di recipiente della bacca.  Qui il suffisso –one di peper-one potrebbe essere realmente un accrescitivo rispetto alla forma pepere, pibiri esistente in qualche dialetto.

   Da Plinio sappiamo, inoltre, che la pianta piper-it-e(m), designazione di origine greca, indicava anche il siliquastro, nome, quest’ultimo, derivante da lat. siliqu-a(m) ‘siliqua, baccello’: quindi è molto probabile che in questo caso, la radice piper- si riferisse alla forma cava del frutto (non importa se allungata), non a caso confuso poi con il peperoncino rosso.

   Come si vede, la vita di un termine può essere paragonata a quella di una pianta le cui vistose fronde e i cui rami,  più o meno numerosi e grandi, non debbono farci tenere in non cale, però, le sue più o meno lunghe e numerose radici che raggiungono, spesso imprevedibilmente, anche gli strati più   antichi e profondi.  Altrimenti non possiamo meravigliarci se si esclama l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare! come capitava a Bartali.

   Una radice, in genere, ha vissuto gran parte del suo tempo negli strati nascosti, sotterranei della lingua: è lì che, molto spesso, bisogna puntare per cercare di carpirne la natura con qualche sicurezza, altrimenti si rischia moltissimo di restare intrappolati nelle sue varie epifanie di superficie che sembrano reali, ma che sono  fatte apposta per ingannare e condurre fuori strada.  



[1] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998

[2] Cfr. C. Urieli, Dialetto e folclore a Jesi e nella Vallesina, Jesi, Biblioteca comunale, 1979

[3] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

[4] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà F-P,  Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

[5] Cfr. D. Bielli, cit.