venerdì 26 febbraio 2021

Crisce ‘mbraccĕ, locuzione beneaugurante per i bambini.

 

Crisce ‘mbraccĕ, locuzione beneaugurante per i bambini.

 

   In alcuni dialetti abruzzesi l’espressione viene rivolta al bambino che è in braccio alla mamma.  E’ simile pertanto all’altra, più diffusa, criscë sandë ‘cresci in buona salute’ di cui ho parlato non molti giorni fa, dove il sandë non è da collegare lat. sanct-u(m) ‘santo’  ma alla radice di ted. ge-sund ‘sano, salubre’, ingl. sound ‘sano, forte’ e forse alla stessa radice di lat. san-u(m) ‘sano’. 

   A me la locuzione è sembrata un tantino costruita come se il crescere in braccio  e non il semplice crescere fosse una condicio sine  qua non. Così, riflettendo un po’ su di essa, ne ho potuto scoprire quello che, a mio avviso, è il sostrato da cui la parola ‘mbraccë proviene: si tratterebbe dell’aggetivo greco brakh-ýs ‘breve, basso, piccolo’ incrociato con l’it. braccio, parola anch’essa dal gr. brakh-íōn ‘braccio’ attraverso il lat. brachi-u(m) ‘braccio’.  Quindi l’espressione all’origine valeva cresci, piccolo!  Anche il verbo cresc-ere abbiamo visto in articoli precedenti che ha una radice ben rappresentata e variamente strutturata in greco, quindi l’espressione potrebbe essere stata per intero greca, all’origine.

   Ora, dopo qualche giorno dalla stesura di quanto sopra, mi sono accorto che esiste un’altra strada più credibile per spiegare ‘mbraccë.  In greco si incontrano i termini meĩrak-s ‘garzone, fanciulla, uomo effeminato’ e meiráki-on ‘fanciullo, giovanetto, giovane’: quest’ultimo, nell’ipotesi di una sua antica presenza nei nostri dialetti, avrebbe assunto la forma *mëràccë nel caso di una espressione come *criscë mëraccë! ‘cresci bimbo!’, la quale sarebbe stata interpretata sicuramente come criscë mbraccë  ‘cresci in braccio’.  C’è da osservare, comunque, che il significato greco di meiráki-on non è proprio quello di ‘bambino’ ma di ‘fanciullo, giovane’, ma la cosa è di scarsa importanza perché il significato di ‘bimbo’ potrebbe essere caduto.  Si osservi poi, ad esempio, che l’it. fanciullo nella sua origine latina indicava il bambino, l’infante che ancora non parla.  Si dà il caso che a Trasacco-Aq[1] la voce vëraccèllë < *braccelle significa ‘braccine di neonato’ e non genericamente ‘piccole braccia’.  A me pare chiaro che dietro ci sia l’incrocio con il temine *mëràccë ‘fanciullo’ di cui si parla.

   Le parole, nella loro lunga storia, è naturale che abbiano fatti incontri con altre simili,magari scomparse, di cui però resta il sentore nei significati.  Il verbo denominale greco meirakieú-esthai, infatti, significa ‘comportarsi da fanciullo, da bambino’ detto anche, poeticamente, dei cavalli (v. vocab. Gemoll).  Molto probabilmente la radice di meirakí-on ‘fanciullo, giovane’ doveva aver avuto anche il significato di ‘puledro, cavallo, cavallino’ come si può desumere da termini molto diffusi in area germanica, quali ingl. mare ‘cavalla, giumenta’, ant. sassone meriha ’cavalla’ molto simile al gr. meiráki-on ‘fanciullo, giovane’.  

   Tutto nella lingua ha una spiegazione, solo che la nostra spesso inadeguata o impossibile conoscenza di certi fatti avvenuti nel remoto passato, ci fa spesso brancolare nel buio.

  

  



[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

   



lunedì 22 febbraio 2021

Sardegnolo e sartiglia.

 

       

 

   Non tutti sanno che i Sardi arricciano il naso, o addirittura si offendono, quando qualcuno, invece di chiamarli Sardi usa il termine Sardegnoli , che è anche italiano se riferito ad animali.  Sembra strano ma per loro sardegnolo vale ‘asino, asinello’ e non perché il nome è sentito come derivante dalla radice di Sardegna, ma perché esso indica direttamente l’animale asino, nonostante il fatto che il loro asino appartenga ad una razza particolare, piuttosto piccola, tipica della Sardegna. 

    Questa considerazione è secondo me molto importante perché dovrebbe escludere, appunto, la derivazione del nome in questione da quello della Sardegna. Anche se i Sardi quando ci riflettono, probabilmente non possono fare a meno di mettere in qualche modo in connessione le due parole, ma allora non dovrebbero offendersi: si offendono perché nella loro coscienza profonda non esiste nessun rapporto tra il sardignolu ‘asinello’ e la Sardegna, come invece avviene per l’etnico sardegnolo, sardagnolo, sardignolo usato in varie parti del continente. Nel dialetto sardo non si incontra un simile etnico ma solo sardu, che io sappia.  Questo fatto è, secondo me, una spia concreta dell’autonomia originaria del termine sardignolu ‘asinello’ rispetto al nome della Sardegna.

     Lo stesso ragionamento vale, secondo me, per il termine sarda, sardina che tutti collegano alla Sardegna (lat. Sardini-am), anche se non risulta che presso quell’isola il detto pesce sia particolarmente diffuso.  A rompere l’incanto basterebbe, secondo i principi della mia linguistica, il nome volgare sart-èlla indicante l’ ‘alzavola’, o il nome volgare sart-agn-òla riferito alla ‘sterpazzola’[1].  Il significato di questa radice sard- sart- doveva pertanto essere all’origine quello generico di ‘animale’, rispuntante anche nel sard-ign-olo ‘asino’ di cui si parla.  Dato il principio della composizione tautologica delle parole nella mia linguistica, la componente -ign-olo dovrebbe richiamare il lat. hinn-ul-u(m) ‘muletto, cerbiatto’ e il gr. ínn-os ‘muletto’, connesso con gr. όn-os ‘asino’ e col secondo membro di lat. as-in-u(m) ‘asino’. Il tutto incrociato con il lat. Sard-ini-a(m) ‘Sardegna’ naturalmente. Il suffisso –olo dovrebbe essere un normale diminutivo.

   Alla luce di tutto ciò io sarei del parere di interpretare la denominazione della famosa sart-iglia, corsa di cavalli che si svolge in diverse città della Sardegna, come indicante proprio una ‘corsa di cavalli’, una ‘sfilata di cavalli’ o una ‘cavalcata’. Il nome di una manifestazione così importante, e senz’altro risalente a tempi preistorici quando i cavalli, i muli e gli asini erano di vitale importanza per l’agricoltura, non può assolutamente prendere il nome dallo spagnolo sortija ‘anello’ riferito ai tondini (stelle) che i giostratori della sart-iglia debbono imbroccare.

   Infine, quanto ho detto sulla voce sarda sardegnolu ‘asino’ mi sembra possa essere confermato dal toponimo fiorentino Sardigna, esistente almeno dai tempi del Boccaccio (ma naturalmente la sua origine doveva essere remotissima), e che ora corrisponde al quartiere dell’Isolotto.  Era in passato una zona disabitata, brulla e soggetta ad impaludamento, appena fuori la porta di San Frediano lungo l’Arno, dove venivano buttate le carcasse di animali morti. Anzi, il letterato fiorentino Paolo Minucci (sec. XVII) nelle Note al Malmantile racquistato, poema eroicomico di Lorenzo Lippi, parlando della Sardigna di Firenze precisava “[] luogo fuori delle mura di Firenze, così detto pel fetore che quivi sempre si sente, a causa delle bestie del piè tondo, che morte si fanno in quel luogo scorticare […]”.  E la precisazione viene ripresa nel vocabolario Treccani, presente in rete, quando si osserva che in quella località di Firenze si gettavano carogne di cavalli, muli ed asini: tutti i solidungoli (bestie del piè tondo), dunque.  Mi pare strano che non vi si gettassero anche le carcasse dei bovini, ad esempio.  La località fiorentina prendeva il nome Sardigna, secondo il parere comune, da quello dell’isola della Sardegna la quale, in passato, andava soggetta alla malaria in alcune sue zone. Ma perché arrivare fino in Sardegna se nella stessa penisola esistevano le così dette Paludi Pontine, vasto territorio malsano nel Lazio bonificato da Mussolini?  

   Il problema fondamentale, a mio avviso, soprattutto quando si tratta di spiegare i toponimi, è sempre lo stesso:  ogni radice ha un significato originario molto generico, da cui si dipartono, nel corso dei millenni, specializzazioni quasi irriconoscibili.  In latino, ad esempio, esisteva anche il raro verbo sard-are ‘comprendere’.  Io suppongo, ma solo in linea teorica, che la radice in questo caso avesse acquisito il significato di lat. co(n)-nect-ĕre ’intrecciare, collegare, connettere’, e lo desumo dalla voce sard-ara (vocab. Devoto-Oli) che indica un tipo di rete da pesca per catturare magari le sarde.  Ma il nome doveva aver avuto, all’origine, il significato generico di “rete”, cioè di “fili intrecciati insieme”. La sardana in Catalogna indica infatti una vivace danza in cui i partecipanti si tengono per mano in circolo, cioè restando come intrecciati tra loro.



[1] Cfr. Devoto-Oli, Vocabolario illustrato della lingua italiana, editore Le Monnier, Firenze, 1967.                   

 

   



venerdì 19 febbraio 2021

Abruzzese zanzifarë.

 

      

    

    In quel di Castel del Monte-Aq la strana voce zanzifarë indica il ‘peperoncino amaro’. Quale ne sarà l'origine? In fondo è facile trovarla: é un significato molto simile a quello di italiano "zenzero", una spezia piccante, il cui nome è molto affine, in fondo, al detto zanzifarë  in quanto ci viene dal lat. "zingiber" 'zenzero', a sua volta dal greco "zingìber" oppure "zingiberi". Non inganni la -a- di zan-, perchè, ad esempio, i peperoni ad Aielli-Aq ed altrove si chiamano paparùlë.  

    C'è un'altra considerazione da fare, L'arcipelago di Zanzibar dinanzi alla Tanzania, è noto come l'isola delle spezie. Ci deve essere stato senz'altro un incrocio con un termine simile a quello di Castel del Monte. Sono voci antichissime che si presentano con varianti nella pronuncia. In latino si aveva anche la forma zim-piberi  'zenzero' col secondo membro che indica il ‘pepe (lat. piper-e(m) il quale ha dato origine all’it.  peper-one, appunto.

mercoledì 17 febbraio 2021

Abruzzese “accrëscëtòrë”.

 


 

     Prendo dal Vocabolario abruzzese di D. Bielli questa parola che significa, pensate un po’, ‘granata di ginestra per spazzare l’aia, la stalla’.  Ma come può significare ciò questo vocabolo che apparentemente, secondo le voci simili  del dialetto e dell’italiano, non può che significare ‘accrescitore’?   Da poco ho avuto a che fare con le voci greche kore-nný-nai ‘saziar(si)’ e koré-ein ‘spazzare, pulire’ da kόr-os ‘scopa’, il quale deve essere in rapporto, in quanto ‘escrescenza, pianta’  con la voce di Luco dei Marsi core-ìtto ‘germoglio (di legume e di castagna)’[1]. Anche questo saziare è un derivato dell’idea di ‘creare, spingere, gonfiare(di cibo)’ alla base della radice che è la stessa di quella di lat. cere-al-es ‘cereali’ e di lat. cre-sc-ĕre ‘crescere’. Insomma non si sbaglia se alla base di essa si pone l’idea di “spinta, forza” relativa  all’azione creatrice della Natura. 

    Allora tutto è più chiaro se  ac-crëscë-tòrë lo vediamo come c(o)rë-scë-tòrë in cui core-sce-  è un ampliamendo della radice che oltre a dar vita al  lat. cresc-ĕre ‘crescere’ doveva indicare un ‘rampollo, ramoscello (anche una ginestra)’ e quant’altro di simile, come  nel gr. kori-skē ‘giovinetta’.  Un giovinetto, fanciullo, è un rampollo come abbiamo visto per kόr-os ‘fanciullo, rampollo, giunco’ nell’articolo citato. L’elemento –tòrë non può che essere, a mio avviso’, la radice presente nel lat. tur-ion-e(m) ‘getto,germoglio, gemma’ e , raddoppiata,  nel dialettale tur-tùrë ‘bastone’ il quale però si è incrociato con lat. tort-um ‘torto’ facendo specializzare talvolta il significato di bastone, in quello di bastone per stringere bene le funi del basto, attraverso dei movimenti rotatori. A meno che la parola in questione non sia il risultato di un incrocio con l’it. accrescitore, appunto, di un dialettale originario cresci-còrë, di cui parlerò tra poco.

    Ad un bambino che starnutiva si diceva in passato criscë! o criscë sandë! Di questo ho parlato in un articolo del mio blog[2] dove ho fatto notare che sandë in queste espressioni non significa ‘santo’ ma ‘sano, in salute’ come nel ted. ge-sund ‘sano, in salute’ e ingl sound ‘sano, solido, forte’.  Di queste corrispondenze sono più che certo, dato che l’aggettivo ingl. sound significa anche ‘perfetto, senz’errore, completo’ e nel vocabolario del Bielli appare l’espressione avverbiale di misura a ssant’ a ssantë ‘giusto, a capello’(e non si arricci più il naso, per favore, quando cito parole inglesi rispondenti a quelle dialettali!).  Nel dialetto di Gallicchio-Pt esiste la stessa espressione criscë sand ! come formula di augurio a chi starnutisce.  Evidentemente il criscë vi ha assunto il significato più generico di ‘prospera (in salute)’, da rivolgere non solo al bambino.

    Ora ad Aielli-Aq  j’accriscë era lo ‘starnuto’. Come mai? La nozione a mio avviso non può derivare da quella di cresc-ere nel suo significato di ‘diventare grande’ ma da un originario cresc-ere che indicava la forza della natura che dava origine a diversi significati, come abbiamo più sopra visto.  E lo starnuto era espressione violenta ed improvvisa di una emissione d’aria attraverso le narici. L’abruzzese crescia-cόrë (nel Bielli) ‘singhiozzo dei bambini’ mostra di essersi specializzato rispetto al criscigòre ‘singhiozzo’[3] delle Marche, Umbria, Lazio.  Gli autori del libro citato sostengono che il nome derivi dalla credenza che il singhiozzo farebbe crescere il cuore.  Ma qui sta l’errore! Non sono i miti, le leggende, le credenze a dare origine ai nomi ma, al contrario, sono i nomi a dar origine ad essi.  La specializzazione abruzzese sarà stata suggerita dalla radice di gr. kόr-os ‘fanciullo’.  Col significato di ‘scopa, pianta’ poteva indicare la granata chiamata ac-crëscë-tòrë di cui sopra.

   A Trasacco-Aq c’era una credenza, riportata dal Lucarelli[4],  secondo la quale con lo starnuto il bambino dà un colpo alla “misteriosa” membrana che comprime, avvolgendolo, il suo corpo, sì che possa avere più spazio per crescere. La stessa cosa avverrebbe con il singhiozzo.  Ora, anche questa credenza avrebbe dato origine al colpo dello starnutire e del singhiozzare o ad altro? Ma no! Il colpo non è altro che la spinta violenta    dello starnutire e, meno violenta, del singhiozzare!  Per quanto riguarda la supposta membrana, bisogna a mio parere riflettere su crëscë-mόgne, crëscë-mònïë  ‘strato di sudiciume che si forma sul capo dei neonati’, parole presenti nel Bielli.  Il termine che significa anche ‘aumento (di interessi’ sempre nel Bielli, ricompare anche altrove in genere col significato di ‘crescita, aumento’. A parte il membro finale -mònïë che funge da suffisso, il primo membro potrebbe essere una variante di lat. crusc-a(m) ‘crusca’, un involucro o crosta che copre e avvolge il chicco di grano in rapporto con la radice crusc di parole germaniche per ‘crusca’(svevo grüsche ‘crusca’, ladino crisca ‘crusca’, svizzero krüsch ‘crusca’).  Questa  parola potrebbe spiegare la misteriosa membrana di cui parla la leggenda di Trasacco, che avvolge e comprime il corpo del bambino.  Il comprimere stesso potrebbe essere un derivato della radice di cresc-ere, che abbiamo visto indicare una ‘spinta’. Così anche il lat. de-cresc-ĕre ‘decrescere, diminuire’ non va inteso come un cresc-ĕre preceduto da un de- negativo (stranamente!), come sostengono i linguisti, ma come uno spingere, premere verso il basso con il normale de- di moto dall’alto in basso. Nel vocabolario del Bielli crèscĕ  vale appunto ‘schiacciata fatta dal mugnaio’ cioè la macinazione e triturazione del grano; ma anche il termine culinario crèscë, crèscia indicante una focaccia piatta e sottile, non va messo in relazione con il termine criscë  ‘lievito’  (a Trasacco-Aq): evidentemente la radice che in genere si era specializzata ad indicare la spinta (verso l’alto), ricompare qua e là con l’altro significato di spinta (verso il basso).  Pertanto l’aggettivo it. (r)in-cresc-ere non va inteso come ‘crescere esageratamente’ ma semplicemente come un ‘premere’,  di qualcosa che se non opprime dà comunque fastidio.

   A me pare che questa radice abbia un rapporto evidente con ingl. crush ‘schiacciare, frantumare’, ingl crash ‘collidere, sbattere in malo modo, incidente’, Nel solito e impagabile vocabolario del Bielli si incontra la voce crόšchë ‘busse, croste’ con i due significati originari di ‘avvolgimento, crusca ’ e ‘spinta’ nel senso di ‘picchiare, sbattere’.

   

   

   



[1] Cfr. L’articolo Una vera e propria perla del dialetto di Luco dei Marsi […]  del mio blog ( 7 febbraio,2021).

 

[2] L’articolo è Etimo di sardo astrau […] , 1 agosto 2011.

[3] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani , UTET, Torino, 1998

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[4] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Crafiche di Censo avezzano-Aq, 2003.

 

     


martedì 16 febbraio 2021

Fonte San Reginaldo.

 

                                               

 

 

   E’ un altro nome, come mi diceva un collega tanti anni fa, della famosa fonte della Madonna di Candelecchia a Trasacco-Aq. Dico subito che “Candelecchia” ha tutta l’aria di una italianizzazione ipercorretta di un termine che dovrebbe suonare, secondo la fonetica dei nostri dialetti, Cannëlécchia, avvicinandosi così ai diversi idronimi marsicani Canalë, Cannellë, Canalicchia  che, secondo  me, poco hanno a che fare con gli it. “canale” o “cannello, cannella” ma rimandano ad una radice presente addirittura nel termine etiopico ganale ‘fiume’.

  Ma ora il mio interesse si appunta tutto sul nome “Regin-aldo” formato da due componenti di cui la prima, accostabile al ted. Regen ‘pioggia’ nonché al Fiume Regen (Germania), richiama le varie Fonti (della) Regina (Cerchio-Aq, Gioia Vecchio-Aq, Teramo, ecc.) e la seconda riappare qua e là soprattutto in fine di parola (cfr. corsi d’acqua  Ren-aldo e Corn-aldo in Liguria) ma talvolta anche sola, ad esempio in Fonte Alta (Monti Sibillini) o in Alt-bach ‘fiume vecchio’(paese della Germania).

Il personale Reginaldo (Rinaldo) è composto, secondo i linguisti, di un I° elemento *ragan o *ragin ‘consiglio, decisione (ispirati dagli dei)’ e *waldaz ‘potente, capo, signore’ sicchè il significato presunto sarebbe stato ‘che comanda con consiglio divino’.  A me pare quasi del tutto evidente l’artificiosità di una simile interpretazione soprattutto alla luce dell’analisi idronimica di cui ho parlato, che elimina tante difficoltà.  Si tratta quindi di un personale venuto certamente anch’esso dalla Germania ma che doveva fare i conti con toponimi simili già esistenti ab illo tempore sul suolo italico, come ho spiegato per l’altro personale germanico Bernardo.

  Un’altra osservazione interessantissima riguarda l’esistenza di idronimi come Torrente Ragan-ello (Piana di Sibari, Calabria), torrente Racan-ello, affluente del Fiume Agri (Calabria), Canale Ragone, affluente del Fiume Sarmento (Calabria) in cui ricompare il ganale etiopico di cui sopra, considerato anche che un significato di ‘canale’ per questo affluente mi sembra poco appropriato: non lontano da esso scorre il Torrente Canna.  Si hanno riscontri anche in Germania: paese di Ragan-bach ‘rio Ragan’ (Wűrttenberg).  Ricordo anche che, durante una gita scolastica, mi colpì la scritta di un cartello che segnalava un torrente o rio Ragano, nel tratto di autostrada L’Aquila-Teramo.  Credo quindi di essere nel giusto se individuo l’etimo molto incerto del termine termine “ragano” centro-settentrionale per ‘ramarro’ proprio nel concetto di  ‘essere vivente’, come è stato per Bernardo. 

 Nel vocabolario abruzzese del Bielli si incontrano talora voci  preziose che confermano la presenza nel lessico dei dialetti di radici connesse con i toponimi o gli idronimi  .  Una di esse è rach-igne, detto di occhio ‘lacrimoso, velato di lacrime’: come non collegarla all’ingl. rain ‘pioggia’, ted. Regen ‘pioggia’, a. norreno raki ‘umidità’, al dialettale rigo ‘rio,ruscello’, lat. in-rig-are ‘irrigare’? Il lombardo-emiliano racagna ‘acquavite, grappa’ mi  pare autorizzare la connessione.

venerdì 12 febbraio 2021

Un altro verbo un po’ strano, ad Aielli, fino a quando non si trova il filo che lo sdipana.

 


 

     Non credo che oggi nelle nostre case si nomini più il verbo fëlërìssë ‘muffirsi (del pane)’, dato che il pane si compera giornalmente e difficilmente diventa stantio, tanto meno fëlërìtë. Quando ero ragazzo il pane ogni quindicina o più di giorni veniva portato a cuocere al forno pubblico.  Non ricordo quante pagnotte mia madre preparasse ogni volta, ma dovevano essere un bel numero per bastare ad una famiglia di cinque componenti, i miei genitori, mio fratello, mio nonno ed io. E’ comprensibile che le ultime pagnotte corressero il rischio di cominciare a fëlërìssë, ma venivano consumate ugualmente, col raschiar via la parte guasta, in genere piccola.  Il pane allora era considerato quasi sacro, almeno dalle persone più anziane. Ricordo che una volta mio padre mi guardò con una espressione severissima di rimprovero, semplicemente perché   avevo poggiato una pagnotta sul tavolo nel verso sbagliato. C’erano ancora famiglie, però, che stentavano a nutrirsi.

    Il verbo fëlërìssë  è della terza coniugazione riflessiva. Donde può arrivare questa forma così strana in apparenza? La domanda può restare sospesa in aria per anni se è vero che io stesso, dopo una prima ed erronea sistemazione della parola, ho praticamente atteso tutta una vita per raggiungere quella che ritengo una risposta giusta.

      Tanti anni fa, nella mia studiosa e meditabonda adolescenza (la mia inclinazione all’etimologia deve essere un fatto legato al DNA), riuscìi solo ad avvicinare la voce al dialettale filë, italiano filo,  il quale mi sembrava rispondere alla forma, diciamo così, della muffa verdognola del pane: una serie si sottilissimi filamenti intrecciati tra loro. E ne fui abbastanza pago, senza essere disturbato più di tanto da cose che mi sembravano marginali, come la necessità di dover porre come base una forma *fil-er- con la sillaba finale lasciata lì a fare non so che.

     Ora che sono prossimo alla vecchiaia più decrepita e che ho studiato diverse cose relative alla lingua (oddio! non è che possa stare alla pari di certi signori che conoscono a menadito tanti problemi teorici legati alle parole!) mi è venuto in mente, ripensando a questa parola, che esiste il fenomeno della vocale anaptittica (anaptissi, detta anche epentesi), il quale non  sarebbe altro che il fenomeno inverso della sincope: insomma, con parole più latine, esso si verifica quando una vocale, invece di cadere, sia nella pronuncia che nella scrittura, va ad inserirsi tra due consonanti che stavano bene senza, come in italiano  battesimo < lat. baptism-u(m): e il fenomeno non è di ieri, si riscontra anche nelle lingue osco-umbre, pensate un po’!.  Allora ho avuto il sospetto che la prima vocale indistinta di lërìssë potesse essere un’intrusa e che la parola, all’origine, dovesse sonare *flërìssë, una chiara compagna del verbo it. fiorire, anche se non riflessivo.  Così tutto diventava più chiaro perché il lat. flor-e(m) ‘fiore’ vale anche prima lanugine nelle guance degli adolescenti, annunciatrice della mascolinità. Caspita! mi son detto =naturalmente tra me e me, dato che vivo solo=, ecco, sono riapparsi i filamenti cui avevo collegato l’etimo della parola tantissimi anni fa.  E che si tratta di verità me lo garantisce il verbo trasaccano fiërì ‘fiorire’ il quale ha due significati, direi contrapposti, uno si riferisce al bel colore assunto dal pane e altro cibo  cotto al forno, l’altro si riferisce al pane  stantio, umido, che mostrai primi segni di ammuffimento, e significa appunto ammuffire[1].  Il termine trasaccano per ‘ammuffire’ ha preferito procedere sulla scia del più comune it. fiorire, aiellese fiurì ‘fiorire’, mentre l’aiellese fëlërìssë ‘ammuffirsi’, pur essendo composto della stessa sostanza, ha mantenuto fino a noi quella forma anaptittica che aveva assunto (snobbando l’altra?) chissà quando.



[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

Le nozioni latine di "immergere" ed "emergere" come quelle di "salire" e "scendere" non mi pare che siano state ben comprese dai linguisti.

 


    In latino i due verbi merg-ĕre ed  in-merg-ĕre hanno lo stesso significato di ‘immerger(si), tuffar(si), affondare, ecc,’  mentre e-merg-ĕre ha  quello di  ‘emergere, venire a galla, uscire, ecc.’.  I vocabolari etimologici in genere si limitano ad osservare seccamente che e-merg-ere è l’opposto di merg-ĕre ‘immergere, tuffare’ come se il fatto fosse evidente di per sé.  Ma non lo è affatto!  Come si può, di grazia, ricavare la nozione di venire a galla da quella di affondare  semplicemente premettendo una –e- di moto da luogo alla radice merg- che, ripeto, in latino significa ‘affondare’? Come può essere logicamente valido un passaggio semantico, ad esempio, dalla nozione di cadere  a  quella di sorgere, alzarsi semplicemente premettendo un prefisso di moto da luogo al verbo cadere? Al massimo, con quel prefisso potrei ottenere una nozione di cadere da (un punto non meglio precisato) ma   non potrei affatto ribaltare la nozione in quella di mettersi in piedi, alzarsi.  Lapalissiano! ma talora i linguisti tirano dritto e scivolano sopra queste osservazioni perché d’altronde non avrebbero nemmeno una risposta pronta alla questione, ma finiscono per assimilare erroneamente il fatto ai moltissimi casi di verbi preceduti dalle varie preposizioni, dove però non avviene mai un ribaltamento di significato, ma solo una messa a fuoco del significato di fondo.

    La soluzione a questa impasse si ottiene solo  supponendo, a mio parere, che il significato originario della radice merg- fosse non specifico ma generico, in questo caso quello di ‘movimento’, come avviene abbastanza spesso. Allora sì che e-merg-ĕre potrebbe significare senza difficoltà un ‘muoversi (da sotto verso la superficie)’ e il merg-ĕre potrebbe aver significato, all’origine, un ‘muoversi’ e basta specializzatosi poi, come chiaramente è avvenuto in in-merg-ĕre, nel ‘muoversi verso, nell’interno di qualcosa’.  Un indizio, per quanto vago, si può scorgere nel termine latino com-merc-iu(m) ‘commercio, traffico, ecc.’ ma che significa, un po’ stranamente, anche ‘cammino, via’ in Lucano, Plinio e altri.  E forse è proprio questa idea di “movimento” ribadita da quella di “mutamento” e “scambio” ad essere alla base dei termini latini ruotanti intorno alla nozione di commercio.  Del resto anche marcia, parola derivante dal francese, a sua  volta da un presunto franco *mark-ōn ‘lasciare una traccia, un segno’, viene connessa o ad un’idea di “calpestare, premere i piedi” o a quella di ‘camminare’ tout court , idee che chiaramente, a mio modesto avviso, ne presuppongono una di “spingere”, per lasciare un’ impronta, appunto, o semplicemente per spingersi in avanti, muoversi. La marca ‘territorio’ e ‘paese di confine’ è sempre un prodotto di questa radice che si ritrova nel ted. Mark ‘confine, territorio’. Nel latino ha dato margo, inis ‘margine, riva, confine’. 

   Ad Aielli c’è una contrada chiamata Màrjënë< *margine(m) ‘margine’(italianizzata in Le margini al femminile ma potrebbe trattarsi anche di un singolare neutro ), una fascia che si svolge lungo la linea di confine tra una costa piuttosto brulla e un terreno più o meno pianeggiante, ai suoi piedi, il quale si estende fino a quella che fu  la riva del lago Fucino, a circa un chilometro di distanza.  Così, questo toponimo non può significare altro che ‘margine, confine’, ma non in riferimento all’ex  lago abbastanza distante, bensì proprio rispetto alla costa di cui si è detto.  A meno che il termine si riferisse inizialmente proprio alla costa e indicasse, quindi, il suo emergere dal piano sottostante: nella Sardegna centro-occidentale c’è il noto territorio del Margh-ine così chiamato, molto probabilmente, proprio dalla catena de Margh-ine che l’attraversa. Esistevano ad Aielli i cosiddetti Casareni di San Marco sulla sommità del monte Sécine, ma  anche la chiesetta di San Marco dei Celestini, all’interno delle famose Gole di Aielli-Celano. In questo caso mi viene facile ricondurre la denominazione di questa chiesetta a quello che dové essere stato uno dei nomi delle Gole nel lontano passato, per questo passaggio montano che collegava la zona antistante le Gole o Foci di Aielli-Celano (ricadente interamente nel territorio di Aielli) al paese di Ovindoli.  In Sardegna la radice ricorre anche per indicare promontori come Capo  San Marco (Oristano) e Punta Margin-etto  nell’isola della Maddalena. 

    Ed ora viene il bello, con l’analisi delle nozioni di salire e di scendere , apparentemente opposte soprattutto per la mentalità di noi uomini d’oggi abituati alle sottigliezze scientifiche della  modernità. Ma il nostro cervello ha agganci, non eliminabili, col lontano passato della sua vita.   Come per le nozioni di merg-ĕre ‘affondare, immergere’ e di e-merg-ĕre ‘emergere, affiorare’ sopra esaminate, così in latino abbiamo uno scand-ĕre ‘salire’ e un de-scend-ĕre ‘scendere’. I soliti linguisti naturalmente si limitano a far notare la indiscutibile presenza deila stessa radice nei due verbi senza lontanamente accennare a come mai sia stato possibile il ribaltamento attuato dal significato di discendere, fatto che , se appena ci si riflette un po’ su, dovrebbe suscitare almeno una nostra insoddisfatta perplessità.  A dire il vero il Devoto, nel suo Avviamento all’etimologia italiana,  rimanda anche a Scala dove egli afferma che la radice scand- aveva un significato originario di ‘mettersi in movimento’, attestato anche nell’area celtica ed indiana.  Ma il De Mauro, nel suo vocabolario, dando l’etimo di it. di-scend-ere, si lascia andare ad un’osservazione che non sta né in cielo né in terra:  il de- del latino de-scendere avrebbe valore di azione contraria! Ma la prep. de, che regge l’ablativo, non assume mai una simile valore dinanzi a nomi e nemmeno dinanzi a verbi, dove al massimo può assumere una funzione privativa, ma non di suscitatrice di significati opposti a quelli della radice base! Inoltre il discendere come bisognerebbe intenderlo alla luce della logica della sua affermazione, forse come un contro-salire? Ma che modo barbaro dispiegare le cose! E’ mai possibile che una lingua, che pure non è nata ieri ma esiste  da molti millenni, non abbia saputo trovare la radice semplice e diretta per il concetto di “scendere”?

     Anche  in questo caso, come per il precedente, la soluzione più naturale e vera si trova convincendosi, dati alla mano, che il valore primitivo di lat. scand-ĕre ‘salire’ era quello di ‘mettersi in moto’ verso qualsiasi direzione. La specializzazione successiva già presente nel lat. scand-ĕre ‘salire’ ha finito per confondere la mente di chi ha una visione sostanzialmente sincronica della lingua, e non sospetta nemmeno che in una fase diacronica precedente a quella del latino classico, i significati potevano essere diversi e, soprattutto, che le relazioni tra le parole potevano non essere le stesse dell’ultima fase. 

    Comunque, per non farla troppo lunga, in latino esiste anche il verbo e-scend-ĕre ‘salire’, con il prefisso –e- che indica sostanzialmente il luogo o il punto da cui si esce o ci si allontana. Ora, da Cornelio Nepote prendiamo un e-scend-ĕre in navem  che significa ‘salire sulla nave, imbarcarsi’ e questo sembrerebbe confermare la visione dei linguisti ma, sorprendentemente  in latino si incontra anche il sostantivo e-scensi-on(em) che significa il contrario, cioè ‘approdo,sbarco, discesa dalla nave’: è di Livio la frase escensionem facere ab navibus in terram ‘scendere in terra dalle navi’.  Ecco dimostrato, col latino stesso, che il valore originario di questa radice scand-, scend- era quello di generico ‘movimento’.  E tutto, finalmente, torna ad essere più logico. E’ vero la radice scand-, scend- in latino si era specializzata ad indicare il movimento in salita ma qualcosa le era sfuggito con quell’e-scension-e(m) ‘sbarco’ di significato opposto. Come mai? Le vie della Lingua sono molte: la parola con radice di senso opposto poteva, ad esempio, essere affiorata nello strato superiore della lingua emergendo da quelli inferiori, o addirittura poteva essere pervenuta in essa come imprestito da qualche parlata vicina o lontana. E’ bene  così dare una scossa, senza presunzione, ai linguisti che non vogliono capire, o forse dimenticano spesso, quanto mobili siano i significati delle radici delle parole, non ancora sclerotizzate dalla più o meno rigida trama di rapporti che una Lingua ha pur dovuto tessere intorno a loro per poterle indurre mano mano a significati più precisi ed esclusivi, necessari per una più chiara comprensione del pensiero degli uomini.  

   E passiamo al gr. kόlymb-os ‘mergo’. La parola è interessante perché è la stessa del lat. col-umb-u(m) ‘colombo’ i linguisti continuano a prediligere per essa una radice indicante il colore grigiastro o nerastro delle penne del colombo e dello smergo.  Ma, come al solito, io penso che il significato originario del nome fosse quello di ‘animale, uccello’ e simili.  Nel greco il nome si incrociò con la radice del verbo kolymbá-ein  ‘tuffarsi, nuotare’ e la sua sorte fu segnata, diventando senz’altro un ‘mergo’ o smergo’, l’uccello degli anatidi che è solito tuffarsi nelle acque di fiumi, laghi e mare per agguantare i pesci.  A me pare che questa radice possa coincidere con quella dell’ingl. climb (con sincope della –o- atona) che da sola, o seguita dall’avverbio up ’su’, vale ‘salire, arrampicarsi’  mentre, se accompagnata dall’avverbio down ‘giù’, vale ‘discendere, calarsi’. Addirittura il verbo può indicare il mettersi o il togliersi un indumento con un certo sforzo come se si trattasse di entrare o uscire da esso : le relative espressioni sono infatti climb into (dentro) e climb out (fuori).  Ci risiamo! Allora il significato primitivo doveva essere quello di ‘mettersi in moto, muoversi, spingersi’, come è successo per i precedenti verbi.

   L’italiano palombaro, che dà filo da torcere ai linguisti, potrebbe risolversi molto più facilmente se solo si  conoscessero capillarmente tutti i dialetti italiani, dove si troverebbero certamente termini interessanti al riguardo.  Ora, c’è il verbo ingl. plump il cui significato ruota intorno a quello di ‘cadere, abbattersi pesantemente, sbattere’ che certamente fa al caso nostro. Si potrebbe supporre un originario *p(a)lump ‘cadere abbattersi’ con la caduta (sincope) della –a- atona.  Anzi, andando su internet e cercando il dizionario etimologico inglese online, mi  sono trovato con enorme sorpresa dinanzi ad un significato, per plump, come questo: ‘cadere (in acqua) o colpire qualcosa con forza’. La radice è abbastanza comune tra quelle germaniche del passato e presente.  Forse lo stesso italiano piombare, nel senso di ‘abbattersi dall’alto su qualche preda da parte di uccelli predatori’, deve essere considerato un rampollo di questa radice incrociatasi con quella di lat. plumb-u(m) ‘piombo’ e con l’espressione filo a piombo, nel senso di ‘filo a perpendicolo’.  Comunque è certamente straordinario un termine calabrese, non so di quale zona della regione, tratto dal web, cioè palumm-are che significa, a detta di un calabrese, ‘vomitare’. 

    Ora per cercare di capire l’origine del significato di ‘vomitare ‘ della radice suddetta è utile, a mio avviso, riflettere un po’ sui significati che in spagnolo presenta la parola palom-illa ’farfallina notturna, tignola del grano, staffa triangolare per mensole, groppa (di cavallo), onde schiumose (al plurale)’.  Ora, la staffa triangolare per mensole si ritrova, tale e quale, nella voce dialettale aiellese,  e di altri paesi, palummèlla,  la quale indica il travicello, aggettante dal muro e ancorato alle travi del tetto, con la funzione di sostenere la gronda di una casa.  Io credo che la parola esistesse già nel latino parlato e che non derivi quindi dallo spagnolo.  Si tratta, dunque, di qualcosa che protrude, aggetta, e che può pertanto indirettamente, ma sorprendentemente, spiegare anche il palumm-are ‘vomitare’ calabrese che è, appunto, un rigettare. La nozione di spinta anima queste parole, compresa la groppa (di cavallo) che è una sorta di protuberanza come   l’onda schiumosa. E allora l’it. palombaro  non può intendersi, secondo me, che come colui che si ‘protende, si spinge, si getta  immergendosi  nell’acqua.

Pal-umb-u(m), pal-umb-e(m), pal-umb-a(m) sono i termini latini   per ‘palombo, colombo’ che probabilmente sostituiscono con la radice pal- quella di col- del lat. col-umb-u(m) ‘colombo’, sempre con lo stesso valore primitivo di ‘animale’ e non di ‘colore grigiastro’ della sua livrea. A Napoli la palummella è appunto la ‘farfalla’: presa dallo spagnolo o autoctona? Ambedue le ipotesi sono valide, fino a prova contraria.  C’è una nota canzoncina napoletana di origine popolare intitolata Palummella zompa e vola, ‘Farfallina salta e vola’. Anche qui appare un ‘saltare’ che potrebbe essersi inserito nel testo dal significato di un verbo, corradicale di palummella, già esistente nel dialetto e simile a quello di ‘tuffarsi, immergersi’.

   

  

    

martedì 9 febbraio 2021

“Cròjë” ‘porgere’, un’altra parola interessante del dialetto d’Aielli.

 

Cròjë” ‘porgere’, un’altra parola interessante del dialetto d’Aielli

 

     Stavo rimuginando da alcuni giorni su questa voce cròjë ‘porgere’, che significa anche ‘porgo’ del presente indicativo, e non riuscivo a trovarne una spiegazione.  Faccio notare che non ho trovata la parola nei miei pochi vocabolarietti dialettali, ma  essa dovrebbe apparire senz’altro in qualche altra parlata vicina o lontana. Finalmente l’altro verbo aiellese accrojë-së ‘accorgersi’ mi ha messo sulla strada giusta.

   Ora, l’it. accorgersi deriva dal  lat. volg. *ad-corrig-ĕre, composto dalla prep. ad- ‘a, verso’ e corrig-ĕre  col significato di ‘raddrizzare’ e di ‘correggere, emendare, riparare’.  La radice è quella di lat. reg-ĕre ‘reggere, dirigere, guidare’ che indica il movimento (in linea retta).  Ma questo significato come può essere messo in rapporto con quello di aiellese cròjë ‘porgere’? Ebbene, il porgere non è che un tendere, protendere e, detto familiarmente, un allungare qualcosa a qualcuno magari a portata di mano: dunque siamo  nell’ambito di un movimento.  E si è verificato che il lat. corrig-ĕre ha assunto, nella rispettiva voce aiellese, il significato di lat. por-rig-ĕre ‘porgere, tendere, protendere, allungare, ecc.’, verbo col prefisso por-, alternante con pro, per.   Normalmente la desinenza infinitiva –ĕre della III coniugazione latina in dialetto cade.

    E’ di notevole importanza notare che la forma dell’aiellese cròjë ‘porgere, porgo’ < *crog-ĕre (per metatesi) < *corg-ĕre< corrig-ĕre (come lat. surg-ĕre ‘sorgere’ < *sub-rig-ĕre) presuppone la pronuncia velare della lettera –g- come quella del latino classico e certamente non del latino tardo.  Pronuncia che si riscontra, ad esempio, anche nel nome locale del mio paese di Aielli che suona Aéjjë, non Ajéjjë come dicono a Cerchio e altrove. Nel dialetto di Aielli la consonante –g-  cade, in genere senza lasciare tracce (tranne qualche eccezione come in questo caso dove ha dato –j-, in jélë ‘gelo’ < lat. gelu in posizione iniziale, e in adòjë ‘accumulare’< lat. ad-aug-ēre ’aumentare, accrescere’) quando è tra due vocali, come in fraula ‘fragola’ <lat. frag-ul-a(m) e téula ‘tegola’<lat. teg-ul-a(m). La pronuncia aiellese di questa parola e di qualche altra si può dire che è quella del latino classico, per cui a mio parere è giustissimo quello che il compianto Mario Alinei sosteneva sull’antichità delle forme dialettali, che bisogna considerare anteriori o almeno coeve di quelle del latino classico.

     Una notazione toponomastica: le varie Fonte Regina (una si trova anche a  Cerchio-Aq) presumibilmente debbono il loro nome non a questa o quella fantasiosa regina né all’abbondanza eventuale delle acque ma semplicemente a questa radice che in tedesco ha dato Regen ‘pioggia’ nonché il verbo reg-en ‘muovere, mettere in moto, eccitare’. 

 

     




domenica 7 febbraio 2021

Una vera e propria perla del dialetto di Luco dei Marsi, cioè corë-ìttë ‘germoglio di legume o di castagna’.

 


    

    Sappiamo che i cereali traggono il nome dalla stessa radice della divinità romana delle messi e dell’agricoltura chiamata Cerere, lat. Cer-er-e(m) corrispondente alla dea greca DemetraLa radice ker(e), kre è abbastanza produttiva e si ritrova, in latino, nel verbo cre-are ‘creare, causare, produrre, ecc.’ e nel verbo cre-sc-ĕre ‘crescere, nascere, ingrandirsi, ecc.’; in greco si ritrova nella variante kór-os ‘sazietà’ e in altre parole che subito vedremo.  Kόrē era la figlia di Demetra chiamata anche Persefone, Proserpina in latino.  Kόr-os significava anche ‘figlio, fanciullo, giovinetto’, riallacciandosi così all’idea di “creatura” ma significava anche ‘rampollo, stelo, giunco’  i quali sono creature, appunto, della Natura.  Lo stesso meccanismo abbiamo visto operare nel termine gr. kȳma ‘onda, rampollo, stelo, feto’ di cui all’articolo precedente La cima, dove ho citato anche l’abr. cimi-céllë  ‘bambinetto’ che rientra nella radice in questione.

    Ora è chiaro, a mio avviso, che il luchese corë-ìttë ‘germoglio di legume o di castagna’[1] è un altro suo derivato, col suffisso diminutivo –ittë.  Si può subito notare che è un po’ strana questa forma corë-itte usata al posto di quella che sembrerebbe più naturale , cioè *cor-ittë, con la caduta della vocale indistinta,  dato che di norma il suffisso –ìttë si aggiunge direttamente al tema della parola, esclusa la desinenza, come nei dialettali pal-ittë ’paletto’, mul-ìttë ’muletto’, ecc.  E’ incredibile! anche questo fatto ha secondo me una spiegazione: la parola greca kόr-os fanciullo, giovine, rampollo, stelo’ da cui il termine luchese deriva in realtà presentava un digamma dopo la liquida –r- (come attestano dialetti greci diversi dall’attico), sicchè essa dovè sviluppare una semivocale simile alla –v- latina assumendo la forma *corv-ìttë, pronunciata come *coru-ìttë e quindi corë-ìttë secondo le norme del dialetto luchese dove una vocale atona si trasforma spesso in vocale indistinta –ë-, come in checùlë ‘cuculo’, cùchema ‘cuccuma’, ecc.  La pronuncia di semivocale della fricativa sonora –v-, simile a quella della nostra –u- (fatto normale in latino), è molto viva nel dialetto di Trasacco-AQ, vicinissimo al paese di Luco dei Marsi.  Non è possibile, però, escludere del tutto che la parola in questione derivasse da una forma antecedente *core-a o *core-o l cui –e- faceva parte del tema e non della desinenza, come può attestare il termine  del dialetto di Avezzano core-òla o curi-òla ( come ad Aielli) ‘erba selvatica, raccolta per sfamare gli animali’ . Questa voce dovette incrociarsi con lat. cori-u(m) ‘cuoio, pelle’ perché l’erba si sviluppava in lunghi lacci. 

     Ma le meraviglie non finiscono qui!  Il significato di corë-ìttë specifica che si tratta di germoglio di legume o di castagna : come mai?  Non sarà certo un caso se in greco si incontra un kόr-kor-os ‘legumi selvatici’ con radice raddoppiata e uguale a quella del suddetto gr. kόr-os ’fanciullo, rampollo, stelo’ e non sarà ugualmente un caso se si incontra un gr. kárƴ-on ’noce’ dalla radice simile a quella di kór-os e usata anche per indicare le castagne.  Nella lingua tutto ha una spiegazione e le parole (coi loro significati) non vivono in un ambiente asettico durante la loro lunga esistenza ma sono spesso modellate da altre, in specie simili nella forma, con cui vengono a contatto, fino a diventare, a volte, irriconoscibili.

    Passando ad altro, penso che il gr. kόris ‘cimice’ sia da intendere come germe, allo stesso modo del lat. cimic-e(m) ‘cimice’ derivante dalla radice di gr. kȳma ‘germoglio’: cfr. l’articolo precedente La cima. Ma kόris vale anche ‘iperico’, una pianta erbacea il cui concetto può rientrare quindi in quello generico di “germoglio”, e significa anche ‘sogliola’, il noto pesce, il cui concetto deve essere incluso, secondo il mio modo di vedere, in quello di “germe” o, meglio, di “animaletto”.

      Una notazione toponomastica: a questo punto è chiaro che i vari Monte Corvo in Italia non vanno banalmente spiegati supponendo che il nome sia il risultato della frequenza di questi uccelli in quei monti, ma rendendosi conto che anch’essi sono una manifestazione della radice di cui è questione, col valore di base di ‘creare, crescere, far crescere, innalzare’ come nel gr. corýss-ein ‘innalzare, ingrossarsi’ e nel gr. kόrys, ythos ‘testa, elmo’, gr. kόrthys  ‘elevazione, cumulo’, gr. koryphé (anche neutro kόryphos) ’cima’.  I corvi, in questi casi, hanno svolto la stessa funzione e tutti i loro  altri nomi indeuropei non derivano da una radice onomatopeica esprimente il ‘gracchiare’ o ‘gracidare’ di questi ed altri animali, ma da una radice simile o uguale a quella greca di kór-os ‘germoglio, fanciullo’ cui ho collegato il significato di ‘germe, animaletto, animale’.  In greco kόrak-s vale ‘corvo’ ma anche ‘ombrina’, pesce chiamato anche ‘corvo, corbo, corvetto’ dal colore argentato con striature dorate tendenti al violetto.  E pensare che alcuni vocabolari chiosano erroneamente che il pesce è così chiamato per il colore nero! Inoltre  korakí-as vale ‘gracchio’, korakí-on ‘coracio’, tipo di pianta,’ in Aristotele. Il bel toponimo  Kόrakos pétra ‘Pietra del corvo’  in Itaca non traeva di certo il nome dal corvo, ma dal suo essere rupe.

   Concludendo, il corë-ìttë di Luco dei Marsi è veramente una perla linguistica, perché oltretutto, con il suo alone versicolore che rimanda a significati di parole greche simili, ci attesta senza ombra di dubbio che essa non era una scheggia vagante,  finita chissà come dalle nostre parti, ma che era ben inserita in un contesto linguistico greco, come credo di aver dimostrato nei diversi articoli sui grecismi nella Marsica e altrove, presenti nel mio blog. A Trasacco-Aq è presente l’aggett. corijë ‘stramato, foraggiato’, che però è usato solo dai contadini delle case coloniche arrivati dopo il prosciugamento del Fucino, in gran parte dalle Marche[2].  L’aggettivo contiene la stessa radice di gr. koré-nny-nai  o koré-ein ‘saziare, saziarsi’.  Il significato di ‘sazio’ è probabilmente il risultato di quello di ‘ingrossarsi’ o di ‘gonfiarsi’ insito nella radice.

 

 



[1] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.

[2] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.