martedì 29 giugno 2021

Paternostro.

 


In diversi dialetti il termine pater-nostro indica il croco o il colchico, o meglio i bulbi rotondeggianti delle due piante, che vengono usati come grani del rosario per gioco o superstizione.  Naturalmente i linguisti credono che il nome derivi proprio da questa usanza, e non si domandano se per caso non debba essere il contrario, che cioè l’usanza sia stata generata dal nome stesso che originariamente indicava il bulbo. 

     Già una decina di anni fa, nel Commento all’articolo di Riccardo Regis presente nel mio blog (21 nov. 2009), sostenevo che era impossibile una simile derivazione sostenuta dall’illustre linguista. In quell’articolo dividevo la parola in questione in tre parti pat-ern-ostro, ma oggi mi ricredo pensando che il termine possa dividersi in due parti, cioè pater-nostro.

    Senza andare per il sottile mi pare che il primo segmento pater- corrisponda al primo della voce settentrionale pater-lénga che significa ‘frutto della rosa canina’, frutto di cui abbiamo parlato negli articoli precedenti.   Diverse sono le varianti come emiliano piter-lenga, pistoiese petro-linge (nei paesi di Prunetta e Piteglio).  Allora non è affatto azzardato supporre che pater- in questi casi sia variante di peter-, petro- i quali richiamano la radice di lat. petr-a(m) ‘roccia, scoglio’ (ma anche sasso), gr. pétra ‘rupe, scoglio’: il suo valore profondo doveva essere quello di ‘protuberanza’. 

     Allora diventa chiaro che il primo membro pater- di detti composti doveva significare proprio ‘bulbo, coccola, rotondità in genere’. Resta da chiarire il significato di –nostro  e di -lenga, -linga, il quale non può essere che tautologicamente ‘bulbo, coccola’ e simili.  Per –nostro  a me basta il rumeno nas-tur ‘nodo, bottone’ e per –lenga la voce abruzzese (nel Bielli) ling-ulë ‘tumore glandolare’: un ‘rigonfiamento’, dunque. Si potrebbe trattare di una variante di Langhe, la regione collinare del Piemonte.

   Svariati  nei dialetti i significati del termine paternostro, paternostri, come quello di 1)nocche, 2)granelli, 3)perle di collana, 4)vertebra della spina dosale,  5)grumi che rimangono nella farina dopo la cottura, 6) tipo di pasta da minestra a forma di anello, 7)bertoccio: pallottolina di legno duro infilata nella corda della trozza per ottenere una legatura resistente.  

   Sinceramente mi pare più naturale e logico pensare che da un significato generico di ‘rotondità’ si sia potuto passare ai vari significati particolari (come è avvenuto in tanti altri casi), piuttosto che il contrario, a partire, poi,  dall’espressione della preghiera del Pater noster da recitare nel rosario.  Questi termini secondo me si svilupparono in gran parte nella preistoria, quando il Cristianesimo era di là da venire.

domenica 27 giugno 2021

Caccola.

 


Termine che indica il liquido lacrimale quando è rappreso sulle palpebre (in dialetto càcalë, maschile): si tratta quindi come di piccoli grumi o chicchi come se fosse una grandine sottile: dico questo per poter citare il ted. Hag-el ‘grandine’ la cui radice abbiamo già incontrato nel ted. Hage- butte ‘frutto della rosa canina’, il cui secondo membro in tedesco vale ‘coccola’. 

   Ecco, secondo me, l’it. caccola è variante di coccola, non importa la sua grandezza. E’ successo però che il termine, incrociatosi con la radice di it. cacca, ha perso completamente il suo significato originario di ‘rotondità’ che abbiamo incontrato, ad esempio, nell’aiellese caca-vàscë ‘frutto della rosa canina’.

   Ne consegue che l’ingl. Hali-but, ted. Heil-butt (nomi di pesci simili al pesce rombo, così chiamato per il suo aspetto rotondeggiante, come vuole la radice gr. rhémb-esthai ‘aggirarsi, andare errando’) debbano far riferimento  alla loro forma e non al fatto che questi pesci, secondo l’etimo corrente, venissero consumati probabilmente nei giorni festivi (spiegazione ad hoc, fasulla): in medio ingl. haly  equivale a ingl. holy ‘sacro, santo’.  In realtà la forma originaria, per il significato, doveva essere simile ad ing. hail (proveniente da hagel)’grandine’, nel senso di  elemento rotondeggiante tautologicamente uguale al secondo membro –but, uguale a sua volta al ted. Butte ‘pesce rombo’ ma anche ‘coccola’. Buon ultimo gr. kákhl-ēk-s ‘ghiaia, ciottolo’.

   

                                                             


sabato 26 giugno 2021

Cuntë mazzë.

 


Nel vocabolario abruzzese di D. Bielli compare anche questa espressione, che in realtà era dovuta ad una ripetizione tautologica per ‘mazza, bastone’,  e che significava ‘lippa’, cioè il gioco e il bastoncino appuntito più piccolo, usato nel desueto gioco della lippa.

    L’etimo è presto detto: si tratta del termine gr. kont-όs ‘asta, lancia, pertica’, a.ind. kunta ‘lancia’ incrociatosi col verbo kentè-ein ‘pungere, stimolare’.  Il termine tosc. lippa considerato onomatopeico (l’onomatopea è il refugium peccatorum dei linguisti, quando non riescono ad individuare una radice) è veramente di difficile interpretazione, a meno che non ci arrivi da qualche dialetto germanico, da una forma *(k)lip(p) apparentata con ingl. club ‘mazza,manganello, bastone’, con la caduta della gutturale sorda iniziale come in ingl. lean ‘appoggiare, essere inclinato’, dalla radice di  lat. in-clin-are ‘inclinare, piegare, abbassare’.

   Mi pare poi abbastanza possibile che il termine lippa si sia incrociato con il verbo ingl. leap ‘saltare’, dato che il gioco consisteva nel far saltare il bastoncino appuntito colpendolo  alla punta col bastone più grande, per poi ricolpirlo al volo e lanciarlo lontano.   Il verbo inglese leap ‘saltare’ in antico inglese era hleap-an proveniente da *cleap-an la cui radice assomiglia a quella di club ‘mazza, manganello’. Sembra quasi che il gioco si sia sviluppato dai vari significati che la radice poteva assumere, compreso quello di ‘colpire con la mazza’.

    Nel Bielli si incontra anche la voce zìpp-ërë ‘lippa’ probabilmente dal dialettale abruzzese zippu ‘fuscello cioè ‘sottile ramoscello’.  Ma non è escluso che essa rimandi all’ingl. tip ‘punta’ nel senso di legnetto affusolato della lippa. In inglese il termine per lippa è tip-cat ma il primo membro viene agganciato al verbo tip ‘dare un leggero colpo’ e il secondo è lo stesso di cat ‘gatto’: ma la cosa non quadra, in quanto secondo me la radice deve essere quella di bruzzese cat-éllë  ‘stanghetta del chiavistello’.

 





giovedì 24 giugno 2021

Attaccare bottone.

 


Dalle nostre parti l’espressione in epigrafe significa ‘iniziare una conversazione con uno sconosciuto’ ma altrove significa anche ‘trattenere qualcuno in una conversazione lunga e fastidiosa’.  E il bottone che c’entra?

    Secondo  me la locuzione è nata e cresciuta all’ombra di una espressione germanica tipo quella tedesca  ein Gesprǟch an-knüpf-en ‘intavolare una discussione’. Il verbo an-knüpf-en significa letteralmente ‘intrecciare, allacciare’ e fa diretto riferimento al ted. Knopf ‘bottone’, tanto che il verbo simile an-knöpf-en significa proprio ‘abbottonare’, sicchè è presumibile che quando un tedesco pronuncia an-knüpf-en ‘allacciare’ non può non avere in mente il bottone(Knopf) e l’azione di abbottonare.  Il conversare, insomma, cioè lo scambio di parole è visto come un intreccio di bottoni per cui il solo attaccare bottone (probabile traduzione italiana di un verbo germanico an-knüpf-en), senza l'aggiunta di Gespraech 'discorso', passò a significare metaforicamente ‘iniziare una conversazione’. 

     E l’altro significato di ‘conversazione lunga e fastidiosa come si sviluppo? Probabilmente proprio dall’operazione di attaccare un bottone, ad esempio alla giacca, ma nel senso di legarlo, cucirlo al bordo della giacca (non nel senso di abbottonare la giacca, dunque), operazione alquanto fastidiosa e noiosa. 

    C’è anche l’espressione arcaica affibbiare bottoni che significava ‘ parlar male di qualcuno’.  In questo caso il bottone secondo me non c’entra affatto, ma esso è una sorta di accrescitivo della parola botta nel significato di ‘battuta pungente e provocatoria’ nei riguardi di qualcuno, di cui si vuole mettere in rilievo qualche lato negativo.  Sicchè affibbiare bottoni potè ben significare ‘appioppare maldicenze’ a qualcuno.

 

 

mercoledì 23 giugno 2021

Bernoccolo.

 


 

Tutti conosciamo le espressioni italiane come avere il bernoccolo della matematica, delle lingue.  Si dice di una persona che è inclinata, portata  a svolgere qualche attività.  In inglese tra l’altro c’è il termine knack ‘talento, inclinazione’ che si presta     ad esprimere il concetto: he has the knack of studying languages (ha il talento per lo studio delle lingue).  Sembra strano, ma in inglese c’è una parola molto simile sia nella forma che nel contenuto, cioè ingl. knag ‘nocchio, nodo’, significato quest’ultimo che stranamente ammicca all’it. ber-nocc-olo nel senso apparentemente figurato di ‘talento , inclinazione’.

     Ber-nocc-olo è fatto derivare da it. nocca  a sua volta da longobardo knohha ‘giuntura’, ingl. knuckle ‘nocca’. Il ber- iniziale sarebbe un rafforzativo derivato dal lar. bis ‘due volte’ incrociato con mis-, particella peggiorativa. Io preferisco pensare che si tratti della stessa radice di ted. Beere ‘bacca’, in quanto rotondità, che si aggiunge tautologicamente all’altra. 

    Ora, il fatto risolutivo per chiarire una volta per tutte il significato concreto di bernoccolo in queste frasi è che il vocabolario inglese Merriam-Webster, dando l’etimo di ingl. knuckle ‘nocca’ riallacciato al ted. Knochel ‘osso’ e simili, cita anche un medio basso tedesco knoche apparentato con l’antico ingl. cnycled che significa bent, cioè ‘piegato, curvo’, evidentemente perché le nocche sono i punti in cui le dita si piegano, anche se la cosa potrebbe essere spiegata diversamente.  Ma a noi ora interessa sapere che il sostantivo bent, sempre della stessa radice inglese, significa proprio ‘inclinazione, disposizione, tendenza’: to have a bent for maths vale ‘avere una inclinazione per la matematica’, insomma ‘avere il bernoccolo della matematica. 

   Incredibile! la radice che indica le ossa, le quali sono paragonabili a bernoccoli duri e più o meno rotondeggianti, si presta anche, forse anche per incrocio con altro termine, ad esprimere un’idea di “inclinazione, piegamento” verso alcunchè. Non so quanto il serbo-croato nag-ib ‘inclinazione’, serbo-croato naklo-nost ‘inclinazione’, russo naklo-njat ‘inclinare’ possano essere legati ai termini germanici. Ma forse essi richiamano il ted. neig-en 'piegare, inclinare'. La caduta della velare –g- seguita da consonante è abbastanza frequente in inglese  e altre lingue. 

   Cito da internet la spiegazione che solitamente si dà dell'espressione, senza nessun fondamento:

Essere particolarmente predisposto per una materia o per una certa attività. Franz Joseph Gal, medico tedesco, vissuto tra il Settecento e l’Ottocento, aveva identificato ventisette facoltà diverse, riconducibili ad altrettanti bernoccoli. Naturalmente, successivamente è stato dimostrato che tali studi non avevano alcuna credibilità scientifica.

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domenica 20 giugno 2021

Ciaciaùttë.


Oggi parliamo dei ciacia-ùttë (sing. ciacia-όttë), voce che finora ho riscontrato solo nel dialetto di Aielli-Aq.  Si tratta di “minuscole patatine rotonde commestibili” come li definisce Giuseppe Gualtieri, aiellese scomparso circa dieci anni fa, in America, dove era emigrato in giovane età, mio caro parente. Tra altre opere, scrisse una raccolta di poesie in dialetto intitolata La crestonta, con annesso glossarietto.  

   Ricordo che quando ero ancora un ragazzo una volta andai pure io, con un amico, a raccogliere ciacia-ùttë in un terreno arato di fresco. Per la verità io non pensai che fossero patatine, talmente erano piccoli, ma dei piccoli tuberi non meglio definiti, non duri come ceci, però.  Anche se la derivazione del vocabolo rimanda ad essi, a mio avviso.  Si sarebbe, infatti, avuto prima una possibile forma *cici-bόttë, *cici-vόtte oppure cicë-vόttë col significato di ‘piccolo cece’, poi si sarebbe passato  a *cicia-vόttë (per infusso di cëciar-éjjë, dalla base latina cicer-em) ‘cece, piccolo cece’ ma in altri dialetti anche ‘piccoli chicchi di grandine’.  Infine da cicia-vόttë  si passò (per assimilazione di ci- al seguente -cia-) a ciacia-vόttë, ciacia-ùttë. A meno che il primo membro non risalga ad una forma *kẏ-ak-s, variante di gr. kẏ-ik-s ‘specie di cipolla’, dalla radice del verbo kyé-ein, kẏ-ein ‘gonfiare,ingravidarsi’. A Pescasseroli-Aq  i ciacia-ùttë  sono chamati ciàcë.

   Il secondo membro –bόttë,-ùttë è il butte tedesco che significa ‘coccola’ di cui abbiamo parlato abbastanza negli articoli precedenti su caca-vascë, imparentato anche con il tardo lat. butt-e(m) ‘botte’. In tedesco infatti butte significa anche ‘bigoncia, mastello’ oltre che ‘rombo’, pesce dalla forma schiacciata e rotondeggiante. La sua radice deve essere quella di gr. rhόmb-os ‘qualsiasi corpo sferico o circolare’, oltre che ‘rombo’, figura geometrica.  Il pesce rombo  fa parte della famiglia dei Bot-idi, termine scientifico che deriva da both-us, nome di alcuni di questi pesci, il cui etimo è sconosciuto: molto  probabilmente è lo steeso di ted. Butte ‘coccola’ e ‘rombo(pesce)' di cui sopra.

   Mi pare anche che il suffisso  -otto, di valore in genere diminutivo, che si aggiunge a molti nomi e aggettivi, possa trarre origine (o almeno sia stato influenzato) da questi nomi tautologici che presentano –butte, -botte come secondo membro.   

     


sabato 19 giugno 2021

Cacavascë (seguito).

 


Nel Lazio i gratta-culi sono anche i talli delle zucchine che vengono usati come ottimo contorno, talli costituiti da steli, gambi (a volte ricoperti di tenere spinette) a cui sono ancora attaccati fiori in boccio e zucchine varie. Io credo che il nome gratta-culi  all’origine indicasse tutta la pianta delle zucchine: me lo conferma il nome greco della zucca, cioè kolo-kẏnthē, il cui primo membro corrisponde al secondo di gratta-culi.  Non si scappa. La radice kolo-  si riferiva alla zucca, in quanto di forma sferica, globosa.  La motivazione del nome grattaculi viene fatta risalire, in internet, al fastidio che proverebbe nelle parti basse chi si china a raccoglierli! Spiegazione senza capo né coda! Il secondo membro -kẏnthē potrebbe far pensare al veneziano gond-ola, la ben nota barca, in quanto cavità, rotondità,  al gr. kόndy ‘tazza’, gr. kόnd-yl-os ‘nodo, pugno serrato’, sscr. kanda-s ‘bulbo, bitorzolo’, gr. kond-ylό-esthai (in Euripide)‘gonfiarsi’, spagn. cuenta ‘perlina (di collana)’, ecc. Forse anche il ligure chinta ‘luna piena’, toscano quinta[1] ‘luna piena’ alludono al cerchio o disco della luna completamente illuminata o anche alla sua forma piena nel senso di rigonfia.

   Il gratta- (dial. ratta-) iniziale  è molto probabile che si riallacci alla radice vrad- di gr. rhόd-on ‘rosa’, eolico brόd-on ‘rosa’, armeno vrad ‘rosa’, piuttosto che al ted. Rad ‘ruota’, come ho supposto prima.  L’accostamento del nome del frutto alla ruota non è di per sé errato, e potrebbe esserci stato anche un incrocio.  Il nome della rosa è passato ad indicare il frutto, come spesso succede, ma potrebbe essersi verificato anche l’inverso.  La lingua tenta tutte le strade! Non ultima è quella che potrebbe individuarsi nel serbo-croato grad 'grandine', il quale potrebbe aver perso nei nostri dialetti la velare iniziale -g- com avviene in molte parole quali il dialettale rànnela 'grandine', rasse  'grasso', ecc.

     In greco si incontra il termine composto kynό-rhod-on ‘rosa canina’ il cui primo membro kynό- indica appunto il ‘cane’. Ma nel linguaggio botanico atuale il cino-rrodo designa la bacca, il frutto della rosa canina.  Il bello (anzi, bellissimo) è che in greco esiste anche il composto neutro  kynόs-bat-on ‘frutto della rosa canina’, mentre il maschile kynόs-bat-os  è la pianta ‘rosa canina’.  Sottolineavo con bellissimo il nome, perché esso mi ricollega al primo membro di battë-culë che ad Ovindoli-Aq indica la bacca in questioneIn greco il semplice bat-on indica la mora di rovo, sempre una rotondità, ma il maschile bát-os designa lo ‘spino’. Come mai? Gli è che anche lo spino, in quanto punta, è una protuberanza specializzata, come quella della bacca. Il kynosi ripresenta nel gr. kyn-ák-antha ‘rosa canina’, il cui secondo membro è il gr. ák-antha ‘punta, cardo, spina’.  A questo punto il membro kyn- butta la maschera e rivela di essere apparentato conl’aggett. ingl. keen ‘acuto’. Un’altra chicca è il gr. kyn-ára ‘rosa canina’ ma anche ‘carciofo’ come la variante kin-ára ‘carciofo’, col suo caratteristico capolino sferoidale.   Diversi sono nella Grecia classica i toponimi come Kynόs-ura nell’Attica presso Maratona e nell’isola di Salamina (letter. ‘coda di cane’), o come Kynόs kephalái , nome di alcune colline(letter. ‘teste di cane’).  Nel vocabolario greco di L.Rocci compare il composto plurale kẏn-ura ‘scogli, scogliera’ in cui ricompare la ‘coda (-ura)’ ma col significato originario di ‘protuberanza, punta’, riferita agli scogli.

Ritornando al ratta-culo faccio notare che in Sicilia (in quel di Mistretta-Me) la pianta smilax aspera, nota col nome volgare italiano di salsapariglia, presenta anche  il nome locale di ratta-culo. La pianta, una gigliacea, produce un frutto globoso rosso-scuro. Ora, il greco kynόs-bat-on ‘pianta e frutto della rosa canina’ di cui più sopra significa anche smilax: come sono vaste e ramificate certe parentele!

  Il nome di rosa canina deve essere la traduzione di gr. kynό-rhod-on ‘rosa canina’, ma  la radice di it. cane, nel senso di grilletto d’arma da fuoco, aveva già di per sé  il valore di ‘protuberanza, cannello, punta’ se in tedesco la parola Hahn, che in quella lingua vale ‘gallo’ (non ‘cane’), significava anche ‘cane (del fucile), rubinetto, cannella’.   

   L’insegnamento più importante che traggo da questi due articoli sulla rosa canina, è che le radici, come avevo capito del resto molti anni fa, non nascono con un significato più o meno specializzato, ma con uno genericissimo, sicchè esse sono sommamente cangianti e versicolori, sebbene la lingua, per ingannarci, ci fa spesso apparire il contrario.

 



[1] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET Torino, 1997.


venerdì 18 giugno 2021

Maneggio.

 

Il termine deriva dal verbo maneggiare che ha varie sfumature di significato, riconducibili etimologicamente alla mano che tratta e modella le cose. Nell’equitazione la parola indica l’addestramento dei cavalli a compiere esercizi in una struttura adeguata.  Nessuno si è chiesto, che io sappia, come mai si è potuto verificare questa specializzazione nel nome, visto che in genere in questi casi ciò avviene sotto l’influsso di qualche altro nome.

   Siccome si parla di cavalli, sotto l’influsso del termine maneggio, mi è ora venuto in mente la parola mani-scalco che indica chi si occupa della  ferratura di bovini ed equini, mestiere esercitato una volta nei nostri paesi dai fabbri, ora quasi scomparso.  Il termine, anticamente, suonava mare-scalco o mari-scalco dal francone marh-skalk , in cui marh- vale ‘cavallo’ e –skalk ‘servo’. In inglese mare significa infatti ‘cavalla, giumenta, asina’.  Divenne poi mani-scalco per influsso di mano, si dice. E sarà anche vero ma, a mio parere, c’è stato anche un altro influsso da parte del lat. mann-u(m) ’puledro’, anzi, sarà stata proprio  la mano a far diventare scempia la doppia –n- di mann-u(m).  E così anche l’it. man-eggio , conserverà a mio avviso almeno un’eco di questa parola. 

    Il termine maniscalco non ha mutato significato durante i secoli, è rimasto sempre un umile addetto alla sua funzione, mentre il termine marescalco, da cui deriva l’it. maresciallo, ne ha fatta di strada! È diventato il capo degli ufficiali inferiori, ma anche un alto dignitario dei regni barbarici. Col titolo di maresciallo d’Italia ha addirittura scalato tutta la gerarchia militare.

    Le parole sono come gli uomini a volte: c’è chi fa fortuna e chi no.  Anche l’it. ministro ne ha fatta di strada, pur indicando ai tempi di Roma antica un semplice ministr-u(m) ‘servo, domestico’ fatto derivare da lat. minus ‘meno.  Il lat. magistr-u(m) ‘capo, direttore’, invece, derivato dal lat. magis ‘più’, è diventato un semplice maestro di scuola anche se nell’uso figurato rispunta la sua origine alta: è un maestro della pittura. 

giovedì 17 giugno 2021

Cacavàscë.

 

                             

 

E’ una voce che ad Aielli-Aq ed altrove in Abruzzo indica il frutto ovoidale rosso della rosa canina o rosa di macchia.  Essa va suddivisa, credo, in caca-vàscë; nel primo membro pare richiami la radice di sscr. cakra ‘ruota’,  gr. kẏkl-os ‘cerchio, ruota, rotondità’ e nel secondo membro la radice di lat. vas ‘vaso’ in quanto cavità, significato  speculare di protuberanza, rotondità: il lat. vas-cul-u(m), oltre a ‘vasetto’, significa ‘capsula, tegumento (di semi)’. La radice deve essere antichissima, preistorica: non è azzardato collegarla col giapponese kaki 'cachi', il frutto sferico e dolce proveniente da quel paese. Bisogna considerare anche il lat. cachry 'seme del rosmarino', 'bacca', 'granellino nel seme del finocchio marino', gr. kakhrys 'orzo, gemma', lat. cac-ali-a(m) ‘sisara selvatico’, cioè una specie di carota,lat. cachl-a(m) ‘occhio di bue’, pianta caratterizzata da grandi capolini gialli.

     Nel dialetto di Camarda-Aq la voce cuccuru-mmella vale ‘frutto della rosa canina’.  La componente cuccuru richiama l’aiellese cucher-όmmë ‘tumefazione sulla testa, per aver subito una percossa o contusione’, aiellese cucher-ùzzë ‘cocuzzolo’, anch’esso una sorta di protuberanza.  Il termine è certamente preromano, si ritrova infatti in Sardegna col valore di ‘cima di colle o monte’ oppure di ‘colle o monte' tout court, o anche di ‘testa’. In basco kukur  significa ‘cima’.  Il membro –mmella rimanda ad una radice prelatina mel, mello col valore di ‘colle’, presente anche nella Bibbia, mi pare di ricordare.  Ma essa richiama direttamente la bacca o coccola della rosa canina, nel secondo membro di termini  dialettali abruzzesi come garza-mellë ‘ugola’, presente nel vocabolario abruzzese del Bielli dove si incontra anche cucuru-mìĕ  (forse da cucuru-mile) ‘gheriglio’: la radice indicava quindi qualsiasi cosa rotondeggiante, rigonfia, compreso un essere vivente piccolo e tarchiato come un ‘nanerottolo’, o una ‘donna bassa e lenta nei movimenti’, concetti espressi dalla voce abruzzese cucuru-mmellĕ, già incontrata col significato di ‘frutto di rosa canina’, ma che nel vocabolario del Bielli presenta i detti significati. Donna lenta nei movimenti perché mai? Per incrocio con la radice del verbo greco méll-ein ‘essere in procinto di fare qualcosa’ ma anche ‘indugiare, tardare a fare qualcosa’.

   In alcuni paesi della Marsica (Luco dei Marsi, Avezzano, Rocca di Botte) il frutto in questione viene chiamato ratta-cùlë o ratta-cùjë , che significa letteralmente ‘gratta culo’.  I soliti specialisti sostengono che questo nome sia dovuto al potere astringente del frutto della rosa canina, ma io nella mia infanzia non ho visto nessuno mangiare queste bacche in abbondanza, perché esse contengono una sorta di chicchi spinosi immangiabili. Addirittura Mauro Marzolini di Rocca di Botte, definendo il lemma rattacùju, nel suo libro “…me ‘nténni?” usa le testuali parole ‘bacca velenosa”. Evidentemente nessuno a Rocca di Botte mangiava di quelle bacche. Ad Aielli, per curiosità, qualcuno ne mangiava una o due° il sapore era asprigno, piuttosto picevol per la verità. Intanto il monte Gratta-culo (in dialetto sarà sicuramente Ratta-culo), nel massiccio del Pollino in Calabria, se la ride sotto i baffi non sentendo alcun prurito astringente!

    Ma, soprattutto, gli specialisti non hanno riflettuto sul fatto che ad Ovindoli-Aq la bacca in questione è chiamata battë-culë, còè ‘batticulo’, termine che non può in alcun modo alludere al potere astringente di essa. In italiano infatti il batticulo indica una delle due falde del vestito da cerimonia, oppure una danza in cui i partecipanti battono vicendevolmente le natiche.

     Ora, a mio modesto avviso, il primo membro di ratta-culo, richiama non il verbo grattare di ascendenza germanica, ma solo la radice di ted. Rad ‘ruota’, mentre il secondo membro si riallaccia all’ant. slavo kolo ‘ruota’, lat. col-ĕre ‘coltivare (la terra)’ nel senso di rivolgerla, all’ingl. wheel ‘ruota’, ecc.  Inoltre credo che la radice abbia a che fare con il secondo membro del citato lat. vas-cul-u(m) ‘vasetto, capsula’, in quanto anche queste forme diminutive erano secondo me, all’origine, normali radici tautologiche rispetto a quella considerata come base.  La radice –cul- si ritrova a mio avviso anche nel gr. kyll-όs ‘curvo’, nel primo membro di gr. kyl-oidiá-ein ‘essere gonfio sotto gli occhi (per sensualità amorosa), primo membro il cui significato è ripetuto tautologicamente nel secondo, che vale ‘gonfiarsi’.

     Anche il lat. mus-cul-u(m) ‘muscolo’ non va inteso come metafora del significato di ‘topolino’ da mus, mur-is ‘topo’. Il membro –cul-  è quello di cui stiamo parlando e vale ‘rigonfiamento’, come il primo membro mus-  che  non vale ‘topo’, ma tautologicamente significa ‘rigonfiamento’ come nel gr. mysi-á-ein ‘essere sazio’, in cui la componente –á- corrisponde al gr. á-ein ‘saziare, saziarsi’.  Come si sa anche in greco mẏs, όs significa sia ‘topo’ che ‘muscolo’: fa pensare solo un po’  che il greco non usi il diminutivo myiídi-on ‘topolino’ come fa il latino con mus-cul-u(m) ‘topolino’. Un'altra voce abruzzese per 'rosa canina', riportata dal Bielli, è proprio caca-mùsce, la cui prima componente rimanda alla prima del suddetto caca-vàsce, la seconda è la copia palatalizzata della radice mus- testè analizzata, che vale 'rigonfiamento'. Naturalmente c’è stato l’incrocio con l’aggettivo dialettale muscĕ ‘moscio’.

    Buon ultimo ecco la voce caca-mmàni ‘ciclamino’ del dialetto di Rocca di Botte-Aq. in cui ricompare la radice caca- ad indicare i tuberi globosi del ciclamino, termine dal greco kyklá-min-os ‘ciclamino’ la cui prima componente è strettamente connessa col gr. kẏkl-os ‘cerchio, ruota, rotondità’, e la seconda, che  mi pare un variante di –mmàni, richiama il lat. min-as ‘merli di un edificio’, quindi ‘protuberanze’ come il termine siciliano minna, menna ’mammella’. Il lat. man-u(m) significa anche ‘pugno d’uomini, schiera’, dando l’idea di “massa, mucchio” e quindi di ‘rotondità’. Anche il lat. mann-a(m) ‘granello’ potrebbe essere utile, dato che un granello, per quanto piccolo, è sempre una rotondità.

          In tedesco Il frutto della rosa canina è chiamato Hage-butte, letteralmente ‘coccola (-butte) della siepe (Hage-).  Il secondo membro –butte è variante, a mio parere, del primo membro della voce di Ovindoli battë-culë, mentre il primo membro Hage- era lo stesso del primo membro di abruzzese caca-vascë di cui sopra. Che Hage- in questo caso è una copertura di altra radice ce lo dice lo stesso ted. Hag-el che significa grandine, la quale consiste in chicchi, globetti di ghiaccio. Ma che Hage- (recinto, siepe) sia altra radice è tutto da dimostrare, in quanto un recinto risponde pienamente al concetto di “rotondità” in cui rientra anche la grandine.

    Anche da questo brano risulta che i linguisti si fanno ingannare troppo spesso dai significati apparenti considerati come originari.

 




mercoledì 16 giugno 2021

Abruzzese rëtràp(p)ëlë.

  



Era un arnese di legno o ferro simile ad un rastrello, ma senza denti, che aveva vari usi: stendere il grano messo ad asciugare, tirare fuori la brace dal forno, ecc.

   Il termine presenta molte varianti a seconda dei luoghi: rëtràbbëlë, rëtràvëlë, rëtràngulë, retrào, ratavìddë (nel Gargano), rutavello (Reino, Bn.).

   Secondo me la base di partenza di questo termine è costituita dal lat. ruta-bul-u(m) ‘paletta del fornaio’ ma anche ‘membro virile’ e dal lat. rut-ell-u(m) ‘rasiera, paletta per spianare i mucchi di grano’.  Forse la radice rut- richiama l’ingl. rod ‘bacchetta, verga, bastone, sbarra’, ted. Rute bacchetta, verga, pertica (antica misura agraria)’ riferita in questo caso al lungo manico di legno, spesso ricurvo. Radice che è chiaramente espressa, però, solo nelle due voci rata-vìddë del Gargano e ruta-vello del Beneventano.

    Ora rata-vìddë <*rata-vìllë mi sembra un incrocio tra lat. ruta-bul-u(m) e lat. rut-ell-u(m, con in più  l’assimilazione della –u- di ruta- allaa- successiva e lo spostamento dell’accento tonico sulla –i-. Tutte le restanti forme dialettali presentano una parte iniziale che suona rëtra- al posto dell’atteso reta-, ruta- e simili. Come mai? Evidentemente vi è stato un disturbo di qualche altra voce come quella di Trasacco che suona  rëtràvië[1]Il quale indicava la “trave o il tronco d’albero che veniva trascinato giù dl monte per farne travi per il tetto, il pagliaio o per le stnghe del carretto”.  Indicava anche una sorta di spazzaneve rustico composto di robuste assi unite a formare una A, con la punta atta a penetrare nella neve e scansarla ai lati. Ma, buon ultimo, designava anche il nostro rëtràvëlë, strumento multiuso di cui abbiamo già parlato.

   E’ quindi a mio avviso dimostrato che il lat. ruta-bul-u(m)  ‘paletta del fornaio’ si è qui incrociato da una parte con il lat. trab-e(m) ‘trave, albero, mazza’ ad indicare il lungo manico dello strumento, dall’altra con la radice del lat. trah-ĕre ‘trarre, trascinare’ in riferimento anche all’azione di trarre dal forno la brace o di spandere i cereali.   

   La forma rëtr-àngule è probabilmente dovuta all’influsso dell’aggettivo gr. ankẏlos ‘curvo, ricurvo’ in riferimento al fatto che spesso il manico di ferro del tirabrace era ricurvo[2]. Naturalmente deve esserci stato anche l’incrocio con l’it. trappola per quanto riguarda le varie forme simili a rë-trap(p)ëlë, senza apparente motivazione.La forma retrào (Magliano dei Marsi) è un accorciativo che ha subito questa trafila: *retràvolo> retràolo >retrào.

    Le parole, data la loro antichità, spesso si incrociano con altre, confondendo facilmente la mente di chi le indaga.



[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

 

[2] Cfr. D. Bielli, Vocabolari abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq 204, s.vo. retràpele.


martedì 15 giugno 2021

Abbottare.

 

                                

Il verbo è centro-meridionale, ne parlo perché l’ho incontrato nell’articolo precedente e soprattutto perché i vocabolari ne danno un etimo che mi ha fatto mettere le mani nei capelli, quei pochi che mi sono rimasti.

    Il suo significato è, come abbiamo visto, ‘gonfiare, far diventare gonfio’, anche se talora acquisisce un significato più particolare, e cioè ‘far diventare gonfio a forza di botte’: è bastato questo perché il vocabolario del De Mauro considerasse la bòtta (colpo) l’origine del verbo.  Addirittura il vocabolario Treccani in rete, pensa che all’origine ci sia invece il termine toscano botta ‘rospo’, sicchè il suo significato di partenza sarebbe ‘diventare gonfio come una botta’.  Ma, vivaddio!, nell’articolo precedente abbiamo visto che la radice bot- vale di per sé ‘rigonfiamento’ senza alcun riferimento diretto né alla botta ‘colpo’, né alla botta (rospo), né alla botte, termine che pure deriva dalla stessa radice.  

    A Luco dei Marsi botta-ùttë, con radice raddoppiata, significa ‘persona o cosa rigonfia’, un significato genericissimo senza nessun accenno ad animali, rospi, uomini, a bόtti o a bòtte.

    L’it. obsoleto bottare (dal francone bot-an ‘spingere, battere’ attraverso il francese)  vale ‘spingere, percuotere, bussare, battere’ e secondo me ha a che fare con la nostra radice, perché il gonfiar(si), l’ingrossar(si)  sono dovuti ad una forza che ‘spinge, preme, gonfia’.  Come pure l’it. buttare, dal gotico baut-an nei due sensi di ‘gettare’ e ‘germogliare’: perché il punto dove sta per spuntare una gemma si gonfia ed ingrossa. Ed è per questo che il termine può essere sostituito da quello di bott-one, una rotondità e un rigonfiamento nei suoi due sensi. 

    Come si può vedere i significati iniziali delle radici non sono mai specifici ma generici, anche molto. Pertanto  avevo ben ragione di mettermi le mani nei capelli.

lunedì 14 giugno 2021

La battaùttë.

 


 

Chiamata a Trasacco-Aq abbotta-ùttë e abbotta-bόtti altrove, nel Lazio ad esempio, è un’uva dagli acini grossi ma piuttosto carenti di concentrato zuccherino e perciò molto acquosa: dato questo nome essa non poteva sfuggire alla definizione da parte di tutti, compresi i linguisti, di ‘uva che  gonfia (abbotta-) le botti, ma che produce un vinello molto leggero’.

     In questi casi i linguisti abboccano senza starci a pensare due volte, e fanno male, anzi malissimo, perché non si sono resi conto che le parole quasi mai (forse proprio mai) girano intorno alla cosa da nominare, preferendo, come a me sembra naturale, indicarla direttamente, e di certo l’uva che ‘gonfia le botti’ è una definizione  piuttosto esteriore di questo  tipo di uva bianca, la cui caratteristica che balza immediatamente agli occhi, rispetto alle altre uve, è quella, invece, di avere grossi acini.  

    Poi, non si capisce come farebbe a gonfiare le botti, visto che queste sono piuttosto rigide, non elastiche: si dirà che la mia osservazione è eccessivamente pedante, e che il verbo indicherebbe in modo figurato l’azione del riempire il recipiente.  Il quale, inoltre, nei tempi più antichi (visto che le parole spesso raggiungono la preistoria), erano preferibilmente di terracotta, cioè delle giare invece di botti.

   Ad Aielli, il mio paese, il nome dell’uva era la batta-ùttë, femminile o l’abbatta-ùttë : sarebbe quindi un po’ strano questo batta-, abbatta- invece di  botta- o abbotta-, se la motivazione indiscutibile del nome fosse quella supposta da tutti: il riempire, il gonfiare (abbottare) le botti. 

   A Luco dei Marsi la parola botta-ùttë significa però solo ’persona o cosa gonfia’, quindi in passato era possibile intendere il termine in modo molto diverso da quello comune, tra persone dotte e no, che parla di botte da riempire: manca evidentemente una adeguata voce del verbo centro-meridionale abbottare ‘gonfiare’ nel primo membro e l’altro membro –ùttë non significa ‘botte’. 

    Allora la questione si profila in tutt’altro modo: il composto deve essere formato da due membri tautologici che inoltre sono due varianti di una stessa radice: bot- (ad Aielli bat-) è seguito da quella che ha tutta l’aria di una sua variante, ma potrebbe essere anche la stessa e non cambierebbe nulla: non è la prima volta che una parola è composta da una radice raddoppiata come nel lat. mur-mur ‘mormorio’, ad esempio.

   La nostra parola, quindi, all’origine doveva essere qualcosa come bot(t)-but(t) oppure bot(t)-bot(t) e significare qualcosa come ‘rigonfiamento, ingrossamento’.  La radice potrebbe essere proprio quella di latino tardo  butt-is ‘vasetto’ da cui l’it. botte, it. bott-iglia, ingl. butt ‘botte, barile’ it. bott-accio (bacino di raccolta delle acque), che rinviano tutti ad una spiccatissima radice celto-germanica bot, but (come dice il Pianigiani in rete) col significato di ‘cosa gonfia, rotonda’, radice presente in diverse altre parole di lingue europee, non ultima il fr. butte ‘collinetta’ nel senso di ‘rigonfiamento’.   Questa è a mio avviso la giusta spiegazione del luchese botta-(v)ùttë ‘persona e cosa gonfia’.  Significato concreto e diretto, anche se molto generico: il che collima con la mia convinzione che i significati originari delle parole erano tutti generici, anzi genericissimi. L’acino, grosso o piccolo che sia, rientra sempre nel numero delle tantissime cose più o meno rigonfie. Quindi, al limite, la radice in questione poteva essere usata anche per indicare un acino normale.  Il suo raddoppiamento è però una certa garanzia della sottolineatura del concetto espresso, come quando noi usiamo ripetere un aggettivo per rimarcarne  la forza: è un rospo gonfio gonfio.

     A suggello di quanto ho detto aggiungo che a Luco dei Marsi l’uva di cui si parla è chiamata uv-όnë, nome maschile presente anche a Trasacco, accanto all’altro, nonché ad Avezzano-Aq nella forma uόnë, sempre accanto all’altra botta-ùttë o anche otta-ùttë. Si tratta, insomma, di un accrescitivo di it. uva che riconferma la spiccata tendenza della Lingua ad indicare le cose per quello che sono, senza giri vari di parole metaforico- descrittive.

    Alt! Proprio in questo momento, mentre chiudevo questo articolo, è riaffiorata alla mia coscienza la voce aiellese vatta-vόtë, maschile, che indicava una fossa scavata dal contadino nel terreno, come ricettacolo di un po’ d’acqua piovana o di qualche rigagnolo, sempre utile a qualcosa.  Stupendo! La parola è proprio simile a quella di cui mi sono occupato finora, cioè batta-ùttë con le sue varianti.  Questa somiglianza non è casuale, dato che il concetto di “fossa, cavità” è speculare di quello di ‘rigonfiamento, protuberanza, rotondità’: non è proprio un caso se l’aggettivo lat. convex-u(m) significa sia ‘convesso’ (cioè curvo, sporgente verso l’esterno) sia ‘concavo’ (cioè curvo verso l’interno il basso). 

   Una trentina di anni fa, quando per la prima volta riflettei su vatta-vόtë pensai che si trattasse di un composto il cui primo membro vatta- doveva corrispondere al gotico wato’acqua’ e il secondo all’it. vuoto, voto (dial. vόtë), sicchè il significato del composto doveva essere ‘vuoto, cavità per l’acqua’.  Ma dopo qualche anno capii che si trattava di composto tautologico i cui due membri indicavano sempre la ‘cavità, la fossa’, anche se un incrocio con la parola gotica poteva esserci stato.  Il primo membro presenta una radice uguale a quella di ingl. vat ‘tino, botte’: ecco spiegata allora la –a- del primo elemeto batta- di aiellese batta-ùttë, che mi sembrava un po’ strana rispetto a abbotta-botti riferito a quel tipo di uva! Che meraviglia!

 

 


domenica 13 giugno 2021

Trapìzzë.

 


La voce aiellese tra-pìzzë indica un angolo di qualcosa, in specie di terreno. Di primo acchito sembra evidente che la parola contenga il significato  del dialettale pizzë ‘punta, angolo’ ma resta comunque da spiegare il primo membro tra-.

   A Trasacco nella Marsica stra-pìzzë vale ‘fazzoletto o pezzo di stoffa triangolare’[1]. Anche il Vocabolario abruzzese del Bielli riporta per questo vocabolo il significato di ‘fazzoletto triangolare con cui le donne si coprono la parte superiore delle spalle’ nonché quello di ‘superficie triangolare’.  Sempre a Trasacco il verbo strapizzà significa ‘tagliare diagonalmente un taglio di stoffa di forma quadrata o rettangolare; piegare diagonalmente un fazzoletto’. Diversi sono i significati connessi con questo termine: triangolo, diagonale, quadrato.

   Io credo che il punto di partenza di trapìzzë  sia il gr. trápeza ‘tavola, mensa’, termine da cui deriva il nome della figura geometrica del trapezio.  Da esso dovette svilupparsi il significato di superficie quadrata o rettangolare, cioè la forma del fazzoletto che, piegato o tagliato diagonalmente ha dato, a Trasacco, il triangolo; ma dirò di più: a Cerchio-Aq trapìzzë significa addirittura ‘sghembo’[2], cioè obliquo, cioè diagonalmente; esso potrebbe alludere anche all’ipotenusa di un triangolo rettangolo, ricavato da un quadrato o da un rettangolo.

      Il termine, così come è arrivato a noi, sembra riferirsi ai tre pizzi (angoli) del triangolo, ma la sua origine parla di superficie piana, in genere quadrangolare o rettangolare. Un proverbio dialettale aiellese dice che chi nascë tunnë 'm-po' murì quatratë (chi nasce tondo non può morire quadrato), ma in linguistica succede questo ed altro.



[1] Cfr. Q. Lucarelli, “Biabbà” Q-Z,, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

 

[2] Cfr. F. Amiconi, Quaderni del Museo Civico di Cerchio.

sabato 12 giugno 2021

Béjjëvόnë.

 

                               

L’avverbio aiellese béjjëvόnë ha più o meno il significato di ’tranquillamente’ o anche di ‘come si deve, come va fatto’.  Ad esempio la locuzione statt’ èssë béjjëvόnë significa ‘resta costì tranquillamente, comodamente’,  ma è aràtë la tèrra béjjëvόne vuol dire ‘ha arato la terra come si deve’.

    A me pare che l’avverbio all’origine dovesse corrispondere all’it. bello e buono dove ha il significato di ‘vero e proprio’ come nella frase è uno stupido bello e buono. 

    A Trasacco véjjëvόnë ha assunto il valore di avverbio di quantità col significato di ‘assai, moltissimo’ ma anche il valore di sostantivo col significato di ‘grandissima quantità’[1].  Significati sviluppatisi sempre, a mio parere, da quello iniziale di bello e buono. Non si può accettare l’ipotesi di Q. Lucarelli, il quale lo deriva da vojja ‘voglia’ e crede che ne sia un accrescitivo, cioè ‘grande voglia’.



[1] Cfr. Q. Lucarelli, “Biabbà”, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.