giovedì 30 luglio 2020

Abruzzese cëtërόnë ‘cocomero’ (seguito).


    

   A proposito del suffisso di abr. cëtër-όnë ‘cocomero’ non scommetterei nemmeno mezzo dollaro bucato che si tratti, originariamente, dell’accrescitivo della radice cetr-, citr- di cui ho parlato.  Si tratta, invece, dello stesso suffisso di lat. mel-on-e(m) ‘melone’, lat. pep-on-e(m) ‘melone, popone’, gr. mēlo-pép-ōn ‘popone’ e, soprattutto, di gr. siky-ṓnē ‘zucca’, gr. siky-ōnía ‘zucca’ il cui primo membro richiama gr. síky-os ‘cetriolo, cocomero’, gr. siký-a ‘melone’ e ‘coppetta, ventosa’ per il concetto di “rotondità, cavità” che unisce i due significati. Il gr. sỹk-on ‘fico (frutto)’ ma anche ‘porro sulle labbra, orzaiolo’ è della partita.

   Il gr. mēlo-pép-ōn  è inteso come mela matura (pép-ōn) con la spiegazione erronea che una zucca assomiglia ad una grossa mela matura.  Ci risiamo! Che c’entrerebbe, poi, la maturità o meno della mela? La somiglianza tra i due ortaggi  forse si dissolverebbe senza di essa? Le parole ci prendono in giro costringendoci a spiegazioni alquanto contorte e innaturali.  Ma lo vogliamo capire una buona volta che una mela assomiglia ad un mel-one e ad una zucca per lo stesso motivo per cui un mel-one e una zucca assomigliano ad essa? Che in altri termini il loro rapporto, detto matematicamente, è biunivocoNon ci inganni la falsa supposizione che la parola mel-one, essendo composta di due membri, debba essere considerata successiva, temporalmente, alla parola  mela da cui sarebbe derivata, con l’aggiunta di –one: queste  sono solo illusioni ottiche, generate dai significati specifici che nel corso di diversi millenni la radice ha potuto assumere nelle sue varie espressioni formali.  Non esiste una parola che serva come modello, perché magari considerata più antica, per le altre parole dal significato simile! La loro sostanziale intercambiabilità è dovuta ad un motivo più profondo: il significato genericissimo della loro radice che annulla qualsiasi differenziazione semantica intervenuta nel frattempo, significato entro il quale sono ricompresi, in nuce, i vari significati specifici disseminati attraverso il tempo.   
   A mio modesto parere l’aggett. gr. pép-ōn ‘cotto dal sole, maturo’, dalla radice del verbo gr. péss-ein ‘cuocere, maturare’,  è solo frutto dell’incrocio  con radici come quella, ad esempio, di ingl. pip ‘seme, semino, pallino, puntino, punta’ o di abr. pëp-égnë ‘capezzolo’, abr. pëp-ígnë[1] ‘capezzolo’< lat. *pep-ine-u(m) col significato generico di ‘rotondità, protuberanza, ecc.’.  C’è anche lo sp. pep-ino ‘cetriolo’, il fr. pép-in ‘acino, seme, granello’.

    Non si sfugge! Anche l’altra voce settentrionale ang-uria ‘cocomero’ viene dal tardo gr. ang-úria, plur. di gr. ang-úri-on ’cetriolo’ la cui radice è la stessa di gr. áng-os ‘vaso, boccale, urna’, tutti concetti che attingono a quello di “cavità, rotondità, piega, valle, ecc.”. Cfr. lat. ang-ul-u(m) ‘angolo, golfo, luogo chiuso, ripostiglio’.



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

mercoledì 29 luglio 2020

Abruzzese cëtërόnë ‘cocomero’.




    Anche l’etimo di abr. cëtërόnë ‘cocomero’ è molto istruttivo circa l’origine delle parole.  Mi pare che non ci siano dubbi sul fatto che l’etimo di questa parola rimanda al termine it. cedro, lat. citr-u(m) ‘cedro’, gr.kédr-os ‘cedro’. Ora, il frutto del cedro  è solo lontanamente paragonabile al cocomero o anguria: l’unica caratteristica che li unisce è quella di una forma grosso modo rotonda , anche se il cedro ha la grandezza di un grosso limone e l’altro è molto più grande.  Il sapore del cedro è acre, mentre quello del cocomero è dolce.

    C’è anche il cetri-olo a condividere la stessa radice, anche se la sua forma è oblunga piuttosto che rotondeggiante, ma anche così esso può rientrare, a mio parere, nel concetto generico di “protuberanza”, alquanto più ampio e sovraordinato a quello di “rotondità”: si tratta, insomma, di una stessa radice dal significato sempre più generico, a mano a mano che si scende nelle sue profondità.

    In questi casi i linguisti solitamente parlano di una stessa radice, la quale però, secondo loro, aveva magari un significato specifico passato, poi, per estensione, ad indicare altre entità simili.  Errore grave, a mio avviso.  In questi casi, come in quello già visto in altro post del ted. Buche ‘faggio’, lat. fag-u(m) ‘faggio’, gr. phēg-όs ‘quercia’, bisogna pensare che il significato originario della radice fosse molto generico, quello di ‘pianta, albero’, tanto più che il gr. kédr-os oltre al cedro, una conifera, indicava il ginepro, un arbusto sempreverde.  E c’è anche da sottolineare che il concetto di “protuberanza” poteva includere tanto la massa, il bitorzolo  del frutto, quanto la prominenza della pianta emergente dal suolo.

    Ora, dinanzi a casi che ripetono sempre questo stesso cliché, non credo che sia una conclusione ascientifica desumere che questo sia un comportamento essenziale del linguaggio, il quale quindi procederebbe per generalia nel senso che i significati di fondo delle radici sono sempre molto generici.  La stessa cosa, quindi, sono convinto che succeda, ad esempio, con i nomi specifici degli animali i quali all’origine dovevano avere nient’altro che il significato genericissimo di ‘animale’.  Non riesco ad immaginare un uomo parlante che, dinanzi ai molti animali cui dare un nome, si metta a riflettere sulle caratteristiche salienti di ognuno di  essi, in base alle quali trovare un nome adeguato: operazione difficilissima, anzi, inattuabile a mio avviso, dato che la facoltà razionale dell’uomo (comparare, distinguere, sottilizzare, ecc.) deve essersi sviluppata di pari passo con la formazione del linguaggio il quale, nella fase aurorale, doveva combattere ancora con la tabula rasa del cervello umano immerso in un caos nebuloso ed  era già tanto se riusciva a porre i nomi generici agli animali, alle  cose e, via via, alle operazioni mentali superiori attinenti alla  capacità razionale in formazione. Tutto si semplifica se la parola primordiale, in tutte le sue varianti, conteneva, appunto, il concetto generico di “anima, animale” con cui designare ogni entità del mondo reale. 
    
   
  



martedì 21 luglio 2020

L’indoeuropeo: una ricostruzione verosimile?



 Propongo la lettura di due brani di un saggio di Silvia Biselli sulla verisimiglianza o meno dell'indoeuropeo ricostruito, seguiti da mie osservazioni.

 1) «Lo stesso discorso è valido per *bhagó-s, che ha dato origine a ‘faggio’ in germanico (a.a.t.buohha) e in latino (fāgus). Poiché in greco tale radice ha finito per denominare la quercia (φηγός) e in russo il sambuco (buz ), si è pensato a una migrazione dei popoli indoeuropei da zone  in   cui crescevano faggi a zone in cui essi non esistevano; tale radice sarebbe dunque stata assegnata ad alberi popolari nei nuovi terreni. Date le differenze di significato assunto nelle varie lingue, non v’è ragione di credere che l’albero inizialmente conosciuto dagli indoeuropei fosse il faggio e non la quercia, e che dunque la migrazione verso aree in cui crescevano faggi avrebbe portato Latini e Germani a designare con *bhagó-s il faggio.  La presenza del significato ‘faggio’ in latino e germanico non è sufficiente ad attribuire alla radice quello stesso significato; esso sarà allargato e disperso in un più ampio e generico panorama che assegna alla radice *bhagó-s il senso universale di ‘albero’». (pag. 37-8)


 2) «In base a quest’esempio si potrebbe rivedere il concetto di arbitrarietà del segno. Esso si presenta “arbitrario” quando le parole giungono a noi prive di trasparenza semantica e sono ormai diventate nomi-etichetta, senza più alcun rapporto giustificato con il denotato. Il caso del lat. exāmen ‘sciame’, analizzato da Belardi, illustra in modo ineccepibile questo concetto. Se per noi la parola
Exāmen non ha alcun motivo d’essere collegata al suo denotato, la ricostruzione di una forma protolatina*eks-ag-s-men (funzionale alla spiegazione del latino classico exāmen) sulla base di iouxmento,
forma arcaica attestata per iūmentum permette di far luce su quello che era ormai diventato un segno arbitrario: la parola *eksagsmen risulta così formata da:
-        Un prefisso *eks, con il significato di ‘uscire, andar via da’ (vedi
anche gr.ἐκ).
-       Una radice *ag- con il significato di ‘condurre’ (lat.ago, exigo;gr.ἄγω);
    -  Un suffisso -s-, forse usato per nomi che indicano il risultato di un agire, o per separare unità morfologiche;
    - Un secondo suffisso –men  che indica nome di cosa.  Così analizzata, la parola prende il significato di ‘ciò che esce fuori da’, locuzione che indica perfettamente l’azione di uno sciame di api che fuoriesce dal nido. L’evoluzione della parola avrebbe poi determinato la sua classificazione come parola immotivata. Sta di fatto, però, che l’analisi etimologica, come nel caso di ‘malaria’, non ci dà concrete informazioni sul referente cui si riferiscono i termini. Qualsiasi cosa può ‘uscire fuori da’: tutto ciò che sappiamo, possedendo il significato della forma classica exāmen, è
l’idea che i primi parlanti si erano fatti di uno sciame di api». (pag. 39-40)


               


    Si tratta, come ho detto, di due brani tratti dal saggio L’indeuropeo: una ricostruzione verosimile? di Silvia Biselli, apparso su Academia. edu, un sito dedicato alla condivisione di scritti di natura generalmente scientifica.  Sia ben chiaro che quello che sto per dire non è per mostrare quanto sono bravo, ma solo per evidenziare il fatto che fin dagli inizi della mia ricerca linguistica, pur non essendo un linguista di professione e non conoscendo la posizione di linguisti al riguardo, ero arrivato alla convinzione che il lat. fag-um ‘faggio’, ted. Buche ‘faggio’ e gr. phēg-όs ‘tipo di quercia’ dovevano rimandare ad una radice originaria col significato generico di ‘albero’.  La cosa l’ho dichiarata ripetutamente in alcuni articoli del mio blog. Grazie a questo saggio sono venuto a conoscenza del russo buz ‘sambuco’, sempre della stessa radice generica per ‘albero’.  Ho sicuramente, pertanto, qualche possibilità di cogliere nel segno se affermo che la stessa radice si ritrova nel secondo membro del  lat. sam-buc-u(m)  ‘sambuco’. Secondo un canone fondamentale della mia linguistica le parole sono formate da composti tautologici.  Per quanto riguarda,poi, il significato generico di fondo il greco stesso ci offre anche il caso di drỹs ‘albero, quercia’ e talora anche ‘olivo, pino’, che si ritrova nell’ingl. tree ‘albero’: la sua radice, agli inizi, non poteva che indicare l’albero in genere. Il greco ci offre anche altri casi di incertezza del significato di qualche  fitonimo.  A Pero dei Santi-Aq, un paese della valle Roveto, l’olmo è chiamato stranamente albero.
 
     Per quanto riguarda il lat. examen ‘sciame’  c’è da osservare che quasi tutti i termini, quando si può arrivare alla loro etimologia, indicano qualcosa di molto generico che riguarda anche tante altre entità oltre a quella del referente. Di conseguenza è vano credere che le cose abbiano ricevuto, all’inizio del linguaggio, il loro bel battesimo con un nome esclusivo che magari ne descrivesse l’essenza. Però è anche vero che ogni segno linguistico non era totalmente immotivato, nel senso che quel significato generico riguardava comunque il suo referente, anche se in maniera molto generica. Lo sciame era indicato in latino anche col termine ag-men ‘sciame (Virgilio), schiera, colonna di soldati in marcia, corso, stormo, ecc.’ senza nemmeno la precisazione dell’ex- ‘fuori da’ iniziale, sicchè  il significato originario di ag-men (dal verbo ag-ere ‘spingere, muoversi, ecc.’ era solo il ‘muoversi (di qualcosa, qualsiasi cosa)’. Il termine generico naturalmente tendeva, nel corso del tempo, a specializzarsi nel contesto di una locuzione e finiva magari per indicare, più o meno stabilmente, qualche referente particolare: se poi il significato della radice, nel frattempo, scompariva dall’orizzonte di una lingua (cosa che spesso capitava), quel termine finiva per restare strettamente appiccicato al suo referente, come se fosse nato solo per esso,  ma senza mostrarci il perché di quella stretta unione che sembrava immotivata. Queste sono riflessioni importantissime, a mio modesto avviso, perché ci portano dritto dritto all’origine del linguaggio, che a mio parere era costituito di parole genericissime nel significato, tanto che esse erano praticamente omosemantiche e potevano poi via via passare ad indicare le cose più diverse, per l’influenza e l’incrocio con altre parole simili nella forma, ma che avevano assunto altri significati. Ad esempio il lat. ag-men ‘sciame, frotta, stormo’, basato all’origine sul significato del verbo lat. ag-ĕre ‘spingere, muoversi’,  assunse quello di ‘gruppo in movimento’ perché dovette incrociarsi con termini come il gr. ag-élē ‘gregge, schiera, torma’ che io preferisco ricondurre, piuttosto che alla radice greca di ág-ein ‘spingere, condurre’ uguale a quella latina di ag-ĕre ‘spingere’, alla radice di gr. ag-eír-ein ‘adunare, raccogliere’, per la quale ultima i linguisti danno una spiegazione a mio avviso alquanto complicata, e, anche per questo, meno sicura.
   O forse è la nostra notevole miopia, generata dall’inveterata abitudine a distinguere, dividere, separare (abitudine assorbita dal linguaggio così come esso si presenta nel suo stadio maturo) a non farci vedere la sostanziale e primordiale uguaglianza tra il concetto di “spingere” e quello di “spingere (insieme), adunare, raccogliere in un luogo, ecc.”.  Di conseguenza, come in latino abbiamo la coppia *ex-ag-men / ag –men per ‘sciame’ (ma la lingua già operava delle scelte in vista di una maggiore precisazione e chiarezza, preferendo magari *ex-ag-men ―cfr.it. sciame, fr. essaim ‘sciame’, sp. en-jambre ‘sciame’―  al semplice ag-men ‘sciame’), così in uno stadio anteriore del latino poteva aversi, a fianco del noto co-g-ĕre < *co-ag-ĕre  ‘radunare, costringere’, il semplice ag-ĕre con lo stesso significato di ‘spingere (insieme, in un luogo)’, cioè ‘radunare, raccogliere’.
   Mi sembra, inoltre, che Silvia Biselli, nel suo saggio, abbia trascurato di confrontare il lat. ex-a-men ‘sciame, frotta’ con l’omofono lat. ex-a-men ‘ago della bilancia, bilancia’ di tutt’altro significato: anche questo termine presuppone un precedente *ex-ag-s-men, sostantivo prodotto dalla radice di ag-ĕre ‘spingere’, uguale al gr. ág-ein ‘spingere’.  Si tratta sempre, all’origine, di una non meglio identificata spinta, la quale può prestarsi (specializzandosi) ad indicare il movimento dello sciame d’api, tra i tanti movimenti possibili, come visto sopra. Nel significato di ‘ago della bilancia’ o semplicemente ‘bilancia’ evidentemente la radice AG-  è partita, agli inizi, con l’indicare il movimento o la spinta del giogo della bilancia, che può oscillare pendendo da una parte o dall’altra. Il lat. ex-ig-ĕre <* ex-ag-ĕre significa anche ‘pesare, valutare, giudicare’ (tra i tanti altri significati specifici) come del resto anche il sopracitato gr. ág-ein, il quale presenta il significato fondamentale di ‘spingere’, ma anche quello di ‘pesare’.
   Nel corso del tempo sarà avvenuto l’incrocio tra il significato di giogo  (asticciola metallica della bilancia da cui pendono i due piatti) con un’altra asticciola più piccola: la lancetta che serve ad indicare i vari pesi degli oggetti posti su uno dei piatti della bilancia, e questo incrocio sarà stato favorito proprio dal significato che la radice AG- aveva assunto, cioè 'valutare, misurare, giudicare'.
   E’ veramente stupendo constatare sempre lo stesso meccanismo all’origine del linguaggio, meccanismo che fa sì che, partendo da nozioni molto generiche di fondo, le parole acquisiscano, soprattutto mediante incroci con altre, significati sempre più particolari e specifici, i quali ingannevolmente ci inducono a credere che ogni parola sia nata per il referente che si trova ad indicare, nello strato superiore del linguaggio o anche in uno strato intermedio. Grossissimo abbaglio.
  







sabato 18 luglio 2020

Luco dei Marsi.




    La forma antiquata del toponimo Luco era Jùchë come dice Giovanni  Proia nel bel libro sul dialetto del suo paese[1].  Nei nostri dialetti marsicani, ma anche altrove nel meridione, frequentissime sono le palatalizzazioni della lettera/l/, anche doppia, preceduta o seguita dalle vocali palatine /e/ ed /i/.  Ma non è rara la sua palatalizzazione anche in altre condizioni, talora all’inizio di parola seguita da /u/ come nel luchese jùpë ‘lupo’[2], trasaccano jùma  ‘lucerna’[3], o come aiellese (ma anche altrove) jàccurë ‘funicelle per il basto’ dal lat. laqueol-u(m), diminutivo di lat. laque-u(m) ‘laccio, legame’.

    Si tratta di fenomeno linguistico antichissimo che gli studiosi fanno risalire addirittura al sostrato osco-umbro, antecedente quello latino.  A proposito del sopra indicato Juchë (Luco) c’è da fare, allora, una osservazione di qualche importanza per cercare di chiarire se la sua origine sia latina o non piuttosto anteriore, proveniente dallo strato osco-umbro, appunto. Gli studiosi e archeologi sono certi del toponimo Luc-um perché lo ricavano dall’etnonimo pliniano Luc-enses (Luchesi), una delle ripartizioni del popolo marso il cui centro era appunto Luco.  Ma questa doveva essere la forma latina etimologica del toponimo, non quella che usciva dalla bocca dei parlanti locali che evidentemente era già Juchë, la quale però, come ho detto nell'articolo La dea Angizia, il suo bosco sacro e l'inghiottitoio della Petogna presente in questo blog (29 novembre 2010), non poteva derivare quindi dal lat. luc-um ‘bosco sacro’ ma da una radice che indicava molto probabilmente l’inghiottitoio ora noto come Petogna.  

   Anche per questa via sembra essere dimostrato, quindi, che il lat. Luc-um, nome che indicava etimologicamente il ‘bosco sacro’, era tutt’altra cosa rispetto al nome originario del centro abitato, che si riferiva invece (almeno così mi pare) al vicino inghiottitoio.  La stessa cosa era successa al nome Angitia, forma latina del marso Anxa.



[1] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini Avezzano-Aq, 2006.

[2] Cfr. Proia, cit.

[3] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo Avezzano-Aq, 2003.

sabato 11 luglio 2020

Leccaculo.




  

   Mi sono detto che anche questo nome composto non era probabilmente nato così come lo vediamo e sentiamo in italiano, anche se la sua prima attestazione è recente (1967). Ma  che questo non vuol dire granché ce lo dice la voce arcaica del dialetto di Trasacco-Aq che suona lecca-cùjĕ [1]con la palatalizzazione della /l/ di culĕ ‘culo’, fenomeno che rimonta addirittura ad epoca romana. Evidentemente la parola circolava, non registrata, nei dialetti.

    Il fatto è che in latino esisteva il vocabolo sub-liga-cul-u(m) composto dal prefisso sub- ‘sotto’ e da liga-cul-u(m), un derivato in –cul-u(m) della radice di lat. lig-are ‘legare’. La parola può essere tradotta come ‘sotto-fascia’, una striscia di stoffa legata ai fianchi e passante tra le cosce.  Erano le mutande degli antichi romani.  Un indumento così a diretto contatto con la parte più intima del corpo da poter facilmente suscitare l’idea di una persona che con servile costanza esegue qualsiasi vile azione ritenuta però gradita al suo corteggiato. Lo stesso significato traslato ha, infatti, l’it. sottopancia.

    La parola latina sarà stata prima pronunciata, per brevità,  liga-cŭl-u(m) ‘sotto-fascia’, distinta dal lat. liga-men o liga-ment-u(m) ‘legame, benda, fascia’,  e successivamente, per influsso di lat. cul-u(m) ‘culo’, sarà stata intesa come *licca-cūl-u(m) ’leccaculo’.  L’it. leccare lo si fa derivare dal lat. ling-ĕre ‘leccare’, proveniente da una radice presente anche nel gr. leíkh-ein ‘leccare’ e nel ted. leck-en ‘leccare’.  Io suppongo che a fianco della forma classica ling-ĕre ‘leccare’ con infisso nasale, esistesse già un volgare *licc-are ‘leccare’.

   L’altra espressione italiana dal significato simile alla precedente, e cioè leccapiedi credo che abbia avuto una storia simile.  Secondo me doveva esistere nel latino parlato un composto *liga-pes, genit. *liga-ped-is che inizialmente significava tautologicamente solo ‘legame, benda’ (magari proprio quella del sub-liga-cul-um suddetto) ma che finì con l’incrociarsi col lat. pes, ped-is ‘piede’, diventando così ‘leccapiedi’.  L’originario *pes, *ped-is ‘legame, benda’ era lo stesso della parola latina com-pes, gen. com-ped-is ‘vincolo, laccio, impedimento’. 


[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà F-P,  Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003. 



mercoledì 8 luglio 2020

Calabrache.


                                      

                                         

   Il significato del composto italiano cala-brache è ‘pavido, sempre pronto a cedere’, ma mi pare che nessuno si sia chiesto mai perché questa azione, segno di scostumatezza e indegnità, sia diventata, ad un certo punto, anche indice di pavidità e arrendevolezza.   Io penso che  nessuno, sano di mente, possa arrivare a tanto, senza esservi costretto.  Un fifone non è detto che debba essere per forza un gratuito maleducato. Questo, allora, è uno di quei casi in cui bisogna cercare, possibilmente, strati linguistici molto lontani in cui i due componenti della parola possano significare altro.
 
    Si incontra infatti in greco l’aggett. brakh-ýs ‘breve, corto, basso’, debole, piccolo, vano, insignificante, mediocre, vile’ detto, quest’ultimo soprattutto del guadagno, in senso dispregiativo: come quando noi usiamo le espressioni il vil denaro, il vile guadagno.   Suppongo allora che il  nostro cala-brache possa affondare le origini in uno strato prelatino, che era pieno di radici greche, come ho mostrato in diversi articoli del mio blog.  Esso doveva essere un composto tautologico del tipo *khalai-brakh-ýs, il cui primo membro khalai- era una radice della famiglia del verbo gr. khalá-ein ‘allentare, rilassare’ e anche ‘cedere’.  Allora dovremmo esserci in pieno, a mio parere. Il cala-brache non è, come l’italiano dice chiaramente in superficie, ‘colui che abbassa le brache’ ma ‘colui che cede vilmente’, un pavido, un debole, un uomo arrendevole.

  Inoltre è stato questo composto, a far sviluppare in italiano espressioni come: 1) mi cascano le brache 2) avere le brache alle ginocchia che significano ‘mi sento avvilito, sentirsi scoraggiato, perdersi d’animo, sentirsi impotente’ sempre derivando ingiustamente questa arrendevolezza dal fatto di calar(si) le brache che è solo un atto indegno e non per forza indice di un animo vile.

    Anche l’espressione mi cascano (cadono) le braccia, che esprime gli stessi significati,  credo sia stata messa in moto dall’originario cala-brache.  Le braccia che cadono prive di forza lungo i fianchi, sono però un’immagine concreta e diretta per esprimere l’avvilimento in cui si è caduti. Dal latino brac-as ‘brache’ si poteva passare per etimologia popolare al lat. brachi-a ‘braccia’.  C’è comunque da notare che il lat. brac-as non indicava le mutande, bensì una sorta di pantaloni un po’ larghi, indossati in genere da popoli galli. Quindi, un’espressione omosemantica con la presenza di questa parola in latino non poteva esistere.  Perché  le brac-as  diventassero anche le ‘mutande’ bisognava  attendere il medioevo.  Ed è nel medioevo che in alcune città del nord, il debitore insolvente veniva costretto a sedersi su una pietra e obbligato a calarsi le brache, per essere esposto al pubblico ludibrio.  Quindi questa calata di brache mirava a ridicolizzare il debitore insolvente e non a metterne in rilievo la sua  pavida arrendevolezza, dato anche che l’atto disdicevole non lo compiva volontariamente.  Solo è presumibile che l’espressione indicante inizialmente, in modo astratto e in altro contesto, viltà e debolezza si adattasse a suscitare ridicolaggine nel nuovo contesto in cui il debitore insolvente veniva effettivamente costretto a calarsi le brache. Insomma, la effettiva calata di brache dell’insolvente avrebbe trasformato in atto ridicolo concreto il precedente significato di viltà legato astrattamente a quella espressione.

    C’è un’altra difficoltà: calabrache  nel significato di ‘pavido, pusillanime, ecc.’ compare solo nel Vocabolario della lingua italiana (della Reale Accademia d’Italia), vol.I,  Milano, 1941.  Nel significato di ‘tipo di gioco di carte’ risale al 1545 (in Pietro Aretino).  Ora, come mai calabrache compare nel significato che sappiamo solo nel Vocabolario suddetto? Vi è stato inserito dai compilatori del vocabolario? E dove lo hanno preso? A mio parere esso circolava da sempre in qualche dialetto.  Il vocabolario Treccani afferma che la parola, nei due significati, deriva dall’espressione calare le brache che vale ‘arrendersi, dichiararsi vinto’.  Ma perché mai questa espressione dovrebbe avere  questo significato, se non si presuppone il composto antichissimo, formato di radici greche da cui sono partito?  


martedì 7 luglio 2020

Abruzzese caccavànne.


            

    Sapete cosa significa cacca-vànne secondo il Vocabolario abruzzese di Domenico Bielli? E' un aggettivo che accompagna il termine dialettale  όvë ‘uovo’, usato per indicarne uno 'andato a male nella covatura': insomma un uovo da cui non è uscito un pulcino. Ebbene, quale potrebbe essere la sua origine? E' semplice: mettiamo insieme il gr. kak-όs 'cattivo, inutile, ecc.', di cui abbiamo parlato abbondantemente in altri post, e il lat. van-u(m) 'vano, vuoto, inutile, ecc.' e il gioco è fatto. Ma perchè altri, anche più acculturati di me, credo che non l’abbiano capito? E' altrettanto semplice: nessuno, che io sappia, ha mai parlato abbastanza di composti tautologici, con lo stesso significato nei due membri. Di conseguenza, dinanzi a questi composti solitamente si cerca un significato passabile che si accordi con quello indiscutibile di cac-are 'andare di corpo' e simili. In questo modo non si poteva, a mio avviso, concludere granché, e così è stato. Questo composto cacca-vànne ci dice anche un'altra cosa importante: l'unione dei due membri probabilmente non è avvenuta quando, ipoteticamente e casualmente, il termine greco si è incontrato con quello latino, ma semplicemente perchè essi erano a portata di mano di chi si trovò ad esprimere quel concetto . La tautologia è una risorsa importante nella formazione delle parole e delle lingue, che altrimenti avrebbero dovuto accontentarsi di soli termini monosillabici, insufficienti per una completa descrizione della realtà fisica e psichica. Ma questo è un discorso che meriterebbe di essere approfondito. Credo di aver capito perchè si è verificato il raddoppiamento della /c/ in cacca e della /n/ in vanne. Sempre in abruzzese vannine significa puledro, sicchè tutta l'espressione poteva assumere il significato superficiale di 'cacca di puledro' che risponde poco alla realtà dell'uovo non schiuso nella covatura, ma dà comunque un valore spregiativo al termine. Oppure –vannë è uno dei numerosi raddoppiamenti postonici come scérre ‘usciere’.
 
   Leggo, sempre sul Bielli, l'aggettivo caca-sìcche 'cacastecchi, magruzzo, scheletrico, secco stecchito'. L'aggettivo, dunque, indica chi è veramente magro, secco ma non mi convince la spiegazione che credo se ne dia: esso indicherebbe uno che mangia talmente poco che, di conseguenza, caca secco. Questa spiegazione non regge, per il semplice motivo che si può 'cacare secco' per altri motivi, perchè si è stitici, ad esempio, non perchè non si mangia granchè. Quando si è convinti di questo, si è costretti di conseguenza a guardarsi intorno cercando in altre lingue, per vedere se si possa uscire dall'impasse. Ed ecco venirci incontro il gr. sikkh-òs 'delicato, che non può mangiare tutto, che ha disgusto, nausea (per il cibo)' incrociatosi con l'it. secco (magro). Allora il più è fatto, in quanto il primo membro, che è dal gr. kak-όs indica tutto ciò che è negativo, e in s-cac-azz-ìttë, ad esempio, ha assunto il significato di ‘piccolo e sparuto’[1] Per me anche l'ingl. sick 'malato, nauseato, disgustato' rientra in questo concetto. il verbo to sick 'vomitare' indica la stessa cosa di ingl. keck 'vomitare', di ingl.dial. cack 'vomitare' per cui un composto caca-secco avrebbe potuto benissimo significare anche 'disgustato, nauseato. In alcuni dialetti del meridione, però, caca-sicche significa 'tirchio, tirato'. Io credo che questo significato sia derivato da quello precedente di 'magro, stecchito' giacchè dall'idea di "magro, scarso " deriva anche quella di "parsimonioso" dalla quale, in senso dispregiativo, può svilupparsi l'idea di “tirato, stretto, tirchio”. Pertanto anche l’it. caca-stecchi  nel significato di ‘avaro, spilorcio’ potrebbe essere un’evoluzione da significato iniziale di ‘magro, stecchito’. 




[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

lunedì 6 luglio 2020

Aiellese ‘ngacasse ‘diventare indolente’.




    L'aiellese 'n-cac-àsse non mi pare presente in altri dialetti della Marsica, ma quasi sicuramente mi sbaglierò. Sembra un banale e brutto verbo tratto da cac-are (gr. kakk-á-ein ‘defecare), ma non è così. Il significato che pressappoco è 'diventare indolente, inetto, incapace' mi sorprende, e non poco, perchè punta dritto con la sua radice cac- al notissimo aggettivo greco kak-òs dal valore generico di 'cattivo (di carattere)' ma anche 'privo di buone qualità, inabile, inetto'. Naturalmente esso non ci perviene dal greco storico ma molto, molto prima. L'aggettivo dovrebbe essere noto anche alla maggior parte degli italiani, pur se poco acculturati per quanto riguarda le lingue. Esso infatti costituisce, ad esempio, il primo membro del termine culturale caco-fonia 'espressione composta di suoni piuttosto aspri, stridenti'. La lingua non finisce mai di stupire!

     Ora, siccome in italiano, la lingua dominante, ma anche nei dialetti, la radice più diffusa è quella relativa al verbo cac-are nel significato di ‘defecare’, è successo che anche le parole che invece molto presumibilmente rimandano alla radice di gr. kak-όs ‘cattivo, vile, inetto’ ne abbiano subito una forte influenza, come chiaramente rivela il celanese ‘n-gac-azz-àtë ‘che ha il significato di ‘seduto, senza alcuna voglia di muoversi’.  Questo participio passato (che presuppone il verbo, ora scomparso, *’n-gac-azz-àssë < ‘n-gac-acci-àsse)) non può avere però nessun rapporto col significato del verbo dial. cac ‘defecare’ dato che esso indica tutt’altra cosa.  Inoltre si incontrano nei nostri dialetti aggettivi o sostantivi  come cac-όnë ‘pauroso’ cac-acci-ònë  ‘pauroso’ che quindi non pare poter derivare dal dial. cac-accia, nel significato di ‘merda liquida’ come nel trasaccano dissimilato cac-àrcia[1], il quale però significa anche ‘paura’ come ad Avezzano-Aq, dove manca l’altro significato di ‘merda’[2].  E ci risiamo! La realtà è dunque questa, che il gr. kak-όs (simile  alla radice di cac-are) significava anche vile, detto di comandante o guerriero’, e quindi lo slittamento del significato a ‘codardo, pauroso’ è del tutto naturale come è stato inevitabile l’incrocio col verbo sunnominato. 

   La questione è più complicata di quanto si crede, però,in conseguenza del fatto che chi è sotto una forte impressione di paura può anche involontariamente farsela sotto.  A me risulta che ci può essere un aumento della motilità gastrointestinale quando si è in preda a paura ma che difficilmente si arriva alla defecazione involontaria: forse i ragazzini possono farsela addosso non solo per paura ma anche per altre cause.  E questo ha fatto slittare il normale significato di farsela sotto (defecarsi e urinarsi addosso) in quello di ‘essere in preda alla paura’, per la compresenza delle due radici uguali nella forma. In greco esiste addirittura quella che può essere definita la fotocopia  dell’aiellese ‘n-gac-àssë e cioè en-kaké-ein ‘ diportarsi male in; omettere, trascurare; avere noia, indolenza’ nel vocabolario del Rocci.
   
     




[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003

[2] Cfr. Buzzelli-Pitoni. Vocabolario del dialetto avezzanese, senza editore, 2002.

giovedì 2 luglio 2020

L’aglio romano.



  Il cosiddetto aglio romano è una pianta selvatica, piuttosto rara, che cresce in luoghi incolti, sassosi  ma su suolo limoso-argilloso, fresco in profondità.  Attualmente non è presente nella vasta area composta da Lazio-Abruzzo-Molise-Umbria-Marche-Lombardia-Valle d’Aosta-Puglia-Lucania-Calabria-Sicilia-Sardegna. E’ presente in Campania, nella valle dell’Ufita, e in Toscana. E’ presente, ma come avventizia, in Piemonte, Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia[1]. 

   Quindi il nome di aglio romano è piuttosto strano, non attecchendo la pianta né nel territorio romano né nel Lazio.  Qualcuno osserverà che quando comparve quel nome, la pianta era presente, magari in abbondanza, nella zona di Roma.  E’ la stessa situazione verificatasi per il toponimo Cepagatti-Pe che deriverebbe dall’espressione latina cepa gatti ‘cipolla del gatto’, altro nome dell’aglio romano, in dialetto locale cepaiattë.  Ma la rarità di questo tipo di aglio sembra essere dovuta, più che alla temperatura media di un luogo, che può facilmente variare di epoca in epoca, alla natura particolare del terreno, che cambia più difficilmente.  

   La piantina è nota anche come agli-porro (Toscana), rocambola ‘Veneto’, rocambola romana (Italia), ulpicio (Toscana).  Ora, agli-porro non è altro che una tautologia, rocambola si ritrova tale e quale nel fr. rocambole che il mio vocabolario traduce con ‘aglio spagnolo’, un altro tipo d’aglio che non so quale sia. Comunque il termine è il ted. Rocken-bolle  il cui secondo membro -bolle significa 'cipolla'. Il primo, che forma una tautologia, deve essere parente dell'ingl. rock 'pietra, roccia, gemma'. Rocambola romana è una specie di tautologia, dato che il secondo termine, in forma di aggettivo, è già presente, appunto, nella denominazione aglio romano.  Resta ulpicio che sembra un po’ strano ma che in realtà è il lat. ulpic-u(m) ‘sorta di porro selvatico’.

    Ma non abbiamo però spiegato perché l’aglio romano ha quel nome.  Esclusa la considerazione suddetta, e cioè che in tempi lontani magari esso era frequente nella campagna romana, non ci resta a mio parere che gettare uno sguardo sulla  radice di lat. rum-a(m) ‘mammella’ (una rotondità) oltre a ‘stomaco, gola’.  Radice che altri hanno tratto in ballo, giustamente, per indicare lo stesso colle del Palatino dove sorse la prima Roma fatta di capanne.  A Luco dei Marsi la rumm-èlla  è la ‘mammella’ e un monte vi è chiamato Rom-an-èlla.  Nel dialetto di Gallicchio-Pt in Lucania il nome masch. rùmm-ëIë significa ‘pietra di forma rotonda’[2]. In italiano il romano è il peso scorrevole di forma rotondeggiante del braccio della stadera, e il nome è fatto derivare dall’arabo rummān ‘melagrana’, per via della somiglianza.  Ma io preferisco  ricondurlo alla radice suddetta  per ‘rotondità’ entro i cui confini comunque potrebbe stare benissimo anche la melagrana araba.