lunedì 24 dicembre 2018

Ambasciata


  
   La solita parola dall’etimo tormentato dai linguisti, solo perché, a mio avviso, essi non hanno imboccato la strada giusta per scoprirlo. E’ una questione di metodo e i dialetti danno, come sempre, un valido aiuto. Più voci vernacolari si imparano, si osservano, si spiegano e più diventa meno difficile arrivare ad un etimo almeno convincente. La possibilità di restare ingannati, infatti, è sempre dietro l’angolo, data la spiccata tendenza delle parole a camuffarsi sotto mentite spoglie. Sotto sotto, comunque, opera sempre il pregiudizio della diversità dei significati d’origine di ogni radice, di cui ho parlato nell’articolo Gli inganni tessuti dalle parole stesse, a cui tutti purtroppo abboccano.

  Proprio in quell’articolo pesente del mio blog, a cui rimando, riporto la voce dialettale di Gallicchio-Pt.  m-baš-à (anche m-basci) ‘aggiogare’, il cui significato di base è quello di ‘congiungere, collegare, unire’, come lì faccio notare. Il calabrese ammas-àre, m-bas-àre[1] ‘socchiudere, far combaciare’  da un precedente *im-basi-are, connesso giustamente con lat. basi-are ‘baciare’ (ritenuto quest’ultimo di origine celtica), evidentemente circolava già su suolo italico ad indicare un ‘collegamento, un contatto’ tra due cose o animali, come nel significato di ‘aggiogamento’, o di ‘contatto’ tra due persone attraverso le labbra, in segno di affetto.  E’ bene notare che l’it. com-baci-are non può essere considerato, senza nessun tentennamento, un derivato diretto del lat. basi-u(m) ‘bacio’; quello che si può asserire con certezza è che ambedue le voci sfruttano la stessa radice. Il significato di ‘bacio’, insomma, non è originario né basilare, come quello di ‘unione, connessione, contatto’.

  A questi esempi va aggiunto anche quello della voce maremmana im-basci-ata[2]  ‘carovana di muli e cavalli che trasportano carbone o altro’, del laziale ammaššata[3] ‘gregge di pecore’ e del marsicano (a Castellafiume-Aq.) mmasciata ‘squadra di muli e cavalli’, evidentemente in marcia per il trasporto di qualcosa.  Ora, sia l’idea di “squadra, gruppo” sia quella di “fila”, nel senso di animali che procedono l’uno dietro l’altro, costituiscono un agglomerato, un aggregato, una compagnia, concetti che possono fare capo benissimo a quello di ‘colleganza, insieme, unione’ esprimibile dalla radice in questione.  Ma esiste anche il marsicano (a Trasacco-Aq.) ‘m-basci-ata che, oltre a significare ‘ambasciata, comunicazione ufficiale’ si riferiva un tempo alla tradizione di sbarrare la strada alla sposa che, appena uscita di casa, si dirigeva verso la chiesa per celebrare il matrimonio.  Le sue amiche le ponevano davanti un lenzuolo, o più lenzuoli, che venivano tolti allorchè lo sposo pagava il pedaggio con monetine e confetti lanciati in aria.  Tale usanza veniva detta anche sbarrata, parata, catena.  Sia nel caso in cui due o più amiche reggevano un solo lenzuolo, dall’uno e dall’altro dei capi, sia quando più lenzuoli venivano annodati tra loro sempre sorretti da due o più amiche, si realizzava una sorta di collegamento, di impedimento, sbarramento , chiusura, catena, parola che ben rende l’idea, espressa anche dalla su riportata radice BAS-, che nel dialetto lucano di Galliccgio-Pt. ha prodotto il significato di ‘aggiogare’ e in calabrese quello di ‘combaciare, socchiudere’. 

     L’it. ambascia, di etimo incerto, a me risulta invece molto chiaro. L’ambascia significa originariamente ‘difficoltà di respiro, cioè letteralmente un’angustia o angoscia, termini che rimandano etimologicamente all’azione di ‘stringere’ espressa dal lat. ang-ere ’stringere, soffocare’. L’idea di “stringere” è molto simile a quella di “serrare, legare” che abbiamo incontrata più sopra nella voce dialettale di Gallicchio-Pt. che suona m-baš‘aggiogare’.

   Come ben si è visto, allora, la radice in questione dà origine a diverse parole nelle varie lingue e dialetti, con significati spessissimo molto lontani tra loro, tanto da indurre i ricercatori ad individuarne etimi particolari per ciascuna di esse, ma non è così, perché il loro significato di fondo è sempre lo stesso.
   
   Infine siamo arrivati alla parola ambasciata ‘delegazione diplomatica in un paese straniero e sua sede’ la quale, formalmente, è similissima o uguale a quelle precedenti, solo che di primo acchito i suoi diversi significati, sopra indicati, non sembrano illuminarci circa il suo etimo, in base a quello che abbiamo detto per esse. Il parere della maggior parte dei linguisti, credo, è che essa abbia a che fare con un termine di supposta origine gallica latinizzato da Cesare in ambact-u(m) ‘servo’. Nel latino medievale ambactia e ambascia significavano, appunto, ‘servizio’.  Ora questo valore mi sembra piuttosto generico e soprattutto non spiega il motivo per cui la parola è passata a designare il particolare significato di ‘delegazione diplomatica’.   A me salta agli occhi la funzione sostanziale di un’ambasciata, nonché dell’ambasciatore, che è quella di tenere rapporti e contatti sia col governo della madrepatria che rappresenta, sia col governo del paese ospitante. E’ una vera e propria funzione di collegamento, e l’ambasciatore è il più alto ufficiale diplomatico che rende possibile il collegamento.  Anche il significato di ‘messaggio, commissione’ che la parola spesso assume, è caratterizzato dalla presenza terza di un intermediario cui è affidato l’incarico dell’ambasciata. A Trasacco-Aq. la parola assume anche il valore di ‘ruffiano’[4], il quale non è altro che un individuo, spesso losco, che favorisce l’incontro tra due persone in un affaire amoroso. E’, insomma, un mezzano. La parola cade, allora, dalle stelle alle stalle. In questo caso i linguisti diranno che il termine è dato da un uso metaforico e dispregiativo di ambasciatore, perché, ancora una volta, sfugge loro il vero etimo che è alla base dei due significati i quali, non derivano l’uno dall’altro, ma attingono al significato di fondo, valido per ambedue.  Del resto anche il termine maremmano im-basci-ata ’carovana di muli e cavalli’, insieme a quello marsicano (Castellafiume) di  mmasci-ata ‘squadra, fila, di muli e cavalli’, dà l’idea dei membri della legazione inviata  in un paese straniero. Nel Dizionario etimologico-semantico della lingua italiana (DESLI)[5] si sostiene che la parola deriverebbe da un supposto *im-bassiare ‘portare in basso’ riferito al pastore-messaggero che scendeva a valle con i suoi animali per compiere servizi importanti.

   Il lat. leg-at-ion-e(m) ‘legazione, ambasceria’ ha la stessa radice di lat. leg-e(m) ’legge’. Non voglio qui discuterne l’etimo che è abbastanza incerto, ma a me pare che ci sia stato almeno un incrocio tra la radice di lat. lig-are ‘legare, e lat. lēg-are ‘delegare, affidare, mandare come ambasciatore, luogotenente’.  Questa mia supposizione è in qualche modo confermata dal verbo lat. ob-lig-are che significa ‘legare, legare insieme, chiudere, obbligare, ecc.’ ma anche, giuridicamente,  ‘obbligare a termini di legge’ come, sempre giuridicamente, il lat. ob-lig-at-ion-e(m) indica il ‘rapporto tra creditore e debitore’ o anche l’ ‘ipoteca, cauzione’. 

   Mi pare che anche il benemerito e dottissimo Mario Alinei abbia tenuto sì conto dei vari significati che la parola ambasciata[6] e varianti assumono nei dialetti ma non abbia indicato quello che a me pare il significato di fondo, cioè ‘legame, congiungimento’, il quale è direttamente presente sotto i significati di ‘branco, gregge, mandria’, di ‘faccenda, servizio, commissione’, e di ‘paraninfo, mezzano’, quelli più evidenziati da lui.  Probabilmente l’ultimo significato relativo all’usanza antica di Trasacco-Aq. di fermare la sposa con la suddetta catena di lenzuoli  gli sarebbe stato difficile spiegare, senza la basilare idea di “legame” di cui sopra, espressa dalla radice in questione.  Legame che sostiene con molta naturalezza l’idea di “branco, armento”, in quanto complesso di animali in movimento o meno, l’idea di “commissione, servizio” (che in fondo è un ‘mettere insieme’ come nell’it. commettere ’incastrare, combaciare, far combaciare, affidare, compiere, ecc.’) e quella di paraninfo, ruffiano, il quale è chiamato, appunto, anche mezzano.  L’ambasciata (originariamente ammasciata) nel significato particolare di ‘servizio del norcino’ che contemplava l’uccisione del maiale e la lavorazione delle sue carni, potrebbe essere anche il risultato di un incrocio con l’it. ammazzare, ammazzata. 

   Ribadisco, in chiusura, che non si può continuare a dare etimi di una parola senza prima aver analizzato il maggior numero possibile di voci  simili, soprattutto quelle comparenti nei dialetti.  Riconfermo anche la dichiarazione fatta altrove che se si conoscessero per bene i dialetti, non dico di tutte le regioni d'Italia, ma almeno quelli della propria regione (cosa però in pratica impossibile, data la mancanza di opere esaustive per ogni dialetto o parlata) gran parte degli etimi, soprattutto quelli incerti e oscuri, troverebbero la giusta  soluzione. 
 






[1] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET Torino 1998

[2] Cfr. Alinei-Benozzo, Dizionario etimologico-semantico della lingua italiana (DESLI), Ediz. Pendragon, Bologna 2015.

[3] Cfr. Alinei-Benozzo, cit.

[4] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà  A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2002.

[5] Cfr. Alinei-Benozzo, cit. p. 47-48.





domenica 16 dicembre 2018

Gli inganni tessuti dalle parole stesse, a cui purtroppo tutti abboccano.



Nella lingua sarda, non ricordo in quale dialetto, la voce imbalzu presenta il valore di ‘companatico’ ma anche quello di ‘impasto’. Sardo imbaltzare significa ‘ammaltare, impastare la malta’ oltre che ‘mangiare (insieme al pane) come companatico’: cfr. l’espressione sarda imbalzare su pane cun buttiru ‘mangiare il pane con burro’. A prima vista i due concetti non sembrano correlati vicendevolmente, ma basta leggere l’interessante  articolo del mio blog Il flauto di Pan (10.2.15) in cui si mostra che il significato di fondo della radice pan è ‘stare insieme con’, e ‘miscuglio, impasto’, radice che ritorna nell’it. companatico, per cominciare a pensare che anche in questo caso la radice balt/palt doveva avere lo stesso significato di ‘stare insieme, unito’. In quell’articolo facevo notare come l’it. companatico si dovesse intendere non come derivato dall’espressione lat. cum pane ‘col pane’, come tutti intendono, ma come ‘(qualcosa che si mangia) insieme con altro’. In sardo esiste anche im-pan-igu ‘companatico’.

    Ora, l’aggettivo emiliano imbalzà, uguale formalmente alla suddetta voce sarda, ha il significato di ‘impastoiato’ (detto di cavallo) e di ‘impacciato, intrigato, incapace’ (detto di persona).  L’aggettivo è fatto derivare da balza, nel significato di ‘pastoia’[1].  C’è dietro il lat. balte-u(m) ‘cintura, bandoliera, striscia’. Nel nostro dialetto di Aielli ed in altri ricorreva, ai bei dì andati, la voce vàvëzë ‘legaccio per covoni’ ricavato da un mazzetto di steli di grano. Una pecora o una capra ammàvëzata (da avvavëzata) indicava uno di questi animali rimasti bloccati in qualche cengia o spuntone di roccia, dove era stato abbastanza facile scendere ma difficile o impossibile risalirne, sicchè l’animale era come impedito, appunto, e incapace di trarsi d’impaccio da solo.  Taluni ravvisano una radice mediterranea *palt ’fango’ alla base dell’it. pantano, ma io penso che essa non sia tale, ma sia la stessa di sardo imbalzu ‘impasto, ecc.’ e di aiellese vavëzë ‘legaccio per covoni’; il fango, infatti, non è che un’altra forma di ‘impasto’.  Dietro i significati diversi della superficie di questi termini si ritrova sempre quello più profondo e generico di ‘ connessione, unione, ecc.’ 

   Ora, forte di queste considerazioni, mi è sembrata strana l’etimologia che tutti danno di it. pastoia, un legaccio per le zampe degli animali, fatto derivare da lat. past-u(m)’pascolo’, lat. past-ori-u(m) ‘pastorale’.  Esiste infatti il toscano pastoia ‘miscuglio di acqua e farina o crusca’ per alimento di pulcini, uccelletti, ecc. che convalida il ragionamento fatto precedentemente da me che mette in stretta relazione il concetto di “miscela, miscuglio” con quello di “legame, legaccio”.   Non è in effetti razionale, se ben si riflette, derivare la pastoia=legaccio dall’idea di “pascolo” che è tutt’altro rispetto a quella di “legaccio” ma è invece molto razionale, come abbiamo visto, rapportare l’idea di “miscuglio” a quella di ‘legaccio’.  La radice di pastoia= miscela rispunta ancora, secondo me, nell’it. pastr-occhio ’intruglio, pasticcio’.  Nel dialetto lucano di Gallicchio-Pt il sm. pastùrë vale anche ‘panzerotto salato con ripieno di salsiccia, soppressata, uovo sodo e toma, tipico del periodo pasquale’[2], una bella mistura di ingredienti, insomma!
 
  In dialetti abruzzesi si trovano le varie voci pasë, pàs-ulë, pas-òlë[3] col  significato di ‘laccio, cappio’ da collegare, credo, col serbo-croato pas ‘cintura, cinghia’ e con l’it. pass-ante, così chiamato evidentemente non perché attraverso di esso passa la cinghia, come tutti chiosano, ma perché, ancora una volta, la radice si prestava ad indicare sia il ‘cappio’, e quindi il passante (che è una specie di piccolo cappio) attraverso cui passa la cinghia, sia la cinghia stessa.  Nel dialetto di Trasacco-Aq.  la pastora[4] significa, oltre che ‘pastoia’, anche ‘cinghia di cuoio per calzoni’ e ‘striscia di cuoio usata dai barbieri per affilare il rasoio’, significati che nulla hanno a che fare col pascolo. Sempre nel dialetto di Gallicchio sopra citato la voce pašë (anche pascë) significa ‘giogaia’, la pelle pendula nel collo dei bovini che assomiglia a una striscia, una benda, un panno, appunto.  La radice, in un significato alquanto diverso in superficie, ricompare, sempre in questo dialetto, nel verbo m-baš ( anche m-basci) ‘aggiogare’, che è fondamentalmente un congiungere, un legare. La labiale sonora /-b-/ è dovuta all’assimilazione della labiale sorda originaria alla nasale sonora /m/,  a sua volta proveniente dalla nasale /n/.

   Un'altra interessante voce, sempre nel dialetto di Trasacco-Aq, è il verbo pastëra’ (variante: pastora’) che, secondo la definizione che ne dà il Lucarelli, vale “guidare e sorvegliare il gregge al pascolo, al fine di impedire che sbandi ed invada gli eventuali seminati che costeggiano il tratturo o la strada di campagna o l’area in cui sta pascolando”.   Ora, secondo me, la spiegazione  sarebbe       perfetta, anche dal punto di vista etimologico, se non vi fosse l’accenno al pascolo. Infatti il verbo viene riferito anche al “cane che bracca una selvaggina, onde scovarla, seguendone le tracce […]”, indicando fondamentalmente l’azione di stare addosso, attaccato, appiccicato a qualcosa, in questo caso alla selvaggina, che viene inseguita e braccata, quasi allo stesso modo del pastore che sta addosso al suo gregge, lo segue e sorveglia, senza che il verbo faccia necessariamente riferimento al pascolo. Allora ne consegue che anche l’it. pastore non può essere inteso come nome d’agente di lat. pasc-ere ‘pascolare’ e cioè come se esso significasse ‘colui che pascola (il gregge)’, mentre è, più propriamente, ‘colui che segue, sorveglia, bada (al gregge)’, è insomma una sorta di  attaché al gregge.  L’idea di base della parola in effetti è quella di “essere legato” come l’animale impastoiato.  Naturalmente fra i compiti del pastore c’è anche quello di pascolare le pecore il quale, data la genericità estrema del significato originario e la mutevolezza dell’assetto e del contesto linguistico in cui di volta in volta una parola viene a trovarsi attraverso i molti millenni della sua esistenza, può anche risultare l’unico accettabile in una determinata lingua, in un determinato periodo.

    L’idea del “mescolare, imbrattarsi (di letame di fango, ecc.)”, rispunta bellamente nel verbo mpasturà (o riflessivo ‘mbasturàsse) del dialetto[5] di Avezzano-Aq. Anche qui naturalmente gli autori non possono fare a meno di ricondurre la voce al povero pastore che solitamente, come il contadino del resto, non poteva mantenersi pulito al lavoro.  Questo è un peccato veniale per loro, visto che gli stessi tipi di errori li commettono anche grandi linguisti.

     Anche il verbo tedesco pass-en ‘adattare, adattarsi, combaciare, combinare’ deve derivare da questa radice che indica lo stare unito, insieme, ecc. come anche il ted. Pasch ‘pariglia (nel gioco dei dadi)’. L’it. com-passo  messo solitamente in rapporto con un supposto latino parlato *com-pass-are ‘misurare a passi’ a mio parere deve almeno essere entrato in contatto con la stessa radice di cui sopra, se si pensa che lo strumento è composto di due aste incernierate tra loro, che costituiscono quindi una combinazione, un collegamento, uno strumento, un congegno.  Del resto il verbo ingl. compass significa anche ‘complottare, tramare’, in linea col significato di ‘intreccio’ e simili della radice.

   Nel dialetto[6] di Rocca di Botte-Aq esiste una strana voce che suona paste-natùru dal significato di ‘terreno umido impregnato d’acqua’. Essa non può avere a che fare con l’omonimo abruzzese[7] paštënatùrë ‘scasso di terreno da piantare a vigna’, dal lat. pastin-u(m) ‘zappatura, scasso’, ma credo sia un termine composto di due membri tautologici col significato più o meno di ‘terreno umido, poltiglia’ di cui il primo fa capo, a mio avviso, alla radice di pasta più sopra analizzata e l’altro ad una voce simile a quella di gr. nátōr, oros ‘che scorre’ riferito all’acqua.  Non c’entra nulla nemmeno l’altro termine dialettale pastënatùrë ‘attrezzo di legno o ferro appuntito, per praticare buche nel terreno dove piantare una nuova vigna’.  In alcuni altri articoli ho avuto modo di far notare come siano piuttosto abbondanti dalle nostre parti le parole riconducibili al greco, molto probabilmente diffuso prima di quello magnogreco.

   In serbo-croato pas significa anche ‘cane’, termine che puntualmente rispunta a mio parere nell’ espressione esclamativa passa via! che nei nostri paesi della Marsica viene rivolta solitamente al cane perché si allontani. Esiste anche la variante paschë a llόchë[8] ‘passa via!’, letteralmente ‘passa là!’.  C’è da pensare che il verbo si sia incrociato con l’imperativo báske  vaidi gr. básk-ein ’andare’.  Si può giustamente asserire che nulla avviene nella lingua senza un motivo.

   Il legame, in genere una fune, al piede di un animale serviva ad impedire che esso si allontanasse dal terreno dove era stato messo a pascolare, ed andasse magari a fare danni alle coltivazioni vicine, in genere più gustose e attraenti per gli animali.  Dico questo per far capire meglio le cose, a chi non conosce bene il mestiere antico del contadino.

   Colpo di scena!  Riflettendoci sopra, ho notato che in serbo-croato il verbo pas-ti ‘pascolare, pascere’ e il verbo pasa-ti ‘cingere’ non sono formalmente molto diversi tra loro che richiamano l’uno il sostantivo paša ‘pascolo, pastura’ e l’altro il sostantivo pas ‘cintura, cinghia’. Ora, specie se si tiene presente l’espressione sarda sopra citata imbalzare su pane cun buttiru ‘mangiare il pane con burro’ dove imbalzare vale propriamente ‘impastare’, si può dedurre che anche il pascere è un “cibarsi” e un “mangiare”, azione che assomiglia molto a quella di  “impastare”, dato che il bolo alimentare, ad esempio, risultato dalla masticazione, può essere inteso come un perfetto ‘impasto’ di cibo triturato e mescolato alla saliva. D’altronde anche il lat. past-u(m), proveniente dai verbi pasc-ere ’pascolare, nutrire, mangiare’ e deponente pasc-i ‘nutrirsi, mangiare’, aveva il significato di ‘pasto, cibo’ sia in riferimento agli animali che agli uomini.  Una cosa interessante è che in greco si incontra l’aggettivo verbale past-όs che ha vari significati riconducibili, a mio avviso, a quello di fondo di ‘mischiare, unire, impastare’.  Esso infatti significa ‘cosparso (di sale)’, al plurale neutro pastá ‘sorta di farinata’ cioè ‘farina impastata con acqua’ con cui deve essere apparentato il gr. pastḗ ‘pasta’ che io non trovo nei miei vocabolari e che avrebbe dato origine al tardo lat. past-a(m) ‘pasta’.  L’aggettivo significa anche ‘ricamato, intessuto’, concetto  che secondo me si riallaccia al significato di ‘intrecciare, mischiare, ecc.’. L’aggettivo, sostantivato,  ha il valore di ‘cortina ricamata’ o ‘velo’: si tratta sempre di un tessuto o panno C’è un altro termine greco per ‘impasto, pasta, massa d’argilla’ che suona phẏr-ama e che deriva dal verbo phẏrá-ein ‘intridere, impastare, mescolare’.  Il lat. mass-a(m) valeva anche ‘impasto, pasta’[9] o ‘gran quantità, mucchio, ecc.’, il quale ha poi finito col prevalere in italiano. Ma ricordo che quando ero ragazzo, e mia madre portava a cuocere il pane in un forno vicino casa, la fornaia verso le 3 o 4 del mattino l’avvisava dalla strada ad alta voce di cominciare ad ammassare , cioè di preparare l’impasto nella madia, appunto, per poi suddividerlo in una decina di pagnotte, che qualche ora dopo venivano trasportate al forno su una tavola dal fornaio stesso. E così mi viene proprio da dire che nella lingua tutto si tiene, nulla in genere va perduto ma continuamente riciclato.

   I linguisti si lasciano ingannare perché sono anch’essi vittime soprattutto di un pregiudizio, quello di credere che ogni radice sia nata con significati e motivazioni diversi tra loro e non per indicare l’unico concetto genericissimo (quello di anima, vita, forza. ecc.) che l’uomo, passato attraverso il periodo preistorico dell’animismo, riuscì a concepire e che piegò successivamente e lentamente ad indicare la varia realtà fisica e psichica che andava scoprendo con l’aiuto soprattutto dell’incrocio delle parole.  Il fenomeno è di notevole importanza perché a mio avviso esso coinvolge non solo una lingua, ma tutte.  Per questo esso andrebbe studiato meglio da parte degli addetti ai lavori.



[1] Cfr.  Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET Torino, 1998.

[3] Cfr. D.Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq  2004.

[4] Cfr. Q. Lucarelli, “Biabbà”, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq  2003.

[5] Cfr. Buzzelli-Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese , (senza indicazione dell’ editore), Avezzano 2002.

[6] Cfr. M. Marzolini, “…me ‘nténni?”, Arti grafiche Tofani, Alatri-Fr. 1995.

[7] Cfr. D. Bielli, cit.

[8] Cfr. Bielli, cit.

[9] Cfr. spagn. masa ‘impasto’ e greco maza  ‘focaccia, pane, pasta, impasto, massa ’.




martedì 11 dicembre 2018

Mar Mediterraneo. La questione del nome, mai sollevata da nessuno.





Le persone di cultura medio-alta, ma non solo, affermano che il nome del Mediterraneo si spiega col l’aggettivo lat. mediterrane-u(m) che secondo loro significherebbe ‘in mezzo alla terra o alle terre’ cioè ‘circondato da terre’, aggettivo composto dalla radice di lat. medi-u(m) ’medio, mezzo’ e dal termine lat. terr-a(m) ‘terra’.  Il problema sorge quando ci si accorge che il latino classico con mediterrane-u(m) indicava non già il mare che sappiamo ma un paese, una località ecc. situata all’interno di una regione, cioè lontano dal mare. La denominazione col significato di ‘circondato da terre’ cominciò ad apparire ben successivamente alla caduta dell’impero romano, quando l’aggettivo evidentemente aveva assunto il significato che mantiene tuttora. 

 Io, che solitamente seguo strade diverse da quelle più battute, sono propenso a credere che una strana espressione medi terraneo oppure medi tyrrenio /medi tyrranio esistesse già dall’epoca precedente a quella classica in qualche dialetto locale ad indicare il mar Tirreno o il mar Mediterraneo, almeno quello occidentale, sulla scorta di due considerazioni: il termine medi doveva avere il significato di ‘mare’ se si pensa che Meti, divinità marina, era nella mitologia la sorella o la figlia di Teti, altra famosa divinità del mare, madre di Achille, nome, questo di Teti, molto simile all’albanese deti ‘mare’. Contrariamente a quello che comunemente si pensa il mar Tirreno inizialmente doveva comprendere almeno tutto il Mediterraneo occidentale se è vero, come è vero, che la città di Tarragona sulla costa mediterranea della Spagna aveva l’appellativo di tyrrhenica.  Si sostiene che il mar Tirreno avrebbe preso la denominazione dai Tirreni/Etruschi, i quali secondo i greci sarebbero giunti in quella regione dalla lontana Lidia in Asia Minore al seguito dell’eroe eponimo Tirreno.  Ma questo racconto a mio parere dovrebbe essere stato innescato dalla coincidenza del termine Tirreni, già esistente autonomamente e derivato dal nome del mare che bagna la regione, con quello dell’eroe della mitologia.

  Un altro Tirreno, figlio di Diomede, avrebbe dato il nome, secondo alcuni, alla città di Trani posta in un’insenatura della costa pugliese. Esso in effetti aveva diverse forme nell’antichità greca, tyrrhén-os/tyrsén-os e dorico tyrrhán-os/tyrsán-os. La forma tyrrán-os avrebbe potuto facilmente trasformarsi in Trani.  Ora, da documenti medievali risulta che la voce pugliese trana/traina ha il significato di ‘insenatura nella costa adatta alla pesca’[1]. Il concetto di “insenatura” è prossimo a quello di “cavità” o “profondità” e così esso avrebbe potuto generare anche quello di “mare” e riferirsi al mar Tirreno.  C’è inoltre la possibilità che l’aggettivo medi-terrane-u(m), pronunciato meri-terrane-u(m) per dissimilazione della /d/ rispetto alla sguente dentale /t/ come avviene nel lat. meri-di-e(m) ’mezzogiorno’, abbia favorito il significato di ‘mare terraneo’, riferito magari al mar Tirreno.  La pronuncia mère per “mare” è diffusa in diversi dialetti centro-meridionali. D’altronde la parola suona Meere in tedesco, ant. ingl. mere ‘stagno, laghetto, pozzanghera’, ingl. mire ‘pantano, fango’.  La denominazione suddetta si sarà poi reincrociata   con “mediterraneo” quando questa forma ufficiale, col suo nuovo significato, è passata ad indicare il mare che conosciamo.

In toponomastica si incontrano laghi chiamati con termini che contengono la radice di lat. medi-um ‘mezzo’ presente nel nome Mediterraneo come il lago di Mezz-ano, vicino Bolsena e il lago di Mezz-ola, vicino al lago di Como. Anche il nome del paese di Mezzano-Tn situato nel lato meridionale della conca di Primiero è, a mio avviso, una primordiale denominazione della conca stessa, e non indicherebbe il fatto che il paese si trova tra Imer e Siror[2].   Il nome di Mezzo-lago, frazione del comune di Ledro, sempre nel trentino, non può essere spiegato quindi come proveniente dall’espressione latina in medio lacu ‘in mezzo al lago’[3] come viene affermato in un sito web, a causa della incongruenza di questo significato con la posizione geografica del luogo che è sulla sponda del lago. La spiegazione per me più realistica è quella che considera il nome un composto tautologico i cui due membri hanno sempre il significato di ‘lago’.      

  Gli incroci tra nomi sono abbastanza ricorrenti: basti pensare che il mar Ionio, il cui appellativo sarebbe dovuto , sempre secondo la mitologia, a Ionio figlio di Dirraco (da cui il nome di Durazzo in Albania) che sarebbe stato ucciso accidentalmente da Ercole che ne gettò il corpo in quel mare. Ora in lingua albanese  la denominazione mare Ionio (deti Jonë) assume tutt’altro significato, quello di ‘mare Nostro’.  E’ peraltro certo che in italiano essa avrebbe sfoderato un altro significato se il termine si fosse incrociato con uno della nostra lingua.





[1] Cfr.Autori vari,Dizionario di toponomastica , UTET, Torino 1997, sub voce Trani.

[2] Cfr. Dizionario di toponomastica, cit.





sabato 8 dicembre 2018

Cu' tte zappa 'n gape! (Cosa ti salta in testa!)




Non avevo mai riflettuto su questa espressione dialettale usata ad Aielli-Aq, il mio paese, ad Avezzano[1]e altrove nella Marsica. Sarebbe di certo forzato farla derivare dal verbo zappa’ (it. zappare) perché una zappata in testa, ben assestata, potrebbe solo spedire velocemente  al creatore.  In questi casi, a mio parere, bisogna lasciarsi guidare da un certo fiuto per poi verificare se esso ci abbia ingannato o meno.

L’italiano zappa proviene da un tardo latino sapp-a(m) e viene in genere riportato allo strato cosiddetto mediterraneo precedente all’arrivo delle lingue indoeuropee, ma io non condivido questa frattura tra strati che invece erano tra loro interdipendenti. Comunque la radice in qualche dialetto, come quello vicentino[2], significava sia lavorare la terra con la zappa che lavorare il legno con l’ascia, facendoci capire che il suo significato poteva rientrare in quello di ‘grattare, raschiare, scavare’.  L’it. zappa, infatti, significa anche ‘trincea bassa e stretta, scavata un tempo in prossimità delle fortificazioni nemiche durante le operazioni di assedio’(cfr. dizion. De Mauro) .  Quasi lo stesso significato si riscontra nell’ingl. sap ‘trincea d’avvicinamento’ fatto derivare però dall’italiano attraverso il fr. sape ‘trincea, fosso’. In tedesco si ha Sappe ‘trincea’.  Questa presenza diffusa nell'area germanica secondo me è la spia che la parola doveva essere lì presente ab antiquo prima che arrivasse il presunto influsso dal latino. 

Questo fatto non aiuta però ad individuare l’etimo che cerchiamo. Io penserei all’ingl. zip che ha vari significati, sia come verbo che come sostantivo, ruotanti intorno al significato di ‘energia, forza, scatto, balzo, movimento veloce, ecc.’ e che talora può essere sostituito dalla variante zap ‘risuonare di uno sparo’ quasi simile a zip ‘sibilo di una pallottola (come abbiamo imparato già quando leggevamo i fumetti di Tex Willer).  Ma ci sono anche espressioni equivalenti come,ad esempio, to zip (or zap) a sauce with pepper ‘dare un sapore piccante al sugo con del pepe’: i due verbi, insomma, indicherebbero l’azione di dare un sapore “forte” al sugo.  Si ricorda che la pronuncia della /z/ in queste due parole simili corrisponde a quella di una /s/ sonora non di un’affricata come in italiano.

Buon ultimo arriva lo zapp-ing o channel zapp-ing ‘il passare freneticamente da un canale televisivo all’altro’ in cerca di un programma di proprio gradimento.  Che è chiamato anche channel hopp-ing, letteralmente ‘il salto dei canali’. E siamo così arrivati al significato di salto, scatto, balzo, che fa per noi. Qualcosa che ti zappa ‘n gape non è altro che qualcosa che ti salta in testa.  La radice viene certamente da molto lontano, rimasta incapsulata in questa sola espressione dialettale.