sabato 28 luglio 2018

Universo


                                                     
                                                       
                                                      
  Cominciai a riflettere su questa parola da quando, adolescente di 12 anni già alle prese con l’amato latino, mio fratello che frequentava gli ultimi anni del Liceo mi traduceva la scritta posta sulla sommità della Porta Jannëtèlla la quale suonava sumptibus universitatis erecta, cioè ‘(Porta) costruita a spese di tutta la cittadinanza’.  La traduzione non era perfetta perché mio fratello non sapeva che nel latino medievale la parola universitat-e(m) aveva assunto il valore giuridico-politico di ‘municipio, comune’ e così la intendeva nel senso di ‘insieme dei cittadini’ e simili. 

    Ora, l’aggettivo latino univers-us, a, um  significa ‘intero, tutto, tutto quanto’ e, al neutro singolare o plurale, indica ‘tutte le cose (del mondo), l’universo’.  Fin qui è tutto chiaro, ma l’etimologia a mio avviso non lo è nonostante tutti i linguisti, credo, diano oggi più o meno questa spiegazione: uni-vers-us, cioè ‘rivolto (-versus, dal lat. vert-ere ‘volgere’) in una sola (uni-) direzione’ e, quindi, ‘tutto intero’.  Sinceramente questa spiegazione non mi ha mai soddisfatto perché la trovo alquanto artificiosa nel suo desumere il concetto di “intero, tutto” da quello di “unidirezionalità”. E in effetti tutte le parole latine che iniziano per uni- sono lontane dall’esprimere un’idea di “direzione” invece di quella costante  di “unicità”.  E’ allora chiaro, a mio avviso, che questa direzione è un’aggiunta insinuatasi surrettiziamente nella spiegazione, in quanto suggerita dal significato di ‘rivolto’ dato a vers-us. Il quale deve essere inteso allora diversamente dal solito, ma purtroppo la linguistica tradizionale ha qui le armi spuntate, non avendo fatto un salutare e purificante bagno nel fluido miracoloso e iridescente della linguistica che oso chiamare quantistica

   Ho accennato, infatti, nell’articolo Il termine latino “pectin-e(m)” e le sue varie significazioni che il lat. vers-u(m) ‘verso (di poesia)’ allude secondo me a un movimento lineare, ad una serie di “piedi” che formano l’insieme del verso. Non per nulla la parola significa in latino anche ‘solco, fila, filare’.  Non condivido pertanto l’etimo che lo vuole derivato dal lat. vert-ere ’volgere’, in quanto esso avrebbe indicato l’andare a capo (e quindi lo svoltare) nella prosa e soprattutto nella poesia. Nonostante la suggestione esercitata nel nostro cervello da questo significato di ‘svolta, voltata, girata’ che sembra il più naturale, il termine vers-u(m) in poesia doveva indicare una serie di elementi più piccoli, allineati uno dopo l’altro, e, all’origine, qualsiasi serie o insieme di qualsiasi cosa. Se accettiamo questo ragionamento, il più è fatto per arrivare ad una spiegazione più accettabile di quella canonica  dell’agg. lat.  uni-vers-us, a, um ‘intero, tutto, tutto quanto’.  Se la radice vers- indica il gruppo, l’insieme allora l’aggettivo corrispondente dovrà significare ‘relativo al gruppo, alla massa, totale, generale, intero, tutto’, come succede (ma non è certo) al lat. tot-us, a, um ‘tutto, intero’ il cui sostantivo, nell’area osco umbra, era touta  che indicava la ‘totalità (dei cittadini)’, cioè la ‘città’ o la ‘comunità’. La radice è presente anche nell’area germanica e baltica.

    L’agg. sostantivato, sia singolare uni-vers-u(m) che pl. uni-vers-a ha il valore di ‘universo’, come ho detto, in quanto ‘totalità, somma di tutte le cose esistenti, stelle, pianeti, ecc.’.  Anche in tedesco l’aggett. sostantivato All ‘tutto’ vale ugualmente ‘universo’.

    La parte iniziale uni- rimanda al lat. un-us, a, um ‘uno, uno solo’. La sua radice, però, come ho mostrato nell’interessante articolo del mio blog (aprile 2014) Il “municipio” ovvero il concetto di “unità” [], poteva indicare, oltre al concetto di “unità” anche quello opposto, ma sottostante e sottinteso , di “molteplicità” o di “gruppo, insieme”. Essa allora dovrebbe essere tautologica rispetto all’altra –vers- rafforzando il concetto di “totale” o di “totalità” del termine. Nei nostri dialetti (Avezzano, Luco)  si incontra la voce mund-ìnë, mond-ìnë, mont-ìnë col significato di ‘mucchio di covoni’ altrimenti detto cavallìttë[1]: uno dei tanti insiemi che anche la radice cavall- poteva esprimere. Ad Aielli la voce indicava un ‘mucchio di fieno’ e credo si sia incrociata con lat. mont-e(m) ’monte’.  In latino mund-u(m) esprimeva, oltre a ‘mondo, terra, universo’, anche ‘corredo d’abbigliamento, oggetti di toeletta’ e, collettivamente, ‘strumenti, attrezzi’, tutti significati che riposano su quello implicito di “gruppo, serie”. L’agg. mundus, a, um ‘pulito, elegante’ si sarà sviluppato dal significato di ‘ordine’ proprio degli insiemi ben disposti e connessi ?  E come non collegare il lat. mund-u(m) ‘sole’ (in Manilio) col ted. Mond ‘luna’, che in altro articolo del blog ho considerato espressione di un’idea di “luce”? E come si spiega il dialettale monnézza < mondezza? Essa non è altro che l’it. immondizia con l’aferesi della sillaba iniziale, favorita dal significato di ‘mucchio, cumulo’ della radice di mund-u(m) ‘insieme, ammasso, cumulo (di immondizia, come di ogni altra cosa). Ma potrebbe anche derivare direttamente da quest’ultimo significato.

    Secondo me la dice lunga il fatto che pure l’altro termine latino per ‘universo, mondo’ aveva anche il significato collettivo di ‘strumenti, attrezzi, oggetti di toeletta, corredo d’abbigliamento’, un insieme di oggetti, appunto.  E ad un insieme ben ordinato doveva alludere anche il gr. kósm-os ‘mondo, universo, ordine, ornamento, abbellimento, ecc.’.  

     Anche l’ingl. world ‘mondo, terra, universo’ credo rientri in quest’ordine di idee, nonostante l’etimo accettato da tutti, il quale parla di  ‘esistenza umana, età’. La parola, infatti, deriva dall’ant. inglese wor-uld, wor-old  inteso come ‘età, vita (-old) dell’uomo (wer-)’. L’ant. norreno è ver-öld. A me, francamente, sembra un po’ strano che da questo significato iniziale ‘esistenza umana’ si sia potuto passare poi anche a quello di ‘universo’. Sarebbe più comprensibile il movimento inverso. Ho pensato allora che il primo membro wor-, ver- non fosse altro che il secondo membro di uni-vers-o (ma senza l’ampliamento in –s), e che la seconda parte –old  non fosse che un originario –*ord dissimilato in –old per la presenza della /r/ nel precedente wor-, ver-, dissimilazione favorita anche  dal nuovo significato che il composto veniva ad assumere, una volta scomparsi dalla lingua i significati originari dei suoi componenti.  Di cui, il secondo, -ord appunto, doveva appartenere alla famiglia di lat. ordo,-inis ‘ordine, serie, disposizione ordinata, fila, rango, schiera, classe sociale, ecc.’. In ingl. esiste anche il termine order ‘ordine’ ma esso è piuttosto tardivo, proveniente dal fr. ordre ‘ordine’.   La radice di lat. ord-ine(m) deve essere in qualche rapporto con quella di lat. art-u(m) ‘giuntura, articolazione, membro’[2]

    L’ingl. world ‘mondo, universo’, più che essere riferito alla vita degli uomini sulla terra, doveva indicare all’inizio il sistema ordinato dell’intero universo (secondo una delle definizioni del Webster), ma anche qualsiasi altro insieme.  Ed è molto indicativo, a mio parere, il significato dato alla parola dai chiromanti, secondo il vocabolario Merriam-Webster.  Esso ruota intorno al valore di ‘falange, dita, parte della mano’[3]: un insieme, dunque, o un’articolazione!

    La radice della componente –ord è la stessa del lat. ord-iri ‘ordire, tessere, fare la trama’ con riferimento ai fili dell’ordito. Essa potrebbe essere la stessa del mongolo ordu ‘tribù, accampamento’ che a noi è arrivata, attraverso tramiti diversi (turco, lingue slave) col significato dispregiativo di orda, massa disordinata di soldati, che per la verità non era caratteristica dei guerrieri mongoli, sottoposti a severa disciplina. In turco la parola indicava l’ esercito. Quindi il suo valore di fondo doveva essere sempre quello di ‘insieme, popolo, massa, schiere, esercito’.

    Non si può escludere, però, che la seconda componente dell’a. ingl.  wor-old  rimandi ad un sostantivo simile l’ingl. health ‘salute’ collegato con ol. heel ‘intero, tutto, molto, ecc.’ se ol. heel-al significa ‘ universo’ in quanto “totalità”.  Si sarebbe avuta così una trafila *wor-hold> worold>world.  E non è escluso che il suffisso –al di ol. heel-al ‘mondo’ sia invece all’origine una componente tautologica del termine, da individuare nel ted. All  ‘ universo’, in quanto “tutto”, e nel ted. Welt-all 'universo'.

     Nelle lingue slave l'idea di "mondo" si è incrociata con quella di "luce"  la quale ha finito, anzi, con lo scalzare quella precedente di "totalità".  Il mondo è stato inteso, insomma, come il regno della luce: cfr. serbo-cr. svjet-lo 'luce'serbo-cr.  svijet  'mondo'.  Ma l'aggettivo sve 'tutto' e il sostantivo svjet-ina 'folla' fanno supporre che il sostantivo per 'mondo' originariamente non alludesse alla 'luce' ma alla 'totalità' delle cose esistenti. Anche nel greco moderno kósm-os significa ‘mondo’ e ‘gente’. In altri termini sia l’idea di “mondo, universo” sia quella di “folla, gente” fanno capo all’idea sovraordinata di “insieme, raggruppamento, totalità”.










[1] Cfr. l’articolo del mio blog Covone: etimologia (marzo 2016).

[2] Cfr. l’art. del mio blog Il termine “armento” […] del marzo 2014.

[3] Per il concetto di “mano” cfr. l’art. del mio blog Il “municipio” ovvero il concetto di “unità” (aprile 2014).



martedì 24 luglio 2018

Il termine lat. pectine(m) ‘pettine’ e le sue varie significazioni




   Diversi sono i significati di pectin-e(m) ‘pettine’ di facile comprensione, tenendo presente la forma standard di un pettine:1) strumento d’osso (oggi anche di plastica) per ravviare e rassettare i capelli; 2) strumento per cardare o tessere; 3) rastrello[1]; 4) plettro per “pizzicare” le corde della lira.  Le difficoltà cominciano con il significato di ‘pube’, la macchia di peli del corpo umano dall’ombelico in giù verso gli organi genitali.

   L’italiano obsoleto pettignone  ‘pube’ è un ampliamento del nome in questione, dal latino parlato *pectin-ion-e(m). Nel dialetto abruzzese, ma anche in altri del Meridione, si incontrano voci simili dal significato di ‘pube’, come pëttën-arë, pëttën-icchië[2].  Ora, Tullio De Mauro, ne Il dizionario della lingua italiana, sotto il lemma pettignone, dandone l’etimologia,  osserva che il nome alluderebbe all’aspetto dei peli del pube, volendo dire che essi assomiglierebbero ai “denti” del pettine.  Ma è mai possibile una cosa simile? Ammesso che il rapporto fra i due termini sia basato sulla somiglianza tra i due referenti, non posso assolutamente accettare che chi per primo usò la voce *pectin-ion-e(m) non sia stato in grado di trovare un termine di paragone meno vago e più concreto e credibile di quello di pectin-e(m) ‘pettine’.  E ce ne erano tanti, come cirr-u(m) ‘ciuffo’, lanug-in-e(m) ‘lanugine, pelame’ e gli stessi pil-u(m) ‘pelo, peli’ e vill-u(m) ‘vello, pelo’.  

   Allora bisogna dedurre che qualcosa non va nel ragionamento seguito da De Mauro e da altri, con tutto il rispetto dovuto ai linguisti di questo calibro. A mio parere la questione è questa: la somiglianza tra i significati di due parole corradicali può essere, diciamo così, estrinseca e superficiale o intrinseca e profonda. E’ superficiale quando, come nel caso in questione, essa è dovuta più che altro alla suggestione che la forma esteriore di un oggetto (il pettine) suscita nella mente di chi lo osserva il quale la ritrova, a volte solo vagamente, nell’oggetto indicato da altro nome corradicale (il pettignone).  Così facendo ci lasciamo guidare solo dal senso della vista che però non è alla base della formazione delle parole le quali sono essenzialmente un prodotto dell’attività intuitiva della mente, coadiuvata naturalmente da tutti nostri sensi. E’ un errore capitale credere che per ogni referente la nostra mente abbia creato un significato unico e specifico, quando invece essa procede, in questa attività, dall’universale al particolare, sicchè si verificherà che sotto un unico concetto generico si ritroveranno molti oggetti, anche molto diversi tra loro, con significato più o meno specializzato rispetto a quello generico a loro sovraordinato che, benchè sia all’origine e alla base delle loro specificità, tende a scomparire nel fondo delle parole dove dorme il suo sonno millenario.  Questo è il significato intrinseco e profondo dei vocaboli, il quale, per quanto non si imponga solitamente subito alla vista dell’osservatore, ne costituisce tuttavia la “radice” prima, benchè possa ancora rinviare a significati via via sempre più generici. 

   Ora, questo significato di fondo emerge chiaramente soprattutto quando ci è possibile confrontare tra loro diversi referenti che ne siano portatori. 

   Ritornando al nostro pectin-e(m) ‘pettine’ possiamo notare, infatti, che l’espressione latina pecten dentium indica la fila compatta di denti nella bocca, e non mi pare che essa voglia alludere ai “denti” come “punte” paragonabili ai peli, bensì alla serie compatta dell’insieme dei denti.  La cosa si chiarisce ancora meglio con voci dialettali corradicali di lat. pect-in-e(m) ‘pettine’ come gli abr. pétt-ëlë , pëtt-ël-éllë , pëtt-ìnë che significano ‘infilzata di fichi secchi, fatta con fuscelli, in forma di triangolo. Un’infilzata è dunque, come supponevamo per l’espressione latina precedente, una serie  di elementi (non importa di che cosa: denti, fichi secchi o altro).  L’accento sulla penultima sillaba di pëtt-ìnë fa capire che la voce si è incrociata con l’it. petto: infatti uno dei suoi significati è ‘Il davanti della camicia, staccato e ben incartato’. Un altro suo significato ‘arnese con più bracci per sostegno di candele’ lo ricollega a quello di ‘sfilza, serie’ e quindi a quello più generico di ‘gruppo, insieme, massa, ecc.’ 

    Così si può con certezza asserire che è errato cercare di spiegare dei significati collegandoli con quello del termine corradicale più comune e diffuso in una lingua, in quanto questa diffusione è in gran parte casuale e non è dovuta ad un sua presunta qualità di primogenitura.  Se il concetto di “pettine” è più diffuso rispetto a quello di “pube” ciò avviene perchè il pettine lo adoperiamo più volte al giorno (specie le donne vanitose) mentre il concetto di “pube” se ne sta nascosto nell’ombra ed è certamente meno popolare anche dei termini dei vicini organi sessuali di cui, anzi, si ha un’inflazione di voci, soprattutto nei dialetti.

   Pecten significa talora anche ‘verso (di poesia)’, che presso i classici non era altro che un insieme, una serie di unità ritmiche più piccole come i piedi: il concetto rientra quindi in quello di sfilza, serie, filare, concatenamento di elementi, della stessa natura di quello indicato dal lat. vers-u(m) ‘verso’, concetto che sembra espressione di un movimento lineare come quello del greco stíkh-os ‘fila, schiera, verso, riga’. Ma la parola poteva repentinamente cambiare tipo di movimento espresso, rendendolo circolare come in una giravolta o piroetta della danza, per influsso del verbo vert-ere ‘girare, voltare’, che evidentemente non era il solo a dirigerlo nella danza dei significati, anche se noi stentiamo a crederlo.

   Per pecten ci sarebbero anche altri significati da analizzare, ma mi fermo qui, pago di aver delucidato il meccanismo, molto fluido e instabile, in base al quale si originano i diversi significati particolari delle parole, rivelando una tendenza alla mobilità e al travestimento quasi si trattasse delle particelle subatomiche di cui si occupa la fisica quantistica[3].
 




[1] Dell’etimo di rastrello, che nel suo valore di ‘composizione di vari elementi’ coincide con quello che qui dò di lat. pect-in-e(m), ho parlato nell’articolo I Rostri, la famosa tribuna del Foro romano (maggio 2016).

[2] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq. 2004.

[3] Dei rapporti tra fisica quantistica e significati delle parole ho già parlato abbastanza nell’articolo del mio blog Il parapetto ovvero della libertà delle parole (febbraio 2016).

sabato 14 luglio 2018

Vocabolario abruzzese di Domenico Bielli: “Palazzë, ag. Una varietà di fico grosso”.



Vattelapesca donde derivi l’aggettivo! L’unico termine italiano cui esso sembra chiaramente alludere è palazzo che al massimo, però, potrebbe suggerire, con un po’ di buona volontà, l’idea di “grandezza”.   Ma in realtà la strada che porta alla soluzione del dilemma c’è in questo caso ed è anche abbastanza agevole, una volta diradate le nebbie che l’oscurano.

   In greco si incontra la parola phḗlēk-s , che il Rocci traduce “fico agreste, cioè che sembra maturo ma non è”.  Sicuramente  agreste sta qui per “agresto” che in italiano significa ‘acerbo, aspro’. Difatti il vocabolario del Gemoll traduce direttamente “fico acerbo”.  Il Rocci suggerisce anche l’etimo dal gr. phêl-os ‘ingannatore’ in quanto quel tipo di fico sembrerebbe maturo senza esserlo. Ma, secondo me, se presso qualche scrittore greco il termine ha questo significato esplicitato dal Rocci, ciò è dovuto a semplice incrocio con la parola greca per ‘ingannatore’, che non costituisce a mio parere il suo vero etimo il quale scaturirà direttamente dal significato generico di ‘fico’, come succede spessissimo in tanti altri casi. 

   In abruzzese si incontra la voce fëllacciànë ‘fiorone, fico fiore’[1], cioè il fico primaticcio che matura alla fine della primavera o inizio dell’estate.  E’ strano però che i linguisti, pur formulando qualche ipotesi sull’etimo di questa voce, non indichino affatto il gr. phḗlēk-s di cui ho detto sopra.  Sarà forse perché il significato di ‘fico acerbo’ non collima con quello di ‘fiorone’? Ma questi sono accidenti superabilissimi spiegabili con qualche incrocio, appunto! Li avrà distolti il suono della vocale /a/ presente in tutta la sua pienezza nella voce laziale (Bellegra-Rm) di fallacciano[2]?

  Alcuni linguisti riconducono la voce abruzzese, che presenta altre varianti come fëllàccë, fëllàcchië (più vicine al termine greco citato), al lat. fic-u(m) ’fico’ attraverso, credo, la forma dialettale latina ricostruita *fic(u)la-c(u)l-u(m), una sorta di doppio diminutivo di fic-u(m) ‘fico’, con assimilazione regressiva della prima /c/ alla /l/ successiva dopo la caduta, nella pronuncia,  della /u/ intermedia (sincope), dando così come esito filla-. La seconda /c/ seguita da /l/ ha dato l’esito normale –cchjë   formando la voce fillà-cchje passata quindi a fëlla-cchjë, con trasformazione nella  vocale indistinta /ë/ della /i/ nella sillaba iniziale non accentata.

   A parte tutto ciò, resta anche il fatto notevole che nel dialetto dorico, come i cultori di greco sanno, ad ogni eta impuro (da me reso graficamente con –ē-) corrisponde un’alfa, che ha il suono aperto della /a/ italiana.  Quindi il termine attico-ionico phlēk-s ‘fico acerbo’ sopra citato, in dorico avrebbe dovuto presentare la forma *phálak-s che richiama, nella pronuncia, la voce suddetta fallacc-iano di Bellegra-Rm. Ma il bello è che essa richiama anche l’abr. palazzë , del titolo di questo articolo, riferito a ‘varietà di fico grosso’.  In effetti la pronuncia di /ph/ in greco  era quella di una semplice /p/ seguita da un leggero soffio di aspirazione, tanto che nei primi tempi di trascrizione in latino arcaico, esso veniva reso anche col semplice /p/, che è un’occlusiva labiale, non una fricativa sorda /f/ come oggi noi la pronunciamo. Quindi, a mio parere, l’abr. palazzë e l’abr. fëllacc-iànë (che all’origine dovevano indicare nient’altro che il concetto di “fico”) attestano le due oscillazioni di pronuncia esistenti ab antico di una base originaria corrispondente al dorico *phálak-s.

   La pronuncia della parte finale di palazzë deve derivare da una forma  originaria *phalàk-jë (evolutasi da dorico phálak-s) con pronuncia prima gutturale, poi palatale e, successivamente, affricata (ts)  dando come esito appunto palazzë. Il passaggio da palatale –ccë ad affricata sorda –zzë è attestato in diverse voci abruzzesi come zichë da cichë ‘piccolo, poco’[3]; abr. zizëlà ‘cigolare’ da abr. cëcëlà ‘cinguettare’ (arcaico chëchëlà ‘cinguettare’), ad Aielli-Aq. ed altrove.  Alcuni fanno derivare il nome fëllaccianë suddetto e varianti dal personale Felicianus ‘Feliciano’ e arrivano anche a metterlo in connessione col nome del Santo.  A parte il San Feliciano patrono di Foligno si incontrano anche i santi Primo e Feliciano, martirizzati nel IV sec. d. C. che, data la loro incertissima esistenza reale, potrebbero avere a che fare con questi frutti “prim-aticci” o “primizie”, nel senso che il nome di Feliciano potrebbe essere stato quello di una divinità della natura e della fecondità in tempi preistorici.

   Porto a conoscenza di chi non lo sapesse  che in Grecia, nelle feste di Dioniso (Bacco) chiamate Falloforie, gruppi di vergini portavano in processione enormi “falli” di legno di  fico, simboli del dio Priàpo, il quale adornava spesso orti e giardini anche a Roma, rappresentato appunto con quel simbolo di legno di fico. Perché il legno di fico? Come sempre accade in questi casi, il motivo è da cercare nel semplice incrocio di termini simili: la prima parte del dorico *phál-ak-s è quasi uguale al gr. phall-ós ‘fallo’, simbolo della forza generatrice.  In qualche dialetto e in periodi precedenti a quello classico quel termine doveva significare direttamente ‘fico’. Del resto  la radice delle due parole greche  era la stessa, e cioè BHEL ‘essere turgido, rigonfio, rotondeggiante’, significato adatto sia per l’organo sessuale maschile, sia per ogni frutto, in specie quello del fico in genere e del tipo fëllacciànë in particolare.  Nella radice è incluso anche il significato di ‘rigonfio, grosso’ che spesso accompagna la definizione di questo tipo di fico. Gli incroci sono molto importanti perché possono spiegare fatti particolari altrimenti poco comprensibili.  Un altro significato di fëllacciànë ‘fico primaticcio di colore nero con riflessi azzurrognoli’[4]: come mai spunta questo colore nero? Io non credo affatto che queste precisazioni siano casuali. Ci deve essere una qualche giustificazione.  Secondo me difficilmente il termine deriva direttamente da quello del dialetto dorico: esso potrebbe essere arrivato dalle nostre parti anche prima che esso approdasse in Grecia e potrebbe essersi incrociato con una radice per ‘nero’ come quella che ritroviamo nell’ingl. black ‘nero’ che, secondo i linguisti, è quella del lat. flag-r-are ‘ardere, bruciare’ in quanto il nero è il colore di qualcosa bruciato.  La radice sarebbe BHLEG ‘brillare’ molto simile nella forma esteriore a quella di gr.  phlēk-s ‘fico acerbo’.

   Quante cose ci raccontano le parole, in specie alcune, su epoche lontanissime dell’uomo, se sappiamo prenderle per il verso giusto e interrogarle senza presunzione! Altrimenti si chiudono a riccio e diventano mute come pietre. Sono giustamente gelose, soprattutto verso i saccenti insopportabili, dei loro autentici tesori.
     

  




[1] Cfr. Cortellazzo-Marcato, I Dialetti Italiani, UTET Torino, 1998, sub voce.

[2] Voce che indica il ‘fico’ che matura dopo la metà di luglio.  A fine luglio a Bellegra-Rm se ne celebra infatti la sagra.

[3] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla edit., Cerchio-Aq. 2004.