domenica 30 maggio 2021

Vieto.

 


L’aggettivo it. vieto ha i seguenti significati: antiquato, vecchio, malaticcio, avvizzito; tosc. stantio, rancido. Mi pare che oggi tutti gli etimologi e i vocabolari indichino seccamente l’etimo nel lat. vetus, eris ‘vecchio, antico’ senza nemmeno accennare alla possibilità che ci sia stato almeno un incrocio con l’aggettivo lat. viet-u (m) ‘(frutto) che si piega (sullo stelo), avvizzito, flaccido’, il quale ha la stessa radice del verbo lat. vi-esc-ĕre ‘piegarsi sullo stelo, avvizzire’ e di lat. vi-ēre ‘piegare, legare, intrecciare’.

  Ma in passato (v. vocab. del Petrocchi e il Pianigiani in rete) si sosteneva la derivazione di it. vieto da lat. viet-u(m) ‘avvizzito’. Ora, anche ammesso che la derivazione sia da lat. vetus mi pare che non si possa affatto escludere un incrocio col lat. viet-u(m) visto che vieto significa anche ‘avvizzito’. 

    Il DELI (Dizionario etimologico della lingua italiana) di M. Cortelazzo e P. Zolli, parla addirittura di “una rara continuazione di una forma nominativa, che assunse in antico (ed ancor oggi in Toscana) una sfumatura spregiativa: rancido, andato a male” riferendosi al lat. vetus ‘vecchio’.   Non riesco a capire perché i nuovi etimologi vogliano complicarsi la vita, quando l’incrocio suddetto è lì a semplificare le cose.

 

sabato 29 maggio 2021

La voce aiellese-abruzzese “fietta”. Parole composte germaniche.

 


Stamane mi è venuta in mente la voce dialettale di Aielli fietta, la quale designava il budello pieno di carne triturata della salsiccia, piegato ad U, e poggiato su una pertica appositamente agganciata al soffitto della cucina, in modo che le due estremità del budello pendessero parallele da un lato, mente dall’altro pendeva il fondo della piegatura ad U, dentro la quale solitamente venivano reinserite le due estremità del budello.  Una sorta di intreccio, dunque, come quello indicato dal termine ted. Flechte ‘treccia (di capelli)’ da cui la voce fietta probabilmente deriva, per palatalizzazione della lettera –l-, anche se in latino esisteva il verbo flect-ĕre ‘piegare, torcere, dirigersi, ecc.’ con la variante plect-ĕre ‘intrecciare’. In latino si ha plăg-a(m) ‘rete, laccio del cacciatore’.

     Nel Vocabolario abruzzese del Bielli si incontra fièttĕ ‘resta di agli, cipolle’ ma anche la variante flèttë (senza palatalizzazione) ‘filza di fichi secchi’, Ad Aielli evidentemente si è avuta la specializzazione del termine generico per treccia, resta limitandosi ad indicare la forma della salsiccia appesa alla pertica nel senso che abbiamo visto, o forse per influsso di un verbo simile come gr. plḗss-ein (radice plag-, plaq-) ‘battere, colpire, pestare’ in riferimento alla carne triturata della salsiccia.  In latino si ha plāg-a(m) ‘battuta, percossa, ferita’.  

     Ora, se riflettiamo su alcuni composti tedeschi in cui si è soliti distinguere un determinante e un determinato e in cui compare la parola Flechte ‘intreccio’ ci accorgiamo che i due membri del composto all’origine dovevano avere lo stesso significato: erano quindi tautologici.

     Il ted. Flecht-korb ‘cesta, paniere di vimini’ presenta il secondo membro –korb che è il lat. corb-e(m) ‘corbello, cesta’, con una radice cosiddetta mediterranea che indica già di per sé una cesta , un canestro, un intreccio (di vimini  o stecche) come il primo membro, che è quindi ridondande.

     Il ted. Flecht-weide ‘vimine’ mi pare altrettanto ridondante dato che il ted. weide ‘salice’ ha la radice del verbo lat. vi-ēre ‘attorcere, intrecciare’, agett. lat. viet-u(m) ‘che si piega, cascante, vizzo’. 

     Il ted. Flecht-stroh ‘paglia da cappelli’ presenta il secondo membro uguale all’ingl. straw ‘paglia’ fatto derivare dalla radice del verbo strew ‘sparpagliare, spargere, cospargere’ la quale può ben indicare un insieme di cose confuse e quindi interconnesse tra loro.  Il composto pertanto indicava all’origine un intreccio o confusione di cose.

     Il ted. Flecht-zaun ‘steccato di vimini’ presenta un secondo membro –zaun ‘steccato, siepe’ che è appunto già un intreccio di stecche o di cespugli per siepe.

       Il ted. Flecht-werk ‘intreccio di vimini, graticcio’ doveva avere, al posto del  secondo membro –werk ‘lavoro’, il termine ted. Werg ‘stoppa, capecchio’. Un ammasso, dunque, un intreccio di fili di canapa. Siccome anche il primo membro Flecht- significava più o meno la stessa cosa, allora si mutò il secondo membro -werg ‘stoppa’ in -werk ‘lavoro’ dando al composto il significato di ‘lavoro di intreccio, intreccio di vimini’.

     A me pare tutto chiaro, e a voi?


venerdì 28 maggio 2021

Inculare (scusate il termine).

 


Tutti i linguisti, credo, non ci stanno a pensare due volte a far derivare il termine volgare in-cul-are dalla preposizione  in- + -culoIo  la penso molto diversamente, e questo è uno dei segni incontrovertibili della differenza che passa tra il mio metodo di lavoro e il loro.

    In effetti il termine volgare culo in questo caso non c’entra nulla, se non forse indirettamente come concetto di “buco, cavità” derivante olisticamente da quelli  che sto per indicare: ma questo è un’altra cosa, che per ora non ci riguarda.

      Io credo che la radice cul sia variante di quella, ad esempio, di lat. per-cell-ĕre (perfetto: per-cul-si) ‘colpire, percuotere, abbattere, atterrare, ecc.’, la quale, a mio avviso, non va distinta da quella di lat. ex-cell-ĕre ‘innalzarsi, al di sopra, sovrastare, eccellere, ecc.’ e di lat.  coll-e(m) ‘colle’, le quali tutte trovano un punto d’incontro nella nozione più generica di ‘spingere’, non importa in quale direzione. 

       Il significato originario di un lat. in-cul-are, quindi, doveva essere quello di ‘spingere (verso qualcosa)’, e indicava magari l’atto sessuale normale da parte del maschio: successivamente il verbo non potè fare a meno di incrociarsi con il termine culo (il quale poteva anche non esistere in latino al momento della formazione del verbo) e assumere il significato di ‘sodomizzare’. E’ bene ricordare il principio saussuriano secondo cui è vano credere che le cose abbiano ricevuto il loro bel nome di zecca sin dall’origine.  Il verbo inizialmente non era volgare, lo diventò dopo l’incrocio con culo.

    Che il mio pensiero sia veritiero è dimostrato, secondo me, dal significato di ‘bocciare ad un esame, ad un concorso’ che il verbo assume: l’hanno inculato all’esame di maturità (cfr. vocab. ital. del De Mauro) che normalmente si esprime anche col verbo respingere, appunto, come nel lat. re-pell-ĕre ‘respingere, bocciare’.

     Altri significati di it. in-cul-are fanno capire che il verbo si incrociò con la radice di lat. col-ĕre ‘coltivare, curare, onorare, ecc.’ (una delle più importanti del lessico indeuropeo), nel senso di ‘rigirare, rovesciare (la terra)’ da una radice kwel ‘rivolgere’ con labio-velare iniziale (Qw-): essa si ritrova anche nella voce del dialetto di Aielli cuèlla   che indicava una ‘ritortola a forma di ciambella’ attraverso cui passavano delle funicelle che servivano per legare il carico sul basto (ce n’erano due per ogni lato).  Si trattava quindi di una sorta di  ‘rotondità, ruota’, come nell’l’ingl. wheel ‘ruota’< ant. ingl. hweol ‘ruota’.

     Uno dei significati, infatti, di in-cul-are è proprio ‘raggirare, imbrogliare’. Il significato di ‘prestare attenzione, proteggere’ del verbo pronominale  in-cul-ar-se-lo rafforza il significato di ‘proteggere, avere interesse, curare, ecc.’ di lat. col-ĕre, di cui sopra, ed è presente ad esempio nell’espressione:  urlava dal dolore ma nessuno se lo inculava.

   Inoltre il significato del dialettale in-goll-are ‘involare, portare via’ di cui ho parlato nel penultimo articolo Tira nu véndë (chë) ttë së ngòlla, combacia con quello di in-cul-are ‘spingere (via)’.

    Tutto si spiega nella Lingua, ma con pazienza ed acume.



sabato 22 maggio 2021

Tira nu vendë (chë) ttë së ‘ngòlla!

 


Espressione tipica del  nostro dialetto, ma, credo, di tanti altri, anche fuori dell’Abruzzo. Il suo  significato è: tira un vento (così forte) che ti porta, trascina via!  In italiano il verbo in-coll-ar(si) ruota intorno ai significati di appiccicar(si), attaccar(si) denominativi da it. colla. Nei dialetti esso presenta anche il significato apparente di ‘mettersi sul collo, sulle spalle’  con quello aggiuntivo, come nel caso della frase citata, di ‘portare, trascinare via’. 

    Qualcosa non va. Quando si accumulano più significati apparentemente diversi, gatta ci cova.  In internet ho letto, nel commento di una facciata del cinema Nuovo Ariston a Moie, in provincia di Ancona, questa frase che mi sembra scritta in romanesco: quel non so che de nostalgico comunismo architettonico che te se ‘ngolla! Qui il verbo in questione dovrebbe avere il significato di ‘che ti rapisce’ nel senso di ‘che ti affascina’. 

    Come al solito, io penso che dietro questa apparente derivazione del verbo suddetto solo dalla parola collo c’è da fare i conti con un’altra radice, quella del verbo lat. in-vol-are il quale, oltre ai significati di ‘volare su, precipitarsi, ecc.’ ha anche precisamente quello di ‘involare, portar via, rubare, rapire’.  Ora si dà il caso che il lat. vol-are’volare, correre velocemente’ presentava all’inizio una labiovelare kw- da cui è derivata la semivocale latina –v-.  Tutto quindi combacia a pennello.  Inoltre il lat. coll-u(m) ‘collo, stelo’ potrebbe essere, come credo, una variante di lat. coll-e(m) allo stesso modo del lat. colu-mn-a(m) ‘colonna, sostegno’.

    C’è solo da aggiungere che la radice  *kwoll- di vol-are non è altro, a mio avviso, che una variante di quella che si ritrova nel lat. coll-e(m) ’colle’, nell’ingl. hill ‘colle’, nel greco kol-ōnόs ’collina’, lituano kál-nas ‘monte’, la quale si è specializzata ad indicar una spinta (verso l’alto), invece di quella che sta sotto l’idea di volare, che si esplica piuttosto in avanti, nell’aria.

venerdì 21 maggio 2021

Veloce, feroce, atroce.

   

I tre aggettivi vengono in genere spiegati come composti da due parti, ma non tautologiche, come invece a me pare.  Essi ci vengono dal latino, e cioè da vel-oc-e(m) ‘veloce’, fer-oc-e(m) ‘impetuoso, fiero, ardito, coraggioso, orgoglioso, feroce, ecc.’ e atr-oc-e(m) ‘atroce, terribile, violento’.  Il secondo membro di questi aggettivi viene fatto risalire ad una radice indoeuropea presente anche nel lat. oc-ul-u(m) ‘occhio’ che qui avrebbe il significato ‘dall’apparenza di’ o ‘dall’aspetto di’. 

    Ora. se  questo significato può andare bene, se si vuole, per atroce e feroce non mi pare che sia ugualmente valido per veloce: ma come! o si è veloci o non lo si è! Non ha senso dire ‘appare veloce’ al posto di ‘è veloce’.  Ed è proprio il lat. vel-oc-e(m) a darci la dritta per capire il valore del membro –oc- che, secondo me, è lo stesso di gr. ōk-s ‘veloce, rapido’ tautologico rispetto al primo membro vel-, comunque questo si spieghi. I più lo  collegano alla radice weg- di lat. veg-ēre ‘eccitare, animare, essere vivace’ attraverso una forma simile al lat. vi(gi)l-e(m) ‘vigile, sveglio’ o alla radice wegh- (che per me è una variante) di lat. veh-ĕre ‘ trasportare, viaggiare, andare’: alla base di ambedue i verbi c’è il significato di ‘muovere, eccitare, spingere’.   Ma potrebbe trattarsi anche di una variante della radice di lat. vol-are ‘volare, muoversi o correre velocemente’. 

   A questo punto va da sé che sia  fer-oce che atr-oce debbono essere intesi come composti tautologici, con il secondo membro –oce che esprime anch’esso tutta la forza, la fierezza, veemenza e violenza, espressa dai primi membri provenienti rispettivamente dal lat. fer-um ‘selvaggio, indomito, feroce, crudele, fiero, ecc.’ e probabilmente dal lat. atr-u(m) ‘nero, tetro, funesto, ecc.’.  Aggiungo che nel dialetto toscano della Garfagnana la voce fiero significa ‘bene, in buona salute’ (cfr. Italy, poemetto del Pascoli, parte V del primo canto).  Il concetto di salute certamente ha a che fare con quello di forza e solidità di una persona.  


giovedì 20 maggio 2021

Andare, mandare in sollucchero.

 


Quando qualcuno prova una sensazione di grande soddisfazione e di godimento compiaciuto, per parole o fatti che solleticano l’amor proprio nonché talora la propria vanità, si dice che è andato in sollucchero, meglio in solluchero, o è stato mandato in sollucheroIl sostantivo deriva dal verbo sollucher-are, di origine sconosciuta secondo quasi tutti i linguisti. Ciò significa che nessuno è riuscito finora a darne un etimo accettabile. Scusate se ci provo io.

    A me pare, di primo acchito, che il termine soll-uchero debba appunto dividersi in due radici tautologiche: la prima chiama in causa il lat. sol-ari  ‘confortare, consolare, alleviare, ecc.’, l’ant. basso ted. soel ‘felice’, gotico selas ‘felice’, a. alto ted. sal-ig ’beato’, ted. sel-ig ‘beato’; la seconda dovrebbe essere quella di gr. όkr-is ‘cima di monte’, osco-umbro ocr-is ‘monte (sassoso)’, che ritorna in diversi toponimi come Ocre, comune nella provincia dell’Aquila alle pendici del monte Ocre. Nel secondo membro  -uchero c’è stato il passaggio o>u e l’anaptissi di una –e- tra la –c- e la –r-.   La radice oc- è secondo me variante della più diffusa ac- di lat. ac-ut-u(m) ‘acuto’, lat. ac-i-em ‘punta, filo tagliente di spada, scure, acutezza della vista, occhio, ecc.’, gr. ákr-on ‘promontorio, punta, vetta, ecc.’, gr. ak-ōk- ‘punta, taglio’ (con raddoppiamento della radice), aggettivo lat. acr-e(m) ‘acre, pungente, penetrante, forte, violento, ecc.’, dialetto aiellese acr-éjjë ‘pungiglione’, ecc., ecc.

    C’è da osservare che l’it. all-ègro è fatto derivare dal lat. al-acr-e(m) ‘ alacre, ardente, vivace, pronto, lesto, lieto’, ma i linguisti parlano solo della radice iniziale al-  e non del resto dell’aggettivo ritenuto evidentemente una sorta di suffisso, senza particolare significato.  Ora la radice al- è indoeuropea ed indica, nel fondo, il ‘movimento’, concetto che è alla base di quello di “allegro”: e questo è vero.

    Ma, come dicevo, non bisogna trascurare il significato del secondo membro, che non è un suffisso, ma altro termine tautologico per ‘vivacità, forza, movimento’, tutti significati che possono essere visti, in trasparenza, nello stesso lat. acr-e(m) ‘penetrante, violento, forte’,  come espressione di una forza che spinge, smuove, penetra, perché l’idea di “punta” genera a mio avviso automaticamente nella mente dell’uomo parlante oltre all’idea connessa di “penetrazione, taglio” anche quella di “forza in movimento”, sicchè non è nemmeno  azzardato avvicinare la radice ac-  a quella di lat. ag-ĕre ’spingere, agire, fare, ecc.’. Non per nulla il solito meccanismo lo ritroviamo anche nel verbo it. punt-are, dai diversi significati, compreso quello di ‘guardare attentamente, fissare’ (si pensi al sopra citato lat. ac-i-e(m) ‘acutezza, sguardo vivo’) e quello che fa al nostro caso di ‘muoversi, tendere, dirigersi verso qualche luogo’.

   A mio parere anche il primo membro di lat. solli-cit-u(m) ‘mosso, agitato, pieno d’ansia, tormentoso, angoscioso’(da cui l’it. sollecito) ripete il significato di ‘movimento’, del secondo membro cit-u(m), participio passato del verbo ci-ēre ‘mettere in movimento, eccitare, chiamare, ecc.’.  La radice dell’aggett. osco soll-u(m) ‘tutto, intero’ credo che si sia solo incrociata con l’aggettivo solli-cit-um ‘mosso, agitato’ dando una sfumatura in più al significato come se fosse ‘smosso interamente, completamente’.  

    Se osserviamo bene il suddetto lat. al-acr-e(m) ‘alacre, ardente, vivace, lesto, ecc.’ e lo confrontiamo col gr. ōkẏ-al-os ‘ celere, agile, svelto, violento’  ci accorgiamo, in base a quello che ho detto sopra, che nei due aggettivi si ha l’inversione delle medesime due radici, confermando così anche la mia ormai annosa  convinzione che le parole sono composte da membri autonomi con lo stesso significato, che si giustappongono tra loro, senza bisogno di stabilire un prima e un poi. Amen.

 

 

 


 

 

mercoledì 19 maggio 2021

Con olio di gomito.

 


 

Espressione metaforica (?) con cui ci si riferisce ad un’intensa, ripetitiva applicazione e fatica per svolgere un lavoro, soprattutto quelli di pulizia e lucidatura. Però, per lucidare un oggetto non si usa affatto l’olio, e allora esso che cosa indicherebbe metaforicamente in questo caso? L’olio inteso come lubrificante delle giunture dei gomiti, come qualcuno crede? Troppo artificioso, a mio modesto avviso, questo significato.

   Il caso (?) vuole che anche in inglese si usi un’espressione simile: elbow grease ‘olio di gomito’, letteralmente ‘grasso, lubrificante di gomito’.   Sembra una locuzione che dietro di sé nasconda un altro significato, reale, concreto, come abbiamo visto nell’ultimo articolo per brodo di giuggiole

    Ora, senza farla troppo lunga, io credo che in questo caso se la rida sotto i baffi, per il nostro confuso disorientamento, una parola simile al gr. ōlé-kran-on ‘punta del gomito, gomito’ in cui ō- corrisponde alla radice di  gr. ōl-énē ‘gomito, braccio’, lat. ul-n-a(m) ’avambraccio, braccio’, ingl. el-bow ’gomito’ < ant. ingl. el-boga, cioè ‘piega, curva (-boga) del gomito’, e kr-án-on corrisponde a gr. kár-an-on ’testa, punta, estremità’.

     In base a ciò presumo che l’espressione immediantamente precedente a quella che contiene con olio di gomito, che impiegava la parola greca suddetta, abbia generato, con il primo elemento ō-, il significato di olio < lat. ole-u(m) nel periodo in cui si passava dal greco al latino o a qualche dialetto italico. L’espressione greca (senza l’inserimento della parola olio) doveva già significare qualcosa come ‘di buona lena’ o ‘con fatica (in riferimento al lavoro ritmico e ripetitivo del gomito nell’azione di pulizia, ma anche nel senso di ‘sgomitare’, per farsi strada in qualche attività’. 

   Solo che la locuzione inglese elbow grease sembra innovare rispetto a quella italiana, sostituendo ad olio il termine ingl. grease ‘grasso’, pur esistendo in ingl.il termine oil ‘olio’< lat. ole-u(m) ma non è così: Il secondo membro del composto greco suddetto, cioè –kr-án-on ‘testa’, poteva benissimo essere sostituito da una sua variante, cioè kr-ás ’testa’ di genere neutro (anche masch. e femm.) che  si dovette incrociare con ingl. grease < lat. crass-u(m). Non si scappa, le corrispondenze sono precise al millimetro. Per la voce krás ‘testa’, cfr. il vocab- greco del Rocci, s.v. kára ‘testa’.

    Si può quindi, concludendo, sottolineare che quando si incontrano espressioni di questo tipo, molto o poco metaforiche che siano, bisogna drizzare le orecchie, perché nella loro storia  si incontrerà quasi sicuramente  il motivo della falsa metaforicità. Amen.Espressione metaforica (?) con cui ci si riferisce ad un’intensa, ripetitiva applicazione e fatica per svolgere un lavoro, soprattutto quelli di pulizia e lucidatura. Però, per lucidare un oggetto non si usa affatto l’olio, e allora esso che cosa indicherebbe metaforicamente in questo caso? L’olio inteso come lubrificante delle giunture dei gomiti, come qualcuno crede? Troppo artificioso, a mio modesto avviso, questo significato.

   Il caso (?) vuole che anche in inglese si usi un’espressione simile: elbow grease ‘olio di gomito’, letteralmente ‘grasso, lubrificante di gomito’.   Sembra una locuzione che dietro di sé nasconda un altro significato, reale, concreto, come abbiamo visto nell’ultimo articolo per brodo di giuggiole

    Ora, senza farla troppo lunga, io credo che in questo caso se la rida sotto i baffi, per il nostro confuso disorientamento, una parola simile al gr. ōlé-kran-on ‘punta del gomito, gomito’ in cui ō- corrisponde alla radice di  gr. ōl-énē ‘gomito, braccio’, lat. ul-n-a(m) ’avambraccio, braccio’, ingl. el-bow ’gomito’ < ant. ingl. el-boga, cioè ‘piega, curva (-boga) del gomito’, e kr-án-on corrisponde a gr. kár-an-on ’testa, punta, estremità’.

     In base a ciò presumo che l’espressione immediantamente precedente a quella che contiene con olio di gomito, che impiegava la parola greca suddetta, abbia generato, con il primo elemento ō-, il significato di olio < lat. ole-u(m) nel periodo in cui si passava dal greco al latino o a qualche dialetto italico. L’espressione greca (senza l’inserimento della parola olio) doveva già significare qualcosa come ‘di buona lena’ o ‘con fatica (in riferimento al lavoro ritmico e ripetitivo del gomito nell’azione di pulizia, ma anche nel senso di ‘sgomitare’, per farsi strada in qualche attività’. 

   Solo che la locuzione inglese elbow grease sembra innovare rispetto a quella italiana, sostituendo ad olio il termine ingl. grease ‘grasso’, pur esistendo in ingl.il termine oil ‘olio’< lat. ole-u(m) ma non è così: Il secondo membro del composto greco suddetto, cioè –kr-án-on ‘testa’, poteva benissimo essere sostituito da una sua variante, cioè kr-ás ’testa’ di genere neutro (anche masch. e femm.) che  si dovette incrociare con ingl. grease < lat. crass-u(m). Non si scappa, le corrispondenze sono precise al millimetro.

    Si può quindi, concludendo, sottolineare che quando si incontrano espressioni di questo tipo, molto o poco metaforiche che siano, bisogna drizzare le orecchie, perché nella loro storia  si incontrerà quasi sicuramente  il motivo della falsa metaforicità. Amen.

lunedì 17 maggio 2021

Andare in brodo di giuggiole.

 


Nei suoi Modi di dire della lingua italiana (1969) Carlo Lapucci spiega l’espressione in questo modo: sdilinquirsi, compiacersi, godere assai di una cosa, al punto quasi di ‘liquefarsi’.

    Ora, per cominciare a comprendere la derivazione di questa locuzione abbastanza diffusa, bisogna secondo me iniziare col notare che esistevano nella lingua italiana antiche espressioni simili con lo stesso identico significato, come il semplice andare in brodetto oppure andare in guazzetto[1].  Come si è potuto arrivare, allora, all’espressione andare in brodo di giuggiole se questi frutti della pianta del giuggiolo non vengono adoperati per formare alcun brodo?  C’è in verità un liquore noto come brodo di giuggiole ma il suo nome sarà derivato dalla preesistente locuzione e non viceversa.

     Tutti suppongono  che la detta locuzione sia in realtà un derivato di quella toscana andare in brodo di succiole.  Quest’ultime sono le castagne lesse, le quali vengono usate anche per fare un brodo. Il termine giuggiole si sarebbe sostituito a succiole per via di una certa assonanza tra i due e anche perché le giuggiole sono frutti dolci per marmellate e conserve, quindi in armonia col significato dell’espressione.

      A me sembra, però, che sia le toscane succiole, sia le italiane giuggiole siano state attratte, per così dire, nell’ambito dell’espressione originaria più breve, che già di per sé  aveva il significato di sdilinquirsi, andare in sollucchero oppure in brodo di giuggiole, per il semplice motivo che esse, in questo contesto, erano due reinterpretazioni di un precedente termine latino o tardo-latino uguale o simile ai latini ius-cul-u(m) ‘brodetto, intingolo’ e ius-cell-u(m) ‘intingolo, salsa’, due diminutivi di lat. ius, iuris ‘brodo’.  Da ius-cell-u(m) si sarà avuta nel parlato la trafila giuscello> giuggèllo (per assimilazione e raddoppiamento della sillaba pretonica)> giùggelo (per influsso dell’accento di lat. ius-cŭl-um)> giuggiola (per incrocio con questo termine, proveniente dal tardo greco zizoulá). 

   Ribadisco, insomma, che sia il termine toscano succiole sia quello italiano giuggiole sembrano essere stati introdotti nelle rispettive locuzioni, perché in antico, magari già nel latino parlato, evidentemente esistevano, prima delle espressioni andare in brodetto oppure andare in guazzetto, espressioni esattamente equivalenti di questo tipo: ire in ius-culu(m) o ire in ius-cell-u(m) ‘andare in brodetto o guazzetto’, da cui quelle italiane sembrano essere state addirittura tradotte.

   Come in tanti altri casi, anche qui si verifica  che la presenza di alcuni termini in certe espressioni non è dovuta solo a generici rapporti con i significati di quelle espressioni, ma alla esistenza, sotto quei termini, di specifiche parole indicanti significati direttamente in esse coinvolti, tanto da costituire spesso una ripetizione tautologica degli stessi. 

       



[1] Cfr. P. Fanfani – C. Arlia, Lessico dell’infima e corrotta italinità, 1881.

mercoledì 12 maggio 2021

San Ciattè.

 

San Ciattè.

 

Nel precedente articoletto ho delineato la possibilità che il patrono di Pescara, san Cetteo (Ciattè, in dialetto), in realtà fosse stato una divinità della luce solare nella preistoria.  In una passio ampiamente leggendaria si afferma che san Cetteo, vescovo di Amiterno (VI sec. d.C.),  subì il martirio venendo gettato con una macina al collo sul fiume Aterno così affogandovi. Miracolosamente il suo corpo, trascinato dalla corrente, arrivò fino alla foce del fiume a Pescara, dove fu amorevolmente raccolto e sepolto nella chiesa che poi gli fu intitolata, cioè la Cattedrale di san Cetteo.

    Ora, mi pare evidente che il nome di questo presunto Santo (perché io non credo alla sua reale esistenza) deve aver avuto a che fare con quello del fiume Aterno-Pescara. Si sa che anche la città di Am-itern-u(m) trae il nome da una parola italica che significava ‘presso (am-) l’Aterno      (-itern-um)’.  C’è qualche studioso che sostiene che il Santo fosse vescovo non di Amiterno ma  di Atern-um, cioè di Pescara, così chiamata in latino. Nel periodo imperiale spunta, per la città, il nome di Ostia Aterni, cioè Foce dell’Aterno.  C’è poco da fare, il nome del fiume torna insistentemente nella passio del Santo: a mio parere ciò non significa che il Santo fosse stato veramente gettato nel fiume, ma che il suo nome si era incrociato certamente con quello del fiume, e soprattutto con quello della foce del fiume, dove fu raccolto.

      Infatti, ho sostenuto nell’articolo precedente che il nome originario della divinità solare (che sta dietro il nome del Santo) fosse *Luci-attè combaciante con la voce dialettale abruzzese luci-attè ‘lucciola’.  Ma è possibilissimo che questo nome preistorico della divinità solare si fosse incrociato anche con un’espressione simile a luci Atèrni, dando come esito luci-attè, che poteva significare ‘bocca o bocche, foce o foci dell’Aternocome subito indicherò.

      Nell’articolo intitolato “La dea Angizia, il suo bosco sacro e l’inghiottitoio della Petogna” (29 novembre 2010) presente nel mio blog pietromaccallini.blogspot.com spiegai che il nome Luco  del paese di Luco dei Marsi, molto probabilmente rimanda non al bosco sacro della dea, lat. luc-u(m) ‘bosco sacro’ ma alla radice del ted. Loch ‘buco’, ingl. leak ‘crepa, falla fessura’, it. tec. luce ‘apertura per il passaggio dell’acqua, bocca’, dialetto trasaccano lëch-ittë ‘piccolo luogo, posticino’ ma anche ‘piccola buca nel terreno’.  Esso insomma era un altro nome dell’inghiottitoio della Petogna nei pressi di Luco dei Marsi.  Citavo anche diversi altri toponimi Luco, luchi da interpretare come ‘cavità’ o ‘bocca’.  Naturalmente chi fosse interessato può leggersi il relativo articolo secondo me  molto interessante.

     Riassumendo e concludendo, mi pare che si possa affermare che san Ciattè di Pescara continuava molto probabilmente un nome antichissimo, preistorico, di una divinità della luce solare (o anche lunare), nome che  nella sua lunga storia ha avuto modo di incrociarsi comodamente con il dialettale luciattè ‘lucciola’ e con qualche toponimo simile nella forma, ma con significato diverso, intessendo così di epoca in epoca la storia leggendaria che ruota intorno a san Ciattè. Il quale, se anche fosse realmente esistito come vescovo di Amiterno o di Aternum ‘Pescara’ (ma ne dubito fortemente, anche in base al suo strano nome che non mi pare ricorra altrove, oltre che a Pescara) non disturberebbe più di tanto le mie asserzioni, essendosi incrociato con *Luciattè>Ciattè, nome che esisteva da molto tempo prima.

    *Luciattè poteva essere anche un epiteto della divinità solare, che individuai sotto il nome di san Zopito, di Loreto Aprutino, non molto lontano da Pescara.

      

 

 

martedì 11 maggio 2021

Ciattè

 

                                      

 

In alcuni paesi d’Abruzzo la parola in epigrafe significa ‘lucciola’.  Chi mai potrebbe cominciare a percorrere la strada giusta per individuarne l’etimo se non esistesse anche la voce tautologica abruzzese luci-atté[1] ‘lucciola’?  A mio parere quest’ultima parola è in effetti tautologica, in quanto il primo elemento rimanda alla radice di lat. luc-e(m) ‘luce’ e di gr. leuk-όs ‘lucente, chiaro, bianco’, il secondo alla radice di gr. akt-ís, în-os ‘raggio, splendore’, ant. indiano aktú-s ‘crepuscolo, luce, splendore’. 

   Ora, non può sfuggire il nome personale pescarese Ciattè, fotocopia della voce in questione. E questo che c’azzécca (avrebbe detto qualcuno)?  C’azzecca, c’azzeca, perché coinvolge il nome di san Cetteo (san Ciattè in pescarese), il leggendario vescovo di Amiternum , oggi San Vittorino Amiterno-Aq.  A mio parere, anche il nome di questo presunto Santo cattolico, patrono di Pescara, proveniva da una realtà preistorica in cui doveva indicare qualche divinità solare, come san Zopito  di Loreto Aprutino-Pe, di cui ho parlato nell’articolo intitolato “La festa di san Zopito a Loreto Aprutino” presente nel mio blog pietromaccallini.blogspot. com (20 aprile 2020) e in quello intitolato “San Zopito, san Pietro, Giove ed altro” del 30 giugno 2009.  Chi avesse voglia di affrontarne la lettura lo faccia, perché credo che la sua fatica sarà ripagata.

 

 

 



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

sabato 8 maggio 2021

Ancora sulla radice ban- di banditore, bandire.

 


Ieri ho trascurato il significato di ‘espellere, esiliare’ che il verbo band-ire presenta, oltre a quello di ‘comunicare, proclamare’ di cui ho parlato abbondantemente.  Ed ho fatto male, perché il significato di ‘esiliare, espellere’ avrebbe confermato il mio assunto in merito al significato di fondo della radice, che è, a mio avviso, ‘mandare fuori, emettere’, basilare  sia per il significato di ‘parlare, proclamare’ sia per quello di ‘brillare, splendere’.

    Allora non deve apparire strano collegare il significato di ‘espellere’, che etimologicamente è un ‘mandare fuori’ < lat. ex-pell-ĕre ‘spingere fuori, esiliare ecc. ecc.’, a quello di ‘parlare, comunicare’, espressi contemporaneamente dall’it. band-ire.  Il significato di mandare in esilio  non si è prodotto, come vogliono i linguisti, attraverso la trafila concettuale  di mandare in esilio attraverso un bando dell’autorità, ma semplicemente e direttamente come un ‘mandare, cacciare fuori’, significato  incarnato nella radice ban-, band- sin dall’origine.

    Molto illuminante per tutta la questione, ma anche per il modo come si sviluppano e si specializzano  i significati in genere, è il caso del verbo gr. ek-báll-ein ‘gettar fuori, cacciare, esiliare’ che quando è seguito da un termine come ‘parola, discorso’ assume due significati in qualche modo tra sé contrastanti, e cioè ‘rifiutare, rigettare, negare (la parola)’ oppure ‘proferire, pronunciare’:  qui vediamo in atto il processo di specializzazione della nozione originaria di ‘mandare, spingere fuori’, la quale può portare al significato di ‘espellere, esiliare’, di ‘rifiutare o negare (una parola), o di ‘proferire, pronunciare’. Oppure a tanti altri significati possibili, anche se non concretizzati nella lingua greca. E forse in nessun’altra lingua. Ma la possibilità ci sarebbe stata comunque.

   Questo è quanto. Amen.

   

  

   

venerdì 7 maggio 2021

Banditore.

 


 

Il termine bandi-tore sarebbe un sostantivo derivato dall’infinito  band-ire e indicante la persona che compie l’azione espressa dal verbo.  Il quale, secondo gli etimologi, risalirebbe ad un supposto gotico *bandwj-an ‘fare un segno’, verbo denominale dal sostantivo got. bandwa ’segno’, da cui l’it. bando.

     A me francamente questa derivazione pare un po’ artificiosa, soprattutto perché bandire in italiano presenta significati che mal si connettono con quello di ‘segno, segnale’.  Un segnale sarebbe dunque il bando emesso dalle autorità medioevali e diffuso dal banditore? Un altro segnale sarebbe l’annuncio, ad esempio, di un concorso e la sua diffusione attraverso i mezzi di comunicazione? Certo, in termini linguistici moderni la parola e la sua comunicazione sono un segno ma non possiamo pretendere di attribuire questa forma raffinata di conoscenza a chi in antico cominciò ad usare le parole di cui è questione.

     In effetti il bandi-tore dovrebbe indicare, a rigor di termine, non la persona che diffonde materialmente un bando ma quella che fa, compila, emette il bando: insomma, nel caso dei signori medioevali, dovrebbe designare il signore stesso che compie l’azione di bandire.  Tutti i sostantivi italiani in –tore si spiegano in questo modo, come ad esempio, il termine illustra-tore, che indica la persona che illustra, illumina qualcosa e non quella che propala ad altri queste illustrazioni; o come la parola costrut-tore, che designa chi costruisce qualcosa, non colui che, ad esempio, ne diffonde la notizia ad altri o porta addirittura al mercato l’oggetto costruito per venderlo. Comunque si insisterà nel dire che il verbo bandire aveva assunto il significato di diffondere, far conoscere al pubblico  un bando oltre a quello di fare, indire un bando e la questione sembra risolversi, ma non tanto, perché attualmente bandire non ha esattamente quel significato ma, semmai, quello più generico di divulgare, diffondere, e non necessariamente un bando dell’autorità statale.  Scusate se sono così pignolo, ma fra poco ne capirete il perché.

    A mio avviso si profila la possibilità che il termine bandi-tore non sia legato mani e piedi alla radice di band-ire come noi la conosciamo ma alla radice di sscr. bhana-ti ‘egli parla’, ant. alto tedesco ban ‘comando, proibizione’, ant. frisone bon ‘ordine, comando, ecc.’, armeno ban ‘parola’, ecc. ecc.  Più in fondo si arriva alla radice *bhā- ‘parlare, dire’ che coinvolge molte parole greche e latine, come gr. phē-mí  ‘io dico, parlo’, gr. phōn ‘suono, lat. fari ‘parlare, dire, ecc.’, lat. fa-m-a(m) ‘fama, voce, diceria’, ecc. A me pare che anche la radice *bhā- di gr.  phain-ein ‘apparire, brillare’ è la stessa dell’altra *bhā- per ‘parlare’, non diversa.  Sempre secondo la mia linguistica, infatti, il parlare si configura come un ‘mandare fuori, emettere’ un suono e il brillare, splendere come un ‘mandare fuori, emettere’  luce o raggi. 

     Il termine ban-ditore, potrebbe essere addirittura un composto tautologico, formato dalla detta radice ban ‘dire’ e dalla contrazione del nome di(ci)-tore dal verbo dire, contratto anch’esso da lat. dic-ĕre ‘dire’.  Il nome così acquisterebbe una naturalezza e semplicità che fa bellamente a meno della presenza del gotico bandwa ‘segno’. È chiaro che quando arrivarono nel Medioevo i bandi dei signorotti piccoli e grandi    la parola non potè fare a meno di incrociarsi con essi.  Ma anche il termine bando, d’altronde, poteva essere semplicemente una estensione della radice ban relativa alla sfera del dire, sicchè anch’esso non era altro che un proclama dell’autorità, non un segnale.

   In questo modo le difficoltà vengono smussate e il bandi-tore, tornato comodamente alla radice di band-ire, etimologicamente era un proclamatore anch’egli perché faceva il giro del paese gridando ad alta voce il proclama che era stato emanato dall’autorità.

     Che le cose stiano così mi viene confermato dalla voce sbannëméndë ’svendita, imbonimento’[1], presente nei nostri dialetti.  Si trattava, come spiega bene il Lucarelli (testé citato in nota), di “una vendita al pubblico eseguita attraverso ribassi progressivi di prezzo rispetto a quello di partenza”. Una vendita all’asta   in cui tutti assistevano in silenzio e l’unico attore per così dire, era l’imbonitore che, con la sua parlantina sciolta  e i suoi gesti adeguati, esaltava la qualità della merce in vendita, fino a quando  uno degli astanti alzava la mano dicendo di volerla acquistare all’ultimo prezzo offerto. 

   Ora il termine s-bannëméndë, con la s- iniziale intensiva, non è altro che un derivato da band-ire nel significato originario di ‘annunciare, proclamare (ad alta voce)’: in questo caso l’imbonitore esaltava la qualità   della merce messa all’asta, cercando di convincere in ogni modo i presenti ad acquistarla.  Ritorna quindi il significato originario di ban ‘parola’, il cui uso sapiente facilita lo scopo dell’imbonitore.

    E’ veramente incredibile, ma anche quest’ultimo termine di imbonitore a mio avviso non è legato all’aggettivo buono: esso  indica un ‘parlatore convincente’, appunto, al limite anche uno ‘strillone’, provenendo dalla stessa radice ban ‘parola’, nella forma della variante bon cui ho accennato sopra. Si pensi al verbo gr. phṓné-ein ‘emettere un suono, parlare, gridare, ecc.’.

   In latino il termine per ‘banditore’ era praeco, -onis che valeva anche ‘imbonitore’ e si usava in diversi contesti, compreso quello delle vendite all’asta.  L’etimo, a detta di tutti, rimanda alla prepos. prae- ‘davanti’ e alla radice del verbo lat. voc-are ‘chiamare’.  D’altronde il riferimento al ‘grido, proclama’ si ritrova anche nell’ingl. cri-er ‘banditore, venditore ambulante’, ingl. bark-er ‘imbonitore, strillone’ (dal verbo bark ’abbaiare, sbraitare, urlare’),  ted. Aus-ruf-er ‘banditore’ (dalla prepos. aus- ‘fuori’ più verbo ruf-en ‘chiamare, gridare, ecc.’) e nel fr. crieur ‘banditore, venditore ambulante, strillone’.  La lingua francese fa anche una distinzione tra il bando emesso da un’autorità, chiamandolo ban, proclamation, e il bando divulgato dal banditore, chiamandolo appunto criée (come le gride manzoniane!): la lingua qui attua dunque quella distinzione su cui ho insistito sopra a proposito di banditore.



[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-AQ, 2003.