martedì 18 giugno 2019

Filosofia, mio malgrado.


Filosofia, mio malgrado
Cominciò Socrate a parlare di “concetto” inte
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Filosofia, mio malgrado
Cominciò Socrate a parlare di “concetto” inte





















Cominciò Socrate a parlare di “concetto” inteso come pensiero che raccoglie i tratti salienti di un animale, una cosa, o di un’idea.
Platone spiccò il volo verso l’Iperuranio conferendo ad esso una realtà immutabile ed eterna, al di là delle sue varie e imperfette realizzazioni terrene indicate attraverso le parole delle lingue, tutte diverse l’una dall’altra e certamente forme sbiadite di quella forma divina archetipica. Successivamente si riportò l’idea, come era a mio parere giusto, sulla terra e la si vide, di volta in volta come innata (Cartesio, Leibniz, ecc.) nella nostra mente, mantenendo così la possibilità di una sua origine sovrumana, o come il prodotto di un’operazione tutta mentale realizzatasi mediante il concorso dei nostri sensi (Locke, Hume, ecc.), cosa per me più credibile. Kant percorse una via di mezzo tra le due contrastanti posizioni, non riuscendo tuttavia a far a meno dell’elemento ultraterreno rappresentato dai due a priori dello spazio e del tempo. Ma Einstein e la sua rivoluzione, anche gnoseologica, era di là da venire.
A parte le concezioni più o meno accettabili circa la natura e l’origine del concetto o idea mi pare che nessun filosofo, che io sappia, abbia mai accennato alla possibilità che tutte le idee che costituiscono il Linguaggio dell’uomo provengano da una sola idea originaria che balenò nel suo pensiero in formazione e che venne realizzata con una qualche emissione di voce (non importa quale), idea che non poteva non essere la più generica possibile (non avendo del resto a disposizione altre idee specifiche da utilizzare) rispondente più o meno a quella di “forza, essere(vivente), anima, movimento, esistenza” come ho detto in altri articoli.
Ora, una volta accertato (cfr. i due precedenti articoli del giugno 2019: 1) A rëmastë gni dun Falcuccë[…] ;2) La “stacca” abruzzese) che il concetto di “essere vivente” è lo stesso di “rampollo, pianta, pollo, animale, animaletto, asina, asinello, cavallo, giovincello(a), ragazzo, ecc. “ e non perché si potrebbe credere, ad esempio, che gli abruzz. stacca ‘giovane e formosa donna’ e ‘asinella’ siano significati metaforici di un precedente *stacca, staccia ‘pertica, palo, pianta, rampollo’, allora non si può non concludere, nella forma più perentoria, che i vari significati espressi da quella radice sono da considerare su un piano di parità, essendo essi già presenti, sebbene in forma occulta, sin dall’origine, in essa, quando indicava genericissimamente un “essere vivente”. Il significato di ‘rampollo, pianta’ è già una specializzazione vegetale della radice, diversa (sebbene simile) da quella di ‘giovane donna’ o di ‘asinella’. Naturalmente questa origine comune, da cui si dipartono come tanti rami diversi tutti i significati, non è sempre rintracciabile per tutte le radici, data la serie di specializzazioni e di incroci intervenuti, nel corso della lunga vita di una lingua, a intorbidare le acque e a confondere la nostra mente.
L’origine prima di tutte le lingue è quel concetto genericissimo di cui ho parlato, alla cui formulazione l’animale uomo arrivò, nel corso della sua evoluzione. Del modo in cui, secondo me, esso ha presumibilmente dato il via al linguaggio, ho parlato in articoli scritti molti anni fa. Del resto si sa che anche gli animali, come certi tipi di scimmie, emettono suoni tra sé diversi quando si tratta di avvertire gli altri dell’apparire di un tipo di pericolo (non so: un serpente) o di un altro tipo (un leone, un’aquila). Ora, mi sembra sostenibile che questi suoni che la scimmia emette sono ancora da considerare come un colpo dato con una mano per avvertire del pericolo imminente, e che essi non siano affatto portatori di un concetto, per quanto genericissimo come quello di “anima, animale”, cosa che invece avviene per il linguaggio dell’uomo. Questo è il discrimine che segna il passaggio tra il cosiddetto linguaggio animale e quello umano.
Mi sono accorto che il filosofo Antonio Rosmini (1797-1855) -che conoscevo ma non tanto da poter fare le riflessioni seguenti- pone alla base della conoscenza umana il concetto innato di essere. Il suo ragionamento è piuttosto semplice: se togliamo ad esempio -egli sostiene- al concetto di uomo tutte le qualità che lo rendono tale, ci restano ancora tutte le qualità che potrebbero essere di un vegetale; se togliamo anche queste proprietà resta comunque un oggetto simile a quello del regno minerale, resta la sua esistenza: se togliamo anche questa nel nostro cervello non resta più nulla, nemmeno la possibilità di iniziare a pensare qualcosa. E questo a mio parere è vero. Solo che questa idea fondante del nostro pensiero, secondo lui è posta nell'uomo da Dio. Tutte le altre idee sono un prodotto dell'attività umana che opera, nel processo conoscitivo, sulla scorta dell'idea dell' ESSERE, in lui innata e che, come il sale, è presente in tutte le altre.
Ora questa concezione del Rosmini sembra avvicinarsi di molto alla mia che però vede tutte le idee, compresa quella genericissima iniziale (forza, spinta, esistenza, essere, anima) come prodotto della mente umana e come specializzazioni di quell'idea fondamentale, cosa non precisata dal Rosmini. Il ragionamento del Rosmini è astratto e ipotetico, anche se per alcuni tratti veritiero, mentre il mio è ricavato dal comportamento concreto rilevato nelle radici delle parole. E' vero, come ho accennato più sopra, che tra il linguaggio animale e quello umano sembra esserci un salto apparentemente insormontabile (e per questo taluni, come il Rosmini, ne sostengono un'origine divina), ma la storia della scienza, soprattutto negli ultimi secoli, ci ha abituato a salti che prima sembravano impossibili, anzi, nemmeno concepibili, perchè, come nella teoria della relatività di Einstein, ci si è dovuto abituare a idee, come quello di spazio e tempo, completamente diverse da quelle che sembravano fondanti per la mentalità e la scienza umana precedenti.
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