sabato 4 dicembre 2021

La maésa.

 


 

 

   La voce femminile aiellese ma-ésa corrisponde al termine maschile (talora femminile) it. magg-ése, il quale indica generalmente un terreno messo a riposo per essere lavorato l’anno seguente, secondo una pratica agricola antichissima che ristabiliva la fertilità di un campo divenuto poco fecondo negli anni.

    La forma ma-ésa si riscontra anche nel dialetto di Luco dei Marsi[1] con la /è/ grave, in alternativa, però, alla forma ma-jèsa, la più comune in Abruzzo, benché in genere con la /é/ acuta.   In internet la voce ma-ésa  ‘terreno arato in attesa delle piogge’ è diffusa anche nelle Marche.  

    Ora, urge una importante precisazione: la forma in uso ad Aielli presume senz’altro la velare, non la palatale, /g/ (come succede nella stessa voce del nostro dialetto Aéjjë ‘Aielli’ < lat. classico Agell-um di cui ho trattato altrove) presente in una forma *mag-ésa immediatamente  precedente all’attuale,  e pertanto in forte contrasto con l’aggettivo latino Mai-u(m) ’di maggio’ da cui tutti i linguisti derivano l’it. magg-ese di cui sopra, dando una spiegazione che in effetti è poco convincente: la lavorazione del terreno avverrebbe nel mese di maggio. Ma, come leggo, La forma classica del maggese prevede quattro lavorazioni del terreno (arature) che si susseguono da marzo ad agosto, e possiedono profondità variabile: molto leggera l'ultima e più profonde la prima e la terza.  Dopo queste lavorazioni tese a ripulire e preparare l’appezzamento, si procede, verso ottobre-novembre, alla nuova aratura per la seminagione.

   A mio parere, quindi, il mese di maggio  non c’entra nulla, come confermato d’altronde dalla forma aiellese ma-ésa <*mag-ésa che ci spinge a procedere  verso altra direzione. Quale?  Secondo me anche l’aggettivo e sostantivo lat. Mai-u(m) ‘di maggio’ o  ‘mese di maggio’ poteva avere in precedenza una velare, poi caduta, in una forma *Magi-u(m).  Il mese di maggio era così chiamato perché dedicato a Maia, divinità che a Roma rappresentava la fecondità in generale e il risveglio della natura a primavera.  Ma allora non dovrebbero esserci dubbi! Il maggese, termine che certamente esisteva già nel latino parlato nella forma *mag-ens-e(m), o simile, indicava il terreno sottoposto a questa pratica e la pratica stessa che ne ristabiliva la fertilità compromessa, naturalmente sotto la protezione della dea Maia come avveniva in genere per ogni attività agricola, ciascuna legata a qualche divinità come  ad esempio Messor , dio delle messi; Puta, dea della potatura; Semo, dio della semina. Una pratica importante come quella del maggese poteva svolgersi senza la protezione di qualche divinità che, nel nome stesso, ne indicasse lo scopo?  Senz’altro no, giacchè secondo me è valida l’equazione: Maia<*Magia (fertilità, fecondità) = magg-ese (terreno reso fecondo, fertile –e pratica relativa).

    Nei nostri dialetti il significato di ma-ésa  e simili indica genericamente il ‘terreno  lavorato più o meno in profondità’ (magari per dissodarlo),  nonché la ‘profondità, più o meno marcata, di qualsiasi aratura (ad Aielli-Aq)’ senza riferimento alla pratica del maggese.

    Così stando le cose quale potrebbe essere il significato della radice mag- all’origine di magg-ese e di Maia? Essa dovrebbe essere la stessa di lat. mag-n-u(m) ‘grande, numeroso, molto’.  Nel comparativo di maggioranza di questo aggettivo la velare /g/ cade ugualmente dinanzi alla desinenza –ior: infatti si ha ma-ior ‘maggiore, più grande’.  Ma un termine così antico da arrivare senz’altro al neolitico non poteva, a mio avviso, non incrociarsi con altri termini simili nella forma.  Io penso che questa radice si sia incrociata con quella dell’ingl. magg-ed ’logoro, consunto’ derivato probabilmente dall’ingl. dialett. magg-ed ‘stanco, esausto’ considerato, del resto, di origine ignota. Un terreno esausto, impoverito è proprio quello su cui si  applica la pratica del maggese per la quale sono necessarie da una parte la presenza di un terreno sfruttato, poco fertile, dall’altra una serie di lavorazioni che lo maggiorino, lo riportino alla fecondità perduta: qui si dà il caso che le due radici, che indicano le due cose, combacino nella forma eguale  mag- anche se il loro significato è in qualche modo opposto. 

    Chiudendo, ribadisco con forza che la voce ma-ésa del dialetto di Aielli e di altri mi costringe a constatare che l’it. maggese non deriva il nome dal mese di maggio, in latino Ma-iu(m) ’maggio’, ma semmai dal nome della dea Maia  alla quale  esso era dedicato, nome che aveva il significato di ‘abbondanza, fecondità’, ed era collegato alla radice indoeuropea di lat. mag-n-u(m)  ‘grande, numeroso, molto’.  In somma l’it. maggese non scaturisce direttamente dala forma storica lat.  Ma-iu(m) ‘maggio’, ma da una precedente forma *Mag-iu(m) anche se non attestata: l’aiellese ma-ésa ne è in qualche modo una prova.

    C’è ancora da sfatare un altro dubbio, cioè che nella forma maj-ésa la semivocale  /j/ sia la continuazione della semivocale /i/ di lat. Ma-iu(m) ‘maggio’Essa invece è dovuta alla caduta della consonante velare /g/ che  tra due vocali nei nostri dialetti spesso scompare, come in fràula ’fragola’ < lat. fragul-a(m), oppure lascia per così dire un segno trasformandosi  in /j/ come nella voce del dialetto cerchiese Ajéjjë ’Aielli’ che ad Aielli suona invece, come abbiamo detto, jjë, con la caduta totale della velare.  Molto istruttiva è la voce abruzz. arcaica pajé ‘paese’ dal lat. pag-ens-e(m) (cfr. lat. pag-um ‘villaggio, paese’), la quale normalmente si affianca all’altra  psë, in cui si ha la lenizione totale della velare /g/ come del resto nell’it. paese. Anche all’inizio di parola avvengono queste trasformazioni come in abruzz.[2] nërë ’genero’, nèstrë ‘ginestra’, ecc.   

     I dialetti smentiscono abbastanza di frequente le false supposizioni dei linguisti. 



[1] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei MarsI, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.

[2] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq.  2004.

   




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