martedì 13 aprile 2021

Scapë-cërrà.

 

                                     

 

      Il verbo è del dialetto di Trasacco-Aq e significa ‘cimare, spuntare, togliere la cima di una pianta, colpire qualcuno in testa’.  Anche qui, come nello scapë-cioccà di Luco dei Marsi-Aq, di cui  nell’articolo precedente, si ha  la conferma  che il significato di ‘colpire’ equivale a quello di ‘tagliare, cimare’; e allora bisogna ricavarne il principio che le  due idee sostanzialmente sono le stesse, l’una derivata immediatamente dall’altra, anche se noi oggi, vittime della precisazione a tutti i costi, a cui ci ha abituati una Lingua che da millenni tende a specializzarsi, proprio per essere più aderente e chiara, siamo spesso tentati a non condividere del tutto il dato di fatto.

    Ora, nel dialetto lucano di Gallicchio-Pz si incontra l’aggettivo e sostantivo scapë-cërr-àtë ‘scapestrato, senza regole, stravagante’.  Che si tratti dello stesso verbo non mi pare che si possa negare, ma il significato è piuttosto diverso.  Dinanzi a simili casi si rimane un po’ sconcertati ma In verità la questione si può risolvere facilmente se si parte dal concetto fondamentale di “forza, spinta” e lo si cucina in tutte le forme possibili.  Il ‘colpire’ e il ‘tagliare’ trovano unità nel concetto di “spinta”, concetto che a mio avviso sta dietro anche a quello di “libero, fuggevole, staccato dalle regole”.  Uno scapestrato è libero di fare quello che vuole, rifuggendo da ogni norma, e pronto a correre dietro i suoi capricci.

     Negli articoli precedenti abbiamo sottolineato il valore di ‘forza d’urto, spinta, fretta,ecc.’ della radice scap-, scaf- presente in questa componente  scapë-, valore che deve ripetersi tautologicamente nella componente   cërr-, la quale in effetti potrebbe avere la stessa radice kers del lat. curr-ĕre ‘correre’ e dare quindi al participio passato  scapë-cërr-àtë il significato di ‘corrivo, imprudente, sfrenato, scatenato’. D’altronde anche per la prima componente scapë- abbiamo citato, vedi caso, nell’articolo Scoppola  di qualche giorno addietro, la voce abruzz. scap-ëlë che vale proprio ‘corsa’. E il significato di ‘tagliare, cimare’ del trasaccano scapë-cërrà?  La prima componente, carica della forza di cui parlavo prima, l’abbiamo incontrata più volte nel gotico skab-an ‘tagliare, raschiare’, nell’ingl. shave ‘radere’: la seconda componente –cërrà è quella del gr. kéir-ein ‘tagliare, distruggere, rodere’, lat. cari-e(m) ‘carie’.  Ora io suppongo che questi vari significati che vanno dal correre al colpire al tagliare ecc. in realtà scaturiscano tutti da quello originario di ‘spingere, far forza’ e così essi non ci dovrebbero più ingannare con le loro diversità, talora apparentemente inconciliabili, e con la loro presenza sparsa qua e là nelle varie aree indoeuropee. 

   Un’ultima interessantissima notazione circa l’origine di it. scap-estr-ato riportato da tutti al lat. capistr-u(m) ‘capestro’, sicchè lo scapestrato sarebbe chi si è liberato di un capestro che lo teneva legato, come un animale che spezza la cavezza e fugge a scavezzacollo.   Di questo abbiamo già parlato a proposito di scavezza-collo ed altre espressioni dell’articolo precedente, ed abbiamo visto che in realtà l’idea che sta dietro queste espressioni non è quella di “liberarsi della cavezza, dal cappio o dal capestro” ma quella di “liberarsi e basta”.  Anche in questo caso lo scap-estr-ato non indica chi si libera di un improbabile capestro ma chi ha un furore interno che lo eccita e persino lo fa imbizzarrire perché spinto inesorabilmente da un estro irrefrenabile. Il lat. oestr-u(m) ‘tafano, assillo, ispirazione, foga’ è traslitterazione di gr. oĩstr-os ‘tafano, passione violenta, furore’. In greco c’era anche il verbo oistrá-ein ‘spronare, eccitare, rendere furioso’ che va  a fagiolo per spiegare la seconda componente di scap-estr-ato. La prima componente è inutile che la spieghi, visto che  l’abbiamo incontrata e analizzata già diverse volte usque ad nauseam.

    Il termine estro  può sembrare alquanto strano nei nostri dialetti che usano in genere al suo posto l’espressione mosca cavallina. Ma esso doveva in antico circolare abbondantemente se si usa, o si usava fino a poco tempo fa (almeno ad Aielli, Cerchio, Celano), l’espressione cana gnèstra, cioè ‘cagna in calore’. La voce gnèstra deriva da ‘in estro’, con la caduta della vocale –i- e la palatalizzazione della –n-.  Secondo me è incerto, poi, se queste forme dialettali abbiano preso dall’italiano o non piuttosto dal proprio antichissimo retroterra linguistico: scapë-cërrà  non esiste in italiano, come pure scapë-cioccà ‘tagliare, colpire di netto la testa’ del dialetto di Luco dei Marsi-Aq, citato all’inizio.

     La vita è fatta di compromessi, così una voce come scap-estr-arsi  ha dovuto scendere a patti per sopravvivere, cedendo il suo impagabile e sorgivo estro al lat. cap-istr-u(m) ‘capestro’, come se lo spirito furioso si potesse scatenare solo liberandosi da una corda.

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