lunedì 14 giugno 2021

La battaùttë.

 


 

Chiamata a Trasacco-Aq abbotta-ùttë e abbotta-bόtti altrove, nel Lazio ad esempio, è un’uva dagli acini grossi ma piuttosto carenti di concentrato zuccherino e perciò molto acquosa: dato questo nome essa non poteva sfuggire alla definizione da parte di tutti, compresi i linguisti, di ‘uva che  gonfia (abbotta-) le botti, ma che produce un vinello molto leggero’.

     In questi casi i linguisti abboccano senza starci a pensare due volte, e fanno male, anzi malissimo, perché non si sono resi conto che le parole quasi mai (forse proprio mai) girano intorno alla cosa da nominare, preferendo, come a me sembra naturale, indicarla direttamente, e di certo l’uva che ‘gonfia le botti’ è una definizione  piuttosto esteriore di questo  tipo di uva bianca, la cui caratteristica che balza immediatamente agli occhi, rispetto alle altre uve, è quella, invece, di avere grossi acini.  

    Poi, non si capisce come farebbe a gonfiare le botti, visto che queste sono piuttosto rigide, non elastiche: si dirà che la mia osservazione è eccessivamente pedante, e che il verbo indicherebbe in modo figurato l’azione del riempire il recipiente.  Il quale, inoltre, nei tempi più antichi (visto che le parole spesso raggiungono la preistoria), erano preferibilmente di terracotta, cioè delle giare invece di botti.

   Ad Aielli, il mio paese, il nome dell’uva era la batta-ùttë, femminile o l’abbatta-ùttë : sarebbe quindi un po’ strano questo batta-, abbatta- invece di  botta- o abbotta-, se la motivazione indiscutibile del nome fosse quella supposta da tutti: il riempire, il gonfiare (abbottare) le botti. 

   A Luco dei Marsi la parola botta-ùttë significa però solo ’persona o cosa gonfia’, quindi in passato era possibile intendere il termine in modo molto diverso da quello comune, tra persone dotte e no, che parla di botte da riempire: manca evidentemente una adeguata voce del verbo centro-meridionale abbottare ‘gonfiare’ nel primo membro e l’altro membro –ùttë non significa ‘botte’. 

    Allora la questione si profila in tutt’altro modo: il composto deve essere formato da due membri tautologici che inoltre sono due varianti di una stessa radice: bot- (ad Aielli bat-) è seguito da quella che ha tutta l’aria di una sua variante, ma potrebbe essere anche la stessa e non cambierebbe nulla: non è la prima volta che una parola è composta da una radice raddoppiata come nel lat. mur-mur ‘mormorio’, ad esempio.

   La nostra parola, quindi, all’origine doveva essere qualcosa come bot(t)-but(t) oppure bot(t)-bot(t) e significare qualcosa come ‘rigonfiamento, ingrossamento’.  La radice potrebbe essere proprio quella di latino tardo  butt-is ‘vasetto’ da cui l’it. botte, it. bott-iglia, ingl. butt ‘botte, barile’ it. bott-accio (bacino di raccolta delle acque), che rinviano tutti ad una spiccatissima radice celto-germanica bot, but (come dice il Pianigiani in rete) col significato di ‘cosa gonfia, rotonda’, radice presente in diverse altre parole di lingue europee, non ultima il fr. butte ‘collinetta’ nel senso di ‘rigonfiamento’.   Questa è a mio avviso la giusta spiegazione del luchese botta-(v)ùttë ‘persona e cosa gonfia’.  Significato concreto e diretto, anche se molto generico: il che collima con la mia convinzione che i significati originari delle parole erano tutti generici, anzi genericissimi. L’acino, grosso o piccolo che sia, rientra sempre nel numero delle tantissime cose più o meno rigonfie. Quindi, al limite, la radice in questione poteva essere usata anche per indicare un acino normale.  Il suo raddoppiamento è però una certa garanzia della sottolineatura del concetto espresso, come quando noi usiamo ripetere un aggettivo per rimarcarne  la forza: è un rospo gonfio gonfio.

     A suggello di quanto ho detto aggiungo che a Luco dei Marsi l’uva di cui si parla è chiamata uv-όnë, nome maschile presente anche a Trasacco, accanto all’altro, nonché ad Avezzano-Aq nella forma uόnë, sempre accanto all’altra botta-ùttë o anche otta-ùttë. Si tratta, insomma, di un accrescitivo di it. uva che riconferma la spiccata tendenza della Lingua ad indicare le cose per quello che sono, senza giri vari di parole metaforico- descrittive.

    Alt! Proprio in questo momento, mentre chiudevo questo articolo, è riaffiorata alla mia coscienza la voce aiellese vatta-vόtë, maschile, che indicava una fossa scavata dal contadino nel terreno, come ricettacolo di un po’ d’acqua piovana o di qualche rigagnolo, sempre utile a qualcosa.  Stupendo! La parola è proprio simile a quella di cui mi sono occupato finora, cioè batta-ùttë con le sue varianti.  Questa somiglianza non è casuale, dato che il concetto di “fossa, cavità” è speculare di quello di ‘rigonfiamento, protuberanza, rotondità’: non è proprio un caso se l’aggettivo lat. convex-u(m) significa sia ‘convesso’ (cioè curvo, sporgente verso l’esterno) sia ‘concavo’ (cioè curvo verso l’interno il basso). 

   Una trentina di anni fa, quando per la prima volta riflettei su vatta-vόtë pensai che si trattasse di un composto il cui primo membro vatta- doveva corrispondere al gotico wato’acqua’ e il secondo all’it. vuoto, voto (dial. vόtë), sicchè il significato del composto doveva essere ‘vuoto, cavità per l’acqua’.  Ma dopo qualche anno capii che si trattava di composto tautologico i cui due membri indicavano sempre la ‘cavità, la fossa’, anche se un incrocio con la parola gotica poteva esserci stato.  Il primo membro presenta una radice uguale a quella di ingl. vat ‘tino, botte’: ecco spiegata allora la –a- del primo elemeto batta- di aiellese batta-ùttë, che mi sembrava un po’ strana rispetto a abbotta-botti riferito a quel tipo di uva! Che meraviglia!

 

 


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