venerdì 2 settembre 2011

Origine di sardo thalàu/thàlau, talàu/tàlau 'crusca di frumento'. Un dilettante vs. fior di linguisti


A Pierluigi
anima lucida e sola,
nell'anniversario.

La parola presenta anche le forme telàu, tèlau, thelàu. Ho letto l’articolo Thalau:una parola osca salvata nel sardo (rintracciabile in Internet con questo titolo) del linguista A. Areddu relativo all’etimologia di questa voce che ha dato e dà filo da torcere a fior di linguisti e ho fatto alcune semplici riflessioni. Il problema della uscita in –au , così rara nel sardo logudorese che mantiene sempre la forma –adu (da precedente –atum) si risolve, a mio avviso, partendo dalla constatazione che esistono in sardo delle forme come campid. tela de cuba, tela-cua ‘tartaro, gromma (della botte)’, nuor. (a Nurri) tela ‘pietra larga’ (1), campid. tela ‘cateratta dell’occhio, nubecola’ le quali non possono non essere in rapporto, per una forte somiglianza dei significati profondi, con log. tel-au ‘crusca’ e pertanto suggeriscono che il presunto suffisso –au debba in realtà essere il residuo di un secondo costituente tautologico della parola dato che la forma tela da sola ha già sostanzialmente quel significato. Io penso, d’altronde, che tutti i suffissi in origine erano solo componenti tautologiche. Quale sarebbe essa, allora, in questo caso? Ho cercato di risolvere la questione tenendo presente, ad esempio, la voce logudorese àstrau, astràu ‘ghiaccio’ e supponendo che essa sia derivata da precedente *astr-ac-um, *astr-ag-um diventata poi astrau con la lenizione totale della velare sonora –g-, come capita ad altre parole. Grande è stata la mia sorpresa quando, andato a controllare il DULS di A. Rubattu nella sezione Italiano-Sardo, ho visto che effettivamente esisteva il nuorese àstr-agu, àstr-au ‘ghiaccio’ che confermava la mia ipotesi sviluppata poi nel post precedente intitolato Col tempo e con la paglia maturano le nespole e la canaglia. L’elemento -ag-/-ak-, nel caso di tel-au ‘crusca’, deve avere lo stesso significato di tela- ed io lo individuerei in una forma simile al gr. ákhne ‘pula, loppa’, gr. ákhur-on ‘pula, loppa’, lat. acu(m) ‘pula’, lat. acus, eris ’pula, loppa’, got. ahs ‘pula’. In logudorese (2) c’è anche fau ‘faggio’ da lat. fagu(m) come abruzzese fahë, fave (3) oppure fao (Castellafiume-Aq, Tagliacozzo-Aq, ecc.), fung-au ‘pantano’ e fungu ‘pantano’ dall’idea di 'cavità' come risulta dall’aggettivo fung-udu ‘concavo, profondo, voraginoso’ riscontrabile anche nell’abruzzese (Aielli, Cerchio, Trasacco, ecc.) funghë ‘vuoto, cavo’. Altri esempi logudoresi vanno sempre nella stessa direzione come sagu ‘coltre’ e sau ‘panno’ (lat. sagum ‘saio’) o come lurd-agu ‘fanghiglia, pantano’ e ludr-au, ladr-au ‘fanghiglia, pantano’: e così dovrebbe essere chiaro, per la coincidenza dei significati, che fung-au ‘pantano’ precedente derivi da *fung-agu come ludr-au da lurd-agu. La stessa cosa si ripete in log. (ant.) pél-agu ‘acquitrino, pelago’, log. pél-au ‘ acquitrino’, log. pal-au ‘pantano’. E non ce ne saranno molti altri. Nella mia parlata di Aielli u ‘m-bala-tùrë (da *im-pala-tùrë) era ‘il pantano’ e ’m-bal-àssë significava ‘infangarsi’. Oggi 30 agosto 2011 ho avuto la prova, come al solito, che il mio ragionamento ha solide basi: infatti nel DULS ho incontrato, molti giorni dopo la prima stesura di questo articolo, la voce logudorese agh-eddu ‘crosta, incrostazione’ (apparentata chiaramente col 2° membro del sunnominato nuorese àstr-agu, àstr-au 'ghiaccio' ) che è da considerare una variante di lat. ac-u(m) ‘pula’ sopra citata e 2° costituente di tal-au ‘crusca’. La scoperta è stata casuale. In verità, a suo tempo, ero andato a cercare una eventuale voce agu, aga col significato di ‘crusca’ e simili, ma non avevo trovato nulla. Non potevo immaginare che essa avesse assunto la forma, apparentemente diminutiva, di agh-eddu.

Che accanto a sardo tela ‘tela, cataratta, tartaro’ esistesse una forma tala ce lo suggerisce il log. tal-aranis ‘ragnatela’, nuor. tall-aranu, tadd-aranu ‘ragnatela’; esiste anche la variante log. tol-oranu che ha mutato in o- la prima a- di –aranu per assimilazione. L’alternanza sorda/aspirata in thalau/talau non è tale, secondo me, da costituire un problema insuperabile: se queste forme sarde avessero avuto, per ipotesi, il th- iniziale lo avrebbero quasi certamente mutato in t- per influsso di lat. tela(m). Nel Medioevo(4) si incontra infatti thal-amus ‘tipo di cortina, velo’ che richiama il gr. thál-am-os ‘talamo, cubicolo’, tall-os ‘vasi’ la cui idea di fondo è quella di ‘cavità, rotondità’, tel-ata ‘cataratta dell’occhio’ che richiama il campid. tela ‘cateratta, ecc.’ ma non può essere considerato l’immediato precursore di logud. tel-au ‘crusca’. Ora, io penso che accanto a queste voci bisogna porre anche il gr. thul-ák-e, thul-áki-on ‘borsa, scroto, guscio, involucro, seme’, sp. tal-ega ‘sacca’, sp. tal-ego ‘sacco’, gr. thól-os ‘edificio rotondo, cupola’. Se poi rifletto sul fatto che in greco si avevano per ‘mare’, ad es., tre forme come thál-atta, thál-assa, cret. thál-aththa (se non ce ne erano altre a noi non pervenute!) debbo concludere che noi effettivamente ereditiamo dall’antichità forme passate al setaccio dell’omologazione linguistica che ne ha necessariamente scartate tante. Esiste anche una serie abbastanza nutrita di radici con la dentale sorda iniziale o affricata sorda come lat. talla ‘velo di cipolla’, dial. (a Rocca di Botte-Aq) zarl-òcche e zall-òcche (5) ‘croste di sterco sui peli degli animali non troppo curati’, zélla (Rocca di Botte, ma diffuso nel centro-meridione anche nella forma zilla) ‘sporco di diversi giorni sulla pelle’ sicuramente in rapporto con dial. (a Luco dei Marsi-Aq) tall-òcche, zall-òcche (6) ‘zolla’ e con sardo tilla ‘macchia’, campid. tell-ura ‘strato geologico’, termine in rapporto con lat. tell-ure(m) ‘terra’, risalente probabilmente ad una radice per ‘piano, distesa’, campid. tella, tel-utza, tel-gia ‘lastra’, log. tel-ga ‘scoria (da un significato di 'scaglia'?)’, probabile variante del supposto *tala(g)u,*tela(g)u ‘crusca’, abruzz. zèlëchë (7) ‘telo di panno grossolano’. Il termine talco indica un minerale a struttura lamellare costituito di sottili scaglie, dall’arabo talq ‘amianto’. Il significato di sporcizia ricompare nel verbo dial. (Aielli e altrove) ‘n-zar-zalà ‘sporcare, imbrattare, inzaccherare’ in cui –zar- deve essere dissimilazione dal seguente –zal-. Si incontra in Abruzzo anche la variante ‘n-zazzarà (8) ‘lordare, insozzare’ incrociatasi con it. zazzera tanto è vero che a Cerchio-Aq il verbo ‘n-zar-zalì (9) riduce il significato a ‘sporcare peli o capelli’ e zàr-zalë vengono lì chiamati i capelli, quando sono lunghi e sporchi. Non è quindi da escludere, anche per queste forme sarde, un’alternanza originaria di forme. A Spinazzola-Ba zælé (10) vale ‘defecare inaspettatamente’, zèll ‘residuo fecale anale’, zæll-æus ‘sporco di residuo fecale anale’, zæl-arèdd ‘diarrea’.

Le isoglosse sardo-abruzzesi sono più numerose di quanto si pensi. Valga per tutte il termine nuorese orgu-meddu, irgu-meddu ‘pomo d’Adamo’ messo in relazione con catalano garga-mell nel DULS sopra citato, e senz’altro in rapporto con i vari abruzzesi (11) garza-melle ‘ugola’, garza-mille ‘tonsilla’, trasaccano (12) vërzë-méjjë, urzë-méjjë ‘ugola, tonsilla’ o altra ghiandola ingrossata, corze-méglio (a Castellafiume-Aq) ‘gozzo’(13), vorzë-mèglië (a Luco dei Marsi-Aq) ‘gola, esofago, gricile’(14). Il primo componente ha subito l’usura del tempo, e probabilmente è andato soggetto a tanti influssi, non ultimo quello di it. gozzo, ma resta comunque indiscutibile il rapporto con sardo orgu-; il 2° componente è rimasto saldo come una roccia, fatte salve le normali e ben rintracciabili oscillazioni di pronuncia. A mio avviso la componente –melle (e varianti), col significato di ‘escrescenza, rotondità, ecc.’ ha dato il via non solo all’espressione italiana pomo d’Adamo ma anche a quelle dialettali che usano il termine mela, il quale quindi (ormai dovrebbero saperlo anche gli analfabeti) non è stato usato metaforicamente in riferimento all’aneddoto biblico, ma è solo il risultato automatico dell’incrocio con un’antichissima radice prelatina *mel(l)o ‘colle’ che mi pare ricorrere anche nella Bibbia. Fantastico il nome del paese di Corcu-mello, posto su una piccola altura, frazione di Capistrello-Aq, che sembra quasi la traduzione toponomastica del significato di ‘protuberanza’ insito nella voce corze-méglio ‘gozzo’ del non lontano paese di Castellafiume-Aq. In dialetto Corcu-mello suonerà proprio Corcu-méglio (benchè io non ne abbia esperienza diretta) e non Curche-méjjë, data l’appartenenza di questo paese all’area della Marsica occidentale comprendente Capistrello, Castellafiume, Tagliacozzo, Magliano dei Marsi, ecc. di influenza linguistica sabina, diversa, per alcuni fenomeni abbastanza notevoli riguardanti le vocali atone e finali qui conservate (-u- ed –o- latine si fondono nell’esito –o-), dall’area marsa vera e propria, stretta intorno all’alveo del Fucino, di influenza linguistica sannitica dove le vocali non accentate tendono a chiudersi nella vocale indistinta –ë-, tranne in genere la –a-.

La mia soluzione del problema (che considero immodestamente quella vera) dell’origine di sardo thalau ‘crusca’, raggiunta in un modo abbastanza semplice, in fondo, mentre essa costituisce – a detta di Areddu che avanza un’ipotesi che a me sembra piuttosto lambiccata- un vero rompicapo per i linguisti, compresi il grande Max Leopold Wagner e Massimo Pittau i quali finiscono col rifugiarsi però nel sostrato, dimostra che il mio metodo di approccio a questi problemi, derivante dalla mia concezione della Lingua, deve essere quello giusto. In questo caso, infatti, è stato il principio della ripetizione tautologica che mi ha aperto la porta della soluzione: essi, in effetti, non si sono nemmeno sognati di considerare la componente –au di thal-au come il residuo di una voce autonoma rispetto a thal- sebbene con lo stesso significato, e pertanto non si sono preoccupati di andarla a cercare, eppure era lì a portata di mano nel dialetto stesso del Logudoro, o probabilmente la conoscevano già, ma non sapevano che farsene. Deve aver giocato contro di loro anche il presupposto che la parola dovesse essere strettamente legata al grano e alla sua lavorazione, quando invece il significato di ogni termine travalica abbondantemente qualsiasi ambito perché nato col marchio della genericità. L’abito mentale del linguista tradizionale risulta sempre troppo stretto nei confronti della Lingua che preferì allargare i confini dello spirito piuttosto che restringerli, nella sua opera di creazione dei vari strumenti di descrizione del reale e di comunicazione. L’ Areddu collega la sua proposta alla parola spagnola salv-ado ‘crusca’ il cui primo elemento avevo per caso già analizzato come portatore di un concetto di ‘avvolgimento, copertura’, molto adatto per il concetto di ‘crusca’, nel post del giugno scorso intitolato Salvadanaio delle parole. Ormai, ça va sans dire, siamo ben sicuri che l’elemento –ado, lungi dall’essere considerato spia di un part. pass. o di un altro non meglio identificato suffisso (il caso di thalau insegna), va rintracciato nei lessici di lingue vicine o lontane, come termine di tutto rispetto con un significato adeguato al nostro caso. Io indicherei già il gr. ath-ér ‘punta della spiga’ ma anche ‘pula, paglia’ (e già! perché i due concetti –protuberanza e cavità- sono speculari, l’uno tira l’altro! Due semirette aventi la stessa origine generano in un piano contemporaneamente un angolo concavo e convesso). Ai savants più dotti di me il compito di trovarne qualche altro, ma anche il ted. Ad-er ‘vena’, in quanto ‘cavità’, può intanto accontentarci.

Tuttavia non si può passare sotto silenzio il log. salvadella ‘vena del dito mignolo della mano’ (ma la parola aveva in passato una circolazione molto più ampia se si trova registrata nel Webster’s Dictionary s.v. salvatella), dalla quale si estraeva sangue nei salassi a causa della credenza popolare secondo cui, cavando sangue da essa, il malato si salvava. Siamo alle solite! La credenza non genera il nome ma ne è semmai alimentata. Lo abbiamo chiamato il principio della nominazione diretta. Questa volta è stato il citato Glossarium mediae et infimae latinitatis del Du Cange a tagliare la testa al toro mediante la voce salv-at-ella definita come pellicula involvens cerebrum ‘pellicola che avvolge il cervello’ e sfuggita evidentemente ad Areddu e agli altri: anche questo non è senza motivo, ma ridimostra bellamente, a mio vedere, che mentre la mia ricerca prosegue felicemente secondo i ritmi ampli e naturali della Lingua che opera attraverso idee generiche (come sostenevo più sopra) le quali possono coinvolgere i campi più disparati, la loro, invece, si appunta testardamente su significati particolari stretti intorno a quello di cui si cerca l’etimo. Anche in questo caso ritorna, dunque, quell’idea generica di ‘avvolgimento, involucro, copertura, pelle’ di cui abbiamo parlato nel post Salvadanaio delle parole a proposito di questa radice salva-, la quale è più viva che mai nello sp. salv-ado ‘crusca’ e anche in salv-at-ella ‘vena’, concetto esplicitabile in quello di ‘cavità, canna, tubo, avvolgimento, rivestimento, ecc.’. Dati questi numerosi esempi e corrispondenze a me pare che il lat. salvu(m) ‘sano, intatto, salvo’ non possa essere derivato da un’idea originaria di ‘interezza’ come solitamente si pensa, ma da quella di ‘protezione, sicurezza’, generata da qualcosa che avvolge e mette al riparo dai pericoli. Lo sp. salv-ado, con la sua presunta desinenza participiale, inganna purtroppo gli studiosi succubi dell’influenza delle forme latine, ma le parole —ormai ben dovremmo saperlo— affondano le lunghissime radici in strati linguistici talmente lontani che recalcitrano spesso a confrontarsi con le norme superficiali di sistemi linguistici che potremmo definire di oggi, latino compreso. Sicchè, se dipendesse da me, non potrei esimermi purtroppo dal considerare quasi come rei di crimini contro l’umanità (per le conseguenze nefaste nella linguistica generale e nell’antropologia) coloro i quali, dinanzi, ad es., al toponimo abbastanza diffuso di Valle (Fosso) Tagli-ata, tirano via con leggerezza, forti della loro autorità e del loro potere, ritenendolo self-evident o, peggio, si ostinano a ritenerlo tale se invitati a pensarci su, quando invece è evidente che esso è formato da due membri tautologici, il primo della famiglia di ted. Tal ‘valle’ e il secondo apparentato col secondo di sp. salv-ado ‘crusca’, e sicuramente con altre parole. Secondo membro che si ritrova, ad es., nell’ it. vall-ata dal significato più o meno uguale a quello di valle (15). Che magnifico gioco ad incastro! Notate, infatti, che anche il tal- di sardo tal-au ‘crusca’ reclama l’appartenenza a questa vasta famiglia. L’ Areddu, e prima di lui J. Corominas, che hanno tratto in ballo questo spagnolo salvado ‘crusca’ per spiegare il sardo thal-au ‘crusca’, si sbagliano in quanto quest’ultimo termine ha una vita indipendente rispetto all’altro. Del resto il motivo per cui salvado significa ‘crusca’, da noi individuato nel significato di ‘avvolgimento, involucro, copertura’, non corrisponde a quello da loro sostenuto e individuato probabilmente nel concetto di ‘salvare’ da parte del Corominas, in quanto la crusca sarebbe qualcosa che si salva o si scevera per mezzo del vaglio (il ragionamento sa di artificio!), e in quello di ‘integro’ attraverso l’osco salaus, lat. salvu(m) ‘salvo, intero’ da parte dell’Areddu, in quanto ancora oggi ricorrono espressioni come pane integrale che, a mio avviso, sono però qui artatamente introdotte. Tutta la faccenda dimostra: 1) I linguisti navigano spesso a vista nella ricerca degli etimi e si attaccano a qualsiasi parola che possa in qualche modo, il più delle volte artificiosamente, risolvere il problema, senza la guida di alcun punto fisso di riferimento all’orizzonte, come invece avviene in questo caso ricorrendo al concetto di ‘avvolgimento, rivestimento’, nel cui ambito va cercata la soluzione; 2) Essi ignorano quasi del tutto il fatto importantissimo costituito dalla estrema genericità dei significati delle radici i quali, improvvisamente, possono trascolorare e ruotare di 360°.

Sia il Corominas sia l’Areddu si trovano nella strana situazione di chi ha la soluzione a portata di mano ma, per mancanza di quelle conoscenze di cui parlavo intorno alla natura squisitamente polisemantica, mercuriale e volatile del significato, arrancano nel trovarla e non scoprono il legame diretto, tra il significante salv- e il significato ‘crusca’, all’origine stessa della radice, per il loro essere scleroticamente legati, mani e piedi, ai valori saputi che essa ha successivamente assunto (‘salvo, intero’) i quali, fatalmente, offuscano la loro lucidità indagatrice costretta nello spazio limitato concesso dalla esiguità asfissiante del presunto significato di fondo.

Ci si metta il cuore in pace! In un certo senso il difficilissimo, funambolico e, per molti versi, aleatorio lavoro degli etimologi può considerarsi arrivato al capolinea. C’è una parola (ad es. sp. salvado) che significa ‘crusca’ e la radice oggi significa tutt’altro (‘salvo, intero’)? Ebbene, linguisti, non lasciatevi prendere da senso di disorientamento, non iniziate scalate o avventure fuorvianti gli uni contro gli altri armati, non spiccate salti enormi, pericolosi o vertiginosi, perché molto tempo fa, la distanza fra i due poli semantici era sicuramente azzerata o, nell’altra eventualità in cui il significato attuale di una radice non si sia allontanato da quello originario della parola , la stretta, esclusiva, ancora non turbata armonia tra significante e significato è già garanzia naturale, incontrovertibile della legittima perfetta biunivoca sintesi tra i due, in seno alla quale l’uno vive in funzione dell’altro e quel particolare significante si sostanzia di quel particolare significato, una volta chiusosi alle spalle il ventaglio delle altre sue svariatissime possibilità semantiche originarie ed eliminata così di fatto, in qualche modo, la dicotomia costituita dalla cosiddetta arbitrarietà del segno linguistico, la quale sussisteva ancora un istante prima del felice connubio; segno linguistico concretizzatosi, aristotelicamente, in un sinolo di materia (significante) e forma (significato) non più separabile, pena la scomparsa della sua individualità, che trova in sé stesso, e non altrove, la sua piena giustificazione e spiegazione, se non fosse per il fatto che noi, essendo un po’ lenti di comprendonio, abbiamo bisogno del conforto di esempi e di paragoni che ci chiariscano gli eventuali altri percorsi effettuati dalla radice con la produzione di altre incarnazioni lessicali. Se poi si sono verificati uno o più incroci con altre radici, nella sostanza le cose non cambiano: bisogna scavare, scavare, scavare sradicando tutte le superfetazioni ingombranti per toccare alfine lo strato genuino originario dove trovare la vena sorgiva la quale soddisferà ogni nostra esigenza.



Salve, diva almaque Salus, rerum magna parens bonarum singulis hominibus civitatibusque! Nullus mortalis, sine ope tua, felix unquam dici potest, sed, fortibus involvens brachiis, serva atque protege benigna et omnium linguarum innumerabilia verba veluti folia obscurorum nemorum orbis terrarum arcanorumque, ab unguibus atque manibus grammaticorum male sanorum.

(Salve, divina alma Salute, larga dispensatrice di beni ai singoli uomini e alle loro città! Nessun mortale può dirsi felice senza il tuo soccorso, ma, avvolgendole con le tue forti braccia, salva e proteggi benevola anche di tutte le lingue le parole, innumerevoli come le foglie dei boschi oscuri e misteriosi della Terra, dalle mani e dalle unghie degli studiosi irragionevoli)


A Iullo Antonio

Pindarum quisquis studet aemulari,
Iulle, ceratis ope Daedalea
nititur pennis, vitreo daturus
nomina ponto.
[…]


Multa Dircaeum levat aura cycnum,
tendit, Antoni, quotiens in altos
nubium tractus: ego apis Matinae
more modoque,

grata carpentis thyma per laborem
plurimum, circa nemus uvidique
Tiburis ripas operosa parvos
carmina fingo.
[…]
(Hor. Carmina, IV,2)

(Chiunque s’attenta d’imitare Pindaro,
o Iullo, vola con ali di cera,
come Icaro, a lasciare il nome a un mare
di vitrea onda. […]



Molt’aria sorregge il cigno dircèo,
o Antonio, ogni volta che si slancia
sicuro verso il cielo più alto: io piccola
ape matina


abituata a suggere il dolce timo
faticando, intorno alle rive e i boschi
di Tivoli irrigua, distillo alfine
gocce poetiche) […]



Posteritate fretus iudicium, sicut meus est mos, patienter atque aequo animo iam umbra exspectabo, propterea quod hoc unum compertum habeo, nullum grammaticum, multis de causis, mirabilia omnium gentium sermonum quae inveni, quamvis aperte abundeque probata, umquam vivum esse passurum. Praeterea omnia opportuna iis, minimeque mihi, qui sola verborum exempla afferre possum —quae facile negantur, quamvis captiosis argumentis, ab iis qui nempe verbis excellunt—, non instrumentum aut factum quoddam, manifestum, solidum quod ad invidiam malevolorum compescendam ceteris ostendam. Beati physici, medici qui rebus non verbis inventa sua probant!
Dico, sine fuco et fallaciis, quod sentio: immodestus falsusve numquam —propemodum!— fui.
Munus meum, a me viginti fere annis ante initum, consummatum est: hic possum consistere optime, ratione vera de linguarum rebus indagandis inventa et via. Sed multo studio atque amore provectus mea scripta, etymologica praesertim, non intermissurum iri sentio.

(Fiducioso nei posteri, ne attenderò il giudizio quando sarò ombra, con calma e pazienza, come è mia abitudine. Poiché questa è l’unica certezza che ho: nessuno studioso da vivo, per molti motivi, riconoscerà mai le meraviglie della Lingua da me scoperte, benchè apertamente e abbondantemente provate. Inoltre tutto gioca a loro favore non certo di me, che posso addurre solo esempi fatti di parole —facilmente negati, anche se capziosamente, da chi in esse eccelle di certo—, non uno strumento o un fatto tangibile, solido da mostrare a tutti gli altri per tacitare l’avversione dei malevoli. Beati i fisici, i medici che possono provare coi fatti e non a parole le loro scoperte!
Dico, senza infingimenti, ciò che penso: immodesto o falso non sono stato mai —quasi!
Il mio compito, iniziato una ventina di anni fa, è stato portato a termine: qui potrei fermarmi ottimamente, scoperto il metodo obbiettivo da seguire nell’analisi linguistica. Ma sento che i miei articoli continuerò a comporli, soprattutto quelli etimologici, mosso da profondo amore e passione per la linguistica)




Note:
(1) Cfr. O. Nioi, Microtoponimi di Nurri, sito internet: http://www.sardegnadigitallibrary.it/mmt/fullsize/2010011412222000009.pdf
(2) Cfr. A.Rubattu, DULS, sito internet: http://www.toninorubattu.it/ita/DULS-SARDO-ITALIANO.htm
(3) Cfr. D. Bielli, Vocabolario Abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq 2004.
(4)Cfr. Du Cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis, sito internet: http://ducange.enc.sorbonne.fr/SALVATELLA
(5) Cfr. M. Marzolini, “Me ‘nténni?”, Arti Grafiche Tofani, Alatri-Fr 1995.
(6) Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq 2006.
(7) Cfr. D. Bielli, cit.
(8) Cfr. D. Bielli, cit.
(9) Cfr. F. Amiconi, Tradizioni popolari marsicane: il dialetto cerchiese, Museo civico di Cerchio-Aq, anno VII 2004, quaderno 57.
(10) Cfr. sito internet: http://www.spinazzolaonline.it/public/editorfiles/Dizionario+cover%20PDF(1).pdf
(11) Cfr. D. Bielli, cit.
(12) Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003.
(13) Cfr. D. Di Nicola, Storia di Castellafiume, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2007.
(14) Cfr. G. Proia, cit.
(15) In effetti, a mente sana, io non saprei immaginare da che cosa una “valle” potrebbe essere tagliata. Da una strada? Da un’altra valle che confluisce in essa? Ma sono motivazioni accettabili per il toponimo? A meno che la valle non sia stata tagliata nella viva roccia o nel terreno dalle mani dell’uomo, caso piuttosto raro che perciò non spiega tutti gli altri. Io penso che il problema sarebbe molto più semplice se si riuscisse a chiarire che le radici di ted. Tal ‘valle’ e di it. tagli-are possono nel fondo combaciare. Perché l’etimo solitamente dato per it. tagli-are non mi convince molto. Esso partirebbe da tardo lat. tali-are (ma nel medioevo -cfr. Du Cange- anche tall-are, per cui si può anche supporre che la forma tali-are si sia prodotta dall’altra in conseguenza della pronuncia palatale, molto antica, della –l- doppia o scempia) , denominativo da lat. talia(m), talea(m) ‘pollone’, col significato iniziale, non attestato (credo), di ‘tagliare un pollone, un ramo’. Io penso invece che la radice col significato di ‘tagliare’ si sia solamente incrociata con quella di lat. talea(m) producendo un significato formato da due concetti i quali, come ho sostenuto in un articolo precedente, vanno spiegati separatamente. E per liberarsi definitivamente dell’ombra che il lat. talea(m) continuerà a proiettare sul verbo tali-are ‘tagliare’ bisogna spingersi realisticamente fino all’accadico tallu ‘linea di divisione’(III millennio a.C.). In verità il concetto di ‘valle’, sebbene possa essere considerato variante dell’idea di ‘avvolgimento, cavità’, deve avere le radici immerse in quello più originario di ‘movimento, depressione, rientranza’ (come ben sottolineo nel post Col tempo e con la paglia […] del luglio scorso a proposito dell’idee interconnesse di ‘piano’, ‘valle’, ‘monte’), da cui è derivata anche l’idea di ‘valle’ con le sue forme più o meno graziosamente tondeggianti e quella di ‘ammaccatura’ insita nel fr. tal-er ‘ammaccare (detto della frutta)’. Ma quella stessa idea di ‘movimento (e di ‘forza’) poteva dar vita ad un concetto simile di ‘fosso, buco, fenditura, ferita, taglio’ proprio del verbo tali-are, il quale si incontrò per caso con lat. talia(m) e ne assunse comodamente le sembianze, visto che spesso (ma non necessariamente) i polloni vengono tagliati dai contadini. Ma anche le voci spagnole taj-o ‘taglio, scarpata, burrone’, tal-ud ‘scarpata’, tal-adro ‘trapano, buco’, tal-ego ’sacco’, tal-ega ’sacca’ (queste ultime due già citate) confermano l’assunto. Il 2° elemento –adro mi pare molto vicino al citato ted. Ad-er ‘vena’. Le forme spagnole taj-o ‘taglio, burrone’, tal-a ‘disboscamento’, tall-a ‘intaglio, scultura’ dimostrano come la Lingua tenda ad approfittare di sia pur leggere differenze fonetiche di varianti della radice per specializzarne il significato. Che la radice tal- ‘tagliare’ avesse avuto una vita autonoma rispetto a talea(m) ‘pollone’, lo dimostra l’esistenza della variante dell’a. ingl. dal ’porzione, divisione’, got. dails ’parte’, ted. Teil ‘parte, sezione, fetta’, ingl. deal ‘quantità, mucchio’. L’ingl. dell ‘valletta’ e ingl. dale ‘valle, valletta’ condividono la radice con ingl. dale ‘tubo, condotto’ per lo stesso motivo per cui una “vena” e una “valle”, come abbiamo visto sopra, si incontrano nel significato di ‘cavità, buco’. Una variante della radice si ritrova, a mio avviso, anche nel trasaccano tijjë ‘ascella’, da *tillë (Cfr. Q.Lucarelli, Biabbà Q-Z, cit.) da confrontare con ingl. till ‘cassetto (del denaro), cassa, forziere’, gr. túll-os ‘cassetta, cesta’, gr. túl-os ‘nodo, chiodo, borchia’, gr. túl-isso ‘avvolgo’. Nell’ingl. till-er ‘pollone, timone, barra’ si ripete lo stesso gioco che ha permesso la confusione tra tardo lat. tali-are e lat. tale-a(m) ‘pollone’: il motivo non deve essere casuale perché il “pollone”, come suggerisce l’etimo stesso, è espressione di una forza che preme ed erompe, mentre tali-are è espressione di una forza che taglia e rompe. Non dimentichiamo che till in inglese, oltre che un generico ‘coltivare’, significa anche ‘arare’, che è un ‘rompere, tagliare’.