lunedì 2 aprile 2012

Particolari locuzioni avverbiali dei nostri dialetti


Ricorrono nei paesi della Marsica (ma anche altrove), con leggere varianti, locuzioni avverbiali come l’aiellese décquë-ta ‘da queste parti, qui intorno’, dés-ta ‘da codeste parti, costà’ e dé-ta ‘da quelle parti, lì intorno’ da non confondere con l’omonimo déta ‘dita’ pl. di ditë ‘dito’. Come si può ben notare anche dalla mia evidenziazione grafica, le tre forme presentano una specie di affisso -ta che sembra essere un peso morto perché non serve a distinguere in nessun modo i tre significati tra loro e che si presenta come un qualcosa di difficile o impossibile spiegazione. In realtà una, secondo me, ce n’è. Bisogna appuntare lo sguardo alla forma aiellese dés-ta ‘da codeste parti, costà’, trasaccano(1) d’èssë-ta (anche d’èsta) le quali possono ricondursi comodamente ad un lat. popolare de istac ‘(di) costà’ invece del semplice istac ‘per costà’. Siccome ricorrono anche le forme apocopate èssë ‘costà’ (Aielli, Trasacco, ecc.), d’èssë ‘di costà’ (Trasacco) mi sembra legittimo da ciò desumere che il falso affisso -ta, aggiunto poi analogicamente anche alle altre forme avverbiali sopra riportate , non sia altro che la parte finale di lat. is-tac (con caduta della velare finale /c/) sentita dal parlante, proprio per la presenza delle rispettive forme apocopate, come un suffisso di luogo non meglio identificato, utile comunque ad accomunare sotto un unico sistema tutte queste locuzioni avverbiali particolari. E’ noto che l’avverbio latino proviene dal dimostrativo iste, ista, istud ‘codesto’ . Le forme èssë ‘costà’, d’èssë ‘di costà’ che più sopra ho chiamato apocopate rispetto a d-és-ta ‘costà’ debbono essere in realtà il risultato di un’assimilazione progressiva consumatasi nella forma désta, divenuta in qualche parlata *déstë (con la più o meno ricorrente chiusura della /a/ finale), cosa che ha favorito l’assimilazione appunto della dentale /t/ alla spirante /s/ dando come esito dèssë, èssë. Passando dalla forma latina con l’accento tonico sull’ultima sillaba (istàc) a quelle dialettali si è avuta una ritrazione dell’accento sulla prima sillaba per influsso del pronome latino corrispettivo iste ‘codesto’ con l’accento sulla prima. Esistevano tuttavia in latino forme simili senza la velare finale come isto ‘costà’, illo ‘ in quel luogo, là’: da quest’ultima potrebbe derivare il trasaccano d’éllë-ta.

L’aiellese dé-ta ‘da quelle parti’ è il risultato della contrazione di *de-ea-ta in cui –ea- corrisponde al lat. ea ‘per di là, da quelle parti, là’. A Trasacco ricorrevano le forme d’éllëta, élleta, èlda che potrebbero derivare da un *éllo-ta composto col sopra citato lat. illo ‘in quel luogo’. Il semplice lì, là ad Aielli era lòchë come a Trasacco dove si aveva anche la variante alòchë simile al pescinese éllòchë . Queste forme sembrano derivare tutte, quindi, dall’avverbio lat. di moto a luogo illoc, variante di illuc ‘in quel luogo’. Il semplice èllë (Aielli, Trasacco) ‘ecco lì’ mi pare risalga ancora al lat. illo ‘lì’ se èllo a Castellafiume vale solo ‘colà, lì’ (2). La forma ècchë ‘qui’, più che lat. ecce, eccum (forma popolare) ‘ecco’, richiama il lat. hic , arcaico heic ‘qui’.

Molto curioso è l’avverbio-congiunzione aiellese ‘nda,’nta ‘come’ che mi pare non ricorra negli altri dialetti della Marsica, tranne nel celanese, ma è presente, oltre che nel dialetto di Ascoli Piceno, nel Vocabolario Abruzzese (3) con diversi significati: ‘dove’ (‘nda jémë? ‘dove andiamo?’); ‘quando’ (‘nda mià? ‘quando mai?’); ‘come’ (‘ndà fa? ‘come fa?’). E’ probabile che questi significati facciano capo a quello di lat. unde ‘donde, da dove , da che’. In effetti una frase come lat. unde eos noverat? si può tradurre ‘da che, come li conosceva?’.

Il Bielli registra anche la forma nnë ‘come’ che appare come uno sviluppo del precedente unde pronunciato nne, per assimilazione progressiva alla nasale alveolare /n/ della dentale sonora /d/, come avviene spessissimo in molte parole centro-meridionali come frónna per “fronda”, quannë per “quando”: fenomeno antichissimo già presente nei dialetti italici contemporanei al latino di Roma. Il bello è che si hanno in Abruzzo anche gnë, gna, gni ‘come’, ulteriore trasformazione per palatalizzazione del precedente nnë: si osservino le forme abruzzesi gnóvë ‘nuovo’ dal lat. novu(m) ‘nuovo’, gnàccola ‘nacchera’.

E’ da molto tempo che sentivo il pungolo di spiegare queste strane parolette del mio e di altri dialetti, ed ora me ne sento liberato come quando ci si toglie qualche fastidiosa pietruzza dalle scarpe. Spero di esserci effettivamente riuscito.

Poveri dialetti minori come quello aiellese, condannati forse a vivere in futuro soltanto nella mente e nei documenti scritti di chi, come me, cerca di risalirne agli ombrosi luoghi delle pure, ataviche fonti alpestri! Perché le nuovissime generazioni, peraltro poco numerose per il crollo vertiginoso delle nascite e la fuga degli abitanti della dorsale appenninica verso città e metropoli spersonalizzanti magari in altre regioni, vengono addestrate dalle puntigliose madri e dagli orgogliosi padri all’uso della lingua italiana dominante, sia pure nella sua varietà regionale o locale. Mentre le ultime generazioni dialettofone, quale è la mia, non possono ormai che rassegnarsi al tramonto di una millenaria civiltà contadina e cercano persino di adattarsi alla nuova lingua che va sempre più prendendo piede. Ma se ad un paese montano ed isolato come il nostro, appollaiato su una chiostra di grossi massi erratici, nel versante meridionale del Sirente, togli dalla tradizione il dialetto che lo contraddistingueva allo stesso modo in cui un marchio a fuoco sulle natiche di cavalli e buoi ne attestava senza ombra di dubbio il proprietario, tu ne strappi nello stesso tempo l’anima millenaria che lo legava all’Agellum (Aielli) latino e forse alla remota preistoria: ti restano in mano solo membra dilacerate di un corpo morente.

E’ oggi un fatto che esistono tanti "italiani" quante sono le differenziazioni regionali, locali, sociali e culturali. I vari italiani parlati restano comunque lingue straniere, apprese per la necessità di non sentirsi esclusi da una società omologante e globalizzante che avanza sicura e tutto ingoia. Del resto è impossibile tener vivo oggi un linguaggio che con la sua petrosità, essenzialità ed ellitticità era lo specchio diretto, naturale, immediato della vita contadina e pastorale, che era un tutt’uno con essa, con le sue fatiche, il sudore e le privazioni, vera, genuina, nostra come non potrà mai essere una vita soggetta alla volontà e forse necessità di sentirsi moderni, al passo con i tempi, e quindi costretti ad adottare la lingua comune sovraregionale che per forza di cose non è incarnata nelle nostre viscere (data la sua natura soprattutto letteraria), e forse mai lo sarà, come quella che si imparava insieme agli odori, ai suoni e ai versi dei molti animali che riempivano le nostre stalle, si sentivano passare per le nostre strade e lavoravano o pascolavano nelle campagne e nei monti dove anche gli uomini si guadagnavano da vivere col sudore della fronte, talvolta imprecando e bestemmiando, ma più spesso riconciliati col duro lavoro. Essa, la lingua, sapeva quindi di aria, sole, pioggia, rabbia, umoralità, come se i vocaboli, la pronuncia, l’intonazione concorressero insieme a rendere il parlato il più nudo, vero, non mediato affioramento alla coscienza della stessa realtà interiore dell’uomo e del mondo circostante: mi piace in effetti considerare la chiusura quasi completa delle sillabe non accentate nei nostri dialetti, quasi come una necessità di risparmiare il fiato da parte delle generazioni che ci hanno preceduto, assillate da un’esistenza faticosa che quasi impediva loro di parlare, come quando si ha il fiato grosso in una strada in salita. Una parola come ‘ngrëdìbbëlë (it. incredibile), ad esempio, presenta solo la –i- accentata col suo suono pieno. Tutte le altre vocali scompaiono (la prima) o si chiudono nel suono indistinto dello schwa.

Dove, dove sono andati a perdersi i ragli, i muggiti, i nitriti e i belati degli asini, dei buoi, delle capre e pecore di un tempo che fu? e il tintinnare nel cielo delle incudini battute dai fabbri sempre indaffarati? e il gemere alterno del torchio nelle cantine che spremeva le vinacce? e lo sbatacchiare continuo di qualche vecchio telaio che tesseva ancora a tarda ora, instancabile, all’interno delle case? e le chiamate del fornaio che molte ore prima del far del giorno faceva il giro delle case delle massaie che dovevano ammassare la pasta per formare le pagnotte da portare più tardi al forno? E lo squillo del corno del banditore ai crocicchi delle strade, col suo grido in un italiano curioso e il suo passo da rullo compressore inarrestabile? e tutto il restante e vario brulicare di un paese ancora in salute e in sé fiducioso? Come sono degradate oggi le aie rimaste abbandonate a se stesse, se non stravolte nelle loro funzioni, un tempo pulitissime col loro manto verde e usate solo per la trebbiatura del grano o la sbaccellatura e l’essiccatura dei legumi, dove vispi galli dal variopinto piumaggio erano sempre pronti, con l’esplodere improvviso e penetrante dei loro chicchirichì, a lanciare ai quattro venti la loro attestazione di dominio e di gloria! In effetti la nostra lingua ancestrale, orfana del suo naturale contesto lavorativo, agreste ed animale, oggi è arrivata quasi a vergognarsi di se stessa perché si sente sempre più sconsolatamente una sopravvissuta e una straniera in patria. E allora il nostro destino sarà quello di poveri sradicati tra due estraneità, il dialetto alienato da una parte e la lingua nazionale dall’altro accolta per necessità e quasi imposta? Io non so come sarà il futuro che potrebbe anche volgere al meglio, ma di certo ci è toccato di vivere un’epoca di cambiamenti radicali, e quindi per certi versi psicologicamente molto amara, che hanno smantellato del tutto un sistema di vita più a misura d’uomo, seppure più povero, che durava da molti millenni quasi invariato e che aveva la sua particolare e inalienabile lingua.





Note:


(1) Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano, 2003.
(2) Cfr. D.Di Nicola, Storia di Castellafiume, Grafiche Di Censo, Avezzano, 2007, p.174 e pp. 231 sub voce déccota. L’autore avanza l’ipotesi della derivazione della desinenza –ta di questi avverbi dal termine filosofico del latino medievale haecceitas che si potrebbe tradurre come ‘quest-ità’, ma mi pare una proposta impercorribile perché, oltre all’estrema improbabilità che un termine filosofico un po’ peregrino possa entrare nel tessuto vivo di un dialetto a tal punto da dettarne norme compositive, c’è da considerare che il suffisso latino –itas,itatis forma costantemente sostantivi generici e astratti derivati da aggettivi e non avverbi di luogo nudi e crudi. Il termine haecceitas, forgiato per la prima volta dal filosofo medievale Duns Scoto, mi pare poi linguisticamente un ircocervo dovendosi, al di là di ogni buona regola linguistica, sottintendere al suo interno il sostantivo femminile res ‘cosa’ subito dopo il dimostrativo femminile haec ‘questa’.
(3) Cfr. D. Bielli, Vocabolario Abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq, 2004.