lunedì 29 giugno 2020

Cepagatti.




   Ho letto la spiegazione di A. Sciarretta[1] circa l’origine e il significato di questo toponimo, relativo ad un centro non lontano da Pescara, lungo la valle del Pescara, in zona collinare, mi sembra.  Non trovo nulla da eccepire nelle sue chiare osservazioni che smontano tutte le fantasiose supposizioni sul suo nome, che non è come  un rebus da risolvere in maniera fantasiosa e pirotecnica, ma è appunto un semplice nome che, all’origine non aveva nulla di strano e probabilmente era legato alla natura del terreno o anche alla vegetazione locale. 

  Quello che mi lascia insoddisfatto e perplesso, nel suo ragionamento,  è la conclusione  perentoria che lega il toponimo all’espressione latina cepa catti ‘cipolla del gatto’ riflessa in un termine dialettale, ora scomparso, cepaiatte, che indicava l’aglio romano, come affermano notevoli linguisti.   Intendiamoci: secondo me una probabilità su dieci che questa sua interpretazione sia vera  ce l’ha, ma diverse sono le considerazioni che me la fanno scartare.  1) Se questa pianta ha dato il nome al paese, allora essa doveva essere abbondante in quel territorio evidentemente molto adatto alla sua crescita, anche spontanea, e non si vede bene perché oggi essa vi sia pochissimo o per nulla diffusa; 2) Con un veloce giro nel web ho incontrato, separatamente, toponimi come Monte o Colle Ceppa, nonché come Monte o Colle Gatto: il che mi offre almeno qualche possibilità che il toponimo in questione sia composto da ambedue, per tautologia sincronica o diacronica.  Mi spiego meglio.  Ci sono due possibilità: 1) può darsi che inizialmente il paese in questione si chiamasse Gatto (col significato di ‘colle’) e che successivamente (di quanto? secoli, millenni?) sia arrivata la parola cepa ‘colle’ di altro strato linguistico, che si è aggiunta alla precedente che era divenuta nel frattempo opaca nel significato, allo stesso modo in cui oggi siamo soliti aggiungere gli appellativi geografici tipo monte, colle, punta, promontorio, ecc. a realtà geografiche  diverse; 2) è anche possibile che fin dalla lontana preistoria il nome fosse composto di due membri tautologici, come ce ne sono in ogni lingua quali it.giravolta , ted. gockel-hahn ‘gallo’ in cui i due membri separatamente hanno sempre il valore di ‘gallo’.  Sorvolo su quelli greci, che ho nominato in un post recente.  

 Queste sono probabilità che hanno perlomeno la stessa rispettabilità della supposizione cepa catti ‘cipolla del gatto’, ma con il non trascurabile vantaggio che esse indichino direttamente la realtà geomorfica del paese,  che era lì da epoche immemorabili, prima addirittura che i primi uomini preistorici (che però parlavano e marcavano coi nomi il territorio) abbiano bazzicato quel luogo.  Ed è molto più probabile che i toponimi siano stati messi in quel lunghissimo periodo preistorico, piuttosto che l’altro ieri quando sono arrivati i Latini.

  Ripeto, quello che afferma A. Sciarretta con dovizia di particolari è vero e sacrosanto, ma a mio avviso monco nelle conclusioni (anche se noti linguisti si comportano allo stesso modo), non avendo nemmeno accennato alle possibilità di cui sopra.  Non è da trascurare la considerazione che il secondo membro di Cepa-gatti sia il risultato evolutivo di una radice, presente in latino caput, gen. capit-is ‘testa, capo’, ma con connessioni evidenti in area germanica ed indiana.  Facile, infatti, è il passaggio capit-is > capëtë > capt > catt-> gatto.  Facile è allora notare la somiglianza formale fra le radici dei due membri cep-, *capit-  che quindi indicavano, molto probabilmente, la stessa realtà geomorfica, ma potevano designare tautologicamente anche la ‘cipolla’, il ‘capo d’aglio’: il sintagma lat. cepa catti  naturalmente non chiamava in causa nessun gatto, il quale ultimo è solo il paravento di cap(u)t ‘capo’ E qui mi pare che non ricorro a sostrati inca e maya.   I toponimi purtroppo sono aperti a tutte le interpretazioni, non mostrando essi stessi alcun significato (tranne quelli generalmente falsi di superficie). Credo che intignarsi su una spiegazione probabile a danno di altre ugualmente probabili è solo perdita di tempo. Per questo io preferisco rompermi la testa sulle parole del lessico, dove è più facile avvicinarsi alla verità.

mercoledì 24 giugno 2020

L’espressione italiana “ad ufo”.


L’espressione in epigrafe, in uso anche nei nostri dialetti nella forma ad ufë, o aùffa è una di quelle che, essendo totalmente incerta quanto alla sua provenienza, ha messo in moto la fantasia sbrigliata dei linguisti.  Tanto da arrivare a presumere che si trattasse di un acronimo per una non attestata espressione latina ad usum fabricae, in riferimento ai materiali inviati a Roma per la costruzione della fabbrica di San Pietro, che così erano esentati da dazio.  Qualcuno suppone addirittura che la –a- finale dell’espressione a uffa (anche a ufa), invece dell’altra a uffo (anche a ufo), indicasse un aggettivo di fabricae, e cioè apostolicae ‘apostolica’.

      Il linguista V. Pisani[1]  ha già ricondotto l’espressione ad un osco-umbro *ufar ’abbondante’ corrispondente al lat. uber-e(m) ‘abbondante, sovrabbondante, pieno’, in base alla considerazione che la radice si ritrova in una vasta area, in Italia, anche meridionale’, e nella penisola iberica.   Mette conto anche citare il gotico ufio ‘abbondanza’, propriamente il superfluo.  Ed io condivido la posizione del Pisani, anche se trovo una certa difficoltà a far collimare il concetto di “abbondanza” con quello di “gratis, senza pagare” che l’espressione mostra, sia in italiano che nelle forme dialettali.  Ma, a ben pensarci, un modo c’è per arrivare con una certa naturalezza a questo significato. 
 
    Ricordo, infatti, che quando mia madre vendeva qualche coppa di grano o altri cereali, usava fare una misura colma e non rasa, cioè con i cereali pareggiati ai bordi del recipiente, mediante un listello chiamato appunto rasόra.  Mia madre, insomma, per accontentare l’acquirente, usava una misura sovrabbondante, e naturalmente il di più non se lo faceva pagare.  Forse in conseguenza di quest’usanza l’espressione ad ufo, che normalmente indicava qualcosa in abbondanza, cominciò a significare ‘per sovrappiù’ e quindi ‘gratis, senza pagare’. A Trasacco-Aq aùffa[2] significa infatti sia ‘abbondandemente, a iosa, a volontà, a piacere’ sia’ gratuitamente, senza spese’.  Questo etimo, anche se non fosse vero, è però certamente molto più concreto, con i piedi per terra  rispetto a quello fantasioso relativo alla fabbrica di San Pietro.





[1] Cfr. Cortelazzo-Zolli, DELI (dizionario etimologico della lingua italiana), Zanichelli, Bologna., 2004.
[2] Q. Lucarelli, Biabbà A_E, Grafiche Di CensoAvezzano-Aq. 2003.
   




martedì 23 giugno 2020

Locuzione siciliana "cucìrisi i corna o suli".



    Ho trovato l’espressione ne I dialetti italiani di M. Cortelazzo e C. Marcato, UTET,  con la spiegazione ”essere costretto a lavorare esposto al sole tutto il giorno”.  E vi si precisa che l’uso ad un tempo scherzoso ed offensivo di corna per ‘testa’ è popolarmente molto diffuso.  E si riporta un breve brano de I Malavoglia del Verga dov l’espressione è italianizzata “[] mentre c’era gente che doveva cuocersi le corna al sole[]”. 

   L’espressione è talmente ben inserita nel contesto del siciliano che a C. Marcato non passa nemmeno per l’anticamera del cervello che essa possa essere pervenuta pari pari dallo strato latino precedente.  L’espressione latina sarebbe stata se coquĕre incora(m) soli ‘cuocersi di fronte al sole’, rietimologizzata in siciliano, con tutta naturalezza, in i corna ō suli ‘le corna al sole’.  Anche ad Aielli-Aq era molto frequente l’espressione so’ statë ngor’a ssòle tutta la jurnàta! ‘sono stato in faccia al sole tutta la giornata!’.  A Celano so che si dice ‘ngar’a ssòlë, e a Ferrazzano nel Molise ‘ngére a sole’.  Queste espressioni naturalmente si sono incrociate con i termini greci per ‘testa’, e cioè kára, kár-an-on e con gr. kéras ‘corno’.  Ad Aielli si diceva, quando un ragazzo roteava col corpo su se stesso, më së vòta cérë ‘mi gira la testa’, cfr. il lat. cere-bru(m) ‘cervello’.

   Il fatto è che, quando si analizzano simili espressioni ben inserite nel dialetto o nell’italiano, si commette in genere il grosso errore di non andare  a vedere se per caso esse erano presenti anche nello strato linguistico precedente. 

lunedì 22 giugno 2020

Catrafosso 'burrone'.


                                   

  Nell’articolo precedente Catherinewheel e i suoi vari significati, presente nel mio blog (19 giugno 2020), abbiamo dato alla radice catr-, catera anche il valore di ‘cavità, rotondità’ e quindi anche di ‘fosso, burrone’ come nella parola in epigrafe composta di due membri tautologici.  Questo fatto mi offre l’occasione di fare alcune riflessioni generali di qualche importanza.

   Nella suddetta parola la componente catra- è a mio parere equivalente al latino quadr-u(m) ‘quadro’, oggetto di forma quadrata o anche rettangolare.  E come mai è possibile ciò? Cominciamo col riflettere che la radice di lat. quattuor ‘quattro’ non indica di per sé qualcosa di quadrato, ma semplicemente una precisa quantità numerica riferibile a qualsiasi cosa, diversa da tutte le altre quantità numeriche.  Se pensiamo al significato di it. quadro ‘pittura quadrata o rettangolare’ può saltarci all’occhio che esso, con la sua cornice, è sostanzialmente un’intelaiatura, la cornice, che gira intorno a ciò che essa contiene, il dipinto: un quadrato, in effetti, può essere considerato anch’esso una rotondità anche se certamente non perfetta.  Ma gran parte di questa differenziazione alquanto stridente, tra una rotondità e un quadro o quadrato è dovuta, se ci si riflette, al fatto che la geometria si è appropriata di questi termini, compreso quello di rotondità, cerchio, sfera, e ne ha fatto le figure tra loro distinte che conosciamo.  Sicchè i significati primordiali legati ad esse sono scomparsi. La Lingua, l’ho mostrato diverse volte, procede per generalia e generalissima e quindi, come ho mostrato tempo fa, se deve nominare una pietra o un sasso usa, come a Lecce dei Marsi, il termine pall-ùttë, derivato da palla o anche abruzzese pall-èndë e simili, che talora naturalmente potevano indicare anche le pietre più o meno rotondeggianti, ma non necessariamente.  In abruzzese, ad esempio, pallë[1] indica la normale ‘palla’ ma anche la piastrella nel gioco del sussi, la quale era solitamente di forma quadrangolare o comunque poligonale, avvicinandosi così ad una figura piatta e tondeggiante, ma non ad una palla. Il fatto linguistico profondo è che un oggetto piatto e poligonale si avvicina all’idea di “rotondità”, tanto più  quanto più numerosi sono i lati di un poligono.  Ma c’è poco da fare, noi non riusciamo ora a liberarci dei significati precisi di certi nomi geometrici, profondamente inculcati nella nostra mente, ma l’uomo primordiale onomaturgo vedeva soprattutto una massa in questi casi come abbiamo  visto, in altro articolo, per il lat. turb-a(m) ‘folla, moltitudine’ che in questo caso ha il valore di massa disordinata e sembra di aver perso il suo valore originario di ‘turbine, rotondità’. 

      Ciò premesso,  e confortato dalla presenza di catra- in catra- fossë ‘burrone’  che ripete il significato archetipico di ‘cavità’ del membro fossë ‘fosso’,  sono  spinto a pensare che la radice di lat. quadr-u(m) ‘oggetto quadrato’ indicasse una rotondità, all’origine. Una rotondità i cui bordi reali o ideali, composti di linee comunque interconnesse tra loro, formavano appunto un’intelaiatura, cioè una struttura, un insieme  di parti interconnesse. Il verbo centro-meridionale in-quart-arsi ‘ingrossare, ingrassare, irrobustirsi’ rende bene l’idea della “rotondità” di cui parlo. 

     Questo concetto arriva, secondo me, a riguardare quello di lat. quadr-ig-a(m) ‘quadriglia di cavalli, carro a quattro cavalli’ di cui ho parato nell’articolo La chitarra per maccheroni[…] presente nel mio blog pietromaccallini.blogspot.com (21 aprile 2015).  Ora è bene che mi fermi qui. Sottolineo solo che, per l’etimo di catra-fosso, i linguisti mi sembrano annaspare, parlando di prefisso cata- di origine greca con l’aggiunta di –r-, o con sovrapposizione di tra. Bah!



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A.Polla editore, Cerchio-Aq,  2004.

venerdì 19 giugno 2020

Catherinewheel o catherinewheel. e i suoi vari significati




   Nel significato di ‘ruota dentata’ possiamo credere che il nome si sia generato quando arrivò in Gran Bretagna la leggenda di Santa Caterina di Alessandria d’Egitto (III-IV sec. d.C.), sottoposta secondo la tradizione al supplizio della ruota dentata, fatta apposta per lacerare le carni e frantumare le ossa del condannato. Ma nel significato di ‘finestra rotonda con colonnine separatrici come i raggi di una ruota’ che ci azzecca (per dirla alla Di Pietro) la ruota di Santa Caterina? E che ci azzecca il significato di ‘dollaro d’argento’, ma anche di altre monete in Gran Bretagna? Il nome della povera e spiritualissima Santa (probabilmente, però, mai esistita) finito ad indicare il vile denaro, la moneta sonante!  E che ci azzecca il significato di ‘girandola’, la ruota dotata di fuochi d’artificio che gira vorticosamente nelle feste ad allietare i presenti o magari una processione che passa?  Sarebbe addirittura una allegra e irresponsabile profanazione del nome Santa se, in questo caso, Caterina richiamasse effettivamente lei! E, stranezza delle stranezze, che ci azzecca la Santa col significato di ‘capriola laterale con cui un atleta (ma anche un ragazzo dotato di agilità) compie un ribaltamento del corpo, facendolo ruotare mentre si appoggia con le  mani sul pavimento e tenendo i piedi in movimento verso l’alto e poi verso il basso? È forse la Santa una protettrice degli atleti o fu una ginnasta essa stessa?   Mistero della lingua che non ha ricevuto dal nome di nessun altro Santo  altrettante motivazioni per poter esprimere concetti diversi, anche se tenuti insieme dall’idea di fondo di “rotondità e movimento circolare”.  Eppure questi termini riferiti a Caterina, non la gratificano nemmeno dell’appellativo di Santa!

    Di conseguenza, e dato per scontato da parte mia che un termine uguale o simile a Catherine o Catharine per ‘rotondità, ruota’ doveva esistere prima della morte della Santa, si deve pensare che anche il significato di ‘ruota dentata’, il quale fa riferimento al supplizio della  Santa in questione, si sviluppò da un nome precedente già esistente  nella lingua. Dirò di più: azzardo l’ipotesi che il catherine-wheel ‘dollaro (ma anche altre monete in Gran Bretagna)’, letteralm. ‘ruota (-wheel) di Caterina’, possa avere a che fare con l’it. quattrino, riferito a monete di piccolo valore nei vari sistemi di monetazione vigenti nei vari stati italiani prima dell’unità.  Naturalmente in questi stati il nome aveva sempre il valore di quattro (sodi, denari) o di quarta parte come nel Regno di Napoli, in cui era appunto la quarta parte del grano.  Una diffusione così vasta  mi fa appunto supporre che il termine fosse antico, magari vivente nel linguaggio parlato, col valore di moneta (di metallo). 
 
    Siccome il catherine-wheel ‘dollaro d’argento’ è noto anche come cart-wheel ‘ruota di carro (cart-)’ presumo che dietro cart- possa esserci stata una forma *catr- richiamante quella di cather-ine.  Per quanto riguarda la lacerazione delle carni e la frantumazione delle ossa del condannato al supplizio della ruota dentata, faccio notare che in greco esiste il termine kata-rrínē 'lima' (similissimo a Caterina) e il verbo derivato kata-rrinà-ein che significa 'limare, assottigliare' che richiama naturalmente il triturare e frantumare della famosa ruota cui fu condannata Caterina, ruota che miracolosamente si ruppe (invece di rompere le ossa della Santa) lasciando illesa Caterina: ad Aielli esistevano mandorle chiamate di santa Catarina che avevano un guscio tenero e, per così dire, friabile sotto una piccola pressione: altro che santa! Solo che anche questo termine era entrato evidentemente nell’ambito dei fatti leggendari della santa: come? per il semplice tramite della radice che indicava il dirompersi, il rompersi, il triturarsi e così via.

      Ciliegina sulla torta.  Vi racconto una storiella legata a questa radice.  Sotto la voce quatréjjë[1] Il Lucarelli riporta questa storiella: “Era così chiamata l’irritazione che le ragazze si provocavano per gioco su di un braccio, su di una gamba o su altra parte del corpo, tramite l’applicazione di una foglia del cosiddetto tëtëmajjë, Questa è un’erba selvatica del tipo della saponaria, che emette lattice urticante ed irritante della pelle.  C’era la credenza  che, a seconda  dell’ampiezza e profondità della piaga che si formava, la ragazza aveva la certezza se il ragazzo di cui era innamorata la pensasse o l’amasse e quale fosse l’intensità del suo amore”.  Ora,  è chiaro che questa credenza non è nata dal nulla o dall’inventiva di qualche ragazza stimolata dai fumi dell’amore,  ma che essa si è sviluppata, pian pianino nel corso dei secoli e millenni, a partire dal termine stesso di quatr-éjjë <quadr-ello il quale poteva essere addirittura un nome per lo stesso tëtëmajjë < gr. tithý-mall-os, pianta erbacea con fusto eretto, che non appartiene al genere Saponaria bensì a quello dell’Euforbie, ma comunque con le proprietà urticanti di cui il Lucarelli parla.  L’irritazione sulla pelle da esso prodotta calza a pennello col significato di gr. kata-rrínē ‘lima’ e quindi, con il termine trasaccano quatr-éjjē dal significato probabilissimo di ‘irritazione, piaga’ anche se questa radice catr- non collima alla perfezione con quella de precedente kata-rrínē: poteva trattarsi di variante, confusa con l’altra come potrebbe indicare la stessa –r- raddoppiata. Cosa più interessante ancora in questa storiella è il coinvolgimento non marginale  in essa del ragazzo di cui la ragazza era innamorata: quatr-anë è termine marsicano-abruzzese per ‘ragazzo’ di cui parlo più sotto: la radice è uguale a quella del quatr-èjjë in questione e a quella simile di aiellese-trasaccano quatr-asc-onë ‘adolescente, ragazzo’ detto tra il serio e il faceto, afferma Lucarelli.  Che quatr-éjjë < *quatr-éllo avesse questo significato è confermato indirettamente anche dalla forma abruzzese quatr-àlë[2] ‘ragazzo’, altra variante di quatr-ànë ‘ragazzo’ proveniente, forse, dall’incrocio di *quatr-éllo > quatréjjë con la forma quatr-ànë.   I vari significati del trasaccano quatréjjë si sono potuti conservare attraverso il tempo proprio grazie al persistere di questa storiella, altrimenti sarebbero andati irrimediabilmente per duti: così, come succede nel mito, parole e significati di tempi immemorabili, arrivano intatti fino a noi.

    Ad Aielli-Aq (ed altrove) u quatréjjë ‘il quadrèllo’ era la ‘lima’ che corrisponde all’it. quadrello.  Solo che l’etimo che se ne dà nel vocabolario del De Mauro indicherebbe la sezione quadrata dello strumento: io però ho l’indiscutibile vantaggio di indicare la funzione principe, direi la natura, di esso. Non solo.  Il quatréjje che possedevamo a casa era a tre facce, come d’altronde dice anche M. Marzolini[3], per il dialetto di Rocca di Botte-Aq. Così anche le divine quadrella lanciate da Apollo contro i Greci, nella traduzione di Vincenzo Monti, che leggevo alla prima media, non debbono il nome alla sezione quadrangolare ma alla natura di frecce, punte atte a dilaniare penetrando nella carne.  Ecco spiegato il motivo per cui non manca quasi mai una spada nell’iconografia di santa Caterina, che sarebbe la spada con cui, nella leggenda, fu decapitata.

    Inoltre la caterinetta è uno strumento per fare cordoncini tubolari, simile a un rocchetto di forma grosso modo cilindrica, chiamato anche mulin-ello o mulin-etto, che è tutto dire. Ci risiamo col concetto di “rotondità e rotazione”.   Anche se il nome viene associato a quello di catarinetta che in Piemonte indica una ragazza che frequenta una sartoria, nome accostato, insieme al fr. catherin-ette ‘donna giovane, non sposata’, alla Santa di cui si parla (e ti pareva!), che rifiutò di sposarsi.   Anche gli appartenenti alla setta eretica dei Catari, però, rifiutavano sdegnosamente il coito e il matrimonio, strumento di Satana. E molte altre Sante avevano rifiutato di sposarsi perché dedite al loro unico e vero sposo Gesù. Evidentemente si trattava di un clichè spesso applicato nelle agiografie delle Sante. Ma in questo significato di ‘giovane donna’ potrebbe avere un’origine ben diversa accostabile, a mio avviso, a quella dello  sfuggente abruzzese quatr-ànë e quatr-àna  ‘ragazzo’ e ‘ragazza’, termine che non si riesce ad inquadrare in qualche modo, ma che io penso abbia avuto a che fare, all’origine, con qualche significato vegetale come rampollo, pollone e simili, parole usate anche per indicare animali e uomini giovani.  

   La càtera in alcuni dialetti indica il frutto della mandorla ancora verde,e quindi tenero, buono da mangiare. Che il nome derivi dal fatto che esse cominciano a mangiarsi intorno al 30 aprile, festa di Santa Caterina non è credibile, perché abbiamo visto sopra che la mandorla di Santa Caterina ad Aielli indicava una mandorla tenera e friabile, anche quando era pienamente  matura (intorno a giugno-luglio).  Inoltre suppongo che   la voce càtera dovesse indicare anche il frutto stesso del mandorlo, una drupa ovoidale allungata, esprimibile attraverso una radice, come quella in questione, che, tra i diversi significati assunti nel corso del tempo, aveva soprattutto quello di ‘rotondità, ruota, nucleo, chicco’.Lo conferma la parola arcaica con componenti tautologiche, italiana ma anche abruzzese, catra-fosso ‘fosso profondo, burrone’: una cavità, dunque, non importa quale significato specifico essa presenti.  Questo è quanto. 




[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, , Grafiche Di Censo-Avezzano-Aq, 2003

[2] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq. 2004.

[3] Cfr. M. Marzolini, “…me nténni?”, A rti grafiche Tofani,  Alatri-Fr 1995..
        




mercoledì 17 giugno 2020

Na sbarra dë cëllittë ‘una frotta di uccelli’.


                   

    Allora sbarra non è solo d'Aielli: è presente anche a Paterno-Aq, a Trasacco-Aq[1] e credo anche nell’abruzzese[2] smarrëbranco, frotta, stormo’ incrociatosi con la radice mar(r)-  di abruzzese marr-occa ‘spiga del granturco’ variante di morrë ‘spiga del frumento e altre graminacee; branco, gregge, armento’, abr. morë ‘mucchio di grano’.  Interessantissimo è la pléceta ‘gran numero, massa’ del dialetto aquilano perchè nasconde una parola greca (l'Abruzzo è pieno di termini greci), cioè plektḗ che significa ‘intreccio’, ma anche ‘corona, avvolgimento, spira (tutti concetti che indicano 'rotondità' e cioè 'gruppi’ come dirò ora per sbarra.

   La sbarra, infatti, è variante, con labiale sonora, del dialettale molto diffuso sparra, o spara 'cercine', panno che le donne avvolgevano sulla testa per portare pesi, e che poi serviva anche come cencio o strofinaccio mille usi. Il termine è anch'esso simile al greco speĩra ' avvolgimento, cercine'. In fondo anche greco sphaĩra 'palla, disco, sfera, pillola' esprime lo stesso concetto generico di "rotondità". Ora, in latino, coron-a(m) indica anche un 'circolo, gruppo di persone'; il lat. turb-a(m) (il cui etimo rimanda a 'movimento circolare') significa anche 'moltitudine, mucchio, massa, ecc.'; il lat. glob-u(m) ‘globo sfera, mucchio, ammasso, moltitudine’; il nostro aiellese e abr. maschile rόtë ‘circolo, capannello di persone’ rimanda alla radice di lat. rot-a(m) ‘ruota, disco’.  E così anche la nostra sbarra, sparra ‘cercine’ assunse il significato di 'gruppo, massa, moltitudine'.

   Il termine di Opi-Aq na freca ‘una gran quantità’ si ritrova anche ad Aielli-Aq e altrove: io penso che sia parente prossimo della radice di lat. frequ-ent-e(m) ’numeroso, frequente’. L’abr. na fatta ‘una quantità grande di persone o cose’ è molto interessante.  Esso non ha niente a che fare, secondo me, col participo passato del verbo fare insieme all’aggettivo italiano fatt-iccio ‘robusto, tarchiato’, dial. abr. fatt-ìccë ‘grosso, massiccio, spesso’.  Se l’idea di it. fatto ‘maturo, sviluppato’ può coprire il significato di grosso, robusto esso non può assolutamente coprire quello di ‘tarchiato, tozzo, tracagnotto’.  Un uomo fatto è un giovane pienamente sviluppato che può essere, però, sia tarchiato nella persona sia snello.  Allora, a mio parere c’è dietro qualcosa: la radice di ingl. fatt-ish <*fatt-isk ‘grassoccio, grassottello’, ingl. fatt-y < *fatt-ig ‘grassone, ciccione’ da aggett. ingl. fat ‘grasso, grosso’. Di conseguenza il dial. na fatta ‘una grossa quantità’ attinge proprio a questa radice  fat ’grasso, grosso’. Non si scappa!

  Mi sono accorto poco fa che esiste anche l’abruzzese sbarde[3] ‘branco, stormo’ da cui sarà derivato il suddetto dial. sbarra ‘gran numero, frotta’, ma non c’è nulla da temere, quasi tutto quello che ho detto resta valido. Ora, ho fatto notare che in gr. esisteva speĩra ‘avvolgimento, cercine’ accanto, però, anche spyrís,-íd-os ‘cestello, paniere’, una ‘rotondità’ o ‘cavità’ dunque. Anche gr. spyrás, -ád-os significava in effetti ‘sterco, pallottoline di capra o pecora’. Esistevano forme aspirate parallele a queste ultime come sphyr-ís,-íd-os ‘cestello ecc.’ e anche gr. sphaĩr-a ‘sfera, palla, cesto (per il pugilato), pillola’ di cui ho già detto.
 
   Ora in ingl. esiste il termine sward ‘tappeto d’erba sul terreno’ chiamato anche turf ‘tappeto erboso, zolla, apparentato con ant. germanico zurba ’tappeto erboso, zolla’, una radice che mi ricorda molto il lat. turb-a(m) ‘turba, folla, moltitudine, massa, mucchio’ nel suo valore di fondo di rotondità, avvolgimento. E la zolla è una ‘massa di terra’ come il tappeto è qualcosa che copre e quindi avvolge; infatti in lingue germaniche la radice di sward indica spesso la ‘pelle, cotenna’, termine, quest’ultimo, che richiama il lat. cut-e(m) ‘cute, pelle’, l’ingl. hide ‘pelle,cuoio’, il verbo  ingl. to hide ‘nascondere, celare, mascherare’ (riconfermando così il valore di copertura, avvolgimento), il gr. kéuth-ein ‘nascondere, occultare’, il gr. kýt-os ‘cavità, volta, inarcamento, vaso, involucro, pelle’.  Ma non abbiamo finito.  Questi significati di nascondere, occultare generano, secondo me, quello di oscurare, e quindi annerire. Infatti, ritornando alla radice swardzolla, tappeto erboso, ciuffo’ ci accorgiamo che gli ingl. swart, swarth e swarthy significano ‘scuro di carnagione’ e il ted. schwarz significa ‘nero’.  La radice circolava anche su suolo italico nel lat. sord-es < *sword-es ‘sporcizia, gramaglie (abito nero)’.  E così ritorniamo all’abruzz. sbàrdë ‘branco, stormo’ dove la radice ripresenta il valore di ‘turba, mucchio, massa’. La parola indica significati diversi ma tutti riannodabili allo stesso generico significato di fondo. Amen.











[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di censo, Avezzano-Aq, , 2003.

[2] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

[3] Cfr. D. Bielli, cit.       


                             
    

martedì 16 giugno 2020

Il significato di un termine raro e dialettale vale centomila ragionamenti, sia pure dettati dalla logica, circa il valore o uno dei valori che nel passato ha potuto assumere un toponimo.




Già diverse settimane fa, nel sito di Dialetti abruzzesi e molisani[1], si è ragionato sul significato da dare al toponimo Zappënéta che in antico era il nome della Camosciara in quel di Civitella Alfedena. Io sostenevo che prima che il toponimo venisse riferito alle antiche piante di abete ivi presenti, il cui nome pareva essere in rapporto col lat. sap(p)in-u(m) ‘abete (bianco)’ e con il suffisso colletivo –eta, eto in genere usato in relazione alle piante, ma anche in relazione a gruppi di pietre ed altro, dovette essere riferito alle rocce frastagliate e impervie ivi esistenti. Ora, fortuna delle fortune, ho incontrato la voce zëppën-èïdë ‘sasseto’, nel Vocabolario abruzzese di D. Bielli[2], che pure ho spesso tra le mani, ma, preso dalla foga del discorso non sono andato a consultare, o , forse, l’ho fatto, ma sono andato a cercare zapp- e non la variante zepp-.

A me pare che la radice di questo vocabolo sia la stessa, come avevo sospettato, dell’oronimo aiellese La Savina e della voce del dialetto aiellese (e di altri) zav-όrra ‘sasso, ciottolo’ che richiama anche il lat. sab-urr-a(m) ‘sabbia’, e forse anche lat. Sub-ur(r)-a(m) vasto quartiere malfamato di Roma antica alle pendici dei colli a est e nord-est del foro. Il cliv-u(m) Sub-ur-an-u(m) era appunto una strada in pendio che saliva dalla Suburra tra i colli Oppio e Cispio, fino a raggiungere la porta Esquilina nelle Mura serviane.

Le parole dialettali sono spesso impagabili.


domenica 14 giugno 2020

Alcune tipiche espressioni dialettali ed altro.




    A Trasacco-Aq, nella Marsica, l’espressione tautologica licchë licchë significa ‘fino fino, sottile sottile, striminzito’, probabilmente riferito a cose e persone. In abruzzese[1]essa vale ugualmente ‘magro, magro stecchito’.  Lì per lì il ricercatore si trova spaesato, giacché raramente si conosce l’aggettivo latino lign-eu(m) ‘legnoso’ ma, detto di persona, ‘secco, scarno’ da lat. lign-u(m) ‘legno, albero, marza, bastone’.  Penso, perciò, che il valore di ‘secco’ possa essere derivato da un precedente valore di ‘stecco, stecca’ (questi ultimi da voci chiaramente germaniche: ted. Stecken ‘bastone, bacchetta’, ingl. stick ’bastone, stecchino’) da cui è facile derivare  quello di ‘magro stecchito’.  Difatti ad Avezzano-Aq[2] si incontra l’espressione licche e palicche ‘senza mezzi di fortuna o di sostentamento’. Ora, la voce palicchë è anche del vocabolario abruzzese[3] e significa proprio ‘stecchino, stecchino da denti’, ma,  nell’espressione  polirematica fa’ palicchë, vale ‘non avere da mangiare, digiunare’.  La voce pal-ìcchë deve essere parente del lat. pal-u(m) ‘palo, chiodo’ insieme al serbo-croato palica ‘bastone, bacchetta’.  

    Da notare che la voce abruzzese licchë ‘secco, scarno’ se viene da lat. lign-eu(m) ‘legnoso, secco, scarno’(con perdita della nasale-n-) ha mantenuto il suono velare della –g-  nel gruppo –gn-, cosa che non poteva accadere nell’avezzanese lignìne[4] ‘secco, asciutto’ (riferito a persona con poco appetito) il quale ha seguito il destino della palatalizzazione, in italiano, del gruppo –gn- latino. Quindi la voce dialettale deve essere  pervenuta dalle nostre parti molto per tempo, a meno che essa non fosse già, per così dire, stanziale da noi dall’epoca preistorica o protostorica, come sono propenso a credere.

    A Rocca di Botte-Aq[5] l’espressione licchelàcche  significa ‘né sazio né digiuno’.  Essa, caso strano, si ritrova anche nel dialetto genovese, come ho potuto vedere in internet, col significato di qualcosa che è al di sotto della sufficienza, di non pienamente soddisfacente.  Mi pare, in questi casi, che abbiamo a che fare col solito licchë ‘scarno’ e quindi ‘scarso’, seguito da una variante lacche da chiarire.  Esiste in abruzzese anche una forma simile, e cioè linghë langhë ‘lemme lemme, mogio mogio’, significato che, di primo acchito, sembra però un po’ diverso dall’altro, ma vedremo che non lo è.   Infatti si deve pensare che langhë  abbia la stessa radice di lat. langu-ēre ‘essere languido, abbattuto, stanco, debole, malato’: allora, chi potrebbe essere più debole, moscio e privo di energia di colui che mangia in modo insufficiente, scarso come chi è, per l’appunto, licchë licchë ‘scarno’?  Quindi ci sarà senz’altro stato un incrocio tra licchë lacchë ‘che ha mangiato scarsamente’ e questo linghë langhë ‘mogio , mogio, lentamente’. Pertanto non può essere escluso del tutto che il lat. lign-eu(m) sopra nominato, rietimologizzasse, nel significato di ‘secco,scarno’ una precedente parola con tema ling-.  La radice lang- (con la variante lak-, priva di nasale) in questo significato è ben attestata nei dialetti come nell’aiellese al-lanc-àssë ‘stancarsi, sfinirsi’, aiellese al-lacc-an-ìtë ‘languido (per fame, sete)’, nel trasaccano allaccanìtë che viene usato anche per indicare una persona, magra, debole per scarsità di cibo.

     Interessanti sono  i verbi del dialetto avezzanese al-lang-àsse, verbo al-lang-an-ìsse, col  part. passato e aggettivo al-lang-an-ìte  ‘essere debole per denutrizione’ ma anche con l’interessante significato di ‘essere in spasmodica attesa di evento, persona, cibo’ che mi fa avvicinare il verbo, come mi pare di ricordare di aver detto in altro articolo, all’ingl. to long for ‘desiderare ardentemente, avere una gran voglia di’, radice presente anche nel ted. Ver-lang-en ‘desiderio vivo, brama, pretesa’.  Ad Avezzano c’è anche la forma metatetica palatalizzata al-lagn-àsse ‘ soffrire per penuria d’acqua (detto delle piante delle patate, dei fagioli e barbabietole che perciò presentano foglie ingiallite e rachitiche)’. La radice è presente anche nel lat. lachan-iss-are o lachan-iz-are ‘essere languido’.  Il ted. link ‘sinistro’ doveva indicare la mano “languida”, cioè quella più debole, imperfetta, manchevole, come la nostra mano manca. Anche l’aggettivo ted. link-isch significa ‘goffo, impacciato, senza garbo’ riconfermando il valore di ‘difettoso, manchevole’ della radice.   Altro significato di link è ‘rovescio (di un indumento)’ cioè, a mio parere, la parte imperfetta, meno curata dal punto di vista della presentabilità.

   Ritornando al licchë nel significato di ‘pallino, boccino’ di cui ho parlato ultimamente nell’articolo Eracle e Ligi, re dei liguri presente nel mio blog (pietromaccallini.blogspot.com, del 10 giugno 2020) è curiosa ed interessante la serie di nomi con cui il pallino viene indicato nel dialetto di Trasacco-Aq e coè licchë, lixë, bëccìnë, pallìnë, mùsquië, murquië .  Noi ad Aielli ci accontentiamo solo di pallìnë e licchë.  Ora, pallìnë e bëccìnë (boccino) sono di per sé evidenti; lixë, sarà ampliamento in sibilante di licchë, fatto che ho riscontrato anche in altro vocabolo marsicano, e cioè bucchë ‘sacchettino di biada legato al muso del cavallo o altro animale’ che in quel di Gioia del Marsi è chiamato appunto buxë’.  Resta lo strano mùsquië o mùrquië. 

    Ora, nel libro del Bielli citato, è registrata la voce muscul-όnë o muschël-όnë di cui è data questa spiegazione: “coccarola[6], che si pianta nella parte superiore del fuso e termina con un gancetto per rattenervi il filo”;  questo musc-ul-όnëcoccarola  rispunta in diversi dialetti: calabrese, salentino, siciliano, dove indica in genere un fusaiolo, in particolare quella a forma di piccolo boccino o semi-boccino, con un foro nel mezzo che veniva inserita sulla punta superiore dell’asta del fuso, munita appunto di un gancetto per trattenere il filo che si stava torcendo.  La parola è senz’altro antichissima, forse preistorica, visto che si ritrova anche nel sardo logudorese muskula[7] ad indicare quel tipo di fusaiolo.  L’etimo che gli studiosi ne danno oscilla  tra lat. musc-a(m), per la velocità con cui gira il fuso, e  Il lat. musc-ul-u(m) ‘topolino, muscolo’ rifiutato, quest’ultimo perché, pensate un po’, il femminile muskula ’fusaiolo’ lo escluderebbe (chiaramente essi non potevano essere illuminati dal trasaccano maschile musquië ‘pallino’, non conoscendolo).  Secondo me esso è lo stesso di trasaccano muschië ‘pallino (al gioco delle bocce)’  evidentemente apparentato, almeno formalmente, col lat. musc-ul-u(m) ‘muscolo’ mediante la palatalizzazione della –l-.   Un altro problema: in sardo era chiamata muskula anche una scanalatura sulla musckula stessa, dove alloggiava il filo che man mano veniva avvolto intorno all’asta del fuso.

  In latino mus-cul-u(m) significava diverse cose: topolino, muscolo del corpo, energia, forza, muscolo di mare, conchiglia, sorta di galleria (dove stavano al sicuro gli assedianti), tipo di barca. Ora,  un principio della mia linguistica è quello che vuole che un termine che indica una protuberanza (colle, sporgenza, ecc.) o una rotondità può indicare anche una cavità (valle, canale, fosso, ecc.): porto l’esempio della voce di Opi-Aq coppë ‘avvallamento del terreno’ che altrove indica l’inverso toponomasticamente , cioè alture (più o meno arrotondate). D’altronde anche il lat. convex-u(m) significava sia ‘convesso’ che ‘cavo’.  Allora ecco spuntare i significati latini legati al concetto di cavità e rotondità” di questa radice di musc-ul-u(m): galleria, barca  conchiglia.  Inoltre, sempre muskula, secondo alcuni autori, come i sardi Spano e Porru (indicati da Wagner alla nota 426 del libro sopra citato), significa anche ‘gancio’. E c’è qualcuno che lo nega o lo mette in dubbio, e fa male, a mio parere, perché credo sia impossibile che uno inventi così, alla leggera, un significato.  La questione è di tutt’altra natura. 

    Anche il trasaccano muschië ‘pallino’ mostra come la radice avesse un significato originario di rotondità (non importa se si riferisse ad una ruota, un disco, un pallino o altro). E un gancio rientra solitamente nel concetto di “rotondità, cavità, curva“ come mostra il lat. unc-u(m) ‘gancio’, dall’aggett. lat. unc-u(m) ‘adunco, ricurvo, uncinato’. I quali tutti rimandano al gr. όnk-os ‘uncino’ ma anche ‘punta, angolo, volume, massa, rigonfiamento, gonfiezza’ e così siamo tornati al concetto di “protuberanza, rotondità” speculare di quello di “cavitàcome in gr. ank-álē ‘braccio piegato, gomito’, gr. ánk-os,ous ‘curvatura, gola di monte, forra, convalle’, gr. ánk-istr-on ‘amo, uncino, uncino del fuso’.  La variante trasaccana murquië ‘pallino’ deve essere una forma sottoposta a rotacismo di un originario *mus(i)-cul- riferibile a musquië ‘pallino’.  D’altronde in latino si ha il termine muric-e(m) ‘murice’ un mollusco con una particolare conchiglia.  Diffuso è, inoltre, nei dialetti centro-meridionali il sostantivo morgio, murgia ‘roccia, grossa pietra’.  Ad Aielli abbiamo sia il toponimo Murgia, un contrafforte roccioso, sia la voce arcaica morgia ‘grosso sasso’, ma tale da poter essere lanciato contro qualcuno. 

    Sempre alla nota 426 del libro di M. Wagner si cita un certo Crocioni (deve essere un noto studioso marchigiano di nome Giovanni) il quale afferma in un suo scritto che a Velletri-Rm il termine moskolòne indica il rigonfiamento inferiore (non superiore) del fuso, e che a Civita Lavinia-Rm  il moskula (evidentemente lo stesso rigonfiamento) “è quasi uguale alla trottola detta in molti vernacoli moskula, in  grazia della sua rapidità”.  E tutto questo per accreditare la falsa derivazione della moskula ‘fusaiolo’ dalla molesta e schizzante  mosca. Osservazione importante: i linguisti spesso, invece di guardare all’interno del termine di cui si cerca l’etimo, volgono gli occhi altrove, come qui alla mosca, considerata non in sé, ma per un suo comportamento: se avessero guardato al trasaccano mùsquië, sarebbe stato molto diverso, in quanto la natura dell’oggetto indicato da  questo termine combacia con quella di fusaiolo, e non una  vera o presunta sua qualità.   Il significato di trottola, invece, in questo caso (ma anche negli altri) è da riportare a quello di rotondità, palla, come nel termine it. palèo, grossa trottola, che richiama, secondo me, la palla, il pall-ino  di cui sopra. L’etimo migliore per lo stesso it. trottola è a mio avviso quello che ne fa, per metatesi, una *tort-ola, rotondeggiante come il dolce chiamato torta e come la torta o ri-tort-ola, un ramoscello flessibile che si avvolge intorno alle fascine. In latino è turb-in-e(m), radice che indica qualsiasi oggetto in movimento rapido e circolare o lo stesso movimento vorticoso. In greco è bémb-iks  simile ad ant. ind. bimba-s ‘disco, palla’. In ted. è Kreis-el da ted. Kreis ‘circolo, cerchio, circondario, sfera (di interessi, ecc).  Solo in ingl. abbiamo un top ‘trottola’ un po’ oscuro (simile al fr. toupie ‘trottola’), ma non tanto, se pensiamo al ted. topf ‘pentola’ che ci riporta al concetto di “cavità” e quindi “rotondità” e al fr. toup-et ‘ciuffo di capelli’ che ci riporta al concetto di “massa, rigonfiamento’ come nell’aiellese toppa ‘palla di neve’. Lo spagnolo trompo ‘trottola’ sarà la stessa cosa delle espressioni italiane tromba marina e tromba d’aria  che si riferiscono, in meteorologia, a movimenti vorticosi e violenti di masse d’aria che si innalzano dal mare o dalla terraferma. Di una cosa sono certo: la parola per ‘trottola’, in qualunque lingua, rivela o nasconde sempre lo stesso significato di ‘rotondità, giro, giramento, ecc.’.  Una stessa, identica radice può assumere i significati più diversi, ma comunque interrelati: palla, pallino, sasso, roccia, scoglio, fusaiolo, trottola.

    Il rapporto tra lat. mus, muris ‘topo’ e il lat. mus-cul-u(m) ‘muscolo’, oltre che ‘topolino’, a mio avviso non è dovuto alla guizzante rapidità dell’animaletto (che d’altronde è poco comparabile con il movimento   del muscolo), ma, semmai, all’idea di “forza, energia” in esso incorporata, concretizzatasi nella massa del muscolo: essa andava a combaciare col mus ‘topo’ il quale, nella visione animistica della preistoria, era appunto una delle tante forze (animali e cose) che costituivano il mondo. Il gr. mýs, my-όs ‘topo, muscolo’ è la fotocopia della relativa voce latina. L’altro termine gr. epí-ton-os ‘muscolo, tendine’ ben esprime l’energia e la tensione propria di questi organi.  Un’ultima notazione.  Vorrei precisare che quando io dico ‘rotondità’ non intendo naturalmente riferirmi a qualcosa che risponda ai canoni precisi della geometria, ma a qualcosa che nella sua forma si avvicina a quella di un cerchio o sfera, ma più spesso non ne rammenta affatto, di primo acchito, l’idea, come può avvenire, ad esempio, per un sasso che può avere le forme più irregolari ma che, ciononostante, a Lecce nei Marsi –Aq, ad esempo, è chiamato pall-ùttë, una ‘pallottola’, dunque. Inoltre ad Aielli la palla di neve è chiamata toppa (come ho detto più sopra), la quale prende il significato di ‘zolla di terra’ a Rocca di Botte-Aq[1] (ma anche ad Aielli, ora che ricordo, dove significa anche palla di neve, come ho già detto) , oppure di ‘bioccolo di lana o cotone’ nel Vocabolario abruzzese del Bielli, sopra citato, oppure, nell forma tuppë, di ‘capelli annodati a palla sulla nuca, ciuffo’ in diversi dialetti abruzzesi.  Et maintenant je suis satisfait!


[1] Cfr. M. Marzolini, cit. Et maintenant je suis satisfait!



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq2004.

[2] Cfr. Buzzelli-Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese, (senza editore)2002.

[3] Cfr. D. Bielli, cit.

[4] Cfr. Buzzelli-Pitoni, cit.

[5] Cfr. M. Marzolini, “…me ‘nténni?”, Arti Grafiche Tofani, Alatri-Fr.1995.

[6] La voce coccarola non l’ho trovata in nessuno dei miei tre vocabolari , compreso quello del Petrocchi.  Eppure la si usa in internet con eccessiva fiducia sul suo significato, ritenendola evidentemente anche italiana..

[7] Cfr. sito web: https://www.sardegnacultura.it/documenti/7_4_20060330170854.pdf, pp. 278-79, e nota n.426. Si tratta di un’opera sulla lingua e gli usi sardi scritta nal 1921 dal tedesco Max Leopold Wagner, famoso linguista del secolo scorso. Traduzione di Giulio Paulis.

[8] Cfr. M. Marzolini, cit.