domenica 26 luglio 2009

Località Santa Monica o Li Cantoni

Pochi giorni fa l’amico Fiorenzo Amiconi di Cerchio mi ha telefonato per avvertirmi che nella suddetta località, a poca distanza dal paese, era stata ritrovata una non meglio identificata iscrizione con dedica ad Ercole, nome al quale avevo collegato quello dello stesso toponimo Cerchio come scrivo nell’articolo che ho inserito nel libro Meditazioni Linguistiche, pubblicato nel 2007, e che riporto qui nel post seguente . In esso suppongo inoltre che il nome in questione indicasse originariamente una divinità del Sole. Ora, riflettendo sul toponimo Santa Monica ho, con rapida mossa, intravista la possibilità che un eventuale culto, con relativo tempio o sacello, di divinità solare in quel luogo poteva anche giustificare la presenza nelle immediate vicinanze di un culto parallelo d’una divinità della Luna, chiamata con quel nome. Infatti da Atene ci viene un nome simile di una divinità lunare , Mounichia . Ma c’è di più. Se si cerca in Internet, si incontrano siti che parlano di Santa Monica, la nota santa cristiana madre di Sant’Agostino d’Ippona, la cui storia e le cui funzioni vanno però a sovrapporsi su quelle di divinità precristiane. La Santa infatti viene invocata da chi cerca di avere notizie di persone partite da molto tempo e mai più tornate: se l’invocazione ad essa diretta nel cuore della notte (il tempo appartenente alla Luna) la si fa nei trivi o quadrivi si è più sicuri di ottenere una risposta analizzando anche il comportamento, la direzione di qualche essere vivente che si trovasse a passare in quel momento. Come non ricordare allora il nome di Trivia , uno degli appellativi di Diana, divinità della luna, venerata appunto nei trivi?
Trascurando per ora la spiegazione del toponimo Li Cantoni e in attesa che la sovrintendeza di Chieti dia maggiori e più sicure notizie sul ritrovamento e sugli scavi che mi pare siano stati avviati, ho voluto azzardare questa ipotesi anche per mostrare, quando le cose si saranno eventualmente chiarite, la validità o meno del mio metodo di indagine linguistica. E’ una grossa sfida che affronto ben volentieri, anche se non nego che ci si potrebbero rimettere le penne almeno relativamente a questo singolo caso.


Purtroppo gli scavi condotti dalla sovrintendenza di Chieti non hanno, stranamente, evidenziato alcunchè di importante.  Ed io, per quanto amareggiato, conservo però intatte le penne!

Il nome del paese di Cerchio

Già molti anni fa l’appassionato e benemerito ricercatore Fiorenzo Amiconi di Cerchio , insofferente del significato superficiale di Cerchio che giustamente, secondo lui, sembrerebbe nome abbastanza ridicolo per designare un paese, ebbe l’intuizione di accostare il toponimo a quello di Crecchio-Ch, visto anche che diverse lettere indirizzate a quel paese finivano con l’approdare a Cerchio. Crecchio viene accostato solitamente ad italico Ocriculum (cfr. Otricoli-Tr) , diminutivo di ocris ‘colle, monte, punta’.
L’amico Fiorenzo ha secondo me colto nel segno per quanto riguarda il significato soggiacente di Cerchio ma non per quanto riguarda la parola all’origine del toponimo. A Trasacco infatti ricorrono (o ricorrevano) parole come chìrica ’ tonsura, cresta del gallo o gallina o d’altro animale come l’upupa, cima di alcune piante, ciuffetto ribelle(cfr. aiellese jjìrga,cerchiese girga) al culmine della nuca’, o come chiricùzza ‘punta (di albero,campanile, ecc.)’, riconfermate da verbi denominativi come schiricà oppure schiricarà dai signif. quasi simili ‘ fare la tonsura ad un religioso, capitozzare, tagliare la cima a qualche cosa’[1]. La parola merita qualche riflessione. A prima vista saremmo tentati di ricondurla al lat. eccl. clerica ‘chierica’ ma gli altri significati che mi sembrano preponderanti rispetto a ‘chierica’ richiedono particolare attenzione e una spiegazione diversa. Anche Quirino Lucarelli, nell’opera testè ricordata, accenna ai greci kara’ testa’ e keras ‘corno’, termini con numerosi riscontri in area italica, celtica, germanica e indiana. E in effetti non mancano nemmeno riscontri toponomastici relativi a rilievi del terreno come Colle San Quirico (Ortucchio), il promontorio Circello (lat. Circeii) nel Lazio e i vari Kirch-berg in area germanica che non deriveranno tutti il loro nome ( Monte della Chiesa) dalla presenza di chiese ivi erette magari solo a partire dal medioevo, ma ritenevano già ab origine quella denominazione. Anche la accennata voce aiellese jjìrga mi sembra un derivato da un antecedente chirica piuttosto che da clerica, anche se non è escluso un influsso di quest’ultimo termine soprattutto a determinare la mancata palatizzazione del nesso chi- di 'chirica', fenomeno abbastanza raro nei nostri dialetti. Anche la trasformazione di chi- in jji- mi pare che trovi esempi simili in toponimi come Da Jjupre che in celanese suona Cupre (Cupoli nelle carte IGM),come I Jute, un’ansa del monte Secine, vivo anche come voce del lessico aiellese col significato di ‘gomito’, molto probabilmente dal lat. cubitum, passato attraverso *cuvete,*cute(cfr. franc. coude ‘gomito’), jute. Anche le voci jalle ‘gallo’ , accanto a valle ‘gallo’, e jatta ‘gatto’ sembrano attestare lo stesso fenomeno di palatalizzazione delle velari /k/ o /g/ con esito corrispondente a semivocale /j/. La voce trasaccana chirica, nel significato di ‘cresta’ , risponde a quella che in altri dialetti marsicani, come l’aiellese, suona chicchera ’cresta del gallo o gallina’ usata anche in senso metaforico ( te’ ‘na chicchera!). Ora, questa chicchera, anch’essa senza palatalizzazione, potrebbe essere la forma metatetica di trasaccano chirica e la loro mancata palatalizzazione troverebbe ancora una spiegazione nell’incrocio col termine onomatopeico chicchirichì riferito al canto del gallo. In toscano chicchirichì vale ‘gheriglio della noce’, per via della sua forma frastagliata che richiama - dicono i linguisti- quella della ‘cresta’ del gallo. Ma forse qui subentra anche l’it. chicco di incerta origine, per me semplice variante di cocco. Senonchè mi sembra più naturale sostenere che la voce chicchera nonché il toscano chicchirichì si allineino con altre di simile struttura come aiellese cucher-uzze ‘cima di monte’, sardo cùccuru ‘cima di monte’, basco kukur ‘pettine’, ampliamenti della base paleoeuropea kukka ‘punta, vertice’ da cui l’it. cocca ’angolo del fazzoletto, tacca della freccia’ e l’it. coc-uzzolo.
L’origine remota, dunque, del toponimo ‘Cerchio’(dial. Circhje) ha quasi sicuramente a che fare con un termine per ‘colle’ e non è esclusa, almeno in linea teorica, la possibilità che quel nome si fosse incrociato con altri dando origine al culto di qualche divinità sulla sommità dello stesso. Quale? Si favoleggia della maga Circe, figlia del Sole, implicata anche nella saga della dea Angizia di Luco dei Marsi. Ora, senza ricorrere a lunga serie di collegamenti, mi pare abbastanza chiaro che dietro quel nome dovesse nascondersi anche un significato di ‘sole, luce, ecc.’: basti l’accenno al greco kirke ‘sparviero’, greco kirkos ‘ falcone’, messaggero veloce di Apollo, dio del sole (cfr. Od. XV, 526) e al termine rom (zingaro) kerca ‘cero, lumino’. Ma la cosa interessante, sempre in linea teorica e in assenza di riscontri più diretti, mi sembra la possibilità di collegamento di questa presunta divinità col culto di Hercules attestato abbastanza spesso nella Marsica , la cui origine è riportata dall’archeologo Cesare Letta[2] ai contatti avutisi, per via della transumanza, con la Campania greco-etrusca prima della romanizzazione dei Marsi. Ora, senza minimamente scalfire le osservazioni dell’illustre studioso in proposito, io sarei soltanto dell’idea che, dietro questo culto di Hercules, si celasse all’origine qualche altra divinità indigena che andava a combaciare con quella più nota di origine greco-etrusca. Un indizio, labile quanto si vuole, potrebbe essere offerto proprio dalla forma Hircul-(non Hercul-), comparente in un’epigrafe ritrovata a Trasacco, che suscita la perplessità del Letta il quale però risolve la questione in base a considerazioni di tipo linguistico che qui non riporto, pensando che si tratti di errore grafico: il fatto potrebbe invece essere ritenuto normale se si presume che si trattava, appunto, di divinità di origine diversa da quella indicata col nome greco-etrusco. L’iscrizione fa il paio con un’altra, sempre dal territorio di Trasacco, dedicata ad Herclo Iovio, con sincope della /u/ di Herc(u)les. La forma Hircol- dell’altra iscrizione potrebbe, a mio avviso, essere accostata al nome originario del paese di Cerchio, e cioè Circul-um, supponendo una trasformazione della /C/ velare iniziale in spirante /H/ favorita anche dall’incontro col nome greco-etrusco-latino di Ercole. Se si tiene presente il fatto che Ercole era rappresentato con una robusta clava, che arbos Herculea fu da Virgilio chiamato il ‘pioppo’, e che le spoglie di Acrone, re dei Ceninensi, chiamato Herculeus da Properzio e ucciso da Romolo, furono dedicate a Giove e portate presso una quercia sul Campidoglio, non si potrà passare sotto silenzio il dial. cercula ‘quercia’, albero sacro a Giove, il quale ci ricollega, appunto, allo Herclo Iovio precedente. La trasformazione della gutturale iniziale in spirante è riscontrabile in qualche parola come cura ‘timone dell’aratro (cfr. lat.curis ‘asta,lancia)’ nel dialetto cerchiese e di Rocca di Botte, ad esempio, a cui corrisponde l’aiellese ura del medesimo significato che presupporrebbe, quindi, un precedente *hura, con la spirante iniziale. Anche i nomi dei leggendari Horatii e Curiatii dell’antica Roma mi pare soggiacciano allo stesso fenomeno. I termini quercus ‘quercia’, e i dial. cercula e cerqua mi sembrano ampliamenti di cerrus ‘cerro’, specie di quercia. Essi andavano ad incrociarsi, ad esempio, col greco keryk-s ‘messaggero, araldo’, anch’esso sacro a Giove: la radice, in questo caso, evidentemente è variante di quella di Circe di cui ho parlato prima. Anche in una filastrocca popolare, che da ragazzi eravamo soliti ripetere nelle rigide giornate invernali ad Aielli, si fa riferimento al sole e ad una vecchia che si troverebbe infreddolita su una quercia ( Isce Sòle sande/ i scalla tutte quande/ scalla quéla vecchia che sta 'n-gima a nna cèrcula…). Acrone era chiamato Herculeus perché anche il suo nome andava a combaciare col lat. acer ‘acero’, ted. Ahorn ’acero’, ingl. acorn ‘ghianda’, frutto della quercia.
Ultime osservazioni. Le due iscrizioni di Trasacco sono state ritrovate una sul Colle la Mària (sulle carte IGM figura come Colle S. Mar-tino) e l’altra sul Colle Mariano o Maiorano. Il ricorrere di nomi con la stessa radice può far pensare che essa contenesse una motivazione arcaica comune non solo per l’idea di ‘colle’ ma anche per il valore originario di Hercoles o Hircoles, che era venerato sulle loro sommità. Sant’Isidoro (in dial. Sande Sidore : cfr. lat. sidus, -eris ‘stella,sole’) con la sua sterrazza (bastone terminante con lamina appiattita metallica, atta a detergere la terra umida appiccicatasi all’aratro o altri strumenti di lavoro, il cui nome potrebbe nascondere qualcosa come il lat. sideratio ‘colpo di sole’) può rappresentare, a Cerchio, l’ultima epifania vivente di quell’antichissima divinità. Ma solo qualche fortunato ritrovamento epigrafico-archeologico potrebbe convalidare queste mie supposizioni.


[1] Quirino Lucarelli, Biabbà A-E, Centro Studi Marsicani, Avezzano-Aq, 2003, p.487. Biabbà Q-Z, p. 243.
[2] C. Letta-S. D’Amato, Epigrafia della Regione dei Marsi, Cisalpino-Goliardica, Milano, 1975, p. 225 ss.

martedì 7 luglio 2009

Ma che bel bernoccolo!

Quando diciamo di avere il bernoccolo per qualcosa, intendiamo significare che abbiamo una particolare inclinazione per un determinato tipo di studio o attività, ma credo che pochi si siano chiesti perché mai la parola si presti a un simile significato figurato e forse nessuno è mai riuscito a darne una spiegazione convincente. Non ritengo infatti attendibile la spiegazione che qualcuno dà tirando in ballo la teoria di Franz Joseph Gall (1758-1828) secondo la quale sarebbe stato possibile, in base all'analisi della forma del cranio, individuare le inclinazioni di ognuno di noi, come conseguenza di un maggiore o minore sviluppo di alcune sue parti rispetto ad altre. Comunque, se qualcuno volesse criticare la soluzione al problema che sto per dare, è sempre il benvenuto. Nel Vocabolario Abruzzese di Domenico Bielli, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004, è registrata la parola ‘ntusiasme con lo strano significato di ‘gonfiore prodotto da colpo di frusta’. Essa è la copia spiccicata dell’it. entusiasmo di ascendenza greca il cui significato, però, non sembra essere di primo acchito raffrontabile con l’altro. Il greco enthousiasmós ha come base l’aggettivo én-theos ‘divinamente ispirato, pieno di divino furore’ riferito spesso all’ ispirazione di sacerdoti, poeti, baccanti in preda all’estasi e al furore favorito dal vino. A dire il vero questo significato dell’aggettivo, come se esso volesse indicare l’entrata (en=lat.in) in un dio (théos) o di un dio dentro la persona ispirata, appare ai miei occhi un tantino artificioso, perché l’aggettivo valeva anche semplicemente ’pieno di ardore’ senza alcun riferimento a divinità. Al posto di questa interpretazione che ricorre ai tre concetti di “entrata, furore, dio” metterei solo quello di in-spirazione, cioè di un ‘soffio’ che è anche alla base della radice di thé-os secondo alcuni, per cui un dio sarebbe l’equivalente di uno spirito. Sotto questa luce allora il greco énthe-os doveva significare in origine solo ‘ispirato, pieno di fervore e furore’ senza alcun riferimento all’ardore religioso o altro. Naturalmente la presenza in greco del sostantivo corradicale thé-os ‘dio’ avrà poi fatto sentire tutto il suo peso sul significato dell'aggettivo, piegandolo ad accettare dentro di sé la presenza di un dio e facendogli assumere un significato prevalentemente religioso. C’è poi da aggiungere che io condivido il pensiero di quanti considerano la suddetta radice imparentata anche con quella del greco thý-o ‘ imperversare, sbuffare, esalare, sacrificare, ecc.’ che sostanzialmente ha lo stesso significato come evidenziano anche i derivati thýs-is ‘impetuosità, fervore’, thyás ‘baccante’, thym-ós ‘animo, spirito’ e diversi altri. Non sarebbe dunque azzardato considerare enthe-os una rietimologizzazione della componente -ente di cui parlo nell'articolo Etimologia di it. torr-ente.
Ora, tornando all’abruzzese ‘ntusiasme ‘gonfiore’, bisogna a mio avviso pensare che esso sia null’altro che la materializzazione di quella "forza, tensione, tendenza" che sta dietro anche al concetto di soffio: non per nulla questa parola sfrutta la stessa radice di gonfiore presente nel lat. fl-are ‘soffiare’. Ma c’è anche da precisare che, secondo me, il gonfiore o rigonfiamento non è necessariamente solo quello provocato da aria che viene immessa, soffiando, in un corpo cavo ed elastico: lo stesso spirare, soffiare deve essere inteso, all’origine, come espressione di quella tensione, pressione, spinta che ne provoca il manifestarsi come può provocare, appunto, il manifestarsi di una protuberanza, un’ escrescenza o una tumefazione, parola, quest’ultima che ha alla base il lat. tum-ere ’essere gonfio, inorgoglirsi, infuriarsi, ecc.’, tutti significati che a mio avviso ci riportano alla base di greco thý-o, che io considero semplice variante della precedente. Il greco thým-on racchiude diversi significati emananti da questa radice, in quanto esso significa ‘timo’ (piantina odorosa da avvicinare anche al greco corradicale thýos ‘aroma, profumo, incenso’), ‘cipolla’ e ‘glandula, escrescenza carnosa’.
Concludendo possiamo quindi affermare che il rapporto che corre tra i due significati di it. bernoccolo ‘protuberanza’ e ‘ inclinazione, tendenza, propensione per qualche cosa’ è lo stesso di quello che corre tra abruzzese ‘ntusiasme ‘gonfiore’ e it. entusiasmo, il quale ultimo è effetto della stessa tensione che provoca il precedente . Naturalmente non bisogna credere che la parola abruzzese sia da derivare direttamente da quella greca storica, ma da termine corrispondente di qualche parlata greca preistorica. Lo stesso meccanismo si riscontra nell’ingl. knack ’inclinazione per qualcosa’ da ritenere variante di ingl. knag ‘nodo, nocchio’. Anzi, quest'esempio tratto dall'inglese dimostra che l'espressione in questione non può essere nata con la teoria di Franz Joseph Gall, dato che il parlante inglese non è ricorso ai termini correnti in quella lingua per 'bernoccolo' (lump, bump, swelling) nè al termine simile knag, come dicevo, ma all'altro knack, che attualmente non significa 'bernoccolo' pur avendolo significato, secondo me, in tempi remoti. L'espressione quindi ha a che fare con la natura profonda del linguaggio piuttosto che essere un riflesso di una teoria linguistica, del resto poco nota ai parlanti. Anche l'altra espressione italiana, simile alla precedente, e cioè avere il pallino (della pulizia, della filatelia, della matematica, ecc.) nel senso di 'avere la mania, passione, inclinazione' dovrà essere ricondotta, in ultima analisi, al meccanismo sopra esposto del 'bernoccolo': perchè una stessa idea di 'protuberanza,rotondità' opera all'interno delle due parole. Un'ultima notazione: dopo quanto ho detto, dove va a finire il cosiddetto senso figurato di bernoccolo, visto che il rapporto col senso proprio potrebbe benissimo essere rovesciato se è vero che ambedue sono una diretta derivazione dell'idea primordiale di 'forza,tensione'?

venerdì 3 luglio 2009

Il linguaggio e la filogenesi

Credendo nell’evoluzionismo darwiniano considero il linguaggio una mera funzione dell’organo del cervello, non molto diverso per quanto riguarda la sua formazione, dal meraviglioso organo della vista, ad esempio, strumento perfetto evolutosi nel corso di milioni di anni, a partire dagli invertebrati. Solo che la vista ha, diciamo così, la sua sede in un organo ben definito, l’occhio, esclusivamente preposto all’esplicazione di quella funzione anche se collegato anch’esso al cervello attraverso il nervo ottico, mentre il linguaggio, considerato nella sua funzione di elaboratore di concetti, è solo una delle attività e delle funzioni del cervello, la quale ne coinvolge segnatamente alcuni settori ma anche diversi altri le cui modalità d’intervento, nel gran concerto allestito per la produzione del linguaggio, non sono però ancora ben chiare. Inoltre l’occhio, attraverso la retina, trasforma gli impulsi luminosi in immagini della realtà sostanzialmente identiche per tutti gli uomini, mentre il linguaggio, considerato sotto l’aspetto del mezzo sonoro di cui si serve per la trasmissione dei concetti, sembra refrattario a qualsiasi parametro unificatore delle macroscopiche diversità fra le lingue. Così stando le cose, potremmo concludere che, sì, gli involucri sonori delle parole (significanti), peraltro semplici veicoli di trasmissione, sono diversi di lingua in lingua, ma che i concetti da essi trasportati (significati) sono più o meno simili presso tutti i popoli, e potremmo sentirci con ciò appagati. Ma resterebbe comunque irrisolto il problema importante dell’origine dei tanti concetti di ogni lingua, e se noi credessimo di risolverlo sostenendo che essi non sono altro che riflessi carichi delle condensate caratteristiche essenziali di ognuna delle varie entità del mondo reale, come del resto ha fatto la filosofia da Socrate in poi, ci troveremmo dinanzi ostacoli insormontabili, a partire dalla necessità di chiarire, prima della nominazione delle cose, quali fossero quelle caratteristiche, compito per nulla agevole, come ho spiegato negli articoli “ Fonte della Vita e Fonte Vipera nel Parco dei Sibillini” e “ Riflessioni sulla natura del concetto”. Sembrerebbe restare, allora, la sola possibilità che il concetto sia stato il prodotto del cervello, libero, estroso, casuale, imprevedibile, diverso per ogni singolo referente da comunità a comunità di parlanti, cosa che delineerebbe uno scenario iniziale caratterizzato da anarchia e caos, i quali si sarebbero assommati alla altrettanta libertà, starei per dire libertinaggio, con cui le etichette sonore venivano contemporaneamente applicate ai concetti. Ma in questo modo saremmo costretti ad ammettere che la lingua non è un prodotto coerente della evoluzione dell’animale uomo, non presentando nessuna qualità, nessun meccanismo fondamentale, né nel significante né nel significato, che rechi un’impronta, un segno di quel lungo cammino comune compiuto dall'ominide per arrivare alla elaborazione ed esplicitazione dei concetti, ed essendo inoltre segnata dalla sbrigliatissima inventività del soggetto o del gruppo di appartenenza. E’ questo a mio avviso un salto biologico del tutto innaturale, che aprirebbe uno iato incolmabile, incomprensibile per ogni uomo di scienza, tra un prima ed un poi completamente estranei tra di loro, nel senso che il poi dovrebbe così essere considerato derivato da un prima di tutt'altra natura, in quanto qui non sono in gioco solo alcune cratteristiche di un sistema, quello linguistico, che potrebbero essere anche completamente nuove rispetto al sistema psichico immediatamente precedente, come avviene spesso nell’evoluzione, ma è l’intero fenomeno lingua a rimanere sprovvisto di una solida base evoluzionistica, come se esso fosse stato calato improvvisamente dal Cielo ed immesso gratuitamente nei circuiti cerebrali. Eppure tutti gli esseri viventi avevano cominciato a prendere nota, per così dire, del mondo circostante sin da tempi remotissimi, a cominciare dal paramecio (Paramaecium), protozoo che quando si imbatte in un ostacolo “ prima si ritira e poi riprende a nuotare in avanti, in un’altra direzione scelta a caso” [1]. Esso quindi sa già qualcosa di ‘oggettivo’ sul mondo esteriore. Come mai allora, con la comparsa del linguaggio nell’uomo, è come se, stando alle considerazioni fatte prima sulla genesi del concetto, tutta l’esperienza precedentemente immagazzinata dagli esseri viventi che hanno preceduto l’uomo nella catena evolutiva si fosse volatilizzata, non entrando nella elaborazione dei concetti, che pure in gran parte si riferiscono a quella realtà esteriore?
La risposta sta nel rovesciamento di quelle considerazioni sulla natura del concetto, il quale in realtà è profondamente radicato nell’ humus che ha alimentato la vita evolutiva dell’uomo. Esso è, a mio avviso, proprio l’estrinsecazione di quel vago sapere che già il paramecio andava elaborando, circa l’esistenza di qualcosa d’altro da sé nell’ambiente circostante, sapere che si ritrova dietro ogni singolo concetto di ogni lingua, come vado sostenendo e scrivendo da anni nelle mie riflessioni. In questo senso è allora indiscutibile che la Lingua resta un sistema stupendamente e saldamente unitario, pur nella fantasmagorica mutevolezza dei suoi significati di superficie . Un sistema sviluppatosi al fine di concepire ed esprimere un solo concetto, quello di ‘esistenza, essere’, sotteso ad ogni vocabolo di ogni lingua, concetto che comunque, fino al momento in cui non fu abbinato ad un suono, rimase pur sempre avvolto in un nimbo di indeterminatezza aurorale, che lo rendeva più simile ad una volontà di espressione che a qualcosa di finalmente delimitato con chiarezza. Il concetto di ‘essere’, infatti, pur essendo ormai inserito a pieno titolo nella trama degli altri concetti, conserva ancora, se ci fermiamo un po’ a riflettere, la sua vaghezza originaria: se proviamo infatti a definire che cosa sia effettivamente l’ ‘essere’, ci accorgiamo di dover fare un buco nell’acqua, giacchè non potremo mai evitare, per definirlo, di usare il verbo essere , che ci costringerebbe ad un circolo vizioso tautologico e sterile: se questo verbo infatti viene usato nel senso di 'esistere' non farebbe altro che sottolineare quello che l' 'essere' già include di per sè ; se poi viene usato come copula non troveremmo nessun predicato, che possa aggiungere qualche nozione in più rispetto a quelle già contenute nell' 'essere', massimo genere esistente, che, come tale, è destinato quindi a vivere in splendida solitudine.
Concludendo, voglio far notare che l'idea socratica del concetto è vera nella misura in cui essa restringe tutte le proprietà delle cose, che dal concetto sarebbero espresse in forma essenziale, ad una sola, quella dell' ''essere'', appunto, perchè non si può negare che il concetto resta pur sempre un riflesso, nel cervello, di quella realtà esteriore che lo ha plasmato costantemente in tutta la filogenesi.





[1] Cfr, Konrad Lorenz, L’altra faccia dello specchio, Ed. Club degli Editori su licenza Adelphi, Cles (TN),1980, p. 25.