domenica 28 febbraio 2010

Il romanesco ecc. "sgamare" 'intuire, scoprire, capire il gergo'. Appunti alla posizione di Ottavio Lurati.

La proposta di Ottavio Lurati circa l’etimo di sgamare, giovanilismo romanesco, ma ora diffuso in tutta Italia, è certamente molto articolata e meditata anche se mostra secondo me qualche punto debole che mi permette di inserirvi quasi furtivamente queste mie osservazioni che mirano ad un’altra proposta. Chi volesse leggere il testo del Lurati, che fa parte del discorso di ringraziamento per la vincita del Premio Galilei 2003, può, cercando in Internet il suo nome, trovarlo sotto il titolo John A. Davis.
Scartata la derivazione da lat./it. squama (da cui si sarebbe formato, secondo alcuni, il verbo sgamare col sign. di ‘spulare il grano’) per la inverosimiglianza della cosa e per la scarsa vitalità gergale del termine squama, egli appunta l’attenzione sulla voce calmo nel senso di ‘gergo’(diffuso, antico e radicato) e fa derivare il verbo in questione proprio dal sign. dell’aggettivo calmo ‘quieto, pacato, tranquillo’ e quindi ‘segreto’, concetto che ritorna ad esempio in espresioni simili come fare qualcosa alla chetichella ’ cioè ‘in silenzio, di nascosto’, locuzione che parte da quieto, cheto. La voce riaffiorerebbe nel veneziano cal(u)mar ‘fare qualcosa in segreto, conseguire alla chetichella, di sotterfugio, rubare’, venez. calumarse drio a uno ‘seguire uno in segreto, pedinarlo’, venez. dar una cal(u)mada ‘ compiere un furto’ ma anche nel tipo ingalmire ‘parlare in gergo’ del Canton Ticino, Crealla (Piemonte), Bologna’. Da un tipo simile (s)galmare (Lurati non ne dà però dei riscontri) ‘parlare il calmo, il gergo, capire’ si sarebbe passati a sgamare (variante dell’Italia centrale). Si richiama il fenomeno dell’assimilazione «cui inclinano tante parlate centrali e meridionali» e si portano gli esempi di it. almeno>napol. ammeno, romanesco palma, la pianta, che dà pamma, il caso di *tolre/togliere/torre, il messinese sòddu ‘soldo’, lucano merid. upp ‘volpe’. Può considerarsi veramente insignificante il fatto che nessuno di questi esempi esibisca una consonante scempia lì dove è avvenuta l’assimilazione? In effetti a me sembra che nel centro-meridione sia la norma il raddoppiamento di una delle consonanti in casi del genere e in specie nel nesso –lm-, se si astrae dal romanesco che pronuncia scempia la -r- geminata e da alcune parlate come quella del mio paese di Aielli dove il nesso –lt- dà talora la sola –t- come in vòta ‘volta’, cótë p. pass. ‘colto’, futë ‘folto’ e il nesso –ls- dà talora –z- come in puzë ‘polso’, arcaico vuzë per it. arc. volse=volle . La forma sgamare, pertanto, potrebbe non essere il prodotto di un’assimilazione e rimandare ad altra radice che io individuerei nel dialettale (abruzzese, laziale, marchigiano, campano, pugliese, siciliano) cama ‘pula, loppa’, nel siciliano (a Francavilla) anche ‘velo che si forma sulla superficie del latte bollito’, cosa che quindi fa capire che il significato d’origine della radice doveva essere quello di ‘copertura,velatura, avvolgimento’ e simili. E allora essa doveva anche coincidere con quella di it. cam-er-ella ‘pula, loppa’, termine che è un semplice ampliamento del precedente, riscontrabile anche nel gr. kam-ára ‘camera, volta’, lat. cam-era(m) ‘volta’, lat. cam-ella(m) ‘tazza’ (considerata diminut. di cam-era(m) ma probabilmente lo era di una forma base *cama), lat. cam-ur ‘curvo, arcuato’, got. ga-ham-on ‘coprire’, ted. Himm-el ‘cielo’, ted. ge-heim ‘intimo, segreto, nascosto, occulto’ (che è fatto derivare, credo, dal ted. Heim ‘casa, patria’: ma, se ci si riflette, l’idea di casa non dovrebbe essere diversa da quella di cam-era, affine a sua volta a quella di ‘cavità, grotta, capanna’), it. cam-ice (prob. dal gr. biz. kam-asos' tunica'), it. cam-icia (dal tardo lat. cam-isiam, prob. di orig. celtica), it. gam-urra (anche camùrra, camòra, camòrra) ‘antica sopravveste femminile’, fatta derivare dubitativamente dall' arabo humur, pl. di himar 'velo da donna' . La camorra, ben nota associazione criminale di stampo mafioso, credo sia debitrice della sua denominazione alla precedente radice, che ben si adatta a designare la frode, il sotterfugio, l' agire coperto, il raggiro, l'imbroglio e la segretezza in cui essa opera. La radice, poi, è talmente profonda e diffusa da giustificare almeno la supposizione di un latino volg. *ex-cam-are ma non col senso specializzato di ‘spulare, togliere la pula (dal grano)’ come nell'abruzzese scamare, bensì con quello, probabilmente originario e più generico, che doveva essere ‘scoprire, togliere il velo, la copertura’, il quale facilmente trapassa a quello assunto da sgamare il cui valore, nel vocab. del De Mauro, è: 1) adocchiare di nascosto 2) notare, intuire, scoprire qcs. di volutamente nascosto o taciuto 3) cogliere sul fatto, beccare. Così verrà ad essere altrettanto facilmente spiegato l’altro significato di sgamare riportato dal Lurati, ossia ‘fuggire, sfuggire’. Egli lo spiega, a mio parere piuttosto artificiosamente, asserendo che «L’idea era quella dell’intuire con rapidità la malaparata e di sottrarsi destramente al pericolo che stava giungendo. Nell’un caso (capire al volo le allusioni che erano destinate ad altri) e nell’altro (sfuggire, sottrarsi destramente a uno) stava l’idea di base del farla in barba all’interlocutore. Affiorano materiali gergali che presentano non poche volte la processualità semantica: ‘capire al volo’, sottrarsi a un tizio, al poliziotto per esempio o al pericolo, (s)fuggire».
Per me, invece, lo sgamare nel senso di ‘(s)fuggire’ è semplicemente lo stesso verbo che ho proposto sopra ma usato intransitivamente, cioè un uscire dal guscio, uno sgusciare appunto (come vuole il significato generico di cama ‘involucro’), verbo quest’ultimo che talora assume proprio il senso di ‘sfuggire rapidamente e di soppiatto’. Le parole di Lurati mi pare che si dibattano nell’impossibile tentativo di enucleare da uno stesso termine due significati fondamentalmente inconciliabili tra loro come ‘scoprire, capire’ da un lato e ‘(s)fuggire’ dall’altro, se messi a contatto soltanto tramite la non necessaria connotazione, a mio avviso, dell’agire furbesco. Del resto i linguisti non recalcitrano dinanzi a simili operazioni che definirei di superfetazione interpretativa come quella che coinvolge il dialettale centro-meridionale nchianà, acchianà ‘salire’, spiegato come se si trattasse di un ‘arrivare al piano’ dopo una salita (cfr. Cortelazzo-Marcato I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998, s.v. chiàna). Anche qui essi introducono una idea di troppo, quella di ‘arrivare’ che sfortunatamente non si può estrarre da quella di ‘pianura’ e che avrebbe potuto prestarsi ad indicare anche l'azione opposta dello scendere, dato che dopo una discesa ugualmente si 'arriva al piano': a me sembra assurdo e complicato un neologismo del genere e pertanto sposto alla preistoria la formazione del termine in questione che, così come lo si intende , non risponde per niente alle capacità dell'uomo onomaturgo il quale, contrariamente all'idea che facilmente ce ne facciamo, non era a corto di mezzi adatti ad esprimere le differenze di questi significati basilari di movimento in salita o discesa attinenti all'idea fondamentale e primordiale di spazio e non era costretto, quindi, a ricorrere, per esprimere un 'movimento verso l'alto', all'idea quasi opposta di 'piano' per di più soggetta a fraintendimenti. E inoltre ai linguisti sfugge, cosa gravida di conseguenze, che a Buccino, un paese del salernitano, acchiàna significa ‘in salita’, locuzione avverbiale sostanzialmente modale e di stato che esclude ogni comoda intromissione abusiva nel suo seno di un verbo di movimento come arrivare e di conseguenza inchioda a cercarne l'etimo nell’ambito della sua quiete e della sua pace. Non resterebbe, allora, che prendere atto che le interpretazioni più semplici, immediate, dirette sono spessissimo da preferire a quelle fatte di circonlocuzioni più o meno divaganti, e rassegnarsi a dare il giusto significato alle decine di oronimi italiani formati da quell' appellativo (Piano), che attendono invano giustizia da migliaia di anni nonostante la testimonianza a loro favore del termine serbocroato plan-ina ‘montagna’ e della locuzione sopra citata. Ma abbandonare le proprie convinzioni maturate in anni di sudati studi alla lucerna, e basati su una tradizione lunga e gloriosa, significherebbe provare una delusione altrettanto cocente della mancata giustizia per i monti. Tutto sommato, quindi, per non provocare e diffondere panico è meglio non sconvolgere il sonno delle quiete acque stagnanti: la quantità di gioia che proverebbe qualcuno non compenserebbe minimamente la enorme quantità di delusione di molti altri.
Una ulteriore conferma della validità della mia etimologia di sgamare può derivare dall’analisi delle voci come camuffare, sgamuffare, correnti in molte parlate italiane e che il Lurati interpreta come ampliamenti, attraverso il suffisso –offa, della base sgamare ‘capire’(proveniente secondo lui da sgalmare, come abbiamo visto), di cui ripetono l’esatto significato. «Al verbo – afferma il Lurati- venivano poi fatte percorrere delle applicazioni contestuali che lo portavano ad essere usato nel significato di ‘capire al volo’, ‘interferire col pensiero di un altro’, ‘imbrogliare l’altro’ ecc. Infine, ‘mascherare una cosa, un imbroglio’, ‘celare’: il significato che ci è noto dall’uso corrente e che è più vulgato. Ma la matrice era gergale ed era quella di calmo/calmare/sga(l)mare». A mio parere la connessione, con questi ultimi termini, delle due forme camuffare, sgamuffare ‘nascondere, coprire, mascherare’ è da scartare, come ho già detto, perchè le considero come un semplice ampliamento (comunque problematico esso stesso, perchè io tendo, per principio, a vederlo come un’aggiunta di una radice omosemantica) della base cama ‘pula, involucro’ di cui sopra anche quando esse presentano i significati figurati di ‘scoprire, capire, capire al volo, ecc.’. Se dovesse fare difficoltà il camuffare ‘scoprire, capire’ senza la –s- privativa iniziale da lat. ex-, si potrebbero ricordare le due forme it. pelare/spelare dall’identico significato.
Resterebbero ora da spiegare le restanti voci con la –l- non assimilata fatte derivare dal Lurati sempre dal termine calmo ‘gergo furbesco’ e, per quanto mi riguarda, da tenere ben separate dalle precedenti senza la -l- . Io le farei dipendere tutte dalla forma veneziana cal(u)mar ’fare qualcosa in segreto, ecc.’ sopra citata, e considererei la -u- non una sorta di vocale anaptittica ma parte integrante della radice, la quale dovrebbe corrispondere, anche se non ne sono certo, al gr. kálymma ‘velo, copertura, oscurità’, tutti significati che andrebbero a fagiolo per ricavarne gli altri di cui essa si carica nei vari contesti. Ma non rifiuterei un influsso del lat. cl-am ‘di nascosto’, da avvicinare a lat. cel-are ‘nascondere’ nè un suo accostamento al lat. calumnia ‘calunnia, raggiro’ da calvi ‘ingannare, raggirare’.
Il verbo greco kalýptō, da cui deriva il precedente kálymma ‘velo’, ha essenzialmente l’unico significato di ‘coprire, avvolgere, nascondere’, ma l’altro verbo greco kléptō, che presenta la stessa struttura consonantica ma un gioco vocalico diverso, sembra essere comunque una variante del primo se si tiene presente la sua accezione di ‘nascondere, occultare’, appunto, oltre a tutte le altre che combaciano in pieno con quelle del venez. cal(u)mar sopra citato, ossia ‘rubare, fare qualcosa in segreto, di soppiatto, abbindolare, ingannare’.
L’abruzzese calima, calimë ‘foschia afosa’(cfr. I dial. ital., cit.,s.v. calìna) ci offre l’occasione per interessanti osservazioni. Esso dovrebbe risultare dall’incrocio e sovrapposizione di due radici, una col significato essenziale di ‘velo, velatura, foschia’ da accostare al citato gr. kálymma e l’altra con quello di ‘calura, afa’ da avvicinare al lat. cal-ere ‘essere caldo, ardente’, al napol. calimma ‘tepore, calduccio’. La variante abruzzese calìna ‘foschia afosa’ ma anche, soprattutto al plurale calìnë, ‘scintille del fuoco, allucinazioni’ mostra in filigrana la stessa alternanza semantica velo, foschia/calore, ardore. E pertanto non posso condividere il parere della Marcato, estenditrice della voce in questione nel dizionario citato, che presuppone un latino parlato *calina ‘calore’ per le due accezioni. A me pare assolutamente chiaro che il significato di ‘foschia’, incluso nel termine insieme all’altro, debba essere tratto dal lat. cali(g)ine(m) ‘caligine, nebbia, offuscamento, foschia’, attraverso il fenomeno della totale lenizione della –g- intervocalica attestato in tante parole dialettali abruzzesi e anche nelle voci fullìne,fullìnie ‘fuliggine’(cfr. Domenico Bielli, Vocabolario abruzzese, ristampa di Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq, 2004). Ad Aielli-Aq, il mio paese, il termine suona (suonava) fijjìna con palatalizzazione della liquida laterale alveolare. Anche lo spagnolo calina ‘caligine, nebbiolina’ credo debba avere la stessa origine. Il supposto latino parlato *calina può allora giustificare solo gli altri significati di ‘afa, calore, scintilla’. Che il suddetto fenomeno della lenizione ci sia stato è definitivamente dimostrato dalla forma abruzz. f. sing. calìe (cfr. D. Bielli) ‘ caligine’, chiaramente proveniente dal nominativo lat. cali(g)o ‘caligine’, nonchè dall'altra voce calienà (cfr. D. Bielli) 'vedere confusamente come in nebbia' che richiede un lat. *cali(g)in-are, ampliamento di lat. calig-are 'essere oscuro, tenebroso, non vederci chiaro, ecc.', termine gemello dell'altro calunie (cfr. D. Bielli) 'caligine, delle giornate afose' incrociatosi con it. calura. Ma il bello è che anche la voce calìe presenta altri significati tra loro inconciliabili cioè 1) ‘vigore, lena’, 2) ‘guasto, apertura in una siepe’, 3) ‘smottamento’. Ora, il primo credo possa essere messo in rapporto, nonostante qualche apparente difficoltà, col calabrese calima ‘calma, temperamento, alimento’ (cfr. I dial. ital., cit.), che ne sarebbe un ampliamento. La calma, infatti, mi sembra qui l’attributo di chi domina con forza e costanza i suoi stati d’animo e le sue passioni, e può essere essa stessa, quindi, epifania diretta di una forza interiore . L’ alimento è l’altra faccia del vigore che fa crescere gli esseri viventi. Il secondo e terzo significato, apparentemente irrelati, credo che trovino, invece, un punto in comune nel greco khaláo ‘allentare, abbassare, cedere, aprirsi’ da cui l’it. cal-are; cfr. anche gr. khál-asma ‘interstizio, spazio vuoto, apertura, crepatura’.
Il termine gergale calmo ‘gergo’ che Lurati, senza tentennamenti deriva dall’aggettivo it. calmo, anche se ne dà una spiegazione per il vero abbastanza consequenziale, a me sembra tuttavia che si presti anche ad altra interpretazione, diversa e forse più convincente anche di quella da me data più sopra che ne fa seguire il destino di venez. cal(u)mar, se lo si collega con il lat. carmen ‘canto, suono, poesia, formula magica, incanto, testo,ecc.’ per via del facile e diffuso scambio l/r seguiti da consonante, ma soprattutto perchè si incontrano in abruzzese diverse voci chiaramente legate ad esso come ciarmà ‘aggirare, ingannare’, ciarmatare ‘ciurmatore, ciarlatano’, ciarme ‘parlare insinuante, al fine di ingannare’ tutte influenzate nella pronuncia dal francese charme ‘incanto’, se non derivate direttamente da esso. E’ un fatto, però, che si incontrano in abruzzese anche altri termini legati ai precedenti ma con significato un po’ diverso come ciarmarécce ‘cicaleccio, bisbiglio, passeraio’ , ‘nciarmà ‘barbugliare (degli ubriachi), incantare’ e infine l’aiellese ‘ngiarmuttà ‘dire parole incomprensibili, farfugliare’ (forse incrociato col lat. mutt-ire ‘borbottare’). La mia idea è che questi significati, che insistono sul ‘risonare, rumoreggiare, cicalare, parlare in modo confuso’, non sono da considerare per forza uno sviluppo successivo del significato di ‘formula magica’ (e per questo oscura) incluso nel lat. carmen, ma che essi lo hanno affiancato fin dall’origine nei dialetti, come secondo me sta ad indicare l' altro suo significato di suono che è d'altronde quello del suo etimo corrente *can-men (cfr. lat. can-ere ‘cantare’). Così il lat. carmen dovette fin dagli inizi indicare un linguaggio particolare ed oscuro, un gergo, appunto, arrivato fino a noi nella veste di calmo vicina a quella originaria, ma un po' lontana, nella pronucia, dalle forme influenzate dal francese charmer riguardanti in genere solo il significato di ‘incantare, ammaliare, imbrogliare’ diffuso mi pare in tutta Italia. In Abruzzo l’influenza si è estesa anche alle forme avvicinabili a calmo per il significato.
Il verbo antiquato ciurmarsi ‘ubriacarsi’, derivato come il verbo ciurmare ’raggirare’ dalla forma ciarmare per influsso di it. ciurma, nasconde a mio avviso, dietro la facciata, il greco khárma ‘gioia, piacere’, termine del tutto adeguato a significare l’eccitazione e l’ebbrezza date dal vino, concetti abbastanza diversi da quello di malia, incanto. Ecco perchè l’abruzz. ‘nciarmà sopra citato, che doveva avere inizialmente solo il significato di ‘incantare, farfugliare’ ne acquisisce anche l’altro, come valore aggiunto, di ‘farfugliare degli ubriachi’: l’incrocio con altro verbo poi caduto in disuso o trasformatosi nel ciurmarsi ‘ubriacarsi’ di cui sopra, ha determinato l’ampliamento del suo significato.
Infine ritorno sul calabrese calima ‘calma, temperamento, alimento’ perchè credo di poterlo proficuamente confrontare con una voce ricorrente (un tempo) nella parlata del mio paese, e cioè con il verbo pronominale scalmàsse<*scalmarse ‘ perdere vigore, vapore, qualità, temperamento’, detto ad esempio del vino lasciato in una bottiglia o fiasco senza turacciolo: l’anima tutta del vino si sarebbe volatilizzata attraverso la bocca del collo priva di tappo. Questo significato è in perfetta armonia con quelli del termine calabrese che parla di temperamento e calma, la quale ultima deve essere vista, allora, in questo contesto come la qualità di chi riesce attivamente a temperare e dominare i suoi istinti e non come riflesso magari di una indole placida, apatica, inerte . L’altro suo significato di ‘alimento’ depone a favore di questa analisi. E mi viene allora anche il sospetto che l’etimologia corrente dell’italiano calma non sia corretta perchè il termine da cui esso è fatto derivare, il tardo latino cauma ‘forte calore’ dal gr. kaûma ‘ardore (del sole)’ può legittimamente rendere conto solo del ‘caldo’, appunto, non anche della quiete di tutti gli elementi della natura che spesso lo accompagna (calma), la quale mi pare possa trarre alimento, invece, proprio dall’antichissima voce calabrese cal(i)m-a, che fa il paio con quella dell’aiellese s-calm-àsse. Anche l’adagio popolare la calma è la virtù dei forti conferma questo antico nesso tra la forza e la calma. Ma quanto sia difficile a volte tracciare confini netti tra una forma e l'altra ce lo fa pensare l'abruzzese (cfr. Bielli) scalemarse 'scalmanarsi' , significato che indica un 'agitarsi, sudare (per calore o altro )' - e si spiega come un 'perdere la calma' - ma che sconfina anche nel campo semantico del 'calore' e della 'sete', come nell'abruzzese (cfr. Bielli) scalemarìe 'gran sete'. La radice sembrerebbe così riavvicinarsi all'idea di 'calore' che abbiamo scartata come etimo: ma questo non è sufficiente a farci cambiare idea sul percorso che ne abbiamo tracciato perchè l'idea del 'calore' è qui secondaria e favorita anche dall'incrocio di cal-ma con la radice di cal-ore. La spiegazione etimologica di tutti questi termini a mio avviso potrebbe avvitarsi ancora su se stessa quando si riflette che la forza che controlla le pulsioni dell'istinto, cioè la calma, è identica a quella che alimenta le stesse pulsioni e lo stesso calore. Tutto si tiene. Ma questa è un'altra storia, poco digeribile per i più.

martedì 16 febbraio 2010

I nomi composti tautologici che sfuggono ai linguisti

Sempre spigolando qua e là dal libro Nomi e volti della paura nelle valli dell’Adda e della Mera di Remo Bracchi, si possono fare osservazioni di notevole interesse. A p. 295 egli cita alcuni termini dialettali dell’area della Valtellina per ‘testicoli’ come livign(ese) balùsc’tri, tart(anese) balaǘstri che richiamano il mil(anese) romp i balauster ‘rompere i corbelli’, bres(ciano) balaöster ‘testicoli’, ecc. e suppone che queste voci siano una deformazione di bàla ‘testicolo’ che viene indirizzata verso il termine balaustra per ragioni eufemistiche. Io invece penso, per i motivi che dirò più sotto, che tra la bala e la balaustra ci sia una distanza quasi incolmabile se non interviene anche qualche altro fenomeno a favorire la presunta trasformazione. Un identico problema si profila a proposito di porta e portoghese nell’espressione idiomatica fare il portoghese che, secondo il linguista Ottavio Lurati, si sarebbe formata scherzosamente partendo dall’altra espressione entrare a pporta rotta (entrare a spettacolo iniziato) in uso nell’ambiente teatrale romano. Cfr. per una disamina più esaustiva l’altro mio articolo Fare il portoghese presente nel blog.
Subito dopo, il Bracchi cita il borm(iese) döi de agósc’t ‘testicoli’, albos(aggese) i du d’agóst ‘testicoli’ , ven(eto) de agosto ‘testicoli’. Ho trovato l’espressione anche ne I dialetti italiani , UTET, 1998, dove si elencano le varie spiegazioni date, tutte più o meno inattendibili, come riconosce lo stesso estensore della voce, M. Cortellazzo. Esse sono: l’influsso del mese sull’organismo; un doppio senso congusto’ ;la sovrapposizione di due palle nel numero 8, che indica il mese;e, infine, la piacevolezza del comando dato [da Napoleone] ai soldati francesi dai calzoni attillatissimi di sistemareles deux à gauche’ (i due a sinistra). C’è però anche da notare che in quel giorno, in quasi tutto l'arco alpino, si celebrava tradizionalmente la festa degli uomini durante la quale si infiocchettavano con un nastro gli organi genitali, riprodotti col legno o con altro materiale, e si portavano in giro dappertutto: sicchè non mi sembra fuori luogo pensare che agosto dovesse significare in epoca preistorica proprio ‘testicolo’, organo importante per la mentalità primitiva che poteva essere fatto oggetto di venerazione e essere portato in processione come avveniva per le famose feste greche delle falloforìe, dove erano gli organi genitali maschili, i falli appunto, ad essere oggetto di venerazione, come simboli di fertilità. La festa degli uomini, per le sue caratteristiche pagane e precristiane, risaliva certamente alla preistoria, anche se la fissazione della data al 2 agosto sarà avvenuta successivamente alla riforma giuliana del calendario, e a quella in cui l’antico mese sestile prese il nome di Augustus (8 a.C.), in onore del grande imperatore. In internet ho trovato la pagina di un tale che attesta l'espressione le due (palle) di Augusto, variante dell'altra di cui si discute, usata nel suo paese in provincia di Torino: l'espressione conferma, come ho sostenuto più sopra, che bisogna partire, per spiegare tutta la faccenda, dal significato originario di 'testicolo' del termine agosto, di cui potrei tentare anche l'etimo ma preferisco non farlo e tiro solo in ballo l'espressione sant'Agost-ino che indica una varietà di olive coltivata nelle province di Bari e Foggia. E in effetti, tornando alla voce balaùstro ‘testicolo’, mi pare necessario supporre che essa debba essere considerata il risultato della saldatura dei due termini per ‘testicolo’ citati dal Bracchi, ossia bal(a) + a(g)usto combaciante perfettamente con la radice greca di balaùstro (gr. balaústi-on ‘fiore e frutto del melograno’), risultato che si sarebbe senz'altro raggiunto anche attraverso la sola l'etimologia popolare. La caduta della velare sonora intervocalica è un fatto normale in molti dialetti come in quello del mio paese di Aielli (aùstë=agosto) per non parlare del francese août ‘agosto’. Sarebbe così dimostrato che non si può parlare di deformazione della sola base bala ‘testicolo’, bensì del concorso di due termini omosemantici nella formazione del composto bal-aùst(ri) ‘testicoli’. Sarebbe stato più naturale deviare il termine interdetto verso la parola bal-estra, ad esempio, che indica uno strumento effettivamente soggetto a rotture molto più facilmente di un balaustro, il quale deve temere solo l'usura del tempo. Nel mio paese il termine balaustro non esisteva nemmeno, trattandosi di un elemento architettonico considerato di lusso diffuso essenzialmente nelle città: da noi esisteva solo il termine palalùstra (balaustra), evidente neologismo, riferito al parapetto della piazza principale del paese costruito negli anni del fascismo, con riquadri contenenti raggi a stella in cemento, che davano l'idea impropria di una balaustrata. Anche la motivazione dell' eufemismo non mi pare pertanto ammissibile. O, piuttosto, si dovrebbe dire che il composto, nato senza alcun intento eufemistico, lo è diventato casualmente, involontariamente (Saussure è grande!) nel più recente strato linguistico. Quasi le stesse cose, vedi caso, sostengo a proposito del portoghese di cui sopra.
Interessantissima mi pare la nota 172 della stessa pagina 295, in cui si afferma che il LEI (4. 673) classifica ora il milanese balaùster m. pl. ‘masserizie’ sotto la base *bal(l)- ‘corpo di forma tondeggiante’. Siccome mi sembra impossibile che il concetto di ‘masserizia’ possa essersi sviluppato direttamente da quello del balaùster ‘testicolo’, è allora da concludere che i due concetti si sono evoluti in tempi remoti da uno precedente e più generale di ‘rotondità, corpo rotondeggiante’, di qualsiasi grandezza. Se è giusto questo etimo di balaùster 'masserizie' la necessità di ricorrere alla deformazione eufemistica di bala, per spiegare i bala-uster 'testicoli', viene di conseguenza a sfumare. Anche i corbelli, usati per 'testicoli', mi sembrano uno pseudoeufemismo ossia un eufemismo involontario. Il significato di lat. corb-em, in effetti, non va oltre il concetto di 'cesta', recipiente fatto di vimini, il che francamente non quadra molto col significato di 'testicolo' che dovrebbe sostituire. Diversi altri termini potevano prestarsi meglio a sostituire eufemisticamente il concetto di 'testicolo', come globo, globulo, sfera, coppa, coppetta, borchia, ecc. Di conseguenza vedo operante, dietro il lat. corb-em 'cesta', il concetto più generico di 'rotondità, curva' rintracciabile anche nel gr. kyrb-is 'tronco piramidale ruotante, su cui venivano scritte le leggi ad Atene', nel gr. krob-ylos (con metatesi) 'nodo di capelli sulla sommità della testa' oltre che nel lat. curv-us 'curvo'. Pertanto, se non ci si lascia incantare dal significato d'arrivo del latino corb-em 'cesta', non sarebbe proprio uno sproposito supporre in epoche lontane un suo significato diretto di 'testicolo, palla', che poi è andato perduto, come succede spesso nella storia delle lingue, ma è rimasto nascosto sotto quello di 'cesta, corbello', che ha avuto il sopravvento e che ha causato lo pseudoeufemismo di cui si parla. Le parole, viste diacronicamente, mostrano via via in filigrana, a seconda dei contesti e gli strati linguistici in cui vengono a trovarsi, un tessuto vario, cangiante, trascolorante non solo per l'influenzarsi, incrociarsi e sovrapporsi a vicenda ma anche, a mio parere, per il loro diramarsi da un significato generalissimo d'origine. Come risulta per i nomi dei piccoli animali (cfr. l'articolo I nomi dialettali dei piccoli animali...) non si può fissare un significato unico e specifico per i vari concetti che, a mio parere, sono tutti intercambiabili e sostituibili, essendo fatti della stessa iridescente materia. La lingua ci fa credere che le parole siano nate per questo o quel concetto, ma si tratta in effetti di una fatale impressione causata dalla nostra condizione di dover solitamente osservare le parole come se fossero fotogrammi isolati e fissati per sempre, senza poterne cogliere agevolmente le piccole, vicendevoli differenziazioni man mano che si succedono nei secoli, e per di più senza poterli coinvolgere in un rapido movimento suscitatore dell'illusione cinematografica la quale ne confermerebbe la validità delle concatenazioni , nonostante i salti semantici, spesso giganteschi per un occhio poco educato, che possono immediatamente distanziare nella pratica della lingua due termini corradicali, come ad esempio il lat. curv-am 'curva' e lat. corb-em 'cesta'. Date queste premesse mi azzardo a dare una spiegazione di testicoli diversa da quella canonica che li considera animisticamente 'testimoni' dell'atto sessuale: cfr. lat. testi-culu(m) dim. di test(em) 'testimone, testicolo'. A me pare che il termine inizialmente dovette essere imparentato con lat. testa, prima 'guscio di tartaruga, conchiglia' e poi 'vaso di terracotta, coccio, ecc.' (una rotondità, dunque). Man mano che la cultura animistica cedeva il passo ad una visione più razionale delle cose, il termine testa generico per 'guscio' dovette laicizzarsi molto prima di quello simile o identico per 'testicolo' il quale, per la sua enorme importanza procreativa e per le molte leggende e storielle a cui dovette folcloristicamente dar vita, continuò ad essere considerato come 'essere vivente' e quindi era più credibile in qualità di testis 'testimone' che come semplice 'rotondità': a questo punto il termine per 'testicolo' dovette confondersi fatalmente con quello molto simile per 'testimone'.
La questione diventa ancora più intrigante se si introduce l'altro termine volgare per 'testicolo' ossia coglione, da lat. volg. coleone(m), class. coleus 'testicolo', considerato di etimo incerto, anche se a me pare appartenere alla famiglia di gr. kole-os, kole-on, kule-on 'fodero, guaina', gr. kol-on 'budello', lat. culleu(m), culeu(m) 'sacco', serbo-croato kola-ti 'circolare', kolo 'ballo a tondo', tutti concetti che fanno capo a quello di 'avvolgimento, rotondità, cavità'. Seguace fedele del principio della casualità ed automatismo originari delle forme linguistiche, come voleva il Saussure, considero pertanto la parola testi-culu(m) 'testicolo' un falsissimo diminutivo, e credo che l'elem. - culu(m) sia imparentato con i precedenti termini. Si tratta, insomma, di un semplice nome composto di due membri tautologici per 'testicolo'. Non è difficile notare di straforo come il lat. culu(m) 'ano' sia anch'esso del gruppo delle 'rotondità, cavità' come ci aiuta a capire anche lat. cul-ullu(m), cul-illa(m) 'grossa tazza', nonostante i suffissi qui usati siano normalmente di valore diminutivo, ma anch'essi allora non ce la raccontano giusta la loro origine e la loro storia.

giovedì 11 febbraio 2010

Come intendere l'animismo attraverso i suoi riflessi nelle parole

Per tentare di capire come vada inteso l’animismo che traspare in alcune parole dialettali, riporto un brano del libro di Remo Bracchi Nomi e volti della paura nelle valli dell’Adda e della Mera, p. 29.

« Al ‘vento freddo del nord che spira in primavera’ è stato assegnato nel Surselva il nome inquietante di mazzacàuras, ossia di ‘ammazzacapre’ (NVS, 154), che trova un lontano riscontro nel laz. (Vico) scortëcacàprë ‘vento freddo di tramontana’ (Jacobelli, 236) e nel fogg. (S. Marco in Lamis) scorciacràpe ‘grecale, vento impetuoso e molto freddo proveniente da nord-nord-est’ (Galante,706), a Trinitapoli scörciacröpe ‘scortica capre,vento freddo e secco’ (Elia, 727), con l’analogo pelajàtte ‘vento molto freddo’ (Galante, 563), contrassegno di un antico sostrato culturale, di riecheggiamento animistico ».

Mazza-càuras sembrerebbe proprio un composto costruito apposta per il concetto che esprime, contraddicendo il principio più volte da me ricordato (cfr. gli articoli I nomi dei piccoli animali... e Fare il portoghese) ma vi sono almeno due indizi che ne mettono in dubbio la validità. Primo, perchè il vento dovrebbe ammazzare solo le capre tra i numerosi altri animali che dovrebbero subire la stessa sorte impietosa? Secondo, e più cogente indizio è il fatto che in latino si conosceva il vento Caurus o Corus, il quale dovrebbe qui rompere così la solidità del sigillo che marchia univocamente il significato del composto verbo-sostantivo: l’elem. –càuras non avrebbe indicato, all'origine, le ‘capre’ come invece fa oggi nel dialetto del Surselva (Grigioni) ma sarebbe il camuffamento (non troppo riuscito stavolta) proprio del Caur-us, vento freddo di nord-ovest, corrispondente all’attuale Maestrale. Il quale ultimo, etimologicamente, si scompone in magis-tr-alis, con l’elem. mag-is che riporta all’idea di ‘grandezza,forza’ (cfr. gr. még-as 'grande, forte, ecc.'), quella forza costitutiva in questo caso (sempre a mio parere), non del ‘vento freddo del nord’, come pure parrebbe evidente, ma del concetto stesso di ‘vento’, specializzatosi poi ad indicare quel vento particolare. Il vento è qualcosa di animato e non per nulla in greco esso suona ánemos ‘vento’ corrispondente ai lat. anima, animus. L’elem. Mazza- , oltre a richiamare l’altro composto dialettale mazza-morello (con molte varianti) ‘incubo, spirito, folletto’ ma anche ‘vortice di vento’, potrebbe essere il risultato di un ampliamento della sopra citata radice mag- incrociatasi con lat. mact-are 'uccidere' e con it. ammazzare . Ma potrebbero darsi anche altre soluzioni come quella di richiamare il ted. Matz, nome di svariati uccelli, o il ted. Mut 'animo, coraggio', got. moths 'coraggio, ira', da una radice *mat: si pensi alla furia di certi venti invernali. Una riflessione oltremodo interessante è la seguente. L’elem. –càuras, nel significato di 'capre', potrebbe essere sì voce dialettale, ma non proveniente direttamente dal lat. capras, bensì da una lingua preistorica con almeno quel termine comparabile con il latino. Perchè il Caur-us e la capr-a sono termini intercambiabili per esprimere la medesima cosa: essere vivente, animale (cfr. ted. Hauer 'porco, cinghiale', da *Kauer, simile al gr. kapr-os 'cinghiale' e lat. capr-a). Così l’uomo primitivo li sentiva e li rappresentava nella lingua.
Mi sembra che il Bracchi, quando più sopra parla di ‘riecheggiamento animistico’, non intenda il fenomeno così come l’ho descritto ma solo nel senso che questi nomi di venti, intesi paurosamente come vuole il loro significato di superficie, attribuiscono a questi fenomeni atmosferici un comportamento simile a quello di esseri viventi. Ma qui si annida l'errore! gli etimi, se rettamente intesi, ci dicono che l'uomo primitivo considerava queste entità non simili ad esseri viventi ma esseri viventi a tutti gli effetti.
La forma scortëca-caprë la riterrei composta di tre elementi, (s)cor-tica-capre. Il primo è sempre il nostro Caur-us o Cor-us, il secondo –tica- è da collegare al ted. ziehen ‘tirare’ imparentato col lat. duc-ere ‘condurre, trarre’ (cfr. del resto l’espressione ted. es zieh-t = c’è corrente d’aria, ted. Zug 'corrente d'aria'). Se teniamo presente che il ted. Ziege significa ‘capra’, quindi un’altra anima, ci accorgiamo di avere a che fare con un composto tautologico trimembre per ‘capra’, come succede per alcuni termini greci quale kolo-kordó-kola ‘interiora’ i cui tre membri singolarmente hanno sempre lo stesso significato. La forma scorcia-cràpe presenta forse un’abbreviazione nel primo membro rispetto alla precedente, con influsso di it. scorza, da lat. scortea 'pelliccia'.
Il sintagma pela-jatte 'vento molto freddo' dovrà essere risolto con lo stesso ragionamento: –jatte (gatto) è quel soffio vitale ripetuto anche nell’elem. pela-, una probabile variante di lat. fl-are ‘soffiare’, ingl. bl-ow ‘soffiare’. La radice ricompare, in forma un po’ diversa, nel diffuso dialettale fil-ipp-ina ‘spiffero, vento freddo’. Un chiaro indizio del valore della componente -ipp- ci è fornito dal nome Ippote, padre di Eolo, signore dei venti, e dal termine lat. hipp-alus 'vento dell'ovest'.
L'idea di 'vento' coincide nel profondo con quelle di 'soffio, spirito, vapore, nuvola, nebbia,ecc.' e per questo motivo io vedo il pela-jatte precedente strettamente collegato con i vari termini citati dal Bracchi a p. 62 come gatina, (a Grosio) 'nebbia condensata, brina che imbianca gli alberi' (alla lettera 'gattina, micetta'), gatina (a Tresivio) 'nuvola', gatina (a Teglio) 'nebbia che si alza dalla valle verso sera e annuncia un peggioramento del tempo'. Il Bracchi pensa naturalmente che questi nomi siano stati coniati dalla fantasia dei valtellinesi ed abbiano un senso traslato oltrechè un sentore di animismo, non giustamente inteso, come abbiamo già visto.
Interessante è anche l'etimo della parola zebra, messa in relazione col vento Zefiro, inizialmente vento freddo del nord, poi vento primaverile dell'ovest. Correva nell'antichità la leggenda delle cavalle fecondate da Zefiro, come dimostra anche il v. 150 del l. XVI dell'Iliade, il quale afferma che i cavalli Xanto e Balio di Achille erano stati generati a Zéphyros dall'arpia Podarge. Ora sta prendendo piede l'etimo che deriva zebra da un lat. parl. *ecifera(m) per il class. equifera(m) 'cavalla selvaggia' attraverso lo sp. zebra. Debbo riconoscere che questa è una buona etimologia anche se, in ottemperanza al principio secondo cui quanto è stato elaborato in antico in termini di folclore e mito trae origine prioritariamente da qualche base linguistica (v. l'articolo I nomi dei piccoli animali, insetti...), non posso accettarla e credo che sia esistito da qualche parte un nome dialettale di animale corrispondente, all'origine della leggenda. Lo dimostra in qualche modo il nome simile di zeba 'capra' giudicato mediterraneo.