mercoledì 1 febbraio 2012

Le Scole: gruppo di scogli o isolotti presso l'isola del Giglio.



Provo un senso di disagio accingendomi, quasi frivolmente, a cercare l’etimo di questo nesonimo, sull’onda del tragico naufragio della Costa Concordia causato, pare ormai evidente, dalla leggerezza irresponsabile del capitano della nave, rimarcata anche dalla sua codarda fuga alla chetichella, insieme ad altri ufficiali, incuranti della sorte di donne vecchi e bambini lasciati a bordo in preda al panico. Anche la compagnia di navigazione Costa Crociere pare abbia favorito, per motivi di pubblicità, l’avvicinamento della nave alla costa dell’isola del Giglio, in segno di saluto. O tempora, o mores!

Ho scoperto che un altro scoglio o isolotto La Scola affiora presso l’isola di Pianosa, sempre nell’arcipelago toscano. Queste Scole sono indicate nelle mie normali cartine geografiche e quindi mi pare assurda e ridicola la dichiarazione del capitano che aveva subito cercato di far credere, dopo l’impatto della nave, che si trattasse di uno scoglio non segnato nelle carte nautiche. Un’ Aiguille Scol-ette ‘Punta Scoletta’ si erge tra la Francia e l’Italia, non lontano dal traforo del Fréjus. Ce n’è già abbastanza per capire, come ormai sanno i miei lettori, che la ricorsività del toponimo costantemente legato ad uno scoglio, isolotto o punta, deve avere un’unica possibilità di spiegazione: si tratta evidentemente di un nome comune, anche preistorico, che nominava semplicemente quel referente.

La questione è di una qualche importanza perché, a mio parere, contribuisce da un lato anche a definire l’etimo dell’it. scoglio considerato solitamente adattamento toscano della forma genovese scogiu (1) ‘scoglio’, dal lat. scop(u)lum ‘scoglio’ (gr. scópelos ‘scoglio’), ma dall’altro ci avverte soprattutto che, anche quando meno ce lo aspetteremmo, il latino non può essere considerato sempre la chiave privilegiata della nostra ricerca etimologica. In effetti è molto probabile che l’italiano scoglio, in questo caso, sia una leggera variante lessicale delle sopracitate forme toponomastiche per ‘scoglio’. Poteva essere in circolazione in antico una forma non ufficiale *scolium ’scoglio’, allotropo maschile, anche per influsso di lat. scopulu(m), del toponimo Scola. Da esso si sarebbe avuto senza problemi l’it. scoglio. Ma non è escluso che esistesse addirittura una forma *scolum (senza la /i/) che poteva subire la palatalizzazione della liquida alveolare /l/ molto diffusa, ad es., nei nostri dialetti, come luchese mujë al posto di it.mulo o aiellese jjójjë al posto di it. loglio (cfr. lat. lolium ‘loglio’) e dare come esito l’it. scoglio. In verità si incontra in greco la voce neutra skôl-on ‘ostacolo, impedimento’ con un significato che corrisponde esattamente a quello figurato di it. scoglio. Il plurale in greco è skôl-a, forma che deve essere stata intesa in italiano come sing. femminile scola, la quale spiega La Scola e Le Scole dei toponimi. Lo stesso fenomeno si riscontra, ad es., nel sing. it. la foglia dal neutro plur. lat. folia ‘le foglie’. Mi dispiace dirlo, ma gli etimologi di fronte a questi nomi del lessico e questi toponimi, mi pare facciano completamente acqua se finora si sono lasciati sfuggire un’occasione così ghiotta per prospettare una soluzione diversa dalla solita per l’etimo di it. scoglio, evitando di restare imbottigliati tra le secche della centralità del latino, a volte fuorviante. Un altro termine interessante è il gr. skôl-os ‘palo acuminato’, concetto che ribadisce quello di scoglio, il quale alla fin dei conti è una “protuberanza”(non importa se puntuta, rotondeggiante o informe) come il bulbo di una skílla ‘scilla, tipo di cipolla’. Esisteva in Argolide un altro promontorio Skýllai-on (Scilleo) oltre a quello chiamato Skilla nella Grecia nord-occidentale. Inoltre scopro in un sito web che Squillace in Calabria probabilmente sorgeva in tempi lontani sul promontorio Copanello (Punta Staletti). Il suo nome greco era Skyll-étion , lat. Scol-acium, lat. Scal-acium, ma esistevano altre varianti: appena si riesce ad avere una documentazione delle forme in uso, oltre le poche ufficiali, si scopre un quadro vivace del multiforme parlato, in una realtà linguistica che risentiva ancora di quella che doveva essere l’effervescente polverizzazione linguistica preistorica, non ancora imbrigliata da qualche ufficialità restrittiva. Si avanza l’ipotesi, per questo toponimo, di una radice semitica skuola ‘roccia’ con cui, a mio parere, vanno confrontati, e non necessariamente derivati in linea diretta, questi toponimi che, come visto, ruotano intorno al significato di ‘scoglio, punta, roccia’.

E così siamo arrivati all’omerica Scilla, mostro pauroso della costa calabra e pericoloso per i naviganti, di fronte a Cariddi della costa sicula, all’imboccatura dello stretto di Messina. Ancora oggi il paese di Scilla occupa il promontorio omonimo che termina con la Rupe di Scilla. La sua descrizione, quella del mostro Scilla e della grotta dove essa abitava è piuttosto dettagliata in Omero(2) : è facile segnalare alcuni elementi del mito che, anche in questo caso, si è sviluppato intorno alle parole incrociatesi col termine Skýlla. In effetti il mostro latra (cfr. norv. skuan ‘suono, voce’, a. ingl. scyll-an ‘risuonare, rimbombare, ingl. squall ‘urlare, gridare’, aiellese sgualà ‘urlare’, ovindolese sguajà ‘urlare’ con palatalizzazione della /l/, it. squilla) ma con voce di cucciola, quasi in antitesi alla sua natura di mostro, poiché dietro il suo nome si fa sentire, a chiare note, anche il gr. skýl-aks ‘cagnolino, cane’ e il gr. mod. skýl-os ‘cane’, oltre al gr. skýli-on ‘cane di mare, pescecane’, termine che avrebbe potuto far nascere la figura del mostro. Come in tutti gli altri casi, sono i significati dei nomi coinvolti nel mito a plasmarlo variamente in un senso o nell’altro. L’idea della grotta, sua dimora, deve far capo a quella di ‘rotondità, copertura’(cfr. ingl. shell ‘guscio, conchiglia, carrozzeria, ecc.’, it. scaglia , it. scoglia ‘scoglio’ ma anche ‘pelle di serpente’) speculare di quella di ‘protuberanza’. E qui ci possiamo fermare, non senza, però, gettare ancora un’occhiata all’ingl. shoal ‘banco di sabbia, secca’ ma anche ‘frotta, folla’, significati che rinviano sempre ad un’idea di mucchio, massa, rialto (anche se appena sotto il pelo dell’acqua). Il ted. Scholle ‘zolla, massa compatta’, apparentato secondo me anche con ingl. skull ‘cranio’, conferma l’assunto. Non va dimenticato nemmeno l’ingl. school ‘banco di pesci, gruppo, combriccola’ che naturalmente ha poco a che vedere con ingl. school ‘scuola’ legato al gr. skholé, propriamente ‘tempo libero (da poter dedicare allo studio), quiete, ozio’, significato, quest’ultimo (decaduto da quello spesso positivo di lat. otium, non ancora diventato il padre di tutti i vizi), che deve aver ispirato, sotto la spinta delle manifestazioni studentesche, i diversi riformatori della nostra scuola di massa che si sono succeduti dalla fine degli anni Sessanta in poi per la gioia della maggioranza degli studenti sempre più da altro attratti e distratti, nonostante la preparazione e l’impegno, talora da veri missionari operanti in condizioni difficili, della maggioranza degli insegnanti. E non mi si tacci di estremismo pessimistico o di patetico laudator temporis acti se è vero che in tutti i test internazionali i nostri studenti raggiungono risultati costantemente insufficienti. E’ una vergogna insopportabile per chi alberga nel cuore un minimo di sentimento patriottico e un danno ingiusto per le menti agili, fantasiose, acute, profonde che pure abbondano nel ceppo dell’italica prole, ma rischiano ogni giorno di naufragare in un mare di mediocrità o di ostacoli di vario genere se non trovano la salvezza da se stessi e in se stessi o magari riparando in un porto straniero.

Note:
(1) In realtà non c’è perfetto accordo tra gli etimologi, per difficoltà fonetiche. Si presume anche che alla base di gen. scogiu ci sia una forma *scoc’lu(m) al posto di lat. scopulu(m) che in ital. arcaico ha dato, però, normalmente scoppio ‘scoglio’. Io sottoscrivo questa proposta ma con la notazione che la radice non era strettamente legata a lat. scopulu(m), giacchè essa credo sia la stessa di it. scocca, voce proveniente dal lombardo nel senso di ‘carrozzeria’. Ma la si incontra anche nell’abruzzese scócchiele (cfr. Vocab. Abruzz. di D. Bielli), precis. scocchiëlë ‘coccio’, nell'aiellese espressivo scocchëla ‘mandorla grossa’, aiellese scucchëlà ‘smallare’, abruzzesi scuculà ‘smallare’ e scucchià ’smallare, sgusciare, uscir dall’uovo (dei pulcini), spaiare (incrociatosi, in questo significato, con it. coppia, abr. cocchjë, dal lat. copulam ‘legame’)’, tutte voci che a mio avviso presuppongono un’idea di ‘escrescenza, protuberanza, rotondità’ presente anche nell’ingl. shuck ‘guscio, baccello’, ingl. shock, shook ‘bica’. A questo punto vedo traballare anche l'etimo solitamente dato per it. scocciare che, secondo i linguisti, deriverebbe da s- sottrattivo + coccia. Il dialettale scucchia ‘mento (prominente)’, da *scuc(u)la, sfrutta l’idea di ‘prominenza’. Tutto ciò vuol dire che le tre radici scok-, scop-, scol- sono in realtà tre forme diramatesi da uno stesso ceppo originario sk-, sko- dal significato generico di ‘spinta’, via via specializzatosi ad indicare una ‘prominenza’, una ‘rotondità, avvolgimento’ ecc., come del resto avviene per tutte le radici. Essa si concretizza, a quanto pare, nelle varie Punte Secche ricorrenti nelle isole del Tirreno come Pianosa, Giannutri, Vulcano, Sicilia, la cui etimologia non può certamente corrispondere al significato superficiale dell’aggettivo secco. Vale anche per le parole, oltre che per piante e animali, una derivazione complessa a cespuglio con molte biforcazioni, più che una semplice derivazione a linea continua. Nel Vocab. Abruzz. del Bielli si incontra la voce femm. sing. scole 'spazio tra un correntino e l'altro nei soffitti' che lì per lì uno non penserebbe mai di poter collegare col gr. skholé 'scuola, tempo libero' di cui sopra. Ma non è così. Il significato di 'spazio libero', e quindi di 'spazio libero tra i correntini' che non compare in greco tra quelli del sostantivo skholé, fa capolino invece nel verbo corradicale skhol-azo che significa sia 'sono libero, ho tempo libero, ecc.' sia, in riferimento a luogo, 'sono vuoto, sgombro, non occupato', significato alla base di quello dell'abruzzese scole e quasi uguale a quello di 'essere cavo, incavarsi' che la radice, come abbiamo visto sopra, può assumere. Riguardo al sopracitato verbo scucchià, da scucch(ë)là, ‘sgusciare, uscire dall’uovo’ è molto interessante ed istruttivo per gli etimologi confrontarlo, ad es., col trasaccano scuccëlà ‘fare cuccioli (della cagna), sgravarsi, partorire’ (cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003). Scommetto che anche gli studiosi più esperti non mancherebbero, per spiegare questo significato, di abboccare alla voce cucciolo, come ha fatto il Lucarelli, ponendola all’origine del verbo. Ma si sbagliano. Non lontano da Trasacco, a Luco dei Marsi, infatti, lo stesso verbo scuccëjà (con palatilizzazione della /l/) continua a significare ‘rompersi delle uova per l’uscita dei pulcini’ (cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006) ed è quindi sviluppo, con pronuncia palatale, del precedente scucchëlà con pronuncia velare. Il significato originario del termine era quello dello ‘sgusciare, fuoruscire (dall’interno di un involucro)’. Solo successivamente avrà indicato il venire al mondo dei pulcini attraverso la rottura dell’uovo. Sicchè si può con sicurezza pensare che il verbo, una volta incrociatosi col termine cucciolo, abbia specializzato la sua funzione di indicare la venuta al mondo degli ovipari, adattandosi ad indicare anche quella dei mammiferi, facendo subdolamente credere, di conseguenza, che la sua origine fosse nuova di conio e legata a filo doppio al termine cucciolo. Si direbbe che ogni parola non sia nata con un significato particolare, ma che solo per caso si trovi ad esprimerlo: una sorta di casualità o accidentalità evoluzionistica di stampo darwiniano sembra operare anche in questo campo, vuoi per l’aleatorietà di questi incroci, vuoi per l’imprevedibilità delle molte direzioni, via via più distanziate tra loro, che il significato generico originario di ogni termine può prendere. La storia della piccola Pikaia gracilens , un cordato per il quale nessuno avrebbe scommesso un soldo perché non particolarmente attrezzato per il successo evolutivo ma che ebbe tuttavia la ventura di sopravvivere alla decimazione di molte forme di vita del Cambriano (circa 500 milioni di anni fa) e che è all’origine dei vertebrati, primo membro documentato del nostro phylum e quindi di noi ringalluzziti suoi discendenti probabilmente solo più fortunati di altri, ci rammenta che tutta la vita è un gioco del caso o della sorte, un’opera da bricoleur che si arrangia con quello che si trova ad avere fra le mani e non conosce mai preventivamente i risultati finali del suo lavoro multiforme, più che di un demiurgo con poteri divini che, fin dal principio e senza tentennamenti, abbia riservato per l’uomo (uno dei tanti discendenti, di là da venire, della sparuta Pikaia) un destino sfolgorante di progresso, di dominio e di gloria. Una posizione, questa dell’uomo, che diventa da un lato scomoda, epica, tragica, col formarsi della nostra coscienza di individui privi di un cordone ombelicale che ci assicuri la protezione della provvidenziale presenza di Dio ad aiutarci nelle difficoltà quotidiane, ma che dall’altro è la sola che ci possa garantire una solida, vera maturità e una dignitosa, seppur desolata, libertà di azione. Si direbbe che sia stato proprio Dio, ammesso che esista, a volere che le cose andassero così, ritirandosi quasi senza pietà dal nostro campo di battaglia: Cristo sulla croce si sentì abbandonato da Dio e grandi Santi hanno provato sulla propria pelle la solitudine immane del silenzio di Dio, dinanzi a certe pietose realtà, lutti, sciagure, catastrofi che tormentano l’umanità e vanno abbondantemente oltre ogni nostra comprensione e spiegazione. Questa imprevedibilità e casualità delle trasformazioni nella vita animale si riscontra anche nella semantica delle parole.

(2) Cfr. Omero, Od.,XII, vv.73-100.