domenica 16 febbraio 2020

Tata-vécchie ‘lampo’ ad Avezzano-Aq; tatonë cuscënàrë ‘tuono’ o, meglio, ‘dio del tuono’ ad Aielli-Aq.





   Nel Vocabolario del dialetto avezzanese[1]  la relativa voce viene spiegata dicendo che essa era usata, guardando il cielo, quando si vedeva il lampo e  si udiva successivamente il tuono.  Secondo gli autori del libro si suppone, poi, che l’espressione stesse ad indicare il Vecchio Padre, ossia il Padreterno.  Tutti infatti conoscono il significato di tata per ‘padre’ o anche ‘nonno’ nei nostri dialetti. Si tratta di una radice diffusissima in ambito europeo, presente anche in ingl. dad ‘papà’. 

   Tanto per iniziare io penso che in questo contesto la voce tata potrebbe richiamare per sino la radice di lat. titi-on-e(m) ‘tizzone’, ma col significato di ‘luce, lampo’ appunto. Il gr. titṓ significa ‘giorno, sole’. La componente –vécchie < lat. tardo  vecl-u(m) < lat. vet-ul-u(m)  diminutivo di vetus, eris ‘vecchio’,  fa anch’essa riferimento ad una radice col valore di luce, bagliore  se in molti dialetti il termine vecchia indica fenomeni luminosi come la ‘gibigiana’.  Ho trattato la questione in altro articolo di diversi anni fa, di cui non ricordo il titolo.  Ricordo benissimo, però, che in esso parlai anche della voce, ora non so di quale varietà abruzzese, che suona arche-vètërë ‘arcobaleno’.  La radice di questo nome deve avere a che fare con l’ingl. weather ‘tempo atmosferico’, ted. Wetter ‘tempo atmosferico’ ma anche ‘vento’, ‘fulmine’ ed ‘esalazione’.  Ora, gli studiosi pensano che questi significati siano uno sviluppo di quello principale di ‘tempo, temporale’ e in un certo qual modo  hanno ragione, ma solo nel senso che sia l’idea di “tempo, aria, soffio, sia quella di “fulmine” erano già iscritte, per così dire, nel DNA della radice, in quanto è logico pensare che l’aria, il soffio, il vento, la tempesta, e in fondo anche la luce o il bagliore del fulmine sono, per così dire, delle emanazioni nel senso di una forza che si sprigiona, si effonde, esplode.  Infatti in antico slavo vedro significa ‘tempo buono, bel tempo’, in serbo-croato vedar significa ‘sereno, chiaro’.  Secondo me, dovrebbe essere evidente , in questo caso, l’influsso della radice di lat. vitr-u(m) ‘vetro’ (in quanto trasparente, chiaro) considerato di etimo ignoto

   La componente tata- inoltre potrebbe essere una sorta di raddoppiamento della radice del verbo gr. teín-ein ‘tendere, stendere, sforzarsi, ecc.’ la quale al perfetto perde la -n-  dando la forma tè-ta-ka ‘io ho teso’; anche l’aggett.verbale è ta-t-όs ‘che si può tendere’.  Ora la radice del verbo (anche lat. ten-ēre ‘tenere’, lat. tend-ĕre ‘tendere’) contiene tutta una tensione che può realizzarsi in diversi modi: il sostantivo corradicale gr.  tόn-os interpreta, starei per dire, quella tensione in vari modi tra cui quello di ‘forza, energia’ e anche di ‘elevazione della voce, accento’: la tensione si è trasformata così in suono e avrebbe, allo stesso modo, potuto trasformarsi in emanazione luminosa, luce.  Non sono ragionamenti fantasiosi.  Non sono pertanto convinto che il lat. ton-are ‘tuonare’ debba per forza rimandare ad una radice omosemantica con la –s- iniziale come in gr. stén-ein ‘lamentarsi’.

   E passiamo alla locuzione aiellese che avrò pronunciato un numero notevole di volte, quando ero ragazzo, allorchè avvertivo qualche tuono.  L’espressione mi pare ricorra anche nel dialetto di Forme-Aq e si presta ad un’interessante interpretazione.  L’elemento cuscën-arë che segue Tat-όnë non può che richiamare formalmente il dialettale còscëna ‘recipiente di legno più grande della coppa’ il cui nome forse deriva dal gr. kόskin-on ‘staccio’.   L’espressione vorrebbe dire allora ‘tatone (nonno) che fa le còscënë’?  l’interpretazione proposta non mi pare sensata.  Allora, pensa e ripensa, mi è balenata la soluzione che ritengo giusta! Il termine cuscënàrë va inteso come fosse cu scën-àrë in cui il cu iniziale non sarebbe altro che la preposizione dialettale di compagnia o unione cu, ché, chë con’ e l’elemento scën-  rinvierebbe a mio parere alla radice di ingl. shine ‘brillare’, ted. schein-en ‘brillare, apparire, sembrare’ derivanti da ant. sassone e ant. alto ted. skin-an ‘brillare’.  Allora si configurerebbe un significato dell’intera espressione come questo ‘ Tatone  (il tuono) insieme con Fulmine (personificato)’. Insomma l’espressione pronunciata da noi ragazzi doveva fare riferimento ad una coppia di divinità, tra sé strettamente collegate, quella del tuono (Tatόnë) e quella del fulmine (Scën-àrë < *Skin-ar-).   Come i Dioscuri, i due figli di Giove, che però non mi pare avessero una identità separata nel significato.

   Sono inoltre del parere che il lat. scin-till-a (m) ‘scintilla’ sfrutti proprio questa radice e non debba essere messo in relazione col gr. spinth-ḗr ‘scintilla’.  Il sardo tidda <*tilla ‘scintilla’ mi conferma la cosa. L’abruzzese  zëcchìnë ‘faville’ < *skine conferma l’esistenza della  radice presso di noi[2]. Quest’ultimo termine l’ho trattato diversi anni fa, nell’articolo L’abruzzese zëcchìnë ‘scintille’ e il sardo tidda ‘scintilla’, presente nel mio blog (ottobre 2011).  L’originario *tilla ‘scintilla’  doveva essere un diminutivo *tin-ul-a(m) la cui radice richiama quella del dio etrusco Tinia, armato di folgore come il gr. Zéus. Ma non basta, un nome abruzzese dell’arcobaleno è arche-dìnëië[3] il cui secondo membro presuppone un –*dinëlë  < *din-ul- oppure *tin-ul-  come il *tin-ul-a(m) ‘scintilla’ suddetto. Il termine è presente, nella forma archë-dìnëïë ‘arcobaleno, iride’, anche nel Vocabolario abruzzese  di D. Bielli, spessissimo citato negli altri miei articoli. La radice credo sia quella del verbo inglese dialett. tind ‘accendere, dar fuoco’ e del ted. zünd-en ‘accendere’, che ritorna anche nell’ingl. tinder ‘esca per accendere il fuoco’.

   Un altro nome abruzzese dell’arcobaleno riportato dal Bielli è archë-vélë con la seconda componente –vélë che sicuramente richiama il nome del dio celtico del sole Bel o Belenos che vale etimologicamente ‘brillante’[4]. La radice bel-, bjel- ricorre nelle lingue slave con valore di ‘bianco’, come nel termine Bielorussia o Russia Bianca.  Questo nome mi fa venire in mente proprio il termine it. arco-baleno il cui secondo membro  è fatto derivare, sia pur dubitativamente, dalla parola balena, animale che appare e scompare successivamente sulla superficie del mare, come se gli uomini primitivi non avessero avuto un vocabolo per ‘lampo, bagliore, ecc.’ e avessero dovuto attendere i racconti dei viaggiatori per mare o degli stessi marinai per dare un nome ad un fenomeno antichissimo e particolare che li aveva accompagnati da sempre! La festa di Beltaine ricorreva il primo maggio tra i Celti e consisteva nell’accendere fuochi, come voleva il termine Bel-taine ‘fuoco di Bel’, termine che all’origine doveva valere solo ‘fuoco’, come si può desumere dall’antico ingl. bǣl ‘fuoco’,  ingl. bale-fire  ‘falò’, ingl. arcaico bale ‘falò’.

  Per concludere faccio osservare che non è affatto detto che il valore originario del costituente arco- di it. arco-baleno abbia avuto sempre, dall’origine, il significato dell’it. arco. Il termine meridionale arcatura ‘itterizia’[5] , il calabrese arcatu ‘itterico’, il gr. arg-όs ‘scintillante, bianco’, gr. arg-ḗs, -êtos ‘scintillante, radioso’ (simile al calabrese suddetto arcatu ’itterico’), riferito spesso dell’arcobaleno, fanno supporre che sia avvenuto un normale incrocio fra il termine per ‘arco’ e quello per ‘baleno, lampo, luce’, a parte il colore giallo-verde dell’itterizia, che può rientrare in quello di ‘luminosità’.





[1] Cfr. Buzzelli-Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese, senza editore, Avezzano-Aq , 2002.

[2] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq. 2004.

[4] Cfr. Jean Markale, Il druidismo Edizione CDE spa, Milano 1997.  

[5] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 
   








[5] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino,

mercoledì 12 febbraio 2020

Tata-mëlόnë o Tata mëlόnë o Tota mëlόnë.







Tata-mëlόnë, col trattino o meno, è la forma una volta nota nel mio paese di Aielli-Aq.  Indicava un gioco tra ragazzi che per la verità ognuno conosceva nel nome, senza però sapere in che cosa effettivamente consistesse: era evidentemente un relitto di epoche lontanissime che era riuscito a sopravvivere solo nel nome che allora continuava a circolare, ora non più. 

   In internet ho trovato un sito che parla di questo gioco di un tempo che si svolgeva nel Gargano, in provincia di Foggia[1]. Il descrittore di esso, purtroppo con suo linguaggio alquanto sibillino e surrealistico , non fa ben capire i tratti particolari anche se, nel complesso, ne delinea i tratti salienti.  Parla di un gruppetto di ragazzi, addossati strettamente l’uno all’altro che tengono il gioco insieme ad altri ragazzi, mentre numerosi altri assisterebbero seduti per terra.  Tra i ragazzi in prima linea, diciamo così, si svolge una trattativa animata dove compare addirittura un mercante, un sensale, e un venditore, ma di che cosa? Di puledri e meloni, a quanto pare, il tutto tra atteggiamenti fatti di lotta, di grida, e di forza.  Altro non ho potuto estrarre dal racconto, ma vedremo che è sufficiente per trarne delle conclusioni.

   Ora, nel dialetto di Avigliano-Pz esiste l’espressione tota melone che laconicamente viene spiegata come ‘cittadinanza, tutto, afferra melone’.  Va da sé, da quello che dirò, che l’espressione deve essere la stessa di quella di cui ho parlato sopra, anche se al posto di tata   troviamo tota. Dato il significato di cittadinanza della locuzione, si deve senz’altro trattare del termine italico touta che designava, in tempi remotissimi, la comunità, l’insieme dei cittadini di un paese o cittadina: in altri termini la parola aveva la stessa funzione dei nomi attuali di Comune, Municipio[2], riferiti ad una entità politico-amministrativa  locale.  Il termine inoltre è ben noto ai linguisti che sanno che il lat. tot-u(m) ‘tutto intero, tutto insieme, tutto’ è una sua emanazione, confermata dall’altro significato di tota melone nel dialetto aviglianese.  Nel gioco del tata-melone nel Gargano sono presenti, poi, molti ragazzi seduti per terra, i quali dovrebbero rappresentare, secondo me, l’assemblea dei cittadini. Da ricordare la Touta Maruca dei Marrucini (attestata nel bronzo di Rapino-Ch.), un antico popolo italico di lingua osco-umbra il cui territorio comprendeva grosso modo la striscia adriatica fino alla Maiella, dove si insediarono nel I° millennio a.C. Ma c’è da notare che la loro lingua  era evidentemente di molto anteriore.  Lo stesso etnico tedesco, ted. deutsch ‘tedesco’ ‘, col gotico thiuda ‘popolo (in quanto assemblea)’ ne condivide la radice che, a mio avviso, poteva avere anche altre varianti come quella che potrebbe individuarsi nella stessa Teate (Chieti), capitale storica dei Marrucini. A meno che Teate non sia una variante dovuta al  fenomeno di frangimento vocalico, probabilmente già attivo in quell’epoca, tanto diffuso in quell’area fino ai giorni nostri, di un originario *TateIn qualche paese ancora oggi si dice sëànë ‘sano’ (Agnone-Is.), tiòttë ‘tutto’ (Guardiagrele-Ch.). La variante *Tate così andrebbe a corrispondere alla prima costituente del gioco di  tata-melone, diversa da quella di tota melone di Avigliano-Pz. L’ingl. tate nel vocab. Merriam-Webster significa ‘ciuffo, ciocca di capelli’.  Ora, il concetto di “ciuffo” è una specializzazione di quello di “gruppo. Insieme, assemblea’ come ho mostrato in diversi articoli precedenti, a cominciare da Il termine “armento”, e molti altri,[…] presente nel mio blog (marzo 2014). Naturalmente è da mettere in gioco anche la probabilità che la radice di Teate, col significato di ‘comunità, assemblea’, si sia incrociata all’origine, o nel corso della sua storia, con altra radice col valore di ‘colle, monte’.  Il nucleo originario di Teate si trovava su un colle.

  Fino al tempo in cui ero ragazzo, nei paesi come il mio, non esistevano divertimenti legati alla moderna tecnologia. Ci si divertiva facendo qualche scampagnata in montagna o in campagna, d’estate, ma d’inverno l’unica struttura che poteva concedere qualche svago era la cantina e il gioco delle carte, solitamente praticato da persone anziane. I ragazzi dovevano arrangiarsi come meglio potevano, pochi avevano un’ambita bicicletta. Allora era inevitabile che si continuasse a giocare attingendo alla tradizione e agli ingenui giochi popolari, come il salta-cavallo, il cucù, la tana e qualche altro.  Giochi popolari che, come il tatamelone, ci pervenivano veramente dalla notte dei tempi, insieme ai loro nomi che veramente fanno togliere il cappello in segno di rispetto, per la loro antichità: il tatamelone,  ad Aielli e negli altri paesi dove esisteva, era stato praticato e pronunciato in quel modo dai nostri antenati preistorici, già prima che Romolo piantasse la sua capanna sul Palatino.

   Succedeva quindi che i ragazzi di allora, in cerca di divertimento come è naturale e salutare, mimassero le adunanze popolari che dovevano avvenire nelle loro comunità dei primordi e che mettevano in certo senso in subbuglio e agitazione tutte le famiglie. Ecco per quale via si è conservata ed è giunta fino alle nostre orecchie l’espressione tata-melone o Tota-melone .  In queste assemblee preistoriche, tenute generalmente all’aperto, dovevano verificarsi scontri a volte accesi tra fautori di questa o quella fazione, caratteristica che si può ancora notare nel gioco bambinesco del tatamelone ove si assiste ad una sorta di lotta tra venditore e compratore.

    L’elemento    -melone non può essere originario nel significato che oggi ha in italiano.  E infatti esso è probabilmente un termine che sfrutta la stessa radice di it. omelia, il discorso, la predica di qualche prelato ai fedeli riuniti in chiesa.   Interessanti sono i significati del verbo gr. homilé-ein ‘ accalcarsi, adunarsi, venire alle mani, combattere contro qualcuno, occuparsi di, trattare, ecc.’ E’ proprio il significato di trattare che sembra la fotocopia della accesa trattativa tra  venditore e acquirente nel gioco del tata-melone.  Naturalmente, come quasi sempre succede, il nuovo significato italiano di melone entra in gioco in alternativa al puledro da vendere, il quale forse ha subito l’influsso di gr. mêl-on ‘capo di bestiame minuto, pecora, capra’.  Con tutto ciò non si può escludere del tutto la probabilità che dietro la stessa voce mel-όne, riferita ad un frutto pù o meno tondeggiante si nascondesse una radice per ‘gruppo, ammasso, ecc. Il lat. mell-u(m) o lat. mill-u(m) ‘collare per cane’, una rotondità, appunto. E lo stesso lat. mol-e(m) ‘mole, massa, peso’.

    Io sono rimasto stordito e nel contempo  estasiato dinanzi alla vetustà tangibile di tota melone, tata melone: mi farò costruire un quadretto che incornici l’espressione e me la mostri ogni giorno nel mio studiolo, in modo che, quando la leggo, la mia mente possa volare verso quei tempi, starei per dire, antidiluviani e mi allieti nel mio lavoro quotidiano.





[2] Cfr. attraverso Google l’articolo del mio blog (pietromaccalliniblogspot.com) dell’aprile 2014, intitolato Il “municipio” ovvero il concetto di unità […]. 






lunedì 10 febbraio 2020

L’aiellese-abruzzese-meridionale fainèlla ‘carruba’ ed altro.


  L’etimo della parola in epigrafe mi è apparso finalmente chiaro leggendo la voce nel Vocabolario dialettale di Gallicchio-Pz online[1]. Infatti sotto il lemma fašënéllë (fascënéllë) si dà il significato di ‘baccello di fave, ceci, ecc.’insieme a quello di ‘carruba’, frutto del carrubo che si dava agli animali.  Ora, la forma faš-ën-éllë dovette essere preceduta dalla forma *fac-ënéllë se, sempre in quel dialetto, faš-éllë ‘favilla, scintilla’ presuppone un precedente *fac-éllë  dal lat. fac-e(m) ‘fiaccola’. 

    La forma dialettale fainèlla deve rimandare a un precedente *fag-inèlla, attraverso la normale caduta della velare sonora –g- come avviene, tra i tanti casi, nell’aiellese fraula ‘fragola’< lat. frag-ul-a(m), diminutivo di lat. frag-u(m) ‘fragola’, e nel nome stesso del paese di Aielli, da Ag-ell-u(m) che nel nostro dialetto suona appunto Aéjjë, mentre nella forma ufficiale italiana la velare sonora –g- si è trasformata nella semivocale palatale -i-.

    La fainèlla  è dunque una siliqua cioè un baccello, tanto è vero che in Plinio il termine siliqu-a(m) vale anche ‘carruba’.  Di siliqua abbiamo parlato abbastanza in un articolo precedente.   A me ora preme far notare che la radice  del gallicchiese faš-ënéllë <*fac-ënéllë  sopra citato è la stessa del gr. phak-όs ‘lente, lenticchia’.  

   Nell’articolo del mio blog (agosto 2017) intitolato Le lingue europee hanno talmente mescolato il fiato in passato […]  ho riflettuto a lungo sulla voce vacca che in alcune espressioni del dialetto di Gallicchio vale ‘cavità’, concetto equivalente a quello di it. bacc-ello che in questo significato non è derivabile dal lat. bac-ill-u(m) ‘bastoncino’ ma è accostabile, semmai, all’ingl. bag ‘borsa’ come ho mostrato in quell’importante articolo.  La fainella in vari dialetti centro-meridionali si presenta anche nelle forme vainella, guainella da cui si può arguire che anche il lat. vag-in-a(m) ‘vagina’ fa parte del gruppo, in quanto cavità o avvolgimento.  Nel dialetto di Trasacco-Aq[2] la voce vajàna, femm. sing.,  indica tutti i baccelli dei legumi in genere, compresa la paglia e la pula che residuavano nell’aia dopo la battitura.  Il Lucarelli, autore del libro citato, aggiunge che il termine vajana in molte regioni italiane indica il sesso femminile.  Se questo è vero, allora mi sembra che esso abbia qualcosa da spartire con la radice di lat. vag-in-a(m) ‘vagina’, nel senso di cavità o involucro.  La parola potrebbe essere l’esito di un precedente *vag-ana > vajana, come avviene ,ad esempio, per il dialettale pajà ‘pagare’ da *pagàNon condivido pertanto il parere espresso ne I dialetti italiani[3] dove si dice che il dialettale vajana ‘baccello’ continua l’espressione latina (faba) Bajana ‘fava proveniente da Baia’.

  Ne deduco l’importante osservazione che, a mio parere, bac-, vac-, fac- sono tutte varianti tra loro indifferenti col significato generico di “cavità, involucro” e che quindi certe sottigliezze, su cui i linguisti basano a volte le loro considerazioni restrittive, non hanno veramente ragione di esistere.  La Lingua, nel corso della sua lunga esistenza, ha potuto in genere eliminare con comodo le forme che, per diversi motivi, erano magari già cadute in disuso, ai suoi margini,, così da potersi mostrare a noi buon ultimi con un volto pulito, senza sbavature, ma non sempre ci riesce.

  Da quanto ho detto si conferma altresì l’assunto del mio metodo linguistico, secondo cui una volta stabilita la natura o caratteristica  essenziale dell’oggetto indicato da una parola, si può affermare, con pochissime possibilità di errore, che l’etimo  deve indicare quella natura essenziale, e quindi noi  non dobbiamo lasciarci ingannare e fuorviare da significati più o meno vicini a quello.  Il procedimento per arrivare all’etimo di fainella (basandosi sul significato profondo della parola, al di là delle sue specifiche apparenze) sarebbe dunque questo: fainella > legume > baccello > cavità  (rotondità).  La fainella  è un legume, lat. legu-men ‘legume’, termine che non è da mettere in rapporto, come generalmente avviene, col verbo lat. leg-ĕre ‘raccogliere’ anche se ne è stato influenzato, ma semmai col gr. lek-ánē ‘piatto, catinella’, gr. lék-os ‘scodella’, in quanto cavità.  Il suo etimo pertanto sarà condiviso anche da tante altre parole che indicano qualcosa di cavo, fondo, tondeggiante.  

   Il bello è che  ad Aielli-Aq circolava anche la voce sciuscèlla per carruba, voce d’origine napoletana credo.  Ma ancora più strano ed interessante è che ad Aielli la sciuscèlla indicava anche una ciabatta o scarpa malandata.  Ho trovato tanti termini con radici di origine germanica nei nostri dialetti che non posso non azzardare di affermare che sia il valore di carruba, sia quello di ciabatta  di questo strano termine sciu-scèlla, con radice raddoppiata, debbono avere la stessa radice di ted. Schuh ‘scarpa’ e ingl. shoe ‘scarpa’ in quanto ‘copertura, avvolgimento, cavità, protezione’. La radice è quella di ingl. sky ‘cielo’, in quanto cavità, volta (celeste), lat. ob-scur-u(m) ‘oscuro’, sost. it. scuro, imposta cieca delle vecchie finestre.  Nel dialetto di Avellino la voce sciu-sciùli  significa ‘trucioli di legno, di forma arricciata’[4]: è evidente il valore di fondo di rotondità, avvolgimento.  In quello di Avigliano-Pz  sciuscë significa ‘gonna lunga pieghettata’, quindi una copertura, avvolgimento, rivestimento.

   A risentirci  presto.


[2][2] Cfr.  Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

[3] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998.

venerdì 7 febbraio 2020

Alcuni nomi delle scintille nel dialetto abruzzese e in altri.



  Leggo nel Vocabolario abruzzese di Domenico Bielli, il quale nelle parche spiegazioni dei lemmi usa un linguaggio toscaneggiante o comunque arcaico, accanto ai lemmi vernicē, verniscēla traduzione ‘scintilla’, pl. ‘scintille’; seguita dall’aggiunta “le favolesche, se si brucia carta o frasca o foglie”.  Un termine così strano, favolesca, che fa il paio con la stranezza del suddetto abruzzese vernicē, verniscē.  L’ho cercato nei miei vocabolari italiani e l’ho trovato solo in quello antichissimo del Petrocchi, con i fogli gialli e staccati (lo aveva usato un mio zio, all’inizio del secolo scorso e l’avevo usato anch’io a scuola).  Anche lì c’è una parchissima spiegazione, folena, che poi ho capito che era un refuso per falena (non trovandosi il termine in nessun vocabolario), altro nome usato in bolognese per ‘scintilla’, come ho potuto appurare in un sito internet.

   Ora, a mio modestissimo parere, la forma originaria di vernicē, verniscē doveva essere *vern-isco che naturalmente aveva poco a che fare con l’italiano verno ‘inverno’ e tanto meno con it. vernice.  La radice doveva essere infatti quella di ingl. burn ‘bruciare’, ted. brenn-en ‘bruciare’.  L’aggettivo it. bruno è un derivato di questa radice, adoperata ad indicare qualcosa di scuro (arsiccio) e lucente.  La costituente –isco non è affatto un suffisso aggettivale come avviene in molti casi (barbar-esco, roman-esco, franc-esco, ecc. ecc.). Essa  ripeteva la stessa idea della prima, se il serbo-croato iskra vale ‘scintilla’. Ma richiama anche il lat. esc-a(m) ‘cibo, alimento’ derivato da verbo ed-ĕre ‘mangiare’, ingl. eat ‘mangiare’, ted. ess-en ‘mangiare’.  In italiano il termine ha finito con l’indicare solo il cibo, vero o finto, che si usa per catturare qualche animale e significa soprattutto ‘allettamento, lusinga’. Ma presenta anche il significato di ‘materiale secco facilmente infiammabile usato un tempo per accendere il fuoco o dar fuoco alla polvere da sparo: in questo caso la parola si è senz’altro incrociata, in un momento della sua storia, con quella che indicava la scintilla, poi magari caduta dall’uso.

    Di conseguenza la strana fav-ol-esca ‘scintilla’ di cui sopra mostra tutta la sua chiara natura luminosa e di fuoco delle sue (almeno due) componenti. Infatti la prima fav- è la stessa di lat. fav-ill-a(m) ‘favilla, scintilla’ e del dialettale (Collelongo-Aq) fav-όrë ‘grande fuoco, falò’ che fa il paio con fav-όnë (Trasacco-Aq) ‘grande fuoco, falò’ e con faόne, fav-όne (Rocca di Botte-Aq) ‘fiaccola di canapa che, accesa, si faceva ruotare velocemente in aria facendole descrivere un cerchio di fuoco’[1].  La seconda componente –ol- richiama la seconda di fav-ill-a(m) ‘favilla’.

    Il termine faόne mi fa venire in mente i bei tempi in cui frequentavo il liceo ad Avezzano-Aq, e lessi la bellissima ode del Foscolo All’amica risanata, Il grandissimo Foscolo di cui mi innamorai tanto che passai più di qualche mese quasi fossi internamente e continuamente riscaldato ed esaltato dalla sua forza poetica.  Faone era il nome della persona di cui, secondo una tradizione, l’infelice Saffo si innamorò incorrisposta. Non posso evitare di citare almeno, di quell’ode, la strofa che ne parla:

Ebbi in quel mar la culla,
ivi erra ignudo spirto
di Faon la fanciulla,
e se il notturno zeffiro
blando su i flutti spira,
suonano i liti un lamentar di lira.

La famosissima e grandissima poetessa Saffo (VII-VI sec. a. C.) dell’isola di Lesbo, evidentemente non si liberava tanto facilmente della luce se il suo suicidio avvenne precipitando nel mare dalla rupe di Leuc-ade, nell’isola greca omonima dello Ionio. Questi sono tutti tratti leggendari in cui ad un certo punto andò ad inserirsi la storia romanzata della poetessa intorno a cui e al suo tiaso di ragazze provenienti da tutta la Grecia fiorirono, com’era naturale, dicerie e pettegolezzi vari. In greco leuk-όs significa ‘luminoso, bianco, chiaro’ e condivide la stessa radice di lat. luc-e(m).  E’ bene ricordare che Saffo era tradizionalmente considerata in due modi diversi: c’era chi la voleva brutta e incorrisposta in amore, ed è la versione seguita dal Leopardi nel suo splendido Ultimo canto di Saffo, e chi diceva, al contrario, che la poetessa fosse bellissima. Ma probabilmente vedeva giusto il grande poeta Alceo, suo conterraneo e coetaneo, che la chiamò “Saffo la bella, dai crini di viola e dal sorriso di miele’.   Il suo nome, inoltre,  si quasi sovrappone all’aggettivo greco saph-ḗs ‘limpido, chiaro’. 

E così siamo giunti al dialettale  falena ‘favilla’, nome che in italiano si riferisce ad una ben nota farfalla notturna che è attratta dal chiarore dei lampioni, intorno a cui gira. Falena è termine proveniente dal greco phál(l)-aina ‘balena’ e ‘falena’. Penso che il trait d’union tra i due significati sia quello di ‘animale’, ma qui  ci interessa solo il suo valore di ‘falena’, l’animaletto attratto dalla luce: sembra un nome creato ad hoc, messo proprio per definire la caratteristica suddetta, ma si tratta solo di un banale incrocio col gr. phal-όs ‘bianco, lucente’, che ha piegato il suo iniziale significato per animale in quello di ‘(animaletto) della luce del lampione’.  Falena in italiano indica anche una prostituta, certo in riferimento al fatto che la passeggiatrice si ferma generalmente presso un lampione per farsi vedere o, meglio, almeno in tempi molto lontani, perché era solita, come avviene anche oggi talvolta, accendere un fuoco nei luoghi fuori mano, al confine magari con la campagna, sempre per farsi notare e magari scaldarsi d’inverno.  Ma, se ci riflettiamo, con queste spiegazioni  siamo in fondo sempre nell’ambito di significati che però si basano su usi, atteggiamenti esterni rispetto al nudo e crudo prostituirsi.  Per questo valido motivo suppongo che dietro questo nome che indica il mestiere più antico del mondo possa esserci qualche significato più diretto.  Il lat. fall-ĕre ha normalmente il significato, presente in altre lingue, di ‘(far) cadere, ingannare’ ma anche talora quello di ‘attenuare, addolcire, compiacere’, fatto che può dare a falena il senso di ‘datrice di piacere, donna di piacere’. Anche il ted. ge-fall-en, composto di ted. fall-en ‘cadere’, significa ‘piacere, riuscire gradito’.  La falena in questo senso sarebbe simile al tedesco Hure ‘puttana’, ingl. whore ‘puttana’ fatti derivare dalla radice di lat. car-a(m) ‘cara’.  Del resto anche per  l’it. putt-ana ho scovato un significato simile qualche tempo fa, nell’articolo del mio blog intitolato “Puttana”: etimo incredibile! (marzo 2019).

    La voce bolognese fal-av-esca[2] ‘materia sottile arsa che il vento leva in alto‘ (un sorta di favilla, dunque) credo sia sostenuta nei primi due costituenti della radice di lat. flav-u(m) ‘giallo, biondo, dorato, rossastro’ ma nel significato di ‘fuoco, scintilla’. Naturalmente il costituente –esca è il solito per ‘scintilla’.  C’è anche l’it. falbo ‘di colore giallo scuro tendente al rosso’, detto soprattutto dl mantello degli animali, pare  venga attraverso il provenzale falb da un germanico *falwa, ingl. fallow ‘fulvo, biondo caldo’ radice simile alla precedente, per indicare qualcosa di ‘infuocato, rosso, vivo’.  Come del resto il lat. fulv-u(m) ‘rossastro, fulvo, biondo’.  In ultimo bisogna anche sottolineare che la voce bolognese falav-esca può essere benissimo una forma metatetica di un originario *fav-al-esca il cui primo membro è molto simile al lat. fav-ill-a(m) ‘favilla’ e all’altra voce fav-ol-esca di cui abbiamo già parlato.  Naturalmente non è da credere affatto che la costituente –ill-a(m) nel lat. fav-ill-a(m) sia un suffisso diminutivo come taluni sostengono, ma una radice tautologica omosemantica rispetto alle altre due. Vi risparmio i collegamenti con altre parole, tranne il gr. heílē ‘luce, calore del sole’ e il  gr. alé-ē ‘calore’.

  L’ingl. fl-ash ‘bagliore improvviso, lampo, scintillio’, considerato di etimo ignoto, a questo punto è una passeggiata a mio avviso. Esso è formato dalla costituente fal- di cui sopra (cfr. gr. phal-όs ‘bianco, lucente’, gr. poli-όs ‘grigio, bianchiccio; sereno, limpido) e dall’altra -ash che è tal quale l’ingl. ash ‘cenere’, da precedente antico ingl. asce, æsce, radice il cui principale valore era quello di ‘fuoco, scintilla’ come abbiamo visto.

    Resta quella che considero una chicca: l’it. fiasco nel senso di insuccesso per il cui etimo i linguisti a mio parere non possono che balbettare, sia detto senza offesa. Per me due sono le soluzioni valide. Inizialmente anche l’it. fiasco < germanico *flask, ted. Flasche ‘bottiglia, fiasco’ poteva in verità, nel significato figurato di insuccesso, essere costituito dei due membri di ingl. fl-ash e significare, però, non ‘emetter un bagliore improvviso’ ma semplicemente ‘bruciare, ardere’.  In italiano tuttora è in uso il significato particolare del verbo bruciarsi nel senso di fallire, comportarsi in modo da escludere l’ottenimento di qualsiasi successo per il presente e il futuro.

    L’altra possibilità è che fiasco ‘insuccesso, fallimento’ non sia altro, in realtà, che un denominativo da un verbo latino o italico composto di lat. fall-ĕre ‘cadere’ nella forma cosiddetta incoativa, così frequente in latino, fal(l)-asc-ĕre, sempre col significato sostanziale di ‘cadere’. Quindi un eventuale lat. *f(a)lasc-u(m) ‘caduta, rovina, insuccesso’.

  Così tutto diventa più latino (nel senso di più chiaro)!
   













martedì 4 febbraio 2020

L’aiellese “nònna” e l’aiellese “nnunnà”.




   Ne mio dialetto di Aielli-Aq ai tempi andati si diceva: te’ la nonna (tiene la nonna)  volendo indicare una persona facile ad addormentarsi, magari per pochi minuti, per poi risvegliarsi.  La parola corrisponde all’it. nona, dall’etimo incerto, che designa una malattia analoga o uguale all’encefalite letargica, che causa apatia e sonnolenza. 

   Il significato è confermato dal verbo dialettale marsicano nnunnà che significa ‘cullare un bambino in braccio o nella culla, per farlo addormentare’. Riappare quindi il sonno, sebbene quasi come intento secondario rispetto a quello di cullare.  Ora esiste in latino il verbo *nu-ĕre ‘accennare col capo’ (cfr. it. annuire < lat. ad-nu-ĕre), copia esatta del gr. ne-ein ‘accennare col capo, dir di sì’).  Non è cosa straordinaria supporre un raddoppiamento della radice /nu-/ nel latino volgare, per un verbo *nun-are, con lo stesso significato di ‘accennare’ che, badate bene, all’origine evidentemente poteva indicare non solo il movimento del capo, ma anche quello impresso ad altra parte del corpo o ad altra cosa, come, ad esempio, la cima di un albero  fatta oscillare dal vento. Il latino in questo caso, infatti, usava il verbo nut-are ‘far cenni con la testa’ ma anche ‘oscillare, ondeggiare, esitare’, verbo con la stessa radice di *nu-ĕre ‘accennare col capo’ suddetto.  E’ a questo punto facile ricordare che nel nostro dialetto accënnà significa anche ‘chinare il capo’, detto di chi, magari seduto, mostra in quel modo di stare per cadere nelle braccia di Morfeo.  Da quanto detto si ricava che l’italiano ninna, l’it. nanna, l’it. ninn-are ‘cullare un bambino con l’accompagnamento di una nenia per farlo addormentare’ non sono nate affatto come voci fonosimboliche e bambinesche: sono varianti di aiellese nnunnà ‘cullare’, naturalmente incrociatesi con altre radici simili, come quella per ‘addormentarsi’ e per cantare monotonamente una nenia< lat. neni-a(m) ‘canto lamentoso, canto monotono‘, la quale è considerata dai più onomatopeica (è troppo semplice e comodo!) quando può vantare una radice na- per ‘gridare, lamentarsi’ nel sanscrito. In greco ci sono vari termini come nēnía ‘nenia’, gr. nēní-at-on ‘pianto’, ecc. Il ted. nenn-en ‘chiamare’ è a mio avviso un modo, diciamo così, prosastico di modulare la stessa voce che canta in nenia, anche se monotonamente. Ho affermato e spiegato altre volte che l’onomatopea per me non esiste all’origine del linguaggio.  Vorrei che qualcuno mi spiegasse perché questa radice ne,na raddoppiata debba considerarsi onomatopeica in questi casi mentre il gr. nē-né-ein ‘accumulare’ non è onomatopeico, pur essendo una radice raddoppiata molto simile, esistendo il semplice -ein ‘accumulare’.  L’inglese di ambito dialettale ninny-watch ‘agitazione, movimento, disturbo’, con la variante  nunny-watch, debbono per il primo costituente riferirsi alla radice in questione; per il secondo costituente essi rimandano a mio parere all’ingl. wag ‘agitare, dimenare, scuotere (il capo)’, ted. wack-el-n 'barcollare, tentennare', ted. Waage 'bilancia'.

   Nel Veneto nono vale ‘nonno’, ma anche ‘rimbambito, addormentato’. E gli esegeti si precipitano a spiegare che quest’ultimo significato promana da quello di nonno, come del resto pensa la gente comune di quella regione: se così fosse si potrebbe trovare molto da ridire sulla mancanza di rispetto per il nonno da parte dei veneti. Ma così non è e non era! Si era solo verificato un semplice incrocio tra la parola per ‘addormentato, dormiglione ’, caduta poi in disuso in quel dialetto, e la parola per ‘nonno, nonna’, patrimonio antichissimo di molte lingue occidentali. E quando una parola scompare, come avviene purtroppo per le persone, tutto il bene e il male dello scomparso tende a ricadere  sugli eredi, legittimi o illegittimi che siano. Sempre in Veneto l’espressione avere la malattia della nona ‘avere la malattia letargica suddetta’ è intesa come se fosse ‘avere la malattia della nonna’[1].   Nel veneto nono vale anche ‘libellula’[2]. Con una osservazione che per me ha del bizzarro, si fa derivare il nome dal fatto che quando piove l’ elegante libellula di venterebbe come paralizzata e ferma pendente da un rametto, come intontita e addormentata.  Per dare il nome all’animale, insomma, l’uomo primitivo ha dovuto attendere la pioggia, che d’estate è piuttosto scarsa, poi come un meticoloso zoologo è andato a scovare l’animaletto da qualche parte per mettergli così il suo giusto nome. Ma se per tutto il tempo aveva avuto agio di  di vederlo volare elegantemente un numerose  volte!  A questo punto è di certo più scientifico, per appurare l’origine del nome, gettare giù qualche nome simile di volatile come toscano nana ‘anatra domestica’, ingl. nene ‘tipo d’oca’ da una voce hawaiana, e ingl. nun riferito a diversi tipi di uccelli.  Anche l’italiano regionale  nonna indica alcuni uccelli, tra cui l’airone cenerino e il saltimpalo. E’ certamente singolare che una presumibilmente simile radice ricorra in diversi paesi del mondo per indicare vari tipi di uccelli.  Io suppongo che essa contenga il significato di ‘agitare’ riferito al movimento delle ali: quindi, uno dei suoi significati iniziali poteva riguardare gli alati o volatili in generale. 

   La Nona era in latino anche il nome di una delle Parche, le divinità che come tutti sanno (lo spero) presiedevano alla vita e alla morte degli uomini, tanto è vero che una di esse si chiamava proprio Morta. Ora, ognun sa che in certo senso  il Sonno è parente della Morte.  In greco Hýpn-os ‘Sonno’ era figlio dell’Erebo e della Notte, e fratello di Thánat-os ‘Morte’.  Però successe che Il nome Nona della Parca si sovrappose al numero ordinale femminile latino nona ‘nona’ e passò a significare una divinità protettrice degli ultimi mesi di gravidanza.

   L’aiellese “nònna” e l'aiellese “nnunnà” meritano senz’altro un primo piano! E così sia!






[2] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998.

sabato 1 febbraio 2020

Crollare, scrollare: verbi meritevoli di molta attenzione.


  
   Ammettiamo pure, dando avvio al nostro discorso, che i due verbi, unitamente a quelli simili presenti nei dialetti, abbiano la stessa radice CROLL-, come tutti sostengono, con l’aggiunta iniziale, in uno di essi, del prefisso s- (lat. ex ‘da,fuori da’) con valore intensivo.  Ma non sempre i loro significati sono sovtapponibili.  Nel vocabolario abruzzese del Bielli[1] la voce scrullà, oltre a significare ‘svolgere (ciò che è aggomitolato), srotolare’, come abbiamo visto nel precedente articolo, e ‘scuotere, scollare’ (significato più diffuso), vale anche ‘spiccare (detto della frutta)’.  Na scrullàtë è ‘una colta di frutti’ come lui spiega.   Nel mio paese di Aielli-Aq l’espressione era usata spesso per significare una scossa, uno scuotimento dato ad un albero per far cadere la frutta, quella più matura, allo stesso modo in cui nel dialetto toscano sgrolla, e in quello umbro sgrullata, significa ‘una forte scossa d’acqua’[2], un rovescio di pioggia piuttosto violento.  Spiccare un frutto dal ramo nel mio dialetto era semplicemente còllë ‘cogliere’. 

    Ora in un sito online ho letto che il verbo ingl. curl up[3] ha talvolta il valore di clasp ‘tenere stretto, afferrare, stringere, abbracciare’ e allora si farebbe accettabile la considerazione che l’ abruzz.  sgrullà ‘spiccare (detto di frutta)’ possa rivendicare la parentela con l’ingl. curl il cui significato principale è per la verità ‘arricciare, arrotolare, accartocciare ecc.’.  In tedesco si ha il sostantivo Krolle ’ricciolo’, forma metatetica di ingl. curl ‘ricciolo, truciolo, spirale’. Ma, sorpresa delle sorprese, l’ingl curl up significa anche ‘collassare, crollare’ e potrebbe, quindi, richiamare l’it. crollare, almeno nel senso di ‘rovinare, precipitare, abbattersi’. Come può spiegarsi questo mutare di significati apparentemente inconciliabili?  A me pare che tutto possa appianarsi se riflettiamo un po’ sul significato del verbo ingl. curl ’ arricciarsi, accartocciarsi, piegarsi’. Anche il sostantivo curl significa ‘piega, curva’ come l’aiellese-marsicano-abruzzese grùjja, crùjja, grujjë[4] <*crulla, *grulla per palatalizzazione della doppia -ll-.  Dal significato di piegarsi si può scivolare in effetti a quello di curvarsi, cedere, crollare, per lo stesso motivo per cui l’ingl. cave in ‘incavarsi, avvallarsi’ è passato a quello di ‘crollare, cedere, piegarsi’.  Il crollare quindi si configurerebbe, all’inizio, proprio come verbo riferito ad una superficie più o meno piana (un tetto, un soffitto, una parete) che ‘s’incurva, cede, crolla’, acquisendo poi un valore più generico di ‘cadere, precipitare, rovinare, ripiegarsi su se stesso’.  Il significato di ‘scuotere, scuotersi, oscillare’ ne dovrebbe essere un derivato. L’it. crollare solitamente è ricondotto ad un supposto latino popolare *con-rotul-are ‘rotolare’, ma io, sinceramente, non ne sono molto convinto, perché esiste anche una radice come quella presente nel dialetto di Luco dei Marsi-AQ, cioè crùt-eja ‘piega della pelle, grinza’ che ben si presterebbe per l’idea di “girare, rotolare, crollare’. Ma forse la soluzione più diretta è data da un significato iniziale della radice in questione come ‘riversarsi, rovesciarsi, e quindi precipitare, crollare’.

    Moltissimo  interessante è, a mio avviso, il sintagma latino sell-a(m) curul-e(m) ‘sella curule’, una sedia particolare con fregi e intarsi di avorio usata per portarvi inizialmente il re e successivamente alti magistrati come consoli, pretori e perfino gli edili chiamati appunto curuli.  Era di origine etrusca, simbolo del potere giudiziario ed esecutivo, appannaggio dei re. Questa sedia si può dire che è un concentrato di significati che nel corso   dei millenni anteriori alla civiltà latina si incrociarono col termine curule: se inizialmente la sella era riservata al re non si può non riflettere che in russo la parola Koròl’ (traslitterata dal cirillico nel nostro alfabeto) significa proprio ‘re’, polacco krόl ‘re’, serbo–croato kralj ‘re’.   La sedia poi, era composta di elementi portanti (gambe, telaio della spalliera) molto incavati e ricurvi, e per di più era pieghevole, termine che richiama il crollare di cui sopra. Solitamente si riporta la parola, molto erroneamente a mio avviso, al lat. curr-u(m) ‘carro, cocchio’ su cui si poneva la sedia, con l’eventuale personaggio da trasportare.

   Nel Bielli sono registrate voci come 1) grijjë ‘verticillo, ciclo’ che nei significati botanici italiani fa riferimento ad un’idea di “rotondità, cerchio, ecc.” come il toscano grillo ‘pallino delle bocce’, e quindi la radice deve essere variante della suddetta CROLL-; come 2) grillë ‘vinacciolo’’significato che può indicare sia il seme dell’acino d’uva, sia il fiocine, cioè il guscio, la buccia dell’acino stesso: tutti concetti che rimandano sempre al senso di avvolgimento, compreso il seme, che è un chicco.  Sono registrati ancora, sotto la voce cròllë (var. crullë),  diversi significati indicanti oggetti che rimandano tutti alla stessa idea di “rotondità”, come: 1) rotolo di panno; 2) filza di frutta secca, di chiocciole, chicchi d’oro, chicchi del rosario (solitamente formanti una corona); 3) al pl., rotelline per cui scorrono i licci; 4) tamburino a cui si avvolge il filo; 5) ciambellina d’avorio; 6) nastro, striscia di corteccia di salice, per legare cerchi o i diversi pezzi di panieri di legno; 7) argano (nella forma crullë), cioè una macchina costituita da un cilindro rotante su cui si avvolge una fune; 8) carrucola (nella forma crullë), arnese ben noto, anch’esso formato da una rotella su cui scorre una fune; 9) raganella, che si suona nella settimana santa (sempre nella forma crullë). La raganella è anch’essa costituita essenzialmente da una ruota dentata girevole che sfrega contro una lamella di legno o altro, producendo un certo gre gre di ranelle. Noi ragazzi facevamo a gara per ricevere dal parroco l’incarico di andare suonando lo strumento per tutto il paese. Ma, attenti! Lo strumento è chiamato in abruzzese, sempre nel Bielli, anche crèllë oppure crilïë femm., varianti a mio avviso di crullë, ma che, dato il rumore prodotto dallo strumento, viene forse fatta derivare  erroneamente dal verbo abruzz. crillà ‘scricchiolare, crocchiare’. 

    Ormai lo sappiamo, gli incroci sono sempre dietro l’angolo e spesso sviano la mente di chi deve trovare il bandolo di un termine.  Generalmente succede che, se il significato della presunta radice trovata non corrisponde direttamente alla struttura e natura dell’oggetto indicato, allora è quasi certo che bisogna scavare più a fondo per arrivare al sodo.  Bisogna notare che il lat. coroll-a(m) ‘coroncina, ghirlanda’ non è da considerare un diminutivo derivante dall’altro diminutivo lat.  coron-ul-a(m) ’coroncina’, come tutti affermano senza tentennamenti, perchè esso era un sostantivo  facente parte della serie dei molti oggetti indicati dall’abruzz. cròllë, crullë dai diversi significati sopra analizzati: si è solo adattato, successivamente, a fungere da diminutivo.  La cosa l’avevo intuita  già molto tempo fa anche a proposito di altri termini. Qui ne ho avuta la conferma. Nel dialetto di Avigliano-Pt. la voce cruόglië significa ‘nodo, ammasso’; un nodo è un avvolgimento, tanto è vero che il sintagma nodo di vento equivale ad un vortice di vento, un turbine. Un ammasso è un agglomerato, qualcosa di rotondeggiante o giù di lì o un insieme di cose. In latino nod-ul-u(m) significava in effetti anche ‘gruppetto’. Il danese skræl ‘buccia, scorza, pelle’ ugualmente indica qualcosa che si avvolge e copre. All’origine dovevano quindi esistere due radici dallo stesso significato, di cui comunque l’una non derivava dall’altra mediante l’aggiunta della –s- privativa all’inizio della parola, prefisso che ne capovolgeva per così dire il significato, come succede in molte coppie di termini italiani quale verniciare/sverniciare.  In effetti la voce lucana  cruόglië ‘nodo, ammasso’, sopra citata, proveniente da croll-, si può dire che faccia  da pendant  al ted. Shrolle ‘zolla, ammasso’, proveniente però da Scroll-, in cui la –S- iniziale non è affatto un prefisso.  Allora non è affatto campato in aria sostenere che probabilmente anche le forme dialettali e italiane  corrispondenti, come dial. sgrullare ‘scuotere’ e it. crollare in realtà sono  formalmente diverse tra loro.

    Da non tralasciare la voce croglia del dialetto di Ferentino-Fr che significa cercine, cioè un panno attorcigliato a forma di ciambella che le donne mettevano in capo per trasportare più agevolmente ed equilibratamente la conca con l’acqua ed altri pesi[5].  In romanesco la parola è coròjja.  In campano croglia indica una ‘donna sporca e sciatta’.  Ora, certamente il cercine veniva fatto con panni vecchi e logori: nel mio dialetto di Aielli e in altri veniva usata all’uopo la spara, un canovaccio multiuso per la cucina, perlopiù unto e bisunto. Il suo etimo rinvia al gr. speîra ‘ciò che è avvolto, spira, panno (speîr-on)’.  Ma se la croglia ‘cercine’ può darci, anche se indirettamente, l’idea di sporca, trasandata donde potrebbe spuntare il concetto di donna? A me pare che si possa far risalire la parola, per metatesi, all’ingl. churl ‘contadino, villano, persona maleducata, gretta (anche servo della gleba)’, ted. Kerl ‘persona, individuo, tipo’.  La parola germanica indicava anche un ‘uomo libero (cfr. il personale Carlo)’ sebbene di infima classe, ed altri concetti simili. Naturalmente essa si è incrociata con il termine omofono croglia ’cercine’, completando così l’opera e generando il valore di donna sporca e sciatta.

   Data l’amplissima forbice di significati mostrati dalla radice in questione, direi che qui si tocchi con mano la validità dell’assunto, di origine saussuriana, che è vano credere che le parole siano nate per indicare all’origine solo un singolo oggetto e che non siano, invece, portatrici di significati molto generici che di volta in volta si specializzano, soprattutto per l’influsso immancabile di parole omofone che si incrociano con esse. Ma l’uomo è abituato da migliaia e migliaia di anni ad una condizione opposta circa il senso specifico, particolare di ogni radice, molto forte in ciascuno di noi, anche di linguisti, sicchè risulta talora veramente arduo smettere l’inveterata abitudine che ci spinge verso i significati specifici.

   Anche il verbo abruzzese grullà ‘urlare’ potrebbe fa inclinare qualcuno a favore di una interpretazione, diciamo così, sonora del nome crullë ‘raganella (strumento)’, ma in questo caso ci distoglie dalla tentazione il ted. grőhl-en, gről-en ‘sbraitare, gridare’. Interessante è anche l’altro verbo abruzzese gruttà che significa sia ‘urtare’ che ‘ruttare’.  Secondo me il verbo, che si ritrova nel fr. heurt-er ‘urtare, cozzare’ e nell’ingl. hurt ‘far male, ferire, qui presenta la metatesi *krut ed è così antico da mostrare la velare sorda iniziale –k- (trasformata nella sonora –g-) che manca, appunto, nel francese e nell’inglese, e forse anche nel tedesco se la radice dovesse essere quella di franco hrūt ‘ariete’. Il verbo abruzzese quindi attesterebbe una fase anteriore a quella della trasformazione della velare sorda –k- nella fricativa glottidale sorda –h-.  Il significato di ‘ruttare’ è curioso, essendosi sviluppato a mio avviso, dall’incrocio dell’abruzz. gruttà ‘urtare’ con il verbo italiano rutt-are < lat. ruct-are ‘ruttare, mandar fuori’. 
 
    Ma siamo in Abruzzo, in qualche Land tedesco o contea della Gran Bretagna? Avrei mai potuto immaginare, in effetti, che l’ingl. neigh lo avrei ritrovato in an-nëcch-ià ‘nitrire’ < *ad-nich-l-à del vocabolario abruzzese del Bielli?  Meditate gente, meditate!





[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla Editore, Cerchio-Aq, 2004.

[2] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998.

[4] A Luco dei Marsi si hanno due forme, una crùglia ‘arricciatura, piega (di stoffa)’, e l’altra crùteja  ‘piega della pelle, grinza’ forse per influsso di lat. scrot-u (m) ‘scroto’.