mercoledì 25 settembre 2013

Le suddivisioni della nazione marsa



    A proposito dei nomi con cui venivano designati i diversi popoli della nazione marsa, si continua talora ad includere in essa anche il popolo dei Fucensi (o Fucenti) sulla base dell’elenco dei municipi marsi redatto, nel III libro della sua Naturalis Historia, da Plinio che, come sappiamo, fu presente all’inaugurazione dell’emissario del lago Fucino, fatto costruire, con grande dispendio di energie e danaro, dall’imperatore Claudio (metà del I sec. d. C. circa). L’elenco è il seguente: Marsorum Anxatini A(n)tinates Fucentes Lucenses Marruvini. Da una lettura veloce e disinvolta si ricaverebbero 5 municipi marsi: quello degli Anxatini, degli A(n)tinati, dei Fucenti, dei Lucensi, e quello dei Marruvini, che costituiva il capoluogo ed occupava gran parte dell’area fucense.  Ma il noto archeologo Cesare Letta dell’università di Pisa, ha mostrato, con argomentazioni chiare e stringenti, che l’aggettivo Fucentes, posto subito dopo A(n)tinates, è in realtà una glossa aggiunta dallo stesso Plinio, tesa a chiarire il senso di A(n)tinates da lui erroneamente scritto Atinates, anche perché, come solitamente capita quando si viene a conoscenza, soprattutto per via orale, di nuovi nomi, tendiamo inavvertitamente ad adattarli ai cliché di quelli a noi già noti, e qui deve aver giocato in tal senso l’etnico Atinates della più nota città di Atina dei Volsci, continuata tuttora nella Atina-Fr della Val Comino.[1]  Il municipio degli Antinati (da Antinum) rivive nel paese attuale di Civita D’Antino nella valle Roveto, quello dei Lucensi nel paese di Luco dei Marsi, quello dei Marruvini (da Marruvium) nel paese di San Benedetto dei Marsi.  L’ubicazione del municipio degli Anxatini, che ha dato filo da torcere agli studiosi, pare debba coincidere con quella di Angitia, il più importante centro religioso dei Marsi, non lontano dal paese di Luco. La forma Anxa, nome del centro, sarebbe variante italica di Angitia.

Di Fucensi e Lucensi parla anche l’abate trasaccano Muzio Febonio (1597-1663) nella sua famosa Historia Marsorum che ha visto recentemente una nuova edizione con traduzione in italiano, per la quale si sono mobilitati, nel corso di vari decenni, bei nomi del panorama culturale marsicano, a cominciare da Giulio Butticci, Ugo Maria Palanza, Vittoriano Esposito, Pietro Smarrelli, Angelo Melchiorre[2]. Le numerose epigrafi citate dal Febonio sono state interpretate dall’insigne archeologo Cesare Letta dell’università di Pisa.  E’ veramente una bella opera che riempie di gioia chiunque abbia un minimo di amor di patria e senso dell’antico, e che può essere fruita da un pubblico vasto ora che essa offre un’agevole traduzione in italiano, corredata di abbondanti note. Precedentemente solo gli studiosi potevano accostarsi ad essa, scritta peraltro in un latino poco attraente, piuttosto ostico, spesso tortuoso e talora oscuro, a tal punto che più di uno tra gli studiosi sospetta che debba trattarsi in effetti della minuta stesa dal Febonio e pubblicata, senza essere rivista e con nuove aggiunte, dopo la sua morte.  Al di là dei difetti che un’opera di Storia scritta in pieno Seicento[3], il secolo delle sfarzosità incontrollate e della stucchevole sovrabbondanza di ornato, può esibire, resta comunque il fatto che essa contiene numerose epigrafi ed informazioni di varia natura che possono aiutare a gettare un po’ di luce su un passato che in genere ne è avaro.  

Il breve passo della Historia in cui si accenna alla questione dei Lucensi e Fucensi costituisce proprio l’incipit del cap. IV , libro III. 
Ne do qui una proposta di traduzione che però si discosta di parecchio da quella di Palanza, il quale mi pare abbia inspiegabilmente forzato il testo in alcuni punti, in modo tale che le due versioni, la mia e la sua, si ritrovano a percorrere strade divergenti.

Testo originale tratto dalla Historia Marsorum [4] di Muzio Febonio:

Quos Plinius Fucenses, Lucensesque appellat, hos uno vocabulo Cluverius complectitur, & a Luco oppido denominationem sumpsisse, unumque populum sub utraque appellatione denunciatum fuisse censet.  Quod rerum praesentium status confirmat, quo inspecto Lucenses Fucenses appellamus, cum uterque populus in separata parte regionis insederit, & ut nomine sic incolatu, origineque diversi, sed fatiscente utroque in nuperrimo oppido ad lacus ripam alterius memoria renovatur, cuius sedem circa Angitiam sylvam  fuisse, non dubitatur.                                                           

Mia proposta di traduzione:

Quei popoli che Plinio chiama distintamente Fucensi e Lucensi, il Cluverio li pone sotto un unico nome (Lucensi), che pensa derivi da quello della città di Luco. Secondo lui, in altri termini, un unico popolo avrebbe avuto, nell’antichità, due denominazioni diverse.  Il che viene confermato dall’attuale stato delle cose: noi ora i Fucensi li chiamiamo Lucensi,[5] benchè questi due popoli, a mio avviso, abbiano avuto in antico nomi, sedi ed origini distinte nella regione marsa.  Svanita nel corso dei secoli ogni loro separata presenza, ai nostri giorni solo uno di essi vede perdurare la propria memoria nel nome, appunto, dell’attuale città di Luco, che si trova sulla riva del lago.  E nessuno può mettere in dubbio che la sede di questo popolo fosse situata nelle immediate adiacenze di quella che fu la selva d’Angizia.


Traduzione del brano da parte di Palanza:

Quei popoli che Plinio chiama Fucensi e Lucensi, Cluverio indica con un solo nome, che crede derivato dalla città di Luco;insomma, con un solo nome, crede siano indicati entrambi i popoli. La situazione attuale del resto lo conferma:infatti, riflettendoci su, notiamo che noi chiamiamo Lucensi o Fucensi entrambi i popoli, che,diversi di nome, di regione ed inizialmente insediati in due parti distinte della regione, trovandosi infine a disagio nelle cadenti località accennate, torniamo ad aver memoria dell’uno e dell’altro allorchè si ritrovarono uniti sulla riva del lago, avendo posto la loro residenza intorno alla selva d’Angizia.


Questa esposizione della traduzione del compianto prof. Ugo Maria Palanza, che per qualche anno è stato anche mio preside al liceo classico A.Torlonia, non vuole minimamente essere un tentativo di gettare cattiva luce sul letterato e critico di chiara fama, la cui vasta e pregevole opera non sarà certamente scalfita dalle vagabonde osservazioni di un, diciamo così, intemperante suo discepolo.  Egli sa bene, il discepolo, che tutti possiamo sbagliare per un’infinità di motivi, e che anche la sua proposta di traduzione potrebbe essere messa in dubbio da qualcuno: è quello che del resto egli stesso neppure disdegnerebbe, anche se accusando una punta d’amarezza, di sentirsi eventualmente rinfacciare la sua traduzione da qualche cultore della lingua latina e della storia dei Marsi, il cui parere gli sarà anzi sempre graditissimo, di qualunque tenore esso sia.  Perché il suo indefettibile amore va alla Verità, costi quel che costi.


[1] Cfr. Cesare Letta- Sandro D’Amato, Epigrafia della regione dei Marsi, Cisalpino-Goliardica, Milano 1975, p. 298 e seg.

[2] Precedentemente l’opera del Febonio era stata tradotta e pubblicata  a scadenze diverse, per ciascuno dei tre libri di cui si compone.  Un particolare riconoscimento va anche alla Fondazione Carispaq (Cassa di Risparmio della Provincia dell’Aquila) che ha reso possibile la realizzazione dell’opera.

[3] Certamente non possiamo paragonare, sotto il profilo del vigore dell’ingegno e della tempra di storico, l’opera del Febonio a quella più o meno coeva di Paolo Sarpi, intitolata Soria del Concilio di Trento.  

[4] Cfr. Muzio Febonio, Historiae Marsorum libri tres, riproduz. anastatica dell’edizione di Napoli, 1678 (a cura di Walter Capezzali e Pietro Smarrelli), Fondazione Cassa di Risparmio dell’Aquila, L’Aquila 2012.

[5] L’autore vuole forse dire più precisamente che col nome di Lucensi, che è l’unico rimasto, noi oggi in realtà indichiamo quello che fu il popolo dei Fucensi in riva al lago, il cui nome è scomparso.  Perché in verità il Febonio credeva che il bosco d’Angizia corrispondesse a quello che ai suoi tempi era indicato come selva d’Agn-ano, il cui nome richiamava, per una certa assonanza, quello di Angizia, che effettivamente poteva anche essere pronunciato volgarmente e metateticamente *Agn-izia.  Secondo lui questa selva era situata presso Cappelle, a sette miglia da Luco, all’estremità del monte Salviano, e si estendeva per ampio tratto nei piani Palentini, fino a raggiungere probabilmente il paese di Cese.  Quindi gli antichi Lucensi, nell’idea di Febonio, dovevano occuparne il territorio circostante (come del resto afferma nella frase finale di questo brano) che non combaciava però con quello di Luco del suo tempo e di oggi.  Per il nome di Luco, che a mio parere  non aveva a che fare, nelle sue più remote origini, col significato di lat. lucu(m)’bosco sacro’, rimando all’articolo La dea Angizia, il suo bosco sacro e l’inghiottitoio della Petogna presente nel mio blog (novembre 2010).

lunedì 2 settembre 2013

I Marsi, popolo pacifico di contadini, pastori e pescatori. Etimo di Marruvio.


                       

                        

 

Questo titolo suona volutamente provocatorio di fronte alla millenaria tradizione, che ancora persiste e persisterà in futuro presso noi marsicani, della incrollabile  gagliardia delle  truppe marse che diedero filo da torcere alla potenza romana, in un primo tempo in occasione dei numerosi fatti d’arme e  guerre che Roma dovette affrontare nel corso della sua espansione verso il centro-meridione d’Italia (sec. V-III a. C.) e poi, quando essa era già diventata una superpotenza padrona del Mediterraneo, in occasione della guerra sociale (91-88 a. C.) detta anche marsa, per la parte notevole che vi ebbero i Marsi, guerra che vide tutti i popoli italici, tranne gli Etruschi e gli Umbri, in rivolta contro Roma per l’ottenimento della cittadinanza romana e che costituì un pericolo veramente serio  per i Romani.  Costoro, però, seppero evitare il peggio concedendo la cittadinanza, per così dire, a scaglioni, a mano a mano che i confederati si  fossero arresi.

Ora, a parte le comprensibili esagerazioni tipiche del miles gloriosus ‘soldato millantatore’ che, tornato a casa, è portato ad ingigantire, tra un bicchiere e l’altro, le imprese cui ha partecipato, resta il fatto che la fama della bellicosità dei Marsi[1] era ampiamente diffusa nell’antichità se Appiano d’Alessandria[2] fu spinto a scrivere, senza essere d’altronde mosso, essendo uno straniero, da motivi particolari di simpatia o di opportunità politica, che su questo popolo i Romani non celebrarono mai un trionfo e che d’altro canto i numerosi trionfi di Roma celebrati su tanti altri popoli nemici furono sempre dovuti anche alla presenza dei Marsi tra le loro truppe.  Con ciò viene messo in rilievo, secondo me, un aspetto  che dovrebbe essere in qualche modo una conferma della tenacia del soldato marso, e cioè la corrispondente tenace fedeltà  del popolo marso nei confronti di Roma una volta divenutone alleato, persino nell’ora più buia e decisiva per la potenza romana, quando l’invincibile, astuto e spietato  Annibale scorrazzava da padrone, ormai da troppi anni, per le terre d’Italia e metteva a ferro e a fuoco anche la Marsica. 

Passando ad altro argomento, a me sembra che questa bellicosità dei Marsi, mai messa in dubbio né ridimensionata da nessuno, abbia potuto forzare la mano, sia pure inconsapevolmente, ai vari studiosi (credo tutti) che hanno visto nell’etnico stesso di Marsi la presenza del nome dell’italico dio della guerra e della primavera: Marte (cfr. lat. Mart-em  uguale alla radice umbra Mart- per la stessa divinità e simile a quella osca Ma-mert-).  Ma l’etnico, a mio modesto avviso, potrebbe raccontarci tutt’altra storia per i motivi che adesso dirò.

Epigraficamente la parola Marsi equivaleva a Marruvium, designante il capoluogo dei Marsi (odierno San Benedetto dei Marsi). E’ attestata abbondantemente anche la formula completa, e alquanto complessa, di Marsi Marruvium  allo stesso modo di quella relativa al municipio di  Marsi Antinum (attuale Civita d’Antino, nella valle Roveto) e a quello di Marsi Anxates  o Anxatini (da Anxa,altro nome locale del municipio di Angitia)[3].  Ma solo Marruvium, tra gli altri municipi marsi, poteva essere indicato, come abbiamo detto, col semplice Marsi: ciò significa che questo nome, prima di diventare l’etnico di tutta la nazione marsa, lo sarà stato  del solo Marruvium e avrà condiviso con quest’ultimo la sua etimologia di natura molto probabilmente toponimica prima che etnica, data la evidente presenza della radice mar-  in ambo i nomi[4].  Ma quale sarebbe questa etimologia? Facendo scorrere dinanzi  ai nostri occhi i nomi di tre centri abitati riconducibili a questa radice, e facendo caso alla loro collocazione geografica, si arriva inevitabilmente ad una sola conclusione, che cioè quella radice, in questi casi, dovesse indicare un lago, uno stagno e simili, al di là di ogni altra possibile suggestione.  Il Marruvium nel reatino, citato da Dionigi di Alicarnasso infatti, si trovava sulle sponde dell’odierno lago di Piediluco in provincia di Terni, il Marruvium marso su quelle del lago Fucino, mentre il paese di Marrubiu, in provincia di Oristano, si trova ai bordi della zona bonificata di Sassu, occupata precedentemente da una vasta laguna.   Questa circostanza, non notata da nessuno, non può essere dovuta al puro caso, anzi essa, a mio parere, ha il valore indiscutibile  del dato di fatto. In ultima analisi, allora, la radice mar- dovrebbe essere strettamente legata, in questi casi, a quella di lat. mar-e ‘mare’ e di altri numerosi termini come ingl. moor ‘palude, brughiera, maremma’, a. norreno marr ‘mare’, ingl. mire‘pantano’, ingl. mar-sh ‘palude’, ted. Moor ‘palude’, ted. Meer‘mare’, ecc.  Credo possa essere utile l’elencazione di qualche toponimo delle nostre parti che, a mio avviso, contiene la radice in questione nel significato di ‘cavità’. Nel concetto di “mare, lago” e simili si incontrano solitamente due idee, quella di “acqua” e quella di “cavità” che per questo è difficile e spesso inutile districare tra loro, data l’estrema volatilità dei significati delle radici.  A Collarmele si incontra una valle di Mario, a Civita d’Antino un vallone Santa Maria, ad Aielli una grotta Mora e una grotta Zia Maria, a Lecce nei Marsi  si ha una frazione chiamata Valle-mora. Naturalmente questi toponimi andrebbero analizzati e spiegati con maggiore precisione ma non è il caso di farlo qui.

La forma Marruvium in origine probabilmente era affiancata da una variante come *Mars-uvi-um, se il nome di questa città veniva fatto risalire ad un eroe eponimo Marr-o o Mars-o[5], il quale doveva indicare in realtà il nome originario del centro abitato (come suggerisce la forma epigrafica Mars-i), ampliatosi successivamente in Marr-uvi-um/*Mars-uvi-um[6].  Questi sono fenomeni linguistici di accrescimento di una radice base, molto comuni, tanto che possiamo riscontrarli anche nell’attuale etnico Mars-ic-an-o <Mars-ic-o <Mars-o.  C’è da aggiungere che queste forme in –rr- oppure in –rs-  rispecchiano il consistente filone cui appartengono svariate parole greche o di origine greca come thȧrros/thȧrsos ‘coraggio’, Tyrrhēnós/Tyrsēnós ‘Tirreno’, kórrē/kórsē ‘tempia’, ecc. Ora, ognuno può rendersi conto che, se il valore iniziale di questi etnonimi era di natura strettamente toponimica e ristretta, non possiamo più pensare, come siamo abituati a fare, che i Marsi (I millennio a. C. o giù di lì) entrarono nella Conca del Fucino sottomettendone le popolazioni preesistenti, come una tribù compatta e guerriera che aveva già il suo bel nome tribale che incuteva rispetto. Se l’origine toponimica della radice dell’etnonimo è vera, come a me pare, bisogna cominciare ad abituarsi a pensare, invece, più che a invasioni e a movimenti migratori improvvisi e violenti, ad un lento processo, in primo luogo riguardante la formazione  dell’originario nucleo insediativo con quel nome[7] che solo in una fase posteriore si estenderà come etnonimo a tutti gli altri popoli  (che per questo saranno chiamati Marsi), e in secondo luogo riguardante la lenta espansione verso le zone limitrofe dell’influenza, del dominio e quindi del nome[8]  di un originariamente piccolo e forse oscuro centro della parte sudorientale dell’alveo del Fucino che, per motivi che è difficile individuare, era assurto a città egemone della subregione fucense ruotante intorno al lago, con una diramazione costituita dalla valle Roveto, protesa verso l’area volsca.  Come si sarà capito, io non seguo la teoria invasionista tradizionale degli indoeuropei in marcia vittoriosa sui loro cavalli, ma la cosiddetta Teoria della Continuità elaborata da Mario Alinei[9], la quale è basata sostanzialmente sull’idea di una diffusione ed espansione lenta e continua delle civiltà piuttosto che su quella di grandi migrazioni ed occupazioni da parte dei popoli.  Ma questo non è il luogo di parlarne, anche perché non ho la conoscenza archeologica né la competenza di un Mario Alinei su questi problemi[10].

Un’altra osservazione che mi sembra avere un notevole peso nel tentativo di dirimere la questione del significato dell’etnico Marsi, e simile all’altra dei tre Marruvio (per la natura di dato di fatto incontrovertibile) situati alle rive di uno specchio d’acqua, è la seguente: come mai non si ha un sia pur minimo sentore, dal materiale epigrafico ed archeologico proveniente dalla regione dei Marsi, di qualche tempio, sacello, recinto sacro, altare, iscrizione, ex-voto dedicati al dio Marte, divinità di per sé importante in società che vivevano in uno stato di quasi continua belligeranza, ma doppiamente importante per i Marsi che, oltre ad essere bellicosissimi, avrebbero portato impresso nel loro etnico il segno indelebile e per di più riconoscibilissimo da tutti, anche dagli analfabeti (che allora dovevano essere i più), di una evidentissima parentela, sancita dal loro nome, col dio della guerra?  Anche in questo caso la risposta, a mio avviso, non può essere che questa: Marte non era probabilmente il loro dio della guerra, nonostante il Marte degli Umbri a Nord e il Mamerte degli Osci a Sud[11]. Forse ne aveva assunto le funzioni Ercole, dio marziale per eccellenza, col suo diffusissimo culto panitalico, soprattutto tra le popolazioni dell’Appennino Centrale, con le sue iscrizioni e con i suoi numerosi e minuscoli bronzetti, spesso rinvenuti anche nelle campagne del mio paese di Aielli e di altri della Marsica, dove è attestato il culto di svariate altre divinità.

Ma l’argomento principale a favore dei sostenitori della presenza, nell’etnonimo marso, del nome del dio Marte è costituito da un’iscrizione in lamina bronzea detta di Caso Cantovio, dal nome del comandante morto in battaglia, facente parte di un cinturone militare offerto alla dea Angizia dai commilitoni rimasti in vita.  La lamina, trovata entro l’alveo del Fucino, è del III sec. a.C. ed è scritta in marso-latino. Vi compare per la prima volta l’etnico Martses unito come aggettivo al termine l[ecio]nibus (lat. legionibus). Esso, secondo gli studiosi, equivarrebbe al lat. Marti-is (abl. plurale  dell’agg. Martius ‘di Marte, appartenente a Marte’) e quindi l’espressione indicherebbe certamente le legioni marse ma nel contempo evidenzierebbe lo stretto legame etimologico del nome con quello del lat. Mart-e(m) ‘Marte’.   Ora, tutto sembrerebbe giocare a favore degli studiosi e tutte le porte sembrerebbero chiudersi alla tesi che vado sostenendo.  Ma la realtà è spesso molto più complessa o più semplice (dipende dai punti di vista) di quanto si creda e, soprattutto quando si sostiene una tesi ragionevole[12], essa può riuscire perlomeno a far tentennare paurosamente quelle porte chiuse.  Il fatto è che, soprattutto trattandosi di iscrizione marso-latina in cui appaiono tratti caratteristici della lingua marsa (di cui per la verità conosciamo ben poco), mi è stato possibile riscontrare nella forma Martses un tratto peculiare della lingua marsa, tratto che persiste tuttora nei dialetti (nonostante il loro attuale annacquamento) e che mi dà la possibilità di rimettere le cose al loro posto.  Ricordo che da ragazzo, quando avevo già iniziato le elementari, le prime volte che mi arrivò alle orecchie il nome della Marsica (o, meglio, che feci attenzione a quel nome) lo sentivo pronunciare, e lo pronunciavo poi io stesso, come Marzëca, e se avessi dovuto scriverlo l’avrei scritto in quel modo, con la –z- (affricata sorda), non conoscendo del resto ancora la corrispondente forma corretta italiana.  Questo è un tratto non solo caratteristico del dialetto marsicano e di molti altri dialetti centro-meridionali come li conosciamo adesso, ma  rimonta addirittura all’epoca stessa della nostra iscrizione: già da allora i gruppi ns, ls, rs vedono trasformare la sibilante –s in affricata ts (scritta a volte z)[13]. Da noi una parola come pensiero viene pronunciata come penziero, l’orso diventa j’urzë, ecc.  Pertanto il digrafo –ts- nella parola Martses dell’iscrizione suddetta, si appalesa a mio avviso come semplice espediente per scrivere, con pronuncia dialettale, la parola latina Marsla quale, comunque, doveva avere una base di riscontro anche nella più accorta tradizione marsa, nell’ambito della quale si doveva essere già consapevoli dei, diciamo così, difetti di pronuncia delle parole, rispetto a quella tradizione, da parte dei Marsi.   In altri termini se i Romani stessi scrissero Marsi non lo fecero di certo per avvicinarsi alla pronuncia locale del nome ma solo per mantenere la pronuncia della forma ufficiale e tradizionale di quel nome.  Se fossero stati certi che la pronuncia corrente marsa proveniva in realtà da una forma ufficiale in dentale sorda –t-  non avrebbero trovato difficoltà alcuna nell’usare, al posto di Marsi, la forma Martii tanto più che essa si inseriva alla perfezione nel sistema e nel lessico della lingua latina.  Del resto una prova di quanto sto dicendo è data dallo stesso termine Angitia, nome ufficiale sia marso che latino, della nota divinità ma anche del municipio corrispondente, il quale veniva indicato però anche con una forma più o meno dialettale, Anxa, derivata dall’altra, stando alle conclusioni degli archeologi.  Ci sono diversi altri casi che dimostrano la meticolosità linguistica dei Romani: nella cosiddetta Tavola Bantina, il nome della città lucana a loro nota nella forma originaria Bantia  compare più volte nella forma locale in sibilante Bansa, oggi Banzi, in provincia di Potenza.  E’ inutile elencare altri casi simili.

Ora, superati i precedenti ostacoli, ne resta ancora un altro che riguarda l’origine e la fondazione di Marruvium, città che sembra essere nata ex novo dopo la Guerra Sociale (90-88 a. C.).  Scavi condotti non molti anni fa dalla Soprintendenza Archeologica d’Abruzzo avrebbero attestato, senza ombra di dubbio (a detta di qualcuno), che non esistono indizi o resti di vicus precedente alla Marruvio storica. Ma come sarebbe possibile ciò se si ha qualche iscrizione in dialetto marso proveniente dalla Marruvio del III-II sec. a.C.[14]? Si tratterebbe di iscrizioni che attestano solo l’esistenza di un santuario degli dei Novensides? Se fosse comunque vero, sarebbe  un bel problema, perché potrebbe ridare ossigeno a coloro che sostengono che l’etnico Marsi, la cui esistenza era attestata già da qualche secolo prima, era precedente, quindi, alla nascita della città, e che solo in onore del nomen Marsum (stirpe marsa) l’appellativo di Marsi  si sarebbe affiancato all’altro, cioè a Marruvium: di conseguenza gli etimi dei due termini sarebbero diversi non potendosi essi considerare come due varianti tautologiche provenienti da una stessa radice.  Ma il fatto che nell’uso epigrafico il termine Marsi poteva essere impiegato da solo per indicare, senza incertezze, la città di Marruvium, esclude secondo me l’ipotesi di un uso estensivo, per designare la nuova città, dell’etnico Marsi già esistente: sarà stato proprio quest’ultimo, al contrario, ad essersi originato dalla stessa radice mar-  di Marruvium, come ho più sopra sostenuto.  Ma, a questo punto, bisogna trovare una patente di maggiore antichità, rispetto a quella della Guerra Sociale, al nome di Marsi Marruvium, altrimenti tutte le mie tesi rischiano di diventare insostenibili. 

Gli eventi, le circostanze, la tradizione di cui mi accingo a parlare sono immersi abbondantemente nella preistoria e perciò non possiamo sperare sempre, per essi, in una interpretazione sicuramente e scientificamente valida; comunque bisogna sprofondare in essa se si vuole trovare una qualche spiegazione per il nome della nostra città, perché è quasi sempre in epoche lontane e lontanissime della preistoria che tali nomi si sono originati.  E con tutta sincerità non possiamo credere che nomi come quelli di cui stiamo parlando possano svelare la loro natura se rimaniamo sul piano recente della Storia.

Conosciamo i versi con cui Virgilio (70 a.C.- 15 d.C.), che praticamente nasceva quando la Marruvium successiva alla Guerra Sociale era appena sorta, presenta gli inviati marsi alla guerra combattuta, secondo il mito, dai popoli italici contro il troiano Enea in appoggio di Turno, re dei Rutuli (Aen. VII, 752 ss.): 

                                  Quin et Marrubia venit de gente sacerdos

Fronde super galeam, et felici comptus oliva

                                       Archippi regis missu, fortissimus Umbro,

Trad.:‘E anche dalla gente Marrubia venne un sacerdote/ con l’elmo ornato di una ghirlanda di fecondo ulivo/ inviato dal re Archippo, il fortissimo Umbrone’.   Il passo continua narrando della morte del fortissimo Umbrone, incantatore e guaritore dai morsi di serpenti, che non riuscì però a curare la ferita infertagli dalla spada dardania, nonostante le erbe medicamentose raccolte sui monti della Marsica.  Sicchè fu pianto dal bosco della dea Angizia e dal Fucino. Insomma, nel giro di non molti versi, Virgilio riesce a toccare quasi tutti i punti salienti del territorio, della religione e della tradizione marsa, compresa la fama di combattività di questo popolo, rappresentato qui dal fortissimo Umbrone.

Nei tre versi sopra riportati notiamo che un re di questa città si chiamava Archippo.  Con questo a me sembra che Virgilio, che ripeteva sostanzialmente leggende locali, metta in stretta relazione la storia di Marruvium con quella relativa ad altro insediamento, certamente molto più antico, situato, come tutti noi marsicani che ci occupiamo di queste cose (ma del resto anche gli altri) sappiamo, nella zona, presso Ortucchio, chiamata attualmente Arciprete. In essa, secondo una tradizione locale raccolta dai nostri storici del passato, si trovava la città di Archippe, in corrispondenza di un’ansa abbastanza ampia, a malapena lambita dalle acque del lago nei periodi di massima escrescenza[15], formata dal monte che segnava i limiti sudorientali della stretta fascia perilacustre del Fucino[16], fra i paesi di Ortucchio e Trasacco. Nell’area si trovano resti di manufatti e di insediamenti antichi tali che indussero l’archeologo Giuseppe Grossi a sistemarvi la città di Anxa, che tutti cercavamo[17] e nessuno evidentemente trovava, giacchè poi si è capito che essa costituiva, guarda caso, il secondo nome locale della più nota Angitia, che si trovava però presso Luco, nella parte occidentale del Lago[18]. Questo è un bell’esempio della complessità e imprevedibilità delle ricerche di questo tipo, e dell’umiltà che bisogna avere nell’affrontarle. Il problema principale, a mio avviso, è costituito dal fatto che noi siamo tendenzialmente portati a proiettare su uno stesso piano di quasi contemporaneità, eventi e soprattutto nomi che si sono invece lentamente dipanati e distribuiti lungo un arco di tempo veramente amplissimo, anche di decine di migliaia di anni, che può raggiungere anche il Paleolitico.  Questi nomi in genere noi ora li vediamo a contatto di gomito o saldati insieme nella toponomastica della zona (cosa che ci fa automaticamente ma ingannevolmente pensare ad una loro effettiva contemporaneità) oppure li incontriamo nelle saghe e nei miti tramandatici dalla tradizione orale o scritta.

La stretta connesione tra Marruvium e la zona di Arciprete viene ribadita, a mio avviso, anche dal brano di Plinio[19] che recita: «… Gellianus auctor est lacu Fucino haustum Marsorum oppidum Archippe conditum a Marsya duce Lydorum…».  Trad.:‘Gelliano (evidentemente Gneo Gellio, n.d.t.) ci attesta che la città marsa di Archippe, fondata da Marsia capo dei Lidi, fu inghiottita dal lago del Fucino’.  Qui non si parla espressamente di Marruvium o della gente marrubia, come nel testo virgiliano, ma il trait d’union tra le due località è costituito dal fatto che Virgilio aveva parlato di Archippo (una evidente derivazione da Archippe) come re di quella gente.  Inoltre nel brano di Plinio appare il nome di questo fantomatico re dei Lidi, Marsya[20], il quale non può intendersi altrimenti, a mio avviso, che come toponimo riferito proprio all’ansa, la rientranza (difficilmente invasa dalle acque) di cui abbiamo parlato.  E potrebbe essere proprio questo microtoponimo l’origine prima di quello di Marsi che doveva indicare uno degli insediamenti vetustissimi succedutisi in quel luogo e che poi rispuntò improvvisamente (?) per la Marruvium storica post-guerra sociale, quando esso era però già diventato, in fasi successive, prima l’etnonimo degli abitanti di quell’insediamento di Arciprete e poi l’etnonimo dell’intera nazione marsa.  Sinceramente io non credo che questo nome antichissimo di Marsi < Marsya  sia potuto spuntare come fungo al sole dopo la pioggia.  Come esso sia potuto sopravvivere, dall’origine nella lontana preistoria, non credo si possa spiegare allo stato attuale della ricerca, ma che esso sia effettivamente sopravvissuto, almeno dal mio punto di vista, non può essere messo in dubbio.  Un oscurissimo e minuscolissimo vicus, magari finito col ritrovarsi nelle vicinanze del luogo dove sorgerà la futura Marruvium (perché spessissimo la sede dei paesi si sposta nel corso dei secoli, per i motivi più vari), potrebbe aver conservato intatto il nome di un insediamento, ad esempio, che aveva superato millenni di crescita ed espansione, per poi ridursi a poco.  L’ipotesi che esso fosse in realtà un toponimo del sito dove si impiantò, nel I sec. a.C., la città di Marruvium, non è accettabile, per il semplice motivo che l’etnico Marsi è attestato almeno dalla fine del IV sec. a.C. e un semplice e oscuro toponimo, senza una storia a sostenerlo, non avrebbe potuto generare l’etnico Marsi riguardante l’intera nazione. Pertanto che Marruvium sia nato subito dopo la guerra sociale resta tutto da confermare, a mio avviso. 

Si sente talora dire che questi racconti mitici locali siano stati abbelliti o addirittura confezionati ex novo dai Romani che avevano tutto l’interesse ad ingraziarsi le popolazioni marse da poco conquistate inserendone la mitologia in quella degli stessi Romani.  La mia convinzione, invece, è che essi al massimo diedero una veste erudita alle leggende che perduravano tra i Marsi da tempi immemorabili.  Forte della mia ricerca linguistica che perdura da molti anni,  modestamente sento di poter affermare che nel brano di Plinio sopra citato, nulla, in specie i vari nomi propri, è minimamente pletorico, abbellito, o inventato, nel senso che c’è sempre dietro di essi una valida motivazione, in genere di valore toponomastico. 

La saga della città di Archippe ingoiata dal lago trova rispondenza nel fatto che effettivamente esisteva nelle vicinanze, a metà strada tra la zona di Arciprete e  il paese di Ortucchio, e a diretto contatto con la riva del lago, un villaggio eneolitico che fu sommerso dal Fucino intorno al IX sec. a. C., come sostenuto da G. Grossi il quale, insieme al Letta, è propenso a credere che si tratti proprio dell’ Archippe della tradizione.[21]Io suppongo che, ammesso che  il nome di questo villaggio preistorico fosse Archippe, esso comunque doveva trarre origine sempre dalla  zona di Arciprete, da cui si era, diciamo così, trasferito in un periodo in cui le acque del lago si erano ritirate notevolmente, periodo che va  dall’Eneolitico (V millennio a.C.) al Bronzo finale (II millennio a. C). Come si vede, non mancano i motivi per cui un insediamento è costretto a spostarsi, naturalmente nei tempi lunghi della storia dell’uomo dinanzi a cui la nostra breve esistenza si annulla. Per quanto riguarda il nome Marsya abbiamo già detto del suo legame con il probabile insediamento d’origine di Marruvium, ma mette conto soffermarsi ancora un po’ sul suo etimo.  A me pare perlomeno sostenibile che il termine condivida la radice con l’arabo marsa ‘approdo, insenatura, baia’. Naturalmente non bisogna credere che esso sia stato portato qui bello e confezionato dagli arabi, visto che la sua origine va a  perdersi nella preistoria: si tratta semplicemente di una radice, con un significato generico iniziale di ‘cavità’ che, nella notte dei tempi della storia delle lingue, ha preso questa o quell’altra strada arrivando così fino a noi.  Ma non avevamo affermato, all’inizio, che la radice mar- significava ‘lago, mare,’?  Certamente sì, ma avevamo anche precisato che dietro questi concetti si nasconde anche quello di “cavità”, e un’ansa nel monte rientra in questa categoria, per cui non vale nemmeno la pena di stare a precisare se il termine marsa valesse inizialmente ‘mare, lago’ o ‘cavità, rientranza’ oppure ‘porto, approdo’.  Molti sono i toponimi, ad esempio, che rispondono al nome di Lago ma che non hanno mai indicato uno specchio d’acqua, bensì solo una conca, un avvallamento, ecc.  Persino la specificazione di Marsia come re dei Lidi[22]può trovare spiegazione nel nome del paese di Lecce nei Marsi (non molto lontano dalla zona ) che, nell’Elenco dei sussidi caritativi conservato nell’Archivio della diocesi dei Marsi ad Avezzano, compare scritto nella forma Litio[23], cosa che potrebbe riportarne l’origine remota all’ansa di Arciprete, indicata con altra radice, nascosta sotto l’etimo di Lidio.  A me pare di poterla individuare nella radice –let di ingl. in-let ‘insenatura, rada’, scozzese lithe ‘luogo riparato, rifugio’[24], ingl. lead ‘guidare, condurre’, a. ingl. lith-an ‘andare’, a. a. ted. līd-an ‘andare, passare’, ecc. Il concetto di “insenatura” equivarrebbe quindi all’idea di “passaggio” come avviene per il lat. port-u(m)’porto’ e lat. port-a(m) ‘porta’.  Il toponimo sarà diventato in dialetto Leccë, e non il prevedibile Lezzë, per incrocio con it. leccio ‘tipo di quercia’, dial. leccë (cfr. lat. ilex, ilicis ‘leccio’).

Così stando le cose, anche il toponimo Arciprete non può che indicare sempre la stessa realtà geomorfica della rientranza della parete del monte[25].  Il medievale Archi-petra (archi di pietra?) mi sembra una ricostruzione dotta del volgare Arciprete suggerita dal fatto che in dialetto prètë (anche prèta) equivale a ‘pietra’. Io invece preferisco segmentare la voce dialettale Arciprete in Arcip-rete, prendendo peraltro due piccioni con una fava[26]: la prima parte fa rinascere infatti, se qualcuno se ne fosse dimenticato, il nome della città di Archippe mentre la seconda parte –rete si configura come variante di Rat-ino, il nome di una valletta più piccola adiacente a quella di Arciprete, dove c’era nel medioevo (ne esitono tuttora i ruderi) una chiesetta nota come San Rufino in Rat-inoSalta agli occhi, stando a quello che abbiamo detto, la coincidenza di questa radice con l’it. rada, ted.Reede ‘rada’, ingl. roads ‘rada’ col quale siamo tornati al significato di movimento e passaggio di ingl. road ‘strada’ e ingl. ride ‘ cavalcare, andare in bicicletta, in macchina, ecc.’. A questo punto, in conseguenza della legge tautologica della composizione delle parole di cui vado parlando nei miei articoli da parecchio tempo, anche la prima costituente Arcip- deve avere lo stesso significato della seconda –rete, cioè ‘rada, ansa, ecc.’.  Essa infatti mi pare un ampliamento di lat. arc-u(m) ‘arco’, lat. arc-a(m) ‘arca, cassa, cella’, gr. árkos‘riparo, difesa’, tutti significati che ruotano intorno a quello di ‘cavità’.  L’ampliamento in –ip(p), inizialmente una vera  e propria costituente della parola come l’altra, pare simile a quello che si ha, a mio avviso, nel gr. mars-ípi-on, mars-ípp-on, mars-ýpp-on ’borsa,sacco’(una cavità,dunque) e nel lat. mars-upi-um ‘borsa, sacco’ il quale ultimo assuona fortemente con la forma *Mars-uvi-um che abbiamo supposta all’origine di quella di Marr-uvi-um.  E così il cerchio  si chiude con buone possibilità — almeno si spera— di aver colpito nel segno per l’etimo di Marsi Marruvium, cosa che comporta anche una conferma della Teoria della Continuità. Ma una voce fuori campo (chi sarà mai!) mi percuote gli orecchi: Look who’s talking! (Senti chi parla!).

A proposito del toponimo Arciprete summenzionato faccio notare che oggi 29 maggio 2020, ho letto di un Fusse d’Arceprète ‘Fosso d’Arciprete’ (le /e/ non accentate sono mute) in quel di Opi-Aq.  Un “fosso” è appunto una cavità  o rientranza nel terreno. 

 

                                                                 Forti Fortunae deae

                                                                       gratias ago

 

Trad.: ‘Ringrazio la dea Fortuna’. Come si vede, anche questo teonimo era formato da due appellativi affiancati corradicali Fors Fortuna, come nel caso di Marsi Marruvium. Il lat. fort-un-a(m) ‘fortuna’ è ampliamento infatti della radice fort- del sost. lat. for-s, fort-is ‘caso, fortuna’ da distinguere da quella dell’agg. lat. fort-is,e ‘forte, robusto, vigoroso’.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Anche altri popoli, del resto, come i vicini ed affini Sanniti, ad esempio, erano noti per spirito combattivo e resistenza.

 

[2] Appiano (95 circa- 195 circa d. C.), scrittore egiziano, visse a Roma solo per brevi periodi. Scrisse una Storia Romana giunta a noi lacunosa.Da essa provengono le espressioni che orgogliosamente ogni marsicano ripete in italiano, magari mutndone le parole, e che in latino suonano così: Est enim haec gens pugnacissima.  Ferunt numquam alias de his triumphum visum. Nam ad id temporis nec sine Marsis, nec de Marsis triumphus fuerat.Trad.: ‘Questo popolo fu bellicosissimo.  Non si ha notizia, del resto, di un trionfo riportato su di esso.  In effetti, fino al tempo di cui ci stiamo occupando (quello della guerra sociale, n.d.t.), non si era mai celebrato un trionfo né sui Marsi né senza l’ausilio di essi’. L’autore vuole sottolineare il fatto che tutti i trionfi  celebrati prima della data suddetta da parte di Roma erano stati possibili grazie anche alla presenza di truppe marse nell’esercito romano.   Il trionfo (sfilata solenne dell’esercito fino al tempio di Giove in Campidoglio) a Roma veniva  concesso al generale vincitore in caso di una importante vittoria  sul nemico che era stato magari completamente sbaragliato e costretto ad una resa incondizionata.

 

[3] Cfr. C. Letta- S. D’Amato, Epigrafia della regione dei Marsi,Cisalpino-Goliardica, Milano 1975, p. 247, 291, 308.

 

[4]Cesare Letta, dell’università di Pisa, è invece del parere che le forme «Marsi Antinum e Marsi Anxates sono solo suddivisioni amministrative successive di un’unità tribale originariamente riferita in blocco alla sola Marruvium» (cfr. Epigr. Regione dei Marsi,cit., p.308). Pesa, su questo giudizio, il convincimento che i Marsi avevano il loro nome etnico già prima di stanziarsi nella Conca del Fucino. Il Letta, studioso serio, puntuale, concreto e limpido quant’altri mai, mi pare che in questo caso pecchi di una punta d’astrattezza e sembra riflettere, a mio modestissimo avviso, solo la situazione come si era stabilizzata in epoca storica.  Perché Marruvium avrebbe avuto il diritto, all’origine, di rappresentare tutti i Marsi?  Nacque forse già come capoluogo della regione? Se il Marsi epigrafico, equivalente a Marruvium, fosse provenuto dall’etnico Marsi già riferito a tutta la nazione, perché mai quelli del municipio di Antino e di Anxa non avrebbero dovuto né potuto fregiarsi di quel solo nome, riferito alle loro rispettive città come invece succedeva per Marruvium? La spiegazione più naturale, che risolve ogni problema, a me pare essere questa: solo quando il nome Marsi, partito come toponimo, divenne prima etnico della città sorta in quel luogo e poi di tutta la nazione marsa, gli Antinati e gli Anxatini poterono aggiungere a buon diritto ai loro antichi nomi quello nuovo di Marsi, anche per sottolineare la loro appartenenza alla raggiunta unità di tutti i Marsi. 

 

[5] Marso sarebbe un figlio di Circe, mentre Marro un eroe non meglio identificato: al di là delle variopinte precisazioni leggendarie io credo che sussista la verità che questi nomi personali non erano che varianti riconducibili  al nome  del primitivo insediamento di Marruvio.

 

[6] Cfr. W. Cianciusi, Profilo di storia linguistica della Marsica, Banca Popolare della Marsica, Avezzano-Aq 1988, p. 86 s. v. Marruvium.  Vi sono riferite molte delle notizie da me riportate in questo e nel brano precedente che egli prende, a sua volta,  dal libro I Marsi di  Cesare Letta, il quale è certo che il nome dei Marsi deriva da quello del dio Marte.

 

[7] Si trattava, dunque, di un poleonimo (nome di città) di origine toponimica, come spesso avviene.

 

[8] L’espandersi di un etnico è fenomeno riscontrabile pressochè dappertutto: cfr. gli Itali dal nome di una tribù dell’attuale Calabria; gli Héllenes ‘ Elleni’ dal nome di una tribù della Tessaglia; i Greci dal nome di una tribù dell’Epiro; i Francesi  dall’etnico dei Franchi; gli Inglesi dall’etnico degli Angli; gli Svizzeri dal cantone di Schwytz; i Tedeschi (ted. Deutsche) dall’etnico dei Teutones. Essi sono chiamati Allemands dai Francesi, dall’etnico degli Alamanni.  Questi nomi riguardano grandi entità geografiche, ma allo stesso modo i nomi delle singole regioni e subregioni come quella marsicana sono dovuti a simili meccanismi di espansione da un piccolo e piccolissimo centro originario.

 

[9] Cfr. M. Alinei, Origini delle lingue d’Europa, I.La Teoria della Continuità, il Mulino, Bologna 1996.

 

[10]Anche l’archeologo G. Grossi (cfr. Aa. Vv.,Storia di Ortucchio, Ediz. Dell’Urbe, Roma 1985, pp.96-97) insiste con forza sulla nascita e sviluppo autoctono della cultura marsa, rigettando l’ipotesi di un’invasione italica dalla Sabina.

 

[11] D’altronde non si hanno attestazioni, negli antichi scrittori, del dio Marte venerato dai Marsi. Erano ben noti, invece, i soldati mercenari italici chiamati Mamertini (figli di Mamerte), in gran parte campani, che furono arruolati dal tiranno Agatocle di Siracusa e che, alla sua morte, si impadronirono della città di Messina. Vi rimasero per una ventina di anni, e  giocarono una parte importante nello scoppio della Prima Guerra Punica (264 -243 a. C).

 

[12] Con questo non voglio assolutamente accaparrarmi preventivamente e presuntuosamente la verità, ma solo rilevare che normalmente il giusto e il vero riescono, prima o poi, a venire a galla o perlomeno hanno buone possibilità di emergere appunto perché forti della loro condizione di realtà razionalmente verificabile.

 

[13] Cfr.  Aa. Vv., Popoli e Civiltà dell’Italia Antica,VI, Biblioteca di Storia Patria, Roma 1978, p. 64.

[14] Cfr. C.Letta-S. D’Amato, Epigrafia della regione dei Marsi , Cisalpino –Goliardica, Milano,1975, n.36, pp. 43 e segg. Cfr. anche Vetter, 224-5.

[15] Il Fucino, essendo un lago senza emissario, era soggetto a variazioni di livello delle acque.

 

[16] Dell’etimo di questo nome parleremo in altra occasione.

 

[17]Anch’io, modesto letterato allora armato più che altro di solo amore per il mio paese,  mi ero convinto che la introvabile città avesse dovuto occupare  uno spazio nel vasto pendio compreso tra Aielli Alto, Aielli Stazione e Cerchio.  Scrissi un articolo in proposito apparso una trentina di anni fa sulla rivista Marsica Domani

 

[18]  La questione della ubicazione di Anxa fu risolta dal Durante già nel 1978, e successivamente ripresa da Cesare Letta e dal Prosdocimi.

 

[19] Plinio, Naturalis  historia,III,108.  La notizia, ripresa successivamente dal Solino,arrivava a Plinio (I sec. d.C.) dall’annalista Gneo Gellio (II sec. a. C.) della cui opera restano solo frammenti.

 

[20] Da non confondere col più noto satiro Marsia originario della Frigia, inventore del doppio flauto, che osò sfidare Apollo in una gara musicale, rimanendo miseramente sconfitto. Per punizione fu scorticato vivo.

 

[21] Cfr.Aa.Vv., Storia di Ortucchio, cit., pp. 71-76.

 

[22] Significativamente, Il re Marsia, che inviò Megale in Sabina ad insegnare a quel popolo  l’arte  degli áuguri,  è detto frigio da parecchie fonti antiche, come il satiro dallo stesso nome, e non lidio, ragion per cui è ancora più probabile che questo appellativo provenga dal toponimo.

 

[23] Cfr. anche Andrea Di Pietro, Agglomerazioni  delle popolazioni attuali della diocesi dei Marsi,Ristampa anastatica dell’edizione del 1869, Studio Adelmo Polla, Avezzano, p.280. La forma Lecce ha messo in moto, presso i nostri storici locali dei secoli passati a cominciare da Paolo Marso (XVI sec.), la supposizione che il nome fosse di ascendenza licia, cioè di una regione dell’Asia Minore, la Licia, appunto, non lontana del resto dalla Lidia.  E’ bello fantasticare, ma è certamente molto istruttivo osservare che queste fantasticherie non sono mai completamente gratuite: esse partono sempre da una parola vera, reale, spesso ben ancorata al terreno che le ha suggerite facendo distogliere però l’attenzione da sé: questa consapevolezza  ci permette, spesso, di rintracciarla e di scoprirne, con l’aiuto dei toponimi, il vero significato d’origine una volta ripulita dalle incrostazioni e suggestioni depositate su di essa dal mito e dagli eventuali incroci con altre parole.  Si conosce anche un pittore chiamato Andrea De Litio (o Delitio, Delisio) nato – sembra- a Lecce nei Marsi, e uno dei maggiori esponenti dell’arte del Quattrocento italiano nel centromeridione.  Meraviglia il fatto che, tra le svariate etimologie proposte per questo nome, nessuna, che io sappia, accenna a questa forma Litio che, come lectio difficilior, potrebbe essere quella giusta.  Tutti si lasciano ingannare dal suono del nome della Lecce attuale e al massimo presuppongono una base in gutturale sorda lec-, leuc-e simili.

 

[24] Andrea Di Pietro (in Agglom., cit., p.273) dice espressamente, parlando della zona di Arciprete, che «era il luogo sicuro, dove in caso di ostilità che potevano aversi in Marruvio, si mettevano in salvo gli antichissimi Re Marsi».  E così anche il Di Pietro sottolinea l’idea di “rifugio, riparo” la quale probabilmente gli derivava più che dalla conformazione effettiva del luogo, da una tradizione antichissima scaturita dai significati dei nomi con cui quel luogo era stato indicato nel lontano passato.

 

[25] Di Arciprete, inteso in questo modo, avevo già parlato nella mia opera Princìpi di una nuova linguistica, Edizioni dell’Urbe, Roma 1992, p. 139.  In essa (pp.135 e ss.) avevo affrontato anche  la questione dell’etnico Marsi, inteso anche lì come originatosi da un toponimo, che però avevo creduto indicasse l’idea di “colle” (speculare a quella di “valle”) e si riferisse alla lieve altura su cui si stende almeno la parte antica dell’odierno San Benedetto dei Marsi.

 

[26] Per chi si intende di teorie questa capacità di rintracciare e collegare cose diverse dovrebbe essere un indizio dell’affidabilità del mio ragionamento, che del resto non  ha nulla di trascendentale. A proposito di “piccioni” essi potrebbero essere addirittura tre se vi aggiungiamo Reto (lat. Rhoetus, gr.Rhoîtos oppure Rhȇtos), leggendario re dei Marruvini, nominato anche da Virgilio (Aen., X, 388).