venerdì 29 giugno 2018

Isole dei Ciclopi. Genesi e sviluppo del mito.






   Le isole Ciclopi o dei Ciclopi formano un piccolo arcipelago nel mare siciliano di fronte a Catania, esattamente davanti ad Aci Trezza. Esso consiste di un isolotto, tre faraglioni e quattro scogli disposti ad arco.   La tradizione mitica vuole che essi siano le rocce e i cocuzzoli di montagna scagliati da Polifemo contro la nave di Ulisse che fuggiva, o anche il masso lanciato sempre dallo stesso Polifemo contro il pastorello Aci che amava, ricambiato, la ninfa Galatea di cui anche il Ciclope era perdutamente innamorato. Una volta mentre Aci la baciava in riva al mare fu visto da Polifemo che, accecato dalla gelosia, lo colpì con un grosso masso uccidendolo. Il pastorello fu trasformato nel fiume, in gran parte sotterraneo, che prese il suo nome e il masso rotolò nel mare antistante. 

     Ora, la stragrande maggioranza degli esegeti del mito dei Ciclopi e anche della gente più o meno acculturata credo pensi che esso, come molti altri, noto già ad Omero, padre della civiltà occidentale che ne parla nell’Odissea, si sia sviluppato autonomamente per motivi diversi connessi con la difficoltà e pericolosità della navigazione di quei tempi lontani e con i racconti dei naviganti tramandati di generazione in generazione, già da millenni prima del presunto ritorno di Ulisse alla sua Itaca.  E questo sarà una parte della verità, ma in fondo la meno interessante.  Perché non si è ancora capito che questi racconti, benchè possano aver avuto un nucleo originario e autonomo di verità, sono stati poi alimentati, accresciuti e moltissimo diversificati soprattutto grazie ai molti nomi di luogo (toponimi) con cui sono venuti a contatto, nel corso di millenni, passando di bocca in bocca e di parlata in parlata, e rispondenti a concetti comuni, fatti e nomi personali via via accumulatisi in quei racconti.

     Il mito dei Ciclopi, insomma, potrebbe aver avuto origini molto lontane già rispetto alla narrazione di Omero (IX - VIII sec. a.C.) e non essere nato in Sicilia, alle falde dell’Etna, come molti pensano, ma altrove nel Mediterraneo; io sono però convinto che nella zona antistante Catania esso si incontrò col toponimo preesistente di Ciclope o Ciclopi  che probabilmente aveva però già perso il significato originario di ‘faraglione, isolotto, scoglio’ in una lingua ivi parlata in tempi precedenti, e fu naturale così collegare quei faraglioni al nome mitico dei Ciclopi proveniente da quel racconto favoloso. Che il nome di Ciclope avesse avuto quel significato di ‘pietra, scoglio, faraglione’, almeno per un certo periodo di tempo, accanto ad altri significati supponibili nella lunga teoria di anni e lingue attraversate, è a mio parere chiaramente mostrato nell’articolo del mio blog intitolato I Ciclopi e il concetto di rotondità del 28/6/2009, articolo collegato con l’altro della stessa data e intitolato Le categorie aristoteliche ostacolano la comprensione [].  Purtroppo, gentile lettore, è necessario armarsi di pazienza e leggerli questi articoli se si vuole eliminare almeno una gran parte dei dubbi relativi a queste mie asserzioni.
   Che il termine ciclope, nel suo probabile significato di ‘rupe, roccia’, non fosse limitato a zone a contatto col mare è secondo me dimostrato dal toponimo Scoglio dei Ciclopi nel monte Cimo in Val d’Adige: una parete fortemente a strapiombo. L’altro toponimo Vajo del Ciclope nel Veneto si riferisce ad un canalone (vajo) fortemente incassato del monte Campo d’Avanti.  Il concetto di “canalone” rientra in quello di “rotondità” ben analizzato negli articoli ricordati.

   Nella descrizione del ciclope Polifemo da parte di  Omero (Od. IX, vv. 187-192) ricorre due volte l’agg. pelṓri-os il cui significato in greco ruotava intorno al concetto di ‘enorme, gigantesco, spropositato, orrendo, mostruoso’, tutte qualità che la tradizione, quasi sicuramente anche prima di Omero, aveva addossato a questo mitico personaggio e ai suoi simili, che erano pastori e vivevano isolati, come cocuzzoli di monti selvosi separati gli uni dagli altri: è questa l’espressione, da me messa al plurale, usata da Omero.  Allora come non pensare ai faraglioni di Aci Trezza o di qualche altra località raggruppati insieme, ma allo stesso tempo svettanti isolatamente l’uno dall’altro? E per l’aggettivo pelṓri-os  come non pensare al Capo Peloro (gr. Pelōrís), la punta estrema nord-orientale della Sicilia che era un promontorio pericoloso per la presenza di forti correnti marine provocate dall’incontro delle acque del Tirreno con quelle dello Ionio? Allo stesso tempo il nome includeva appunto il concetto di “punta” somigliantissimo a quello di “cocuzzolo, vetta, cima” adatto ad indicare giganti. Ecco, dunque, come a mano a mano si plasmò la figura dei Ciclopi: l’apporto dei toponimi risulta fondamentale nella definizione della loro  figura e della loro natura.  Toponimi, ma che all’origine erano stati nomi comuni con chiari significati.  In fondo è la lingua stessa, attraverso molti millenni, che alimenta questi racconti favolosi, qualunque sia stato il motivo originario che diede loro l’avvio.  L’unico occhio rotondo sulla fronte di questi mostruosi giganti è infatti la traduzione in caratteri fisionomici dell’ingannevole  significato letterale  del termine stesso che li indica, kýkl-ōps, il cui primo membro vale ‘cerchio, giro’ mentre il secondo vale ‘occhio, viso’.  Ma c’è da sottolineare che in greco il termine, a parte la sua designazione di questi giganti mitologici, valeva anche semplicemente ‘rotondo, circolare’ senza alcun riferimento all’occhio.  E questo la dice lunga sulla tendenza dell’uomo a interpretare a suo modo le parole che usa. L’etimologia d’altronde è un bisogno connaturato all’uomo, giacchè il linguaggio che egli inventò all’origine era formato da parole che avevano tutte un significato, sia pure generico, e pertanto, quando egli si trova dinanzi a parole oscure, istintivamente va alla ricerca di quella loro chiarezza originaria.

    Il concetto di “rotondità” dietro cui poteva nascondersi quello di “ altura, monte, cocuzzolo, ecc.” mi ha fatto fare un’altra riflessione che prima non mi era balenata nella mente.  Come quasi tutti sappiamo dalla geografia, in Grecia esistono gli arcipelaghi delle isole Sporadi e quello delle Cicladi, le quali ultime avrebbero avuto questo nome perché disposte in circolo rispetto all’isola di Delo, che in realtà non si trova più o meno in mezzo ad esse ma molto decentrata, vicino a Micono (dove sono stato!), quasi sul bordo nord-orientale di questo affollatissimo gruppo di circa 220 isole. Essendo così numerose esse formano un ammasso, per forza di cose, più o meno rotondeggiante.  Ma quello che più di ogni altra considerazione (oltre a quella relativa alle isole dei Ciclopi) mi impedisce di credere alla bontà del significato apparente di gr. Kýkl-ades, termine che indica le suddette isole  ma che è anche aggettivo significante precisamente ‘che sta disposto in circolo, circolare’, è l’esistenza nel mar Ionio di due isolette con qualche scoglio note già nell’antichità col nome di Stróph-ades (perché qui sarebbe sbarcato Enea in cerca della  nuova patria dopo la distruzione di Troia, secondo l’Eneide, e qui abitavano le famose arpie[1], uccelli mostruosi e sozzi), termine che, con altra radice, esprime lo stesso significato apparente di Kýkl-ades, cioè ‘disposte in circolo, circolari’.  Solo che qui il significato risulta inappropriato, trattandosi di due isolette che non potevano formare un circolo.
   
   Date le osservazioni precedenti, questi nomi dovevano avere originariamente, a mio parere, il significato di ‘isola’ o ‘isole’ nel senso di ‘arcipelago’.  Però c’è un’altra difficoltà da superare. A nord-ovest e a sud-ovest delle Cicladi ci sono le Spor-ad-es (Sporadi) settentrionali e le Spor-ad-es  meridionali il cui nome, sempre secondo la lingua greca, significa ‘sparse’, inteso come isole sparse  rispetto a quelle disposte in circolo.  Ma in realtà queste isole sparse non sono tra loro più distanti di quelle delle Cicladi, pur non formando figure circolari perché molto inferiori di numero.  Ora, siccome le Cicladi si trovano in mezzo, tra le Sporadi settentrionali e le meridionali, è possibile pensare, ad esempio, che agli inizi remotissimi tutte le isole dell’Egeo venissero indicate con un unico nome, quello di Sporadi, ma nel significato di ‘isole’ prima che prendesse piede nella lingua il termine nsos per ‘isola’.  Nel frattempo forse arrivò altro termine per ‘isole’ che suonava kýkl-ad-es il quale naturalmente premeva, col passare del tempo, per una sua giustificazione basata sul significato che esso aveva nel frattempo assunto nel greco storico. Così, una volta circoscritte le isole Cicladi, restavano sono gli scampoli a nord e a sud delle isole che continuarono a chiamarsi Sporadi, ma non più col significato di ‘isole’ ma di ‘(isole) sparse’.   Infatti è possibile sostenere che la radice di speír-ein ‘spargere, seminare, spruzzare’ possa essere legata a quella di ingl, spur ‘sperone’, ted. Sporn ‘sperone’ e riferirsi a qualcosa che sporge, aggetta, come in fondo avviene per l’isola che, a mio modo di vedere, sporge, si eleva dal mare.

   Da ultimo vale anche la pena notare che tutti questi nomi di isole, Cicl-adi, Spor-adi, Strof-adi terminano col suffisso –adi come nelle isole Eg-adi di cui ho parlato nel precedente articolo, in cui ho visto il turco ada ‘isola’ nella componente finale -adi.

  Alcuni giorni dopo aver scritto il precedente articolo per caso ho aperto il dizionario greco-italiano e italiano-greco pubblicato dalla Casa editrice Polaris nel 1992. Si tratta di un dizionario che mette insieme il Dizionario manuale italiano-greco di F. Brunetti, pubblicato a Torino nel 1881, e il Vocabolario greco-italiano di K. Schenkl pubblicato a Torino nel 1877.  Ebbene, andando a leggere sotto il lemma Isola dizionario italiano-greco ho trovato il bell’esempio di nsōn kýklos ‘gruppo d’isole’.  Ecco la dimostrazione che il greco kýklos  poteva significare anche un ammasso o gruppo, non meglio definito e non  necessariamente circolare, di isole in questo caso, come avevo supposto sopra.  La realtà della lingua è questa: la parola in questione sicuramente non uscì dalla bocca dell’uomo preistorico col significato di ‘cerchio’, il quale ci inganna pertanto senza pietà producendo un’autocertificazione basata sul greco o altre lingue recenti, fosse pure l’indoeuropeo ricostruito, e non dicendoci quasi nulla sulla sua mobilità estrema, di argento vivo, circa il suo significato visto in diacronia e diatopia. Allora è assai probabile che la stessa cosa sia avvenuta per le isole Stroph-ad-es che contengono nel fondo lo stesso significato di ‘circolo, giro’ (come del resto nel sostantivo corradicale sy-stroph- ‘contorcimento’ ma anche ‘raduno, schiera, gruppo, massa, folla’) e per le isole Spor-adi  che richiamano probabilissimamente anche gr. speĩra ’spira, ogni cosa che si avvolge su sé stessa’ ma anche ‘manipolo, schiera, coorte’ significati adatti ad esprimere la nozione di ‘gruppo di isole, arcipelago’.  Ora in effetti mi rendo conto che la nozione di ‘sparse’ per le isole è alquanto banale, essendo esse naturalmente sempre più o meno separate tra loro.  In verità in questo dizionario della Polaris compare, sebbene riferito solo dai grammatici,  uno speír-ein ‘ripiegare, contorcere’ diverso da quello che significa ‘spargere, seminare, spruzzare’ più sopra citato, e molto simile, per il significato, al gr. kýkl-os ‘circolo, gruppo’ o alla radice di Strof-adi. In verità noi non ci rendiamo ben conto, collocando istintivamente le parole di una lingua tutte grosso modo su uno stesso  piano sincronico, della grande profondità in cui esse andrebbero invece sistemate a livelli diacronici diversi, perché esse sono resti di stadi linguistici del passato non esattamente combacianti con quello in cui esse alla fine  appaiono. Per cui, soprattutto nei toponimi, il loro significato è diverso, di poco o di molto, da quello che esprimono in superficie secondo il sistema linguistico, diciamo così, ultimo arrivato.

   A questo punto comincio a sospettare che anche il termine letterario stroph- ‘strofe’ che generalmente viene spiegato facendo riferimento ai canti del Coro della tragedia che girava cantando, appunto, intorno all’altare di Dioniso nell’orchestra, cambiando direzione alla fine di ogni strofe, non doveva significare altro, all’origine, che gruppo di versi. Anche in altre forme di poesia, non meno antica probabilmente di quella drammatica, come la variegata poesia lirica, ricorrevano gruppi di versi con quel nome, come il ben noto distico elegiaco. Un gruppo di due versi è già una strofe, la strofe dell’elegia, appunto.  Poi il termine dové passare ad indicare la danza stessa circolare e il gruppo di versi cantati dal Coro, come voleva del resto il significato evidente della parola. 
  




[1] Il nome di una delle due isole è proprio Arpia, nome che si sarà incrociato con quello degli uccelli, alimentando il mito. Nel mio dialetto di Aielli la voce arpéa era riferita ad una sorta di aquilotto. 




martedì 26 giugno 2018

Isole Egadi




Arcipelago formato da tre isole più importanti, Favignana, Levanzo e Marettimo, oltre a qualche scoglio più o meno grande, al largo della costa occidentale della Sicilia tra Marsala e Trapani.  
 
   Nell’isola di Favignana, nota nell’antichità greco-romana come Aeg-usa e interpretata come ‘isola delle capre’, si trova un toponimo illuminante circa la formazione dei nomi di luogo.  Come ho sempre sottolineato nei miei scritti linguistici bisogna tener presente che i toponimi sono antichissimi, generalmente preistorici, risalenti a decine di migliaia di anni fa. Naturalmente essi si sono spessissimo incrociati con parole simili di comunità e lingue succedutesi nel tempo nei paraggi e, quindi, assumono spesso significati disparatissimi che non rispondono affatto alla conformazione geografica che presumibilmente essi indicavano agli inizi. Voglio dire che un toponimo, ad esempio, relativo ad un colle, monte, altura molto probabilmente aveva originariamente proprio quel significato di ‘monte, colle, altura’ e non quello che risulta attualmente dal valore più vario.

   Ora, l’isola di Favignana è formata da una dorsale montuosa la cui vetta più alta è chiamata Monte Santa Caterina, dove fu costruito in epoca normanna un carcere noto appunto come carcere di Santa Caterina.  Come si spiega questo nome di Santa, spuntato non si sa come, che dovrebbe rispondere a quello di una delle diverse Sante che lo portano? Una soluzione razionale del problema c’è, dato che l’isola era nota ai Fenici col nome di Kàtria: esso è quasi uguale al Càtera, una delle tante  abbreviazioni  del nome Caterina, come Cata, Cate, Catta[1], ecc. Si aggiunga il fatto che la stessa nozione di “isola” è secondo me scaturita originariamente da quella di “altura, monte, colle” (rispetto al piano del mare circostante) e allora si intuisce la probabilissima genesi di questo nome di Santa Caterina.  E’ il caso di ricordare che anche il termine san, santo (come ho spiegato altrove) poteva avere in toponomastica il significato di ‘monte’ e che Catria è un altro famoso monte dell’appennino umbro-marchigiano  di cui parla anche Dante (Paradiso, c.XXI, v. 109-111), cosa che ci fa sospettare che originariamente il termine era un nome comune per ‘monte’.

    Visto che stiamo parlando delle Isole Egadi (lat. Aeg-at-es) e che la spiegazione etimologica che se ne dà fa ricorso al gr. aik-s, gen. aig-ós ‘capro, capra’ in quanto sulle isole questi animali sarebbero stati abbondanti (maledette capre, sempre pronte ad intralciare il passo della vera etimologia come in Capri, Caprera, Capraia!), è bene soffermarsi un po’ ad analizzare questo  nome.  Esso, in greco, valeva ‘grossa onda, cavalloni’ ed era variante a mio parere di gr. aik ‘impeto, slancio’.  Ora basta riflettere che un cavallone è un sollevamento d’acqua marina per capire che anche un’altura è un sollevamento del terreno che dà forma ad un colle o monte. Ma c’è un riscontro linguisticamente più persuasivo nel lat. aequ-um ‘piano, pianura’ ma, talora, anche ‘sommità (di altura)’.  Si ripete lo stesso meccanismo relativo al termine “piano” che in toponomastica e in alcuni dialetti vale anche ‘altura, salita’ e che ho ben analizzato nell’articolo del mio blog Col tempo e con la paglia[] del 24/7/2011. Ho poco fa detto che il concetto di “monte” equivale, a mio avviso, a quello di “isola” (di cui noi oggi avvertiamo però solo la caratteristica dell’isolamento e non quella di elevazione) e allora il nome dell’arcipelago delle Aeg-at-es (Egadi) doveva corrispondere a quello di “isole”.  Tanto più che a mio avviso si tratta di uno dei tanti nomi tautologici, composti cioè di membri dallo stesso significato: in turco infatti ada, corrispondente al secondo membro del lat. Aeg-at-es,  vale ‘isola’.  Ci sarebbe poi una qualche contraddizione logica tra il nome dell’arcipelago il quale farebbe riferimento alle capre che esistevano almeno in tutte le isole maggiori e il nome greco-latino Aeg-usa ‘isola delle capre’ con cui veniva indicata Favignana. Le capre, insomma, erano solo a Favignana o in tutto l’arcipelago?





[1] Cfr. E. De Felice, Dizionario dei cognomi italiani, A. Mondadori Editore, Milano 1978, sub voce Caterina.

lunedì 25 giugno 2018

Arcipelago: la parola più problematica che abbia mai incontrato.




A prima vista la parola in epigrafe appare di sapore e di forma greca, ma il bello è che essa non esiste nel greco antico; compare in quello moderno ma proveniente dall’italiano “arcipelago” (1815), il quale è la sorgente di irradiazione della parola nelle altre lingue europee.  Ed è strano che la sua più antica occorrenza nella nostra lingua non vada oltre l’inizio dell’Ottocento.  Io non credo affatto, come la vulgata dei linguisti vuole, che il termine sia il risultato di una un po’ troppo libera lettura dell’espressione greca Aigaĩon pélagos ‘mare Egeo’ trasformata in arkhi-pélagos. Il mare Egeo è pieno di isole e pertanto si sarebbe sviluppato il significato di ‘gruppo di isole, arcipelago’ benchè il significato letterale indichi solo un ‘mare (-pélagos) principale (arkhi-)’. Questo arkhi-, presente in molte parole greche, è giunto fino a noi nella forma arci- indicante superiorità, preminenza, se premesso ad un sostantivo come nel termine arci-prete oppure indicante qualità superlativa se premesso ad un aggettivo, come in arci-ricco.

   In latino il termine arcipelago non esisteva perché esso poteva essere sostituito, come avviene tuttora, forse, in diverse lingue extraeuropee, dal plurale di insula ‘isola’, cioè insulae seguito o meno dall’aggettivo indefinito nonnullae ‘alcune’ o aliquot ’alcune’ oppure dal nome proprio dell’arcipelago.    E allora come si risolve il rebus?

    E’ un fatto che moltissime parole di tipo greco sono rimaste nei dialetti, come ho mostrato in diversi articoli del mio blog.  A mio avviso qui si tratterebbe di una parola composta che ha attraversato, all’ombra di qualche oscura parlata, tutta la latinità approdando in qualche dialetto e venendo alla luce in italiano solo nel 1815, secondo il dizionario di De Mauro.   A mio parere i due membri del termine dovevano essere, nelle loro lontanissime origini, tautologici  ed indicare genericamente le ‘isole’, in quanto alture elevantisi sul mare.  Infatti la radice del primo membro doveva essere quella del lat. arc-e(m) ‘rocca, cittadella, altura’ che si riscontra in diversi toponimi come il monte Arci nel Campidano in Sardegna.  Anche il secondo membro trova riscontro nel nome di qualche altura come il monte Pelago nei pressi di Ancona e nelle Alpi  Marittime.  Oltre a ciò un’isola Arki i trova nell’Egeo vicino la più nota Patmos di fronte alla costa turca, e un’isola Pélagos, altrimenti nota come Kyra Panagía, è una delle isole Sporadi settentionali. A non parlare delle isole di Pelagosa o isole Pelagose che formano un piccolo arcipelago croato nell’Adriatico, a nord delle isole Tremiti e delle isole Pelagie tra Malta e la Tunisia. Sotto l’influenza del significato greco e latino di pelago, cioè ‘mare’, il composto finì necessariamente per significare, in un primo momento ‘mare di isole (Arkhi-) e poi ‘mare principale’ secondo i significati dei rispettivi membri del termine nella lingua greca storica.

   Ci sarebbe da dire ancora qualcosa sulla radice di  pélagos ‘mare’, ma mi fermo qui.

sabato 2 giugno 2018

Altra formula di comando rivolto ad animale da tiro


                        

Mi era sfuggita[1] la formula del dialetto di Avezzano Fé casciò!  con cui si invitava un tempo un animale da tiro a fermarsi.  Il primo elemento , con la /é / chiusa non mi pare che possa confondersi con l’altro comando Fèèèh! in uso un tempo nelle nostre parti, con la /è / aperta e, soprattutto, pronunciata enfaticamente col significato di ‘Fermati!’.  Nei nostri dialetti la /é / di it. fermo non è chiusa ma aperta. Gli autori del libro[2] da cui prendo l’espressione sono soliti marcare la differenza tra i due timbri della /e/ sicchè la locuzione nel suo insieme sembra doversi intendere come Fai casciò! e non Fermati, casciò! A Cerchio, ad esempio, la sec. pers. dell’imp. di fare è .  Ma che cosa sia quel ‘casciò’ mi è stato impossibile appurare, se non allorché ho messo insieme i due membri e dalla loro  fusione *fecasciò ho ricavato parole sensate in greco.  E già! perché in effetti Fé casciò ‘fai casciò’ non è altro che un tentativo di rietimologizzazione rimasto incompiuto, da parte del nostro cervello, di quello che gli appariva come un gruppo di suoni completamente opachi alla sua comprensione etimologica, la quale è un’esigenza profonda della sua condizione. 

    Ora, tenendo presente che l’espressione è un comando rivolto ad un animale da tiro e che nell’articolo che ho citato ricorrono due comandi rivolti ad animali formati da imperativi del verbo greco ékh-ō ‘tener saldo, avere’ e dalla sua variante ískh-ō,  ho potuto dividere l’espressione in due parti feca e sciò e vi dico subito perché.  La seconda parte è un normale sviluppo di un originario gr. skhéo, sec. pers. imp. medio dell’aoristo forte di ékhō che qui può valere ‘fermati,cessa, astieniti’; la prima parte è da considerare un sostantivo la cui radice coincide con quella di lat. vi-a(m) ‘via’< veh-a(m) dal lat. veh-ere ‘trasportare, tirare, viaggiare, (al passivo) andare  a cavallo, su carro, ecc.’. Il significato fondamentale è quello di movimento. La radice è presente in Grecia con i termini okhé-ōmuovere, portare, cavalcare, viaggiare’ e anche il verbo vékh-ō[3] ‘portare’, col digamma iniziale generalmente scomparso nei dialetti greci, che qui ho reso con la fricativa sonora /v/ latina. Il sostantivo poteva essere dunque un nome come *vékh-a, gen. *vékh-as e l’intera espressione suonare *vékhas skhéo traducibile in ’cessa il traino, il tiro’ o ‘astieniti dal traino, dal tiro’. Se qualcuno, non aduso a queste parole e pronunce, trova qualche difficoltà nel rendersi conto delle trasformazioni fonetiche, faccio notare che la pronuncia velare di skhéo passa a quella palatale di sciò come i lat. scio ‘so’ e scienti-a(m) ‘scienza’, pronunciati nel latino classico rispettivamente skio e skienti-a(m), sono ora pronunciati scio (in italiano il termine veramente non esiste ma esiste scibile)  e scienza. 

  Della bontà di queste ricostruzioni mi convince, ad esempio, il comando uì!  usato per il cavallo quando si vuole che si metta in cammino.  Io non so quale sia la spiegazione che ne danno i linguisti, ma più che al significato attuale di via! (che deriva comunque da veha ’via’) penserei  all’imperativo vehe, incrociatosi poi con via, col significato originario di ‘muoviti!, mettiti in marcia!’.  Anche L’espressione del dialetto avezzanese all’inizio doveva significare, genericamente e non rivolta solo agli animali da tiro, ‘cessa il cammino, fermati!

   Per quanto riguarda l’uso di uì! limitato al “cavallo”, bisogna convincersi che la parola, nella sua lunghissima storia, si era incrociata con un’altra dal valore di cavallo, come ho fatto notare nell’articolo citato relativamente ad altri comandi ed altri nomi di animali.  Quale essa sia non mi viene ora in mente ma potrebbe trattarsi suppositivamente di parola germanica e specificamente anglosassone, che forse ho già citato in qualche articolo.
  


[1] Cfr. l’articolo Espressioni di richiamo o comando impartiti agli animali [] del mio blog 2/9/ 14.

[2] Cfr. Buzzelli-Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese, Avezzano-Aq.

[3] Questo verbo è presente nel vocabolario del Rocci e proviene da iscrizioni.