martedì 28 gennaio 2020

Voci aiellesi-marsicane-abruzzesi e meridionali con la fricativa iniziale –s- o con la fricativa palatale iniziale - š –. Qualche incredibile chicca!




   Nel dialetto di San Ferdinando di Puglia (Foggia) si incontra la voce scëléppë ‘glassa per dolci’ che mi pare proprio l’ingl.  slip che, tra i diversi significati, annovera anche ‘smalto o vernice in polvere sospesa in acqua e pronta per l’applicazione’.  La definizione è quella del vocabolario Merriam-Webster, dove, per il termine vernice è usato proprio glaze che vale anche ‘gelatina, glassa’. La pronuncia fricativo-palatale della –s-  abbiamo visto in altro articolo che ricorre anche nei nostri dialetti.

   Nel vocabolario abruzzese del Bielli si regista la voce sciùcchë ‘camiciotto di panno lino usato dai contadini quando lavorano’ oppure ‘soprabito’, anche se detto celiando. Di questa radice per ‘cavità, guscio’ ho parlato abbastanza nell’articolo del mio blog (giugno 1919) intitolato Le scòcchëlë, mandorle piuttosto grandi e panciute.

   Un’altra voce dialettale abbastanza diffusa è sciaòrta (Aielli-Aq), sciuèrta (Avezzano-Aq), ecc. col significato di ‘donna trasandata’ e simili.  A mio parere il termine doveva essere un aggettivo sostantivato per ‘trascurato, sporco, abietto, ecc.’ che si ritrova nel lar. sord-es ‘sporcizia, squallore, trasandatezza negli abiti, ecc.‘(dalla radice SWORD-) e nel ted. schwarz ‘nero’ < *schwart <*swart.  La radice ricompare nel dialetto lucano di Gallicchio-Pt. nella forma sciartόnë[1], aggett. e sost. masch. e femm. dal significato di ‘trasandato/a nel vestire, nell’acconciarsi, nel tenere in ordine la casa’.   Una curiosità: il termine deve essersi incrociato con quello del dialetto lucano di Avigliano-Pt che suona sciahòrta ‘disordinato’[2] ma anche ‘piccolo animale’, significato, quest’ultimo, che dovrebbe avere a che fare con la voce sciavòrtë ‘pecora giovane, che non ha ancora figliato’ presente a Gallicchio-Pt.  Secondo me la parola doveva essere *sciav-otta ‘pecorella’ col suffisso diminutivo, che dovette subire l’influsso formale di sciavorta ‘donna trascurata’.  La radice originaria è quella di ted. Schaf ‘pecora’.  Ma, curiosamente, sempre  ad Avigliano-Pt la voce sciavòrta vale ‘pecora non giovane’ diversamente dalla voce corrispondente di Gallicchio-Pt. Evidentemente l’influsso del significato negativo di sciavorta ‘donna trascurata’ si è fatto sentire sul significato di ‘pecora non giovane’.  Il significato preistorico di ted. Schaf ’ pecora’ doveva essere semplicemente e genericamente ‘animale’ come è avvenuto per l’it. pecora che in latino valeva anche ‘animale’.

   A volte capita che in uno  stesso dialetto circolino parole piuttosto simili ma che si sono specializzate in un senso o in un altro. Sempre nel dialetto lucano di Avigliano la voce ciavàrrë ‘pecora non giovane’ che secondo me deriva da una forma precedente *ciav-arta con l’assimilazione progressiva della t- alla –r- precedente. La voce ciavarrë ricorre anche in altri paesi col valore di ‘pecora giovane’. Nel vocabolario del Bielli ciavarrë indica un ‘lattonzolo, vitellino’. 

   A Gallicchio è presente anche il verbo scëllë ‘piovigginare’ che diventa sciddicà ‘piovigginare’ a Vallata-Av, con la pronuncia dentale della doppia ll-  come nel siciliano.  A me sembra che la parola richiami l’inglese dialettale sleech ‘deposito melmoso dovuto ad un processo di scolatura’. Il vocabolario Merriam-Webster usa il termine ooze il cui verbo ooze significa proprio ‘sgocciolare’.

    Il Bielli riporta anche il verbo scuccià (italiano regionale scocciare) che oltre al significato abbastanza noto di ‘rompere, disturbare’ presenta quello di ‘crollare il capo (in segno di disapprovazione)’ e di ‘beccheggiare’ riferito ai cavalli.  Ma è proprio la radice di ingl. shake ‘scuotere’ che al passato fa shook.  Io penso che questi verbi con apofonia in realtà alle origini sfruttavano forme diverse della stessa radice, ancora non specializzate per indicare il perfetto. Ma si ha anche l’altra versione, con le due consonanti iniziali palatalizzate come in inglese, e cioè sciuccà ‘allontanare mosche e volatili (agitando le mani con qualche panno per farli volar via)’.  L’ingl. shake ha infatti anche il significato di ‘agitare, mettere in agitazione, sconvolgere’ che fa al nostro caso.  Ma c’è anche l’antico sassone skak-an ‘partire’.
   Ma chicca delle chicche è il verbo abruzzese (v.Bielli) scrullà il quale, oltre al significato di italiano scrollare, crollare, scuotere ne presenta uno che non ha nulla da spartire con  i precedenti, e cioè quello di ‘svolgere ciò che è aggomitolato’:  scrullà lu jόmmërë significa ‘svolgere il gomitolo’; scrullà la cavëzéttë vale disfare la calza’ e scrullà lu fusë ‘svolgere il filo avvolto nel fuso’.  Meraviglia delle meraviglie! Questo è il significato che si ritrova tal quale nel verbo ingl. scroll ‘srotolare (ma anche arrotolarsi), fare scorrere  verso l’alto o il basso’ nel linguaggio informatico! Che è entrato anche nell’italiano, nella forma  scrollare ‘srotolare, fare scorrere’.  Madonna mia! Io ho imparato solo alcuni anni fa questo termine, mentre i miei antenati preistorici abruzzesi già lo usavano nel linguaggio di tutti i giorni! La radice, secondo me, aveva già all’inizio la possibilità di indicare un ‘avvolgersi’ da una parte, e uno ‘svolgersi’ dall’altra, in quanto le due azioni presuppongono un’idea più generale di “roteare” o “volgere” nell’un caso o nell’altro.  Essa doveva essere abbastanza diffusa come nel ted. Schrulle < *Skrulle ‘capriccio, ghiribizzo’: il capriccio per me sarà etimologicamente legato all’idea di “volubilità, mutabilità”. Anche il ted. Schrolle ‘zolla, ammasso’ deve sfruttare lo stesso concetto di “rotondità, grumo”. 

   Ma dove siamo, in Abruzzo o in qualche contea del Regno Unito? O in qualche Land della Germania?

                         Incredibile!, incredibile!, incredibile!
  
   



[2] Cfr, sito web: http://www.gruppofolkavigliano.it/wp-content/uploads/2018/02/Dizionario-Aviglianese.pdf.

giovedì 23 gennaio 2020

Specchietti per le allodole.



        Il verbo dialettale saccutà, var. sacquë ‘scuotere il sacco (per farne assestare il contenuto)’ è del dialetto di Trasacco-Aq[1], di Luco dei Marsi, ecc. Potrebbe sembrare che il verbo sia un denominativo dalla voce dial. sacc-ùta ‘sacco di questua, sacco del seminatore, bisaccia, ecc.’ o direttamente dal dial. sacchë ‘sacco’, giacché esiste anche la variante trasaccano-abruzzese sacchià, var. sacquià ‘scuotere il sacco’. Se non esistesse lo spagn.  sacud-ir ‘scuotere, percuotere, colpire, impressionare’ (il quale in nessun modo può essere accostato allo spagn. saco ‘sacco’ soprattutto per il generico significato di ‘scuotere’, non riferito solo al sacco), suggerito anche dal Lucarelli, autore del libro citato, tutti i linguisti (o quasi) si sarebbero precipitati, come fanno spessissimo, ad indicarne l’etimo evidente!  da it. sacco.  Che queste forme derivino dal lat. ex-cut-ĕre ‘scuotere’ è confermato dall’abruzz. sëccutì  ‘scuotere’ che, per il tratto iniziale së- (derivante dalla preposizione latina ex perfettiva’), richiama anche il fr. se-cou-er ‘scuotere’. Ma si potrebbe, giustamente, chiamare in causa il lat. suc-cut-ëre <*sub-cut-ĕre ‘scuotere’, con il verbo preceduto dalla preposizione sub ‘sotto’, anche per lo spagn.  sa-cud-ir ‘scuotere’.  La forma sacchià ‘scuotere il sacco’  si è uniformata totalmente alla radice di sacco.  A Trasacco-Aq si hanno anche le forme succuà (simile al fr. se-cou-er ‘scuotere’) e succutà con lo stesso significato del sopra citato saccutà ‘scuotere il sacco’.

   Ancora una volta la Lingua, sempre pronta ad approfittare di ogni occasione per dare sfogo alla sua tendenza vitale al trasformismo (perché le permette di specializzare il suo contenuto sempre più generico, man mano che si va indietro nella sua esistenza), la dà elegantemente a bere a coloro che cercano di carpirne i segreti, di cui è gelosissima, anche perché essi nascondono una povertà semantica d’origine dei suoi significati genericissimi, anche se aperti alle specializzazioni successive.

Un altro esempio è dato, secondo me, dall’it. set-accio st-accio, ricondotto da tutti ad un lat. volgare *set-aci-u(m), tardo lat. saet-aci-u(m) ‘setaccio’, dato che il setaccio può essere formato da una rete di fili di ferro, di seta, o di crini vari.   Ma anche qui gli studiosi si sbagliano di grosso, perché a mio avviso non hanno ben meditato sul fatto che la Lingua quasi sempre nomina direttamente l’oggetto, non in base alla varietà del materiale di cui esso è composto, ma per indicarne  la natura stessa: una conca, ad esempio, è una conca, appunto, cioè una cavità o anche, se si vuole, il suo inverso, cioè una protuberanza, una testa (come nel sardo conca ‘testa’), ecc.  Anche qui infatti, a turbare l’apparentemente solido metodo di spiegazione tradizionale, convalidato anche, in un certo senso, dalle  figure retoriche della metonimia e della sineddoche (le quali, secondo me, sono state alimentate invece proprio dall’esistenza nel linguaggio di questi ricorrenti fraintendimenti), ecco presentarsi il serbo-croato sito ’setaccio, staccio’ (si trova anche in russo), il rumeno sita ‘setaccio’ a reclamare i loro diritti di parentela con l’it. set-accio.  In effetti il serbo-croato sito credo che abbia poco da spartire col concetto di “seta” (che in quella lingua ha altri nomi), ma molto a che fare, probabilmente, con il ted. sicht-en ‘vagliare, setacciare’ (esiste anche la variante ted. sieb ‘vaglio, staccio, colino’, vicina all’ingl. sieve ’setaccio, colino’ che prende la forma verbale sif-t ‘vagliare, setacciare’.  Il suddetto ted. sicht-en ‘setacciare’ deve essere ampliamento in –t della radice di seig-en, con la var. seih-en ‘filtrare, colare’, a. a. ted. sih-an ‘filtrare’, incrociatosi magari con una radice per ‘fluire, scorrere’, come quella di ingl. sike ‘ruscelletto, grondaia’ (da cui le diverse Fonti Secche della toponomastica italiana che in realtà secche  non sono), o di ingl. dialettale sick-er ‘gocciolare, stillare, colare’, ted. sicker-n 'stillare, gocciare, trasudare'. Ma forse la radice originaria di queste parole germaniche era una variante di quella di lat. sec-are ‘segare, tagliare, dividere, separare’, data la funzione principale di tutti i crivelli, la quale  li caratterizza pienamente per quello che sono, e cioè quella di separaredividere  il buono dal cattivo, starei per dire il loglio dal grano.

   Purtuttavia le voci suddette sido ‘staccio, sita ’staccio’, ecc., diversamente da come ho pensato poco fa, debbono essere considerate stupendi cloni della radice di gr. sēth-ein ‘passare al setaccio’, gr. dia-sēth-ein ‘vagliare’, che non ha a che fare con la seta.  Il vocabolario etimologico di O. Pianigiani in rete, cita  un basso latino  set-ati-u(m)= saet-ace-u(m): ma quest’ultimo non risulta nel latino classico (poteva esistere nel parlato) che usava seric-u(m) ‘serico, di seta’.  Allora, a mio avviso, il basso lat. set-ati-u(m) potrebbe essere un composto tautologico set-at- il cui secondo elemento –at- richiamerebbe il gr. dí-att-os ‘staccio, filtro’.  Nel francese si ha sas ‘staccio’, sass-er ‘stacciare’ che forse richiama lontanamente ionico -ein ‘stacciare, filtrare’.

   Suppongo che la radice di gr. sḗth-ein ‘setacciare’ abbia qualche parentela con la particella avversativa lat. sed ‘ma’, arcaico setla quale nella forma se-, diventa prefisso che indica distacco, separazione come la radice di lat. cri-br-u(m) ‘crivello, staccio’, la quale richiama il verbo lat. cer-n-ĕre ‘separare, distinguere, vagliare’, gr. krín-ein ‘separare, distinguere, decidere’.    Sarà solo un caso, quindi, che questi termini che ho citato per staccio nelle varie lingue, compreso il latino, non facciano riferimento alcuno al tessuto di seta o altro, di cui dovevano spesso pur essere composti, ma solo alla funzione separativa o di filtrazione dello staccio?

       Nel Vocabolario abruzzese di D. Bielli si incontra il verbo set-arsë ‘incrinarsi, screpolarsi’  che non può essere fatto derivare da seta per la somiglianza del segno dell’incrinatura ad un capello, una seta.  Allo stesso modo l’incrinatura non è tale perché somigliante ad un crine: il verbo in-crin-are è ricondotto ad antico fr. en-cren-er ‘intagliare’ probabilmente di origine gallica, ma io suppongo che comunque la radice dovesse essere connessa con quella suddetta per ‘separare, dividere’.    La set-ola, poi, nel linguaggio medico indica una screpolatura della pelle, delle labbra, ecc. e, nel linguaggio  veterinario, una vera e propria fenditura che a volte si forma nello zoccolo del cavallo.  Lo stesso lat. dis-sid-ḗre ‘essere separato, distare, discordare’  ha tutta l’apparenza di un incrocio di questa radice sed-, set- per ‘separare’ con quella di lat. sed-ḗre ‘sedere’.  Succede spesso che una parola, finita ai margini della lingua, sopravviva qua e là camuffandosi come meglio  può. 

      Curioso è il significato della voce gatt-on-à(re) del toscano meridionale[2] che è: ‘l’andare del segugio quando ha trovato l’usta’.  Il Cortelazzo, facendo derivare il verbo dalla locuzione andare gattoni, è costretto ad aggiungere “con la perdita dell’accostamento al modo di muoversi del gatto, se è riferita proprio al suo tradizionale nemico”.  Ora, a parte il fatto che una qualche radice cat- per ‘cane’ è ricavabile dal lat. cat-ul-u(m) ‘cagnolino’ usato poi per ‘piccolo, cucciolo (di ogni animale)’ e anche per ‘cane adulto’, qui  non si tratta né di gatti né di cani, ma, come abbiamo visto nell’articolo di qualche giorno fa Fare una cosa in quattro e quattr’otto presente nel mio blog (gennaio 2020), si tratta dell’avverbio lat. coacte, aggett. coact-u(m) da cui l’it. quatto, e l’espressione quatto quatto!  Dio santo! Ma quando si capirà che la Lingua preferisce il rapporto diretto con i concetti da esprimere, e non le vie più o meno traverse delle diverse figure retoriche che ci propinano a basso costo la soluzione?

   Un altro impagabile specchietto per le allodole ci viene offerto dal dialettale marsicano-abruzzese sagn-όnë ‘minchione, persona insulsa, dappoco, stupido’ (ricordo che mia madre, quando perdeva le staffe, lo appioppava talvolta a mio fratello, di sette anni più grande di me (sagnό!), e forse anche a me.  Ora, si dà il caso che il dialettale sagna corrisponda, per aferesi o deglutinazione della prima sillaba la- avvertita come articolo femminile, all’it. lasagna, fatto derivare dai linguisti dal termine gr. lásan-on inteso come ‘recipiente’ il quale, però, è quasi una forzatura del significato attestato, cioè ‘tripode (da cucina), seggetta, arnese da notte (pitale)’. Il sottoscritto naturalmente non sottoscrive simili supposizioni. In latino la parola lasan-u(m) è attestata come ‘vaso da notte’ o al massimo come ‘treppiedi’, fino a prova contraria. Piuttosto penso che potrebbe essere l’it. lasagna (insieme con le altre forme uguali dell’area neolatina) ad aver innovato, forse per influsso di termini come fr. losange ’rombo, losanga’, e per il fenomeno opposto chiamato agglutinazione, da un originario la sagna, come nei nostri dialetti.  Allora balza evidente ai miei occhi (anche se non rispondono più come un tempo) la derivazione del dialettale sagn-όnë ‘minchione, stupido’ (con l’equivalente it. lasagnone ‘persona grossa, goffa e stupida) dal puro latino sannion-e(m) ‘buffone, zanni’.  Da una radice che si ritrova anche nel lat. sann-a(m) ‘smorfia, sberleffo’ e nel gr. sánn-as, sanní-ōn, sánn-or-os ‘stolto, stupido, insulso’.  Il toscano zanni < veneto zani ‘Gianni’ è una ben nota maschera della Commedia dell’arte, che impersonava il servo furbo, ma anche quello sciocco.  La parola a mio parere deve essersi incontrata con quella greca o latina precedenti.  Il dialettale aiellese  sagna indica, oltre all’it. lasagna, anche delle fettuccine piuttosto corte e rettangolari (lunghe 3-5 cm.) chiamate pure sagn-éttë, e corrispondenti anche  alle lasagne ‘strisce di tessuto che designano il grado nelle divise militari’. 

     Francamente mi pare un po’ forzato il paragone tra queste strisce indicanti il grado militare e le it. lasagne ‘grossi pezzi di sfoglia, conditi e arrotolati in più strati’: il paragone è perfetto con le dialettali sagn-éttë, brevi strisce rettangolari di pasta (altrove possono essere anche più lunghe).  A me sembra che l’elemento che unisce vuoi le it. lasagne vuoi le  dialettali sagnë e sagn-éttë sia l’idea di “taglio”, donde vengono   anche i termini tagliat-èllë ‘tagliatelle’ e tajjul-ìnë ‘tagliolini’.   Ora, il pezzo tagliato dalla sfoglia (da arrotolare più volte) per la lasagna è piuttosto grande, quadrangolare o rettangolare, il pezzo tagliato per le sagnë e le sagn-éttë è piuttosto sottile, breve o lungo che sia.    La radice di queste voci credo sia da cercare tra una variante del lat. sign-u(m) ‘segno, impronta, sigillo, ecc.’, lat. sec-are ‘segare, tagliare’.  Il dialettale sënà< lat. sign-are ‘segnare, tracciare, incidere’ significa ‘incrinare’ e dialett. sanà  vale ‘castrare’ ma anche (ad Aielli-Aq) ‘lesionare, incrinare’ proveniente, penso, dalla stessa radice di lat. sac-en-a(m) o lat. sc-en-a(m) ‘scure per i sacrifici’, ingl. saw ‘sega’< ant. ingl. sagu ’sega’ o sage ‘sega’.  Allora credo sia perlomeno supponibile la derivazione di dialett. sanà ‘castrare’ o ‘lesionare’ da un latino parlato *sagn-are ‘tagliare’> dialett. sanàLa san-ìcë ad Aielli era una ‘lesione, incrinatura’, altrove significava ‘cicatrice’ per essersi molto probabilmente incrociata col verbo it. sanare.

    Ma la chicca delle chicche è per me la voce aiellese-marsicano-abruzzese sallëcc-όnë, var. sëllëcc-όnë ‘sciocco, stupido’ con la notazione in più di ‘alto, spilungone’ in qualche dialetto.  La sallécca , var. sëllécca significa ‘baccello’ (ad Aielli vale ‘seme —contenuto nel baccello’) dal lat. siliqu-a(m) ‘baccello’.  Per la nozione di ‘stupido’ ci va a pennello l’ingl. silly ‘sciocco, scemo, stupido’ da un precedente *sal-ig, *sel-ig il cui significato pare abbia subito la trafila da ‘felice abeato’, a ‘ingenuo’ e quindistupido’.  O forse bisogna risalire al lat. salac-on-e(m) ‘spaccone, vanitoso’ dal gr. salák-ōn ‘millantatore’ < aggett. gr. sal-όs ‘sciocco, fatuo’. A Trasacco-Aq. la sëllécca è anche un ceffone, una sberla[3].  A me pare che esso mantenga il sentore di ingl. slack-en ‘allentare, diminuire, ridurre’ ma con il significato di it. allentare, nel senso di ‘dare, affibbiare (uno schiaffo)’, come nell’ingl. slap ‘dare uno schiaffo’, lombardo (veneto, romagnolo, trentino, ecc.) slèpa[4] ’schiaffo’ ma anche ‘taglio (di carne o polenta)’, abruzzese femm. plur. scëléppë ‘busse’[5]. Nel dialetto di Trasacco la voce  sëllécca e sëllacca-tura vale anche ‘ferita da taglio lunga e profonda’ che potrebbe in qualche modo essere accostata alla forma simile  ingl. slash ‘taglio, sfregio, squarcio’.  La caratteristica della pronuncia della –s- in certo senso distaccata dalla consonante seguente di una parola  è arcaica, come nel trasaccano sëllìtta ‘slitta’.   Ma molto più probabilmente sono  il ted. Schlag ‘colpo, percossa, ceffone (nell’espressione Schlag ins Gesicht ‘colpo sul volto’)’, il ted. Schlach-t ‘battaglia’ e il ted. schlacht-en ‘ macellare, scannare, massacrare’ a  spiegare il significato di sëllécca ‘schiaffo sonoro’ e di  sëllacca-tùra ‘taglio profondo’. Il ted. schlag-bar  significa proprio ‘ceduo, da taglio’, riferito ad albero o bosco.  

    Per quanto riguarda il concetto di “percossa”, della voce trasaccana sëllécca ‘schiaffo sonoro’ e del relativo verbo sëllëccà ‘schiaffeggiare sonoramente’, bisogna tirare in ballo anche l’altro verbo dei nostri dialetti saracà ’battere, bastonare, percuotere, schiaffeggiare’[6] col relativo sostantivo saràca che oltre a significare ‘salacca’ vale anche ‘bastonatura, forte schiaffo o pugno’.  Ho già parlato altrove dell’abbastanza diffuso scambio l/r nei dialetti, motivo per cui è molto probabilmente sostenibile un originario dialettale *salacà ‘percuotere, schiaffeggiare’ che va ad allinearsi col suddetto sëllëccà ‘percuotere, schiaffeggiare’, come conferma ulteriormente anche la voce  del dialetto di Avezzano-Aq  saracόnë ‘persona alta e magra’ che si allinea , a sua volta,  con l’abruzzese sopracitato sallëccόnë, sëllëccόnë nel significato di ‘spilungone, sciocco’. Un’altra conferma della lettera –l- originaria ci è data dal sostantivo sàleca ‘scarica di bòtte’ del dialetto di Castellafiume-Aq,[7] con l’accento tonico sulla prima sillaba, come nel lat. siliqu-a(m) ‘baccello’, incrociato con queste voci, come abbiamo visto.  A Rocca di Botte-Aq la voce sàlega[8] significa ‘grossa tasca posteriore dei cacciatori’.  L’autore del libro fa notare che in senso figurato la voce, nel sintagma  na sàlega de bòtte, significa un ‘sacco di bòtte’.  In questo dialetto evidentemente è stata necessaria la precisazione di “de botte”, mentre a Castellafiume è bastato solo sàleca per il significato di ‘bòtte’.  La radice deve essere quella del già citato ted. Schlag ‘colpo, percossa’ e ted Sclach-t ‘battaglia’ a cui si può accostare l’abruzz. salàtë ‘strage’[9].  Ad Aielli-Aq, il mio paese, esisteva un altro termine per designare una persona molto alta: esso era saldaiόnë che pare avere la radice  del verbo lat. sal-ire ‘salire’, part. passa. salt-u(m) ‘salito’, forse col significato di ‘elevato, alto’ sebbene non attestato.

     L'espressione toscana scérco d'acqua 'acquazzone, scroscio d'acqua'[10] ricondotta al lat. siliqu-a(m) 'baccello', usato per indicare unità di misura, è da ricollegare al suddetto sàlega 'scarica di botte' e quindi 'scarica d'acqua'.

     Il significato di ‘grossa tasca posteriore dei cacciatori’ del dialettale sàlega  è a mio parere molto interessante, perché deve trarre il suo significato dal concetto di “cavità, avvolgimento, rotondità” e simili, come penso che avvenga per l’ingl. silk ‘seta’ (il quale doveva indicare, in origine, il bozzolo del baco da seta) e per il lat. siliqu-a(m) ‘baccello’.  Sta di fatto che i nomi che conosco per baco da seta mi pare che possano essere ricondotti al concetto di “cavità, bozzolo” come it. filug-ello ‘baco da seta’, da un supposto termine settentrionale di origine latina *follic-ell-u(m) ‘piccolo involucro’; it. bombice ‘baco da seta’, dal gr. bόmbyks ‘baco da seta, seta’ ma anche ‘brocca’, gr. bombykí-as ‘canna per flauti’; l’it. bigio e big- atto ‘baco da seta’ forse scaturiscono dalla seconda parte di bόm-byks ‘baco da seta’; it. caval-iere ‘baco da seta’ sfrutta la radice caval- ‘cavità’, ampliamento del lt. cav-u(m)’cavo’, di cui ho parlato abbastanza in altro articolo di cui non ricordo il titolo.  Il baco è addirittura chiamato gatta, una voce regionale settentrionale: nell’articolo  di pochi giorni fa intitolato In quattro e quattr’otto ho parlato del concetto di “cavità, buca, ecc.’ che talora la voce gatta, gatto assume in parole italiane come gatta-buia ‘prigione’.  Lo stesso nome baco ‘larva del baco’ potrebbe essere un’evoluzione dal concetto di “cavità, bacc-ello”, incrociatosi con qualche termine per ‘insetto, germe, microbo’ simile all’ingl. bug ‘cimice, insetto’.

   Il fatto è che, a mio avviso, nella lontana preistoria a cui possono risalire questi termini, l’uomo non aveva ancora imparato a ricavare la fibra tessile della seta, e quindi non aveva ancora un nome per indicarla, ma certamente aveva imparato, da lunga pezza, a dare il nome al caratteristico bozzolo entro cui si rinchiudeva.

   Meraviglia delle meraviglie, non avrei mai creduto che il significato dell’abruzzese suddetto  sëllëcc-όnë ‘spilungone, sciocco’ nel lontano passato si fosse incrociato col ted. Schlak-s, var. Schläk-s ‘uomo alto e goffo’.  Per chi non conoscesse il tedesco faccio notare che il suono sch corrisponde all’inglese sh che ha il valore di una –s- fricativa palatale sorda, spesso evoluzione della semplice –s- come in ted. Schwein ‘porco, maiale’ corrispondente all’aggett.  lat. suin-u(m) ‘suino, di porco’. Sicchè è pacifico che una forma originaria *selag-s, *seleg-s col significato pressappoco di ‘uomo alto e goffo’ (similissima al dialettale sëllécca ‘baccello’ sopracitato) sia diventata nel tedesco mod. Schlak-s, var. Schläk-s ‘uomo alto e goffo’. Faccio notare che la trasformazione della –s- nel suono fricativo-palatale era abbastanza presente anche nei nostri dialetti.  Ad Aielli-Aq e Trasacco-Aq esiste, accanto al verbo mëndà ‘seminare’ anche la forma scëmëndà col valore di ‘disperdere, sparpagliare disordinatamente, scarmigliare i capelli, ecc.’. 

   Anche il toscano bacc-ello o baccell-one per ‘sciocco, stupido’ non è affatto da credere che sia una forma derivata da it bacc-ello. Già in altro articolo di cui non ricordo il titolo ho spiegato che il lat. im-becill-e(m) ‘debole’ non va inteso, come solitamente si fa fin dall’antichità[11], quasi un ‘senza bastone’ e quindi ‘senza forza’, ma va messo in rapporto con il verbo abruzzese bacul-arsë , bacul-irsë ‘indebolirsi’ il quale ha, secondo me, la stessa radice di ingl. weak ‘debole’ e anche ‘debole di discernimento’, ant. ingl wac ‘pieghevole, soffice, debole’ e quindi eccoci arrivati ad it. imbecille! Con il prefisso in- di valore intensivo.    Da quanto sopra detto si desume che è vano credere, come del resto ho spesso ripetuto, che le parole si presentino a noi con un volto sincero, chiaro, senza ambiguità.  Eppure la linguistica tradizionale continua imperterrita a considerarle, in moltissimi casi, come genuine e degne di fede mentre esse se la ridono sotto i baffi.

   Nessuno, che io sappia, le smaschera come modestamente faccio io: pertanto chiedo venia se considero questo metodo, un po’ vanitosamente, come un genuino prodotto targato Maccallini. Del resto me ne assumo ogni responsabilità, col rischio di venire beffeggiato anche dall’ultimo arrivato, che non tiene  in nessun conto la mia genuina e appassionata dedizione di una vita. Del resto perché mai dovrebbe? Absit  tamen prava vanitas verbo!
  
  


[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z , Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

[2] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998. 

[3] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

[4] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani UTET, Torino 1998.

[5] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004

[6] Cfr. Q. Lucarelli, cit.

[7] Cfr. D. Di Nicola, Storia di Castellafiume, Grafiche Di censo, Avezzano-Aq, 2007.

[8] Cfr. M. Marzolini, “me ‘nténni?”, Arti Grafiche Tofani, Alatri-Fr,  1995.

[9] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

9 Cfr. Cortelazzo- Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998.

[11] Va riconosciuto che la sola voce fuori dal coro è quella di G. Devoto, nel suo  Dizionario etimologico, Le Monnier, Firenze, 1968. Devoto nega la percorribilità dell’etimo tradizionale, senza darne però uno nuovo.  

   



lunedì 20 gennaio 2020

La sostanza magmatica e versicolore delle parole.



 
   Leggo nel Bielli[1] la voce cata-panë ‘ladra, tasca interna della giacchetta’ che ad Aielli chiamiamo cat-ana: all’interno di queste tasche non si metteva solitamente il pane ma il portafoglio o qualche documento da tenere al sicuro.  Il Bielli riporta anche cat-anë, rispondente per forma e significato all’aiellese cat-ana, ma indicante anche una sorta di zaino (dei mietitori).  Il concetto generico di ‘cavità’ di questa radice è confermato dalla voce, sempre del Bielli, cata-funnë ‘luogo assai profondo’ < *cata-fundë.  Senza andare oltre credo che l’it. cat-ino , dal lat. cat-in-u(m) ‘piatto fondo, catino, crogiolo, cavità (nella roccia), grotta’, contenga la stessa radice. La radice, d’altronde, nella versione gatta-, l’ho trattata abbastanza nell’articolo “Fare una cosa in quattro e quattr’otto” presente nel blog (gennaio 2020).

  Procedendo con altri termini composti, che io definirei pane-centrici, cito l’it. tasca-pane, it. sacca-pane.  Questi termini non sono oggetto di molte osservazioni da parte dei linguisti, perché li ritengono sef-evident, di palmare evidenza.  Ma, Dio buono!, e la voce abruzzese cata-panë ‘tasca interna della giacca’, che non è fatta per contenere nemmeno un briciolo di pane, dove la mettiamo? Io non voglio minimamente fare il sapientone perchè a me stesso sfuggono moltissime parole dei molti dialetti italiani, ma certamente non posso evitare di trarre la conclusione che il pane, finito per diventare apparentemente l’elemento chiarificatore e specificatore  di questi composti, è invece tutto da svelare e da smascherare  come tale. 

   La radice, a mio avviso, è variante di quella di lat. pen-it-u(m) ‘interno, profondo’, lat. Pen-at-es ‘Penati, dei protettori della casa che avevano un loro spazio di culto nell’ interno di essa. All’inizio erano divinità protettrici delle provviste e del loro ripostiglio: cfr lat. pen-us, oris ‘provviste, cibarie (riposte) ’.  Figurativamente pen- at-es indicava anche il ‘nido’, ‘alveare’. C’è anche l’ingl. pen ‘recinto, chiuso, box (per bambini)’. E poi bisogna fare i conti con l’it. pane nel significato di filettatura, una sorta di scanalatura che si sviluppa intorno ad una vite.  Anche lo spagn. pan-al ‘favo delle api’  credo sia della partita. Se questo è vero è anche molto improbabile che l’it. pan-iere sia nato in vista del pane da contenere.  E pensare che c’è chi, pur munito dell’infula sacra del linguista, fa derivare la radice, anche se dubitativamente, dalla forma ritorta del filoncino di pane (sic!).   L’ingl. pan ’padella, pentola’, generalmente accostato al lat. patin-a(m) ‘padella, piatto’, può benissimo essere invece debitore della radice di cui si parla.  Una radice può indicare gli oggetti più disparati, pur mantenendo, come in questi casi, sempre il valore generico di fondo.  Che la voce tasca, di incerto etimo, mantenga sempre il valore di cavità è dimostrato a mio parere dall’abruzzese tasc-ùccë[2] ‘seconda, placenta’ (l’involucro tipico dei mammiferi, che in parole povere avvolge il feto, e viene espulso subito dopo il parto), dallo spagn. tasca ‘taverna’ e dal campano-calabrese-siciliano tasco[3] ‘casco, cappello tondo e nero’: interessante il nero del cappello che in via non del tutto  ipotetica potrebbe richiamare l’ingl. dusk ‘crepuscolo, penombra, ingl. dusky ’scuro, dalla pelle scura’. 

   La formazione di molti termini  attraverso la composizione tautologica di due o più membri è un fatto dimostrato all’inizio di questo articolo e altrove.  I linguisti, che io sappia, ne parlano molto poco e forse non sono convinti della sua consistenza e veridicità, motivo per cui, come abbiamo visto qui e altrove, essi non possono essere nella condizione favorevole per capire quello che per me è un canone inderogabile per cominciare a rendersi conto della struttura e della natura delle parole, oltre che per individuare i giusti etimi.

   C’è anche da sottolineare che il setacciamento plurimillenario a cui sono sottoposte le parole di ogni lingua, perchè esse siano possibilmente adeguate allo strato linguistico più recente, produce una inevitabile cernita tra di esse, la quale solitamente relega ai margini le molte parole sentite come estranee, incomprensibili, non appartenenti alla lingua dominante, in attesa che finiscano nel dimenticatoio o scompaiano per sempre, a tutto vantaggio di quelle sentite come chiare, cordiali, indiscutibili:  il caso dell’abruzzese cata-pànë ‘tascapane’ di cui sopra, non presente nell’italiano, che pure preserva un indizio, anche se apparente, relativo al pane fa capire bene  il senso di quello che ho detto.

  Concludendo, butto giù due aggettivi latini su cui ho riflettuto proprio stamani: 1) versi-pell-e(m) ‘versipelle, che si trasforma (detto del lupo mannaro o delle streghe), furbo, scaltro; 2) versi-col-or-e(m) ‘cangiante, screziato, variopinto’.  Dico subito che non credo al loro significato superficiale, così evidente.  Per me l’elemento –pell-e(m) del primo aggettivo è reinterpretazione di una radice che compare nel greco pél-ein, pél-esthai ‘muoversi, aggirare, trovarsi, ecc.’ e, con apofonia, nel gr. pol-eîn ‘voltare, rivoltare la terra, aggirarsi, ecc.’.   In latino si avrebbe quindi un composto tautologico, con la ripetizione del concetto di “mutare, girare”, anche nel secondo elemento pell-e(m) dove si nota l’influsso di lat. pell-e(m)’pelle’ (il quale già per conto suo rimanderebbe alla stessa radice di lat. pale-am ‘paglia’ e lat. pelv-im’catino, paiolo’).  Per l’aggettivo lat. versi-col-or-e(m) penserei al verbo lat. col-ĕre ‘coltivare, curare’ che per i linguisti sarebbe addirittura l’esito latino di una radice indeuropea che a sua volta aveva dato in greco  l’esito di pél-esthai ‘muoversi, aggirarsi’ e di pol-eîn ‘voltare (la terra), aggirarsi’, ma che per me era una semplice variante dell’altra, esistente ab antiquo.  Ma anche il lat. col-or-e(m) ‘colore’ aveva una radice che si prestava al concetto di ‘involucro, avvolgimento, copertura’ ed è la stessa del lat. cel-are  ‘celare, nascondere’: il colore infatti era inteso, nella preistoria, come ‘la forza che nasconde le cose’. La radice si ritrova nel ted. hülle ‘involucro, velo, copertura, guscio’.  A  buon intenditor poche parole, ma è un vero peccato che la tautologia in linguistica venga così trascurata!
     
  
  

  



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla Editore, Cerchio-Aq, 2004

[2] Cfr. D. Bielli, cit.

[3] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET,Torino, 1998.   Secondo me è da scartare l’interpretazione lì riportata, ma dovuta ad altri linguisti, in base alla quale si tratterebbe della dissimilazione della prima –c-  mutata in –t- , nella parola casco.

venerdì 17 gennaio 2020

“Fare una cosa in quattro e quattr’otto”




  "Fare una cosa in quattro e quattr'otto" (compiere una cosa in men che non si dica) è un’ espressione italianissima, registrata dai buoni vocabolari, che sembra lontana le mille miglia, però, per la sua incontestabile e trasparente evidenza, dalla pur minima possibilità che il mio grimaldello scardinatore ne comprometta la solidità adamantina. Eppure, come al solito, basta essere convinto che dietro la facciata di queste espressioni che indicano significati mediante metafore è possibilissimo che si annidi un inganno, difficilissimo certamente da scovare, perchè la comunità dei parlanti ha accettato, e da lunga pezza, le espressioni senza batter ciglio, per vedere apparire, dinanzi agli occhi stupiti, uno strato linguistico precedente in cui quella data espressione indicava lo stesso concetto, ma con un'immagine diversa da quella attuale. Anzi, direi che il parlante, nel caso di questa espressione, non si accorse nemmeno che stesse passando da uno strato all'altro. Supposto, ad esempio, che una famiglia possegga un ombrello che duri attraverso i secoli, anche se il colore del tessuto da nero intenso diventa a mano a mano grigio sbiadito, è difficile che le generazioni si accorgano del lento cambiamento, anche perchè la funzione che esso svolge resta intatta: copre ancora benissimo la testa e le spalle della persona che lo porta. Solo uno studioso di cose antiche potrebbe rendersi conto del cambiamento di colore che è avvenuto a partire dall'origine.

   Ora, per quanto riguarda l'espressione di cui si parla, si è verificato il caso che le singole parole, pur mantenendo grosso modo la sonorità iniziale, e soprattutto il concetto globale iniziale, hanno cambiato significato, tanto da esprimere il concetto globale con altra immagine, non corrispondente a quella originaria.

  La cosa è presto detta: all'origine si aveva secondo me  l'espressione del latino parlato coacte coacte ociter che significava 'alla svelta alla svelta, rapidamente ' o, più agilmente, 'svelto svelto, veloce' oppure 'subito subito, presto' ricorrendo, come avviene nel linguaggio parlato, alla ripetizione successiva della stessa idea. C'è da notare che la pronuncia di ociter 'velocemente' era divenuta, in bocca al popolo, octe con la caduta della -i- e della finale -r- , per effetto del forte accento iniziale come è avvenuto, non so, nel supino del verbo al-
ĕre 'alimentare, allevare', che fa sia al-tum, sia ali-tum. Dalla forma octe quindi si passò automaticamente al numerale lat. octo 'otto'. Dico "automaticamente" perchè i due coacte nel frattempo o contemporaneamente si erano trasformati nell.it. quattro, soprattutto dietro la spinta, credo, della probabile scomparsa, almeno dal vocabolario parlato, dell'avverbio coacte, che non è arrivato in effetti fino a noi. Una notazione di rilievo: il processo di trasformazione della frase iniziale è ben antico, deve risalire almeno al latino classico, per la pronuncia velare (gutturale) della sillaba -ci- di ociter  'rapidamente'. I fenomeni in genere sono più antichi di quanto si pensi. L'it. quattro viene dal lat. quattuor, ma sappiamo benissimo che nel napoletano, ad esempio, esso suona proprio quattë, similissimo al coacte iniziale.

   Detto per inciso, non è poi molto improbabile che nel corso della storia di una lingua qualcuno pensi ad una somma di due numeri, sia pure semplice, per esprimete avverbialmente una nozione di velocità, rapidità e semplicità, tra l’abbondanza, in ogni lingua, di radici pronte per l’uso? Si dovrebbe ugualmente immaginare l’improbabile situazione di qualcuno che, seduto a tavolino, si diverta a scoprire modi fuori del normale, se non lambiccati, per raggiungere lo scopo.  E perché non si è scelta qualche altra operazione matematica altrettanto semplice come, non so, due e due quattro oppure due per due quattro?  La risposta sta nella mia spiegazione dell’ espressione quattro e quatt’otto, che non lascia la libertà, al supposto escogitatore di espressioni avverbiali, di scegliere indifferentemente tra diverse locuzioni basate sui numeri, altrettanto semplici.  Abbiamo visto che l’origine dell’espressione è lontanissima da ciò. 

    Il coacte ‘alla svelta’ di cui sopra è la forma avverbiale dell’aggettivo lat. coact-u(m), participio passato del verbo cog-ĕre ‘raccogliere, coagulare, forzare’ che è giunto fino a noi attraverso i termini it. coazione, coattivo, coatto e quatto  ma non nella forma avverbiale. La sua presenza è chiaramente avvertibile, a mio parere, anche nell’espressione avverbiale gattoni o, con ripetizione dell’avverbio, gatton gattoni, Esiste, per la verità, anche la locuzione quattoni o quatton quattoni ma proprio questa forma ci garantisce che gattoni ne è una reinterpretazione favorita dalla voce it. gatto (lat. tardo catt-um ‘gatto’).  Tra le due varianti si nota la stessa differenza che corre tra it. scassare ‘rompere, sfasciare’ e l’it. squassare ‘scuotere con forza, sconquassare’.  Inoltre la formaa gattoni potrebbe aver tratto linfa vitale dall'aggettivo lat. cat-u(m)  'accorto, sagace'  significando così all'origine 'con accortezza, con circospezione'.  Ma la considerazione che secondo me tronca ogni possibilità di vedere il gatto sotto l'espressione gattoni è il fatto incontestabile che nessun altro animale sia stato coinvolto, sulla sua scia, a formare  locuzioni come can-oni, conigli-oni, gall-oni, asin-oni, mul-oni, ecc. Pardon! c'è l'espressione obsoleta cat-ell-on cat-ell-oni 'pian piano, di soppiatto' detto di cane o altro animale che si avvicina alla preda.  Ma caso stranissimo, la radice di questa locuzione combacia con quella suddetta di gatt-oni.  Solo che in gatt-oni la radice sembrerebbe coincidere con quella di gatto (lat. cat-um) e in cat-ell-oni con quella omofonetica di cat-ell-u(m) 'cagnolino': evidentemente originariamente si trattava di radice unica dal significato generico di 'animale'.  E' quindi da concludere che qui il significato di 'cane' o 'gatto' è solo un effetto illusorio causato dalla sovrapposizione dei rispettivi termini per gatto o cane sull'originario 'quatto' o 'accorto'.

    Per quanto riguarda il suffisso –oni caratteristico di queste forme avverbiali, ne Il dizionario della lingua italiana di T. De Mauro si afferma che si tratta di un suffisso derivato da aggettivi, verbi e nomi relativi per lo più al corpo umano e dà il seguente elenco: barcolloni, bocconi, carponi, ciondoloni, ginocchioni, penzoloni, quattoni, tentoni.  Possiamo aggiungere anche il nostro gattoni di cui sopra insieme a tentennoni, sdruccioloni, zoppiconi, saltelloni.  A me pare che la derivazione da sostantivi sia più apparente che reale, dato che  questi avverbi indicano solitamente una condizione o azione espressa da verbi o aggettivi, come è più naturale, non da sostantivi i quali si presterebbero meno a designare modi di essere o di agire.  Barcolloni, in effetti, presume un verbo barcoll-are; carponi presume il verbo lat. carp-ĕre ‘carpire, prendere’, attestato anche nel signif. specifico di ‘misurare uno spazio passo passo, attraversare, percorrere’; ciondoloni un ciondol-are; ginocchioni più che all’it. ginocchio (lat. geni-cul-um ‘ginocchio’) rimanda al verbo lat. genicul-are ‘inginocchiarsi’ o deponente geni-cul-ari ‘inginocchiarsi’; penzoloni presume il verbo penzol-are; quattoni abbiamo visto che rimanda al partic. passato coact-u(m) come del resto gattoni; tentoni rinvia al verbo tent-are, nel significato di ‘tastare’ da cui è scaturito l’altro avverbio omosemantico tastoni; tentennoni presuppone il verbo tentenn-are; chiarissimi sono i verbi di riferimento per sdruccioloni, zoppiconi e saltelloni.  Resterebbe  così fuori solo bocconi, il quale, così com’è, dovrebbe essere piuttosto vago, a rigor di logica e della presunta etimologia che richiama la bocca: infatti gli spagnoli, che in questo caso sembrano ricorrere ugualmente alla bocca, distinguono tra boca abajo ‘bocconi’, letteral. ‘bocca in giù, sotto’ e boca arriba ‘supino’, letteral. ‘bocca sopra, in alto’. 
 
   In effetti, almeno nei nostri dialetti marsicani, ricorre il verbo mmuccà < *in-bucc-à che significafar inclinare, far capovolgere (vasi, recipienti o anche altri oggetti)’.  L’etimo generalmente è fatto risalire appunto a bocca. Erroneamente a mio avviso, come ho spiegato nell’articolo La grande famiglia di parole, anche italiane, collegate al ted. bieg-en ‘piegare’, presente nel mio blog (1 nov. 2013).  Per farla breve, io non penso che il valore di it. rimboccare specie nell’espressione rimboccare le maniche abbia a che fare in qualche modo con la bocca, ma semmai con la radice del verbo ted. bieg-en ‘piegare’ presente anche in ted. Bog-en ‘arco’, ingl. bow ‘arco’, nel verbo ingl. to bow ‘piegarsi, inchinarsi’.  È molto comprensibile, poi, che nel caso del marsicano (Aielli, Luco dei Marsi, ecc.) mmuccà ‘inclinare, capovolgere, rovesciare’ si sia subito insinuata, nel verbo, l’idea di “bocca”, dato che una bottiglia che si rovescia, ad esempio, su un tavolo, finisce col collo su di esso, collo che da noi è chiamato proprio bucc-àjjë ‘boccaglio’.  C’è anche da notare che ad Aielli il participio pass. del verbo mmuccà ‘far cadere, rovesciare’ presenta una forma più moderna mmucc-àtë ‘rovesciato’, ma anche una antiquata, ora forse scomparsa, che si può definire forte, e che suona mmùcchë ‘rovesciato’, con l’accento ritirato sulla prima sillaba e l’assenza di suffisso.  Questo participio forte assuona quasi alla perfezione all’aiellese mmόcca ‘in bocca’, abruzzese ‘m mόcchë ‘in bocca’, come lo scrive il Bielli[1]

    Alla luce di quanto ho detto, si può sostenere che l’avverbio bocconi ‘prono’ ha certamente coinvolto l’idea di “bocca” (ma forse originariamente era la pancia e non la bocca a trovarsi a terra: cfr. ted. Bauch ‘pancia’, medio alto ted. buch ‘pancia’) ma il suo ritrovarsi a terra, appunto, sarà dovuto all’azione del verbo o dei vari verbi germanici che esprimevano quest’idea di “inchinarsi, piegarsi, rovesciarsi”.

    Per quanto riguarda gattoni c’è da osservare che in italiano esiste qualche espressione idiomatica che sfrutta il gatto, a cominciare da non dire gatto se non ce l’hai nel sacco, che sottolinea la distanza, a volte enorme, tra il credere di essere in possesso ormai di qualcosa e  l’effettivo entrarne in possesso. Anche qui protagonista del modo di dire è un eventuale gatto (ricordo che da ragazzi a volte acchiappavamo qualche gattone bello e paffuto e… ci facevamo le feste!); ma anche qui esso è solo il paravento di qualcos’altro, secondo me.  Dietro di esso se ne sta ben appiattato il participio pass. lat. capt-u(m)! ‘preso!’, riferibile non solo a qualche altro animale (coniglio, lepre, piccione, gallo, gallina, ecc.’ ma, eventualmente, a qualsiasi cosa di qualche valore, di cui si pensava di essere già in possesso, prima di metterla al sicuro in una borsa o un sacco.  L’espressione dovrebbe essere antica dato che si ritrova anche nello spagnolo no digas gato si no lo tienes en tu bolso ‘non dire gatto se non lo tieni nella tua borsa’.

    Anche l’espressione quattro gatti si ritrova tale e quale nella lingua spagnola: cuatro gatos  ad indicare un numero ristretto di persone che si trovano in un luogo. Anche qui vale la stessa domanda del perché si citino gatti e non cani, ad esempio.  .  In questo caso credo che dietro gatti si nasconda ben camuffato il sostantivo pl. lat. capita che significa ‘capi, teste’ ma anche ‘individui, persone’: da capita, pronunciato dialettalmente càpëtë, si è passato a càp(ë)të  e quindi a catto, gatto. Comunque noto che anche nello slang inglese o americano cat ‘gatto’ vale proprio ‘individuo, persona, tipo’, non saprei se per lo stesso motivo che in italiano. Benchè poi il numero quattro (insieme al due) indichi normalmente un numero ridotto di qualcosa, mi piace rivolgere l’attenzione al partic. pass. lat. coact-u(m) di cui più sopra: il verbo lat. cog-ĕre significa oltre che costringere anche raccogliere, limitare, restringere, sicchè poteva cadere a fagiolo anche il significato di ‘limitato, ristretto’ del participio nascosto sotto il quattro.
 
   Altro modo di dire è comprar la gatta (il gatto) nel sacco, cioè, fuor di quella che oggi sembra una metafora, ‘comprare senza prima controllare la merce (per non avere sorprese)’. Il detto si ritrova tale e quale anche nel tedesco die Katze im Sacke kaufen, nel francese acheter chat en poche, nello spagnolo comprar gato en saco.  Per lo stesso concetto in italiano abbiamo l’espressione, più diretta, comprare a scatola chiusa.  Io sono del parere che in questo caso le espressioni suddette si siano sviluppate inavvertitamente da una espressione primitiva del tipo *comprare nel sacco-gatto (con la presenza di quello che doveva essere un composto tautologico cioè sacco-gatto ‘sacco’)  intesa, ad un certo punto dell’evoluzione della  lingua (probabilmente con l’arrivo in essa del termine gatto relativo all’animale), come ‘comprare nel sacco gatto’, cioè ‘comprare (un, il) gatto nel sacco’.  Potrebbe anche trattarsi di un’aggiunta posteriore della voce gatto riferita all’animale, per attrazione simpatetica, per così dire, esercitata da un termine omofono per ‘sacco’.  Per la radice di gatto col valore di ‘cavità, buco, stanzino, luogo chiuso, ripostiglio, ecc.’ cito solo due termini ugualmente tautologici che la contengono, per non aprire un’altra, magari lunga, discussione su di essi.  I termini sono l’it. bugi-gatt-olo, in cui la prima componente mostra la radice di it. buco, e l’it. gatta-buia, termine popolare molto espressivo per ‘prigione’.  Io penso, checchè ne dicano i linguisti, che la componente gatta- indichi, appunto, un locale angusto e buio, un buco, un pertugio come quello delle antiche prigioni che certamente non tenevano conto dei diritti dei carcerati.  La componente –buia potrebbe però senz’altro essere una radice corrispondente a quella di it. bur-ella ‘corridoio angusto e sotterraneo’ che presenta anche il significato arcaico di ‘prigione’. Esiste anche il termine chimico bur-etta , un tubicino di vetro graduato per la misurazione del volume di liquido. Il quale rimanda al francese bur-ette ‘piccola ampolla’. E’ quindi vano, a mio parere, pensare che la gatt-aiola, la piccola apertura alla base delle case contadine d’un tempo, tragga il suo nome da fatto che il gatto vi poteva passare a suo piacimento: si tratta solo di specializzazione di un termine che in partenza aveva solo il significato di ‘apertura, buco’.

   Ma la frase idiomatica inglese to buy a pig in a poke ‘comprare a scatola chiusa’ (letteral. ‘comprare un porco in un sacco’) come la spieghiamo? Dopo quello che ho detto è piuttosto facile, se si ha la pazienza di sfogliare anche qualche esaustivo vocabolario inglese come il Merriam-Webster dove si incontrano termini come pick-pocket ‘borseggiatore’ (letteral. strappa-borse, scippa-borse), parola ben nota, ma pochissimo noto è l’altro suo significato di borsa del pastore, erba delle Crucifere dal nome latino di Capsella bursa pastoris ‘Cassetta borsa del pastore’ in cui Capsella indica il genere e bursa pastoris l’unica  specieL’insistere della definizione sul concetto di “cassetta (lat. capsella)” e “borsa” è dovuto molto probabilmente alla forma del frutto, una siliqua.  Ma cosa c’entra questa pianta con il termine pick-pocket ‘borsaiolo’ derivante dal verbo ingl. to pick ‘cogliere, strappare’  e dal sostantivo pocket ‘tasca, borsa’ di cui sopra? L’unica risposta che so dare, secondo i canoni della mia linguistica, è che pick-pocket in questo caso è parola tautologica la cui prima componente pick- contiene lo stesso significato della seconda componente –pocket ‘tasca, borsa’.  Lo conferma, a mio avviso, anche l’ingl. pick-can, un recipiente (-can) di metallo per contenere i fiori appena colti.

    A me sembrano assai astruse e risibili queste spiegazioni che definiscono a puntino l’oggetto preso in considerazione come se i nomi fossero nati ieri ol’altro ieri. La stessa cosa si ripete con l’ing. pick sack , una capace sacca pendente dalla spalla del povero raccoglitore di cotone dove veniva posto il cotone, appunto, appena colto.  Ma se anche l’ingl. pig ‘porco’ significava pure ‘ tipo di fiasco usato (nella distillazione)’ nonché ‘vaso, brocca di terracotta’! Si salvi chi può! A questo punto mi viene in mente che anche l’it. cata-pecchia per la quale i linguisti non possono che pasticciare, alla ricerca di un possibile etimo, sia in verità una passeggiata per la mia linguistica che vede nella parola una tautologia per ‘locale angusto, buco, ecc.’ in cui la prima componente rimanda, ad esempio, alla gatta-buia ‘prigione’ più sopra citata, e la seconda componente dovrebbe dipendere dalla radice pick di cui ho testé parlato, attraverso la trafila *pic-ula (forma diminutiva) > *picla > *picchia > pècchiaAnche il lat. api-cula(m) ‘piccola ape’, diminutivo di lat. ap-e(m) ’ape’, ha dato, con aferesi della –a-, il toscano pécchia ‘ape’ che oltretutto ha perso il valore diminutivo iniziale.  In toscano si incontra anche pécchia ‘buccia’ o ‘pellicola  che a mio parere rinvia proprio all’idea di “cavità, involucro, copertura, recipiente” contenuta nel precedente pick per ‘borsa’.  Inoltre penso che l’ingl. pig-skin ‘pelle di porco, cinghiale’ sia stato anch’esso un composto tautologico, che ripeteva nei due membri, lo stesso concetto di “pelle”, allo stesso modo in cui in ingl. pig-nut ‘castagna di terra’ si ripeteva nei due membri la stessa nozione di “noce, protuberanza, pallottola, testa, ecc.’.  Da non dimenticare l’ingl. pigg-in ‘sorta di mastello di legno’ che doveva sfruttare il concetto di “cavita.  Buo ultimo l’ingl. piggy bank ‘salvadanaio’, il quale spesso viene costruito proprio a forma di porcellino (piggy) dato che…beh, lo dice il nome stesso!. Ma che puzzle veramente intricato è la Lingua! 
  

   Concludendo, non voglio pensare che la linguistica tradizionale dorma riguardo a questo atteggiamento che bisogna avere dinanzi a certe frasi, perchè so quanto la Lingua sia insidiosa e quanto difficile sia per gli studiosi, senza l'acquisizione di alcune idee nuove rispetto alla natura della Lingua, arrivare a scoprire quello che a me è apparso relativamente facile. Mi auguro che qualcosa cambi. Oggi si esplorano con profitto regioni remotissime del macrocosmo e microcosmo ma per quanto riguarda la natura e l'origine del linguaggio mi pare che non si siano fatti significativi passi in avanti. A parziale correzione di quanto or ora asserito bisogna ammettere che il Linguaggio dell’uomo è molto complicato, essendo esso un prodotto del nostro cervello, il quale, a detta della nota astrofisica Margherita Hack, è più complesso di qualsiasi galassia. Ma, a mio modesto avviso, qualche idea che mi pare di aver individuato sulla sua natura, ne riduce considerevolmente la sua aggrovigliata problematicità.

Amen amen dico vobis.
Inizio modulo




Fine modulo
Fine modulo





[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla Editore, Cerchio-Aq, 2004.