giovedì 30 aprile 2020

La stagione (seguito).


Per il già supposto significato di ‘fuoco, fiamma, luce’ della voce dialettale stagione ‘estate’ e di altre relative espressioni, come quelle teramane, credo siano chiarificatrici  al massimo alcune espressioni provenienti dal Trattato dell’oreficeria del grande orafo, cesellatore e scultore fiorentino Benvenuto Cellini (sec. XVI)[1].

Le espressioni sono le seguenti: 1) “Così avendo lasciato stagionare col fuoco il fornello, in due ore fondemmo 1500 libbre di metallo (Orefic. 135)”; 2) Or che l’arrosto è in stagion, vieni, andiamone a mangiar (Orefic. 36). 

  Ora, l’autore del Dizionario della lingua italiana, presente in rete  (da dove ho tratto le espressioni), pubblicato a Bologna nel 1824, aggiunge tra parentesi quadre, a fianco  della prima espressione, la precisazione : “qui vale Cotto e svaporato, come dice di sopra”. Benchè la precisazione sia un po’ irregolare nella forma e anche incerta (almeno per me) nel significato di svaporato, è chiaro comunque che volesse dire che “stagionare col fuoco il fornello” ha il significato di ‘cuocere col fuoco il fornello’, farlo diventare tanto caldo da poter fondere il metallo, e non portarlo a maturazione e simili. E certamente non c’era nemmeno bisogno della precisazione.

    La seconda espressione, in cui si afferma che l’arrosto è in stagion, ugualmente non mi pare che possa significare qualcosa di diverso l’arrosto è fatto, cotto, anche se questo significato si presterebbe ad una successiva sfumatura di significato: l’arrosto ha raggiunto il grado giusto di cottura, esprimendo insomma la maturazione e in certo senso la stagionatura dell’arrosto. In altri punti dell’opera di Cellini ho letto espressioni come quando il fuoco sia nella sua stagione da intendere ‘quando il fuoco ha raggiunto il massimo’, cioè ‘il massimo dell’ardore e calore’ (rispunta, però, il significato laterale di ‘maturazione, stagionatura’, che non deve ingannarci).   Credo che tagli la testa al toro la voce siciliana lu stazzùni  ‘la fornace’,  fabbrica dove si cuocevano oggetti di creta come vasi, tegole, ecc.
 
    L’ho sempre sostenuto, e lo ripeto ancora: se uno conoscesse bene molti dialetti, oltre a conoscere capillarmente  la propria lingua nazionale, compresi i testi letterari di autori lontani da noi, potrebbe risolvere con una certa facilità molti problemi linguistici, ritenuti irrisolvibili. 

sabato 25 aprile 2020

La stagione

          
                                         

 Termine derivante dal lat. station-e(m) ‘fermata’ nel significato specializzato di periodo dell’anno, il quale si dipana, per così dire, attraverso quattro fermate o quattro stadi, cioè quattro periodi di tre mesi ciascuno.  Particolare è il significato di stag(g)ionë in abruzzese e siciliano, dove indica l’estate.  E’ facile dire che l’estate in queste regioni (ma anche in altre) assume il significato di stagione per eccellenza, ma alcuni usi del termine mi fanno dubitare, e non poco. 

   Nell’Abruzzo e nelle Puglie la stagione di San Martino equivale all’altra espressione più nota ‘estate di San Martino’.  In questo caso, trattandosi a mala pena di qualche giorno di sole intorno all’11 novembre, quando eventualmente si verifica, la parola stagione sarebbe del tutto inappropriata se non avesse nel fondo il valore di ‘calore, ardore’ come succede per estate.  A Teramo il termine stagiόnë indica, in modo piuttosto singolare, ‘l’eccessiva durata del sereno in estate’ che causa la siccità nei campi, per cui si dice anche fà la stagionë, cioè ‘non piove’[1].  E’ molto probabile che quest’ultima espressione corrisponda a fare la secca, come noi nella Marsica diciamo, quando tutto in campagna  si secca sotto l’ardore impietoso del sole. C’è infatti da notare che a Trasacco, ma anche altrove, il verbo staggënà significa ‘fare seccare, fare asciugare bene un legno, fare ben seccare, far trascorrere del tempo a tal fine’[2]. Entro questo significato si potevano inserire, con tutta naturalità, anche la stagionatura del formaggio o dei salumi, ad esempio. Poi il verbo, credo, si è un po’ più allargato ad indicare prodotti tenuti in conservazione per un miglioramento delle qualità, o persone di una certa età arrivate alla piena  maturità, come avviene in italiano.

   Anche il verbo lat. coqu-ëre ‘cuocere, cucinato, fondere’ assumeva il significato di ‘maturare (dei frutti)’ avvicinandosi così all’idea di ”stagionatura, pieno sviluppo”. Pertanto si può pensare che l’idea di “stagione” che per noi oggi indica soprattutto una ‘durata di tempo’ più o meno lunga, e ci suggerisce insidiosamente che il relativo verbo indichi solo una durata di un processo di crescita o maturazione, in realtà finisce col seppellire il significato originario di ‘seccare, ardere’, che è caduto dall’uso ma, come spesso succede alle parole relegate ai margini della lingua,  rispunta qua e là in espressioni particolari o obsolete.

   Sono stato, poi, fortunatissimo nell’incontrare, in questa ricerca di prove della bontà del mio pensiero, una vera e propria chicca: il significato letterario e arcaico di stagione[3], che è quello di ‘splendore, freschezza’.  La parola certamente doveva essere un relitto antichissimo, ora scomparso, probabilmente anche nei dialetti: ma chi conosce capillarmente tutte le parlate d’Italia? Il suo significato di fondo non poteva attingere al concetto figurato di “fresco” bensì a quello concreto di “splendido, luminoso”. 
     
   Io sono spinto a credere che dietro queste espressioni, soprattutto quelle teramane, ci sia una radice che in sostanza esprima la stessa idea nascosta dietro il termine estate, quella di lat. aest-u(m) ‘bollore, ardore, calore, vampa, ecc.’ , ben espressa dal verbo greco corradicale, o quasi, aíth-ein ‘ardere, risplendere’ (cfr. gr. aithría ‘cielo sereno, etere’), presente anche nel nome dell’EtnaAllora non trovo fuori luogo chiamare in ballo la radice di Giove Stat-ore e di Stata Mater (divinità del fuoco), dei quali ho parlato abbastanza nell’articolo di qualche giorno fa, presente nel mio blog (22/4/ 2020).   Anche in inglese abbiamo l’espressione to be in season ‘essere in calore’ riferita agli animali.  Ora, c’è chi fa derivare però il fr. saison ‘stagione’ (da cui l’ingl. season ‘stagione’) dal lat. sation-e(m) ‘semina’, e quindi ‘stagione della semina’, ma io penso che al massimo ci sia stato un incrocio di questo termine con la parola latina station-e(m) ‘fermata’ diventata poi ‘stagione’.
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  Si dà anche il caso che esistano le forme lombarde stador-ína, stador-éla ‘estate di San Martino’[4], considerate diminutivi di estate, e potrebbe essere, ma non si può escludere affatto la derivazione dalla suddetta radice stat- che ha dato origine anche all’espressione summenzionata stagione di San Martino ‘estate di San Martino’.

   E’ pertanto sempre più impellente considerare il fungo di Castellafiume-Aq. stat-aroio < *stat-arolo di cui ho parlato nello stesso articolo sopra citato, un’altra forma anch’esso della medesima radice supponendo che questa si sia incrociata col nome del fungo, che magari esisteva già autonomamente. Comunque potrebbe valere, a questo punto, anche la supposizione fatta da qualcuno circa una derivazione di stataroio dal nome dell’altro fungo noto in toscana come stataiolo, un porcino estivo, però, del tutto diverso dal nostro fomes fomentarius arboricolo.  Supposizione che però deve essere intesa nel senso esclusivo che la radice di stataiolo (porcino), trasposta nel nome del fungo di Castellafiume, non indica affatto un fungo “estivo” ma sottolinea semmai la sua vocazione, diciamo così, per il fuoco o relativa accensione, stante il significato profondo di estate. E inoltre potrebbe essere anche il contrario, e cioè che sia la voce toscana stataiolo, intesa come ‘fungo estivo’, a derivare da quella di Castellafiume-Aq che per ora ho riscontrato solo in quel dialetto appartenente grossomodo all’area linguistica dei Piani Palentini, ma che potrebbe ricorrere anche altrove.



[1] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET Torino,1998.

[2] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

[3] Cfr. T. De Mauro, Il dizionario della lingua italiana, Paravia Bruno Mondadori editori, Milano 2000.

[4] Cfr. Cortelazzo-Marcato, cit. 

                      




   

giovedì 23 aprile 2020

Per la quale.



Molte volte mi sono chiesto quale fosse l’origine di simile locuzione che, inizialmente, credevo fosse solo dialettale mentre è perfettamente italiana. Il suo significato italiano è ‘adatto, appropriato alle esigenze’ se riferita a cose, e ‘ammodo’ o ‘in modo egregio’ se riferita a persone.  E’ chiaro che i due significati sono interdipendenti, cioè specializzazioni di una base semantica comune.

   Non so cosa pensino i linguisti di questa espressione, che difficilissimamente trova spiegazione etimologica nei comuni vocabolari.  Io penso, tagliando la testa al toro, che essa provenga dall’aggettivo latino di grado superlativo per-aequal-e(m) ‘molto uguale, simile, proporzionato, corrispondente (alla necessità richiesta)’. L’aggettivo superlativo con per- non si è conservato in italiano ma, quando si è passato a questo strato linguistico, è andato incontro, come spesso succede, ad una reinterpretazione ad hoc, che lo rendesse comprensibile secondo i canoni della nuova lingua.  Ma l’operazione, a mio avviso, è riuscita solo a metà, dando come esito un per la quale che grammaticalmente non ha significato, ma è comunque composto  di  parole italiane, conditio sine qua non per potere sopravvivere. La sfumatura del suo significato è la stessa che si può notare nel verbo italiano adeguare e nell’ aggettivo adeguato (da lat. ad-aequ-are ’essere uguale, rendere uguale’) col significato di ‘conforme, appropriato (alla necessità)’.
   Di conseguenza io vedrei anche nell’espressione tale e quale almeno l’influsso di una precedente espressione latina tal-e(m), aequal-e(m) ‘tale, uguale, conforme’; il gruppo vocalico ae- (pronunciato –e-) è diventato automaticamente la congiunzione –e- che però lascia il quale un po’ incerto grammaticalmente, tanto è vero che esiste anche l’espressione it. tal quale (creatasi prima o dopo l’altra?) senza congiunzione. Però l’espressione potrebbe essersi originata da altre di questo tenore: Pietro è tale quale Luigi.  Ad un certo punto la –e- finale di tale è stata presa per congiunzione e si è pervenuti a tal e quale, tale e quale.
  
 

mercoledì 22 aprile 2020

Iuppiter Stator (Giove Statore). La linguistica, per certi versi, è rimasta ai tempi di Romolo e delle capanne sul Palatino.



     
    Tutti sappiamo che Giove, il sommo dio dei romani, aveva molti epiteti, tra cui Stator-e(m) che sembrava essere tra quelli più chiari, quando leggevamo, o qualche insegnante ci diceva, che il suo significato è ‘quello che aiuta a rimanere saldi’ di fronte all’incalzare dei nemici.  Dal verbo lat. st-are (partic. pass. stat-um) ‘rimanere fermo, saldo’.  Però ora, riflettendoci sopra un po’ pignolescamente, noto che il verbo è intransitivo e quindi dovrebbe significare ‘colui che si ferma restando saldo’, riferito a Giove stesso, ma si potrà sempre dire che in questo caso è la divinità stessa che impersona il combattente romano, e la piccola difficoltà sparisce.

   La tradizione leggendaria parla di Romolo che, in un difficile frangente per le milizie romane, quando avevano già ceduto all’irruenza dei Sabini nel foro, nella battaglia del lago Curzio, intorno al 750 a.C., e risalivano di corsa verso il Palatino, si rivolse a Giove Statore promettendogli la costruzione di un tempio se avesse rovesciata la situazione: la sua invocazione evidentemente fu ascoltata e i romani, raccolte le loro ultime forze, riuscirono a  respingere i Sabini.

   Ora, passando ad un’analisi razionale, è certo che i nomi relativi a divinità sono molto più antichi di quelli della lingua stessa di cui un popolo si trova a fare uso, anche nella fase più arcaica  della sua storia, e quindi metodologicamente potrebbe essere fuorviante cercare di spiegare, confidando sui valori delle parole di quella lingua in quello stadio evolutivo, il valore di un nome di divinità il quale poteva già esistere quando quel popolo usava magari una lingua di gran lunga diversa, e, soprattutto, molte parole potevano essere nel frattempo cadute  e altre  invece subentrate in vari modi.    E in effetti si dà il caso che, per la spiegazione, a mio parere giusta, di questo appellativo Statore, si debba tener conto di una parola che ho incontrato nel dialetto di Castellafiume-Aq. nella Marsica, paese non molto lontano da Roma.  Ma le parole, lo sappiamo, a volte hanno avuto tutto il tempo per viaggiare comodamente in lungo ed in largo e compiere migliaia di chilometri.   Oltre a Giove Statore si aveva anche la divinità del fuoco Stata Mater, alla quale, nei tempi più antichi, si accendevano fuochi  nel foro. 

    La parola è stat-aroio[1] < *stat-arolo, con la normale palatalizzazione della /l/, che indica un fungo particolare, il cui nome scientifico è fomes fomentarius, fungo da esca usato un tempo per accendere il fuoco.  Ora stat-aroio dovette significare, nel lontano passato, proprio ‘atto all’accensione del fuoco, infiammabile’: mi consente di supporlo il verbo gr. stathéu-ein ‘riscaldare, ardere, arrostire’.  Tutto qui. E allora Iuppiter Stator non era altro che Giove Luminoso, o Giove Brillante o Ardente se per caso all’inizio la divinità coinvolta era quella affine del Sole.  E forse nella lontana preistoria, dove senz’altro arrivano le radici di questo nome, l’uomo non aveva ancora inventato la guerra organizzata, creazione forse di epoche successive.  In greco si ha anche uno Zeús Stad-aî-os (cfr. Eschilo, Theb., v. 513) inteso come ‘Zeus che presiede a battaglia campale’, da gr. stádi-on ‘stadio’.  Ogni lingua, come si può ben vedere, interpreta la radice secondo le parole del suo vocabolario, nemmeno  sospettando che in questo caso l’epiteto poteva nascondere la stessa radice di gr. stathéu-ein ‘riscaldare, ardere, arrostire’, sopra citato. 

    In effetti se dovessimo usare lo scientifico rasoio di Occam, ci accorgeremmo che la mia interpretazione potrebbe essere quella giusta.  Infatti per Statore si afferma che il significato dovrebbe essere quello di ‘che tiene saldi i soldati’ o anche ‘che ferma i nemici’ e, tenendo presente il significato del verbo greco che presenta la stessa radice di lat. st-are, cioè hi-stá-nai ‘porre, erigere, innalzare,ecc.’, si potrebbe ugualmente sostenere  che Stator, nei primordi della sua storia, poteva significare ‘colui che innalza (il trofeo della vittoria). Idem per Stata Mater che comunemente si interpreta come ‘colei che ferma gli incendi’ ma con altrettanto diritto si potrebbe interpretare come ‘colei che provoca incendi’.  La realtà, secondo me, è che queste sono interpretazioni tardive rispetto alla presumibile antichità preistorica di queste divinità. La mia interpretazione di Giove Luce o brillante e di Madre Fuoco, è semplice, diretta, non bisognosa di altre parole e concetti per essere intesa. E’ quindi rispondente in pieno  alla ratio del rasoio di Occam, anche se per caso non dovesse essere vera.  La sola radice sta-  potrebbe essere riferita a buon diritto a tante circostante: è solo la posizione tradizionale che parte dai tempi di Romolo ad autorizzarci, in certo senso, ad intendere il significato di questi epiteti nel modo che sappiamo. E in verità, a volere essere pignoli, la detta interpretazione non partirebbe nemmeno da Romolo, ma da quelli che secoli dopo ne parlarono. 

    C’è un altro interessante epiteto per Giove, Iuppiter Lapis ‘Giove Pietra’. Nel tempio di Giove Capitolino si conservava, evidentemente da tempi immemorabili, una vera e propria pietra (un meteorite?), per la quale si giurava, considerata la materializzazione della divinità stessa e del suo fulmine, divinità che  finiva in un certo senso col coincidere con l’oggetto stesso, in una visione quindi aniconica del dio, propria di alcun religioni.   A mio parere anche qui dobbiamo pensare che Lapis corrisponda alla radice del verbo  gr. lámp-ein ‘lampeggiare, brillare’ se in lettone lapa vale ‘fiaccola di pino’.  E forse ne sa qualcosa lo stesso latino limp-id-u(m) ‘limpido, chiaro’. 

    Un altro epiteto di Iuppiter è Flagius adorato a Cuma-Na, nella zona dei Campi Flegrei.  Sia per Flegrei che per Flagi-us viene spontaneo citare il verbo gr. phlég-ein ‘bruciare, fiammeggiare, splendere’, lat. flagr-are ‘ardere, risplendere’, lat. flamm-a(m) ‘fiamma’ < *flag-s-ma, variante metatetica della radice di lat. fulg-ēre ‘brillare, risplendere’, lat. fulg-ur ‘lampo’, lat. ful-men ‘fulmine’<*fulg-s-men. 

    Ora, voglio dire che qui non si tratta tanto di precisare  l’origine di questo o quell’epiteto: è tutto un atteggiamento da rivedere nei confronti soprattutto di termini riguardanti la religione, la protostoria o le leggende di una civiltà. Ma la cosa stenta a prendere piede, quando non è recisamente rifiutata, e così si continua ad insegnare falsamente nei licei che Giove Statore nacque come ‘colui che fa restare saldi i soldati’!  E’ quello che anche i romani credevano, in base al verbo lat. st-are ‘restar fermo’, ma la ricerca linguistica odierna, dopo secoli e secoli, dovrebbe e potrebbe avere altre armi per rivelarne la falsità!



[1] Cfr. D. Di Nicola, Storia di Castellafiume, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2007

    


lunedì 20 aprile 2020

La festa di San Zopito a Loreto Aprutino




   E’ una festa molto caratteristica e veramente singolare che si svolge nel paese di Loreto Aprutino in provincia  di Pescara, in onore di San Zopito, appunto. Lo strano nome del Santo sarebbe dovuto, secondo l’interpretazione di alcuni, al fatto che sulla lapide di un loculo delle catacombe di San Callisto, da dove le sue reliquie sarebbero arrivate a Loreto, si poteva leggere l’espressione latina Sopitus in Domine ‘Addormentato nel Signore’.   Pare che ci sia una data precisa di nascita, quella del 25 maggio 1711, quando le reliquie del martire sarebbero  state traslate nella chiesa di San Pietro Apostolo di Loreto, di cui si hanno notizie fin dal secolo XI d.C. La data di celebrazione della festa è quella del lunedì successivo alla domenica di Pentecoste. 

    Ora, viste le caratteristiche peculiari della manifestazione religiosa che andrò a descrivere (sia pure per sommi capi), a me sembra assolutamente impossibile che una festività che si presenta con tutti i crismi di una religiosità  primitiva legata all’agricoltura, possa essere nata improvvisamente e artificiosamente dopo la traslazione delle reliquie suddette.  Recentemente è comparsa un’altra interpretazione, in base alla quale un altro nome proveniente dalle catacombe sarebbe quello greco di Zpyr-os, nome che etimologicamente vale ‘che ravviva il fuoco’ e che figurativamente avrebbe potuto dare un possibile nome personale dal significato di ‘vivificatore’. 

   Riflettendo su queste circostanze,  mi è venuto in mente che tra la gente di Loreto e tra gli stessi ecclesiastici locali sia potuto nascere, ad un certo punto, il desiderio di trovare una degna giustificazione ufficiale alla loro festa e, soprattutto, al nome stranissimo del Santo.  In epoche passate il commercio delle reliquie dei Santi, vere o false che fossero, era molto attivo, e così bastò magari l’iniziativa di un parroco di allora per far venire da San Callisto le reliquie e il nome del martire per la loro festa che così, apparentemente, sarebbe iniziata con quell’anno.  Comunque, ferma restando la mia convinzione dell’origine primitiva della festa, sarebbe anche possibile chiarire la cosa se nell’anagrafe di Loreto o in qualche altro archivio, magari della parrocchia, si potessero reperire documenti anteriori al 1711, dove potrebbero comparire o meno nomi personali Zopito che attesterebbero quindi indirettamente lo svolgimento o meno della festa in quegli anni. Ma per quanto riguarda l’anagrafe comunale, potrebbe insorgere un’altra difficoltà, sebbene piuttosto rara, legata al fatto che i nomi da imporre ai neonati dovrebbero essere nomi già esistenti e riconosciuti, non solo nell’ambito del paese ma all’interno di una comunità più vasta.  Esistevano di queste norme in passato, oggi mi pare che si sia di manica più larga.  Allora poteva capitare che nomi Zopito esistessero già nella pratica locale, ma che la registrazione ufficiale avvenisse sotto altri nomi.  Ancora oggi conosco, infatti, ad Aielli diverse persone chiamate con un nome ma registrate all’anagrafe con un altro. 

   Ora trascrivo parte di quanto avevo affermato su questo Santo in altro articolo intitolato San Zopito, San Pietro, Giove ed altro del giugno 2009, presente nel mio blog: pietromaccallini.blogspot.com.

     Comincio con l’epiteto tany()-pteros ‘dalle lunghe ali’ dell’inno omerico a Selene. E’ altamente improbabile che un poeta greco, sia pure dell’età arcaica, abbia potuto inventare un attributo così strano per la luna, anche se vista nelle vesti di una divinità.

    Si deve ragionevolmente pensare che tany()-pteros ‘dalle lunghe ali’ sia il relitto di parola arcaica riferita alla luna, presente magari in qualche parlata locale, o piuttosto la sopravvivenza, nella tradizione poetica, di qualche raro epiteto lunare. Secondo il mio modo di vedere esso si spiega comunque benissimo se si mette in rapporto con nomi simili della tradizione mitica e del lessico greco della medesima area semantica. Fermo restando l’assunto, di cui sono convinto, che questi composti nascono sotto la spinta della ripetizione tautologica dello stesso concetto nelle due componenti, mi viene naturale collegare –pteros al termine celtico patera, fornitoci da Ausonio, che significa ‘sacerdote di Apollo’; alle tre patere d’oro situate dinanzi alla statua di Giunone nel tempio di Giove sul Campidoglio; a Saint Patr-ik che, nella leggenda, accende il fuoco pasquale qualche istante prima che i druidi accendano il loro fuoco pagano sulla collina di Tara; al colle di San Pietro, con relativa chiesa di San Pietro sorta come riadattamento di un precedente tempio pagano nell’area di Alba Fucens, dedicato, secondo una tradizione giunta fino a noi, agli dèi della luce diurna o solare, Giove[1] o Apollo; al monte San Pietro nel territorio di Aielli-Aq, con la chiesa medievale di San Pietro[2] quasi sulla sommità, i cui ruderi, noti come Casarilë Santë Petrë, sfidano ancora i secoli e forse sono l’ultimo indizio del culto, in quel sito, di una originaria e antichissima divinità della luce[1]; al concetto, in ultima analisi, di espansionediffusioneemanazione proprio della luce, ma anche delle acque, del vento, e di ogni cosa che possa essere collegata al movimento, e ben presente nell’etimo di –pteros che è lo stesso di lat. pet-ere ‘andare, assalire, chiedere’, greco -pt-omai ’cado’, greco pot-amόs ’fiume’, greco pét-omai ’io volo’: ecco perché tany()pteros è, in poesia, un normale esornativo per gli uccelli che sono naturalmente ‘veloci, volanti’ e ‘volatili’ piuttosto che, letteralmente, ‘dalle lunghe ali’ per cui il termine poteva inizialmente indicare anche gli uccelli tout court. Una volta viene usato addirittura per la mosca “schizzante” (Simonide, fr. 6).

      Un termine simile è  taný-dromos ‘veloce nella corsa’; anche όrnis ‘uccello’ sfrutta quasi certamente il concetto di ‘movimento’ (cfr. όrnymi ‘metto in moto, eccito, sollevo, ecc.’). Le chiese di San Pietro su menzionate ci ricollegano alla stupenda festa di San Zopίto che si svolge, in concomitanza con la Pentecoste, a Loreto Aprutino-Pe. Un bue bianco, caratteristicamente addobbato con uno specchio ovale in mezzo alla fronte (chiaro simbolo del disco del sole, a mio parere) e cavalcato da un angelo (un ragazzino biondo in tunica bianca con un fiore rosso tra le labbra e molti monili d’oro attorno al collo) munito di un parasole, entrava in passato nella chiesa di San Pietro (ora, ahimè, si ferma sul sagrato per divieto di qualche autorità religiosa timorosa che la cerimonia potesse tralignare nel paganesimo) e andava ad inginocchiarsi, come per mesi era stato addestrato a fare, dinanzi al busto ligneo di San Zopito. Il bue assisteva alla cerimonia e naturalmente defecava a suo piacimento: dal tipo e dalla quantità degli escrementi i contadini traevano auspici per il raccolto. Ora, senza soffermarmi su altri particolari interessanti, mi pare che non si possa negare la natura solare di questa antica divinità il cui strano nome, se rettamente inteso, ci porta dritto dritto a un equivalente del lat. Iu-piter, in cui la componente Iu- risulta da un precedente Dieu-, come tutti sanno. Solo che in questo caso il nesso Di- ha dato come esito un’affricata sonora, come è avvenuto normalmente all’interno o alla fine di tante altre parole, ma anche nel gr. Zéus 'Giove'. Che la componente –pito sia la continuazione di –piter mi pare confermato dal nome della chiesa di San Pietro, dove il bue entra (almeno fino a non molti anni fa) e dove si conserva il busto del Santo, nonché dall’imprecazione Dio prete![3] in uso in Romagna, in cui 'prete' è l’esito dell’originario piter, avendo subito la stessa metatesi della diffusa voce dialettale preta, dal lat. petra, e il normale passaggio della /i/ tonica breve in /e/, come in 'vetro', dal lat. vitrum. Ahimè! quella che all’origine era una innocua invocazione o esclamazione (o Giove! oppure per Giove!) ha subito un processo di degenerazione, destino impietoso di ogni terrena cosa, trasformandosi in una curiosa imprecazione! Ricordo anche che, dalle nostre parti, sentivo spesso in giro pronunciare la blanda imprecazione Dio frate!, specchio del greco Zeús phrátrios , cioè Zeus protettore delle fratrie o, latinamente, delle gentes. Ma il significato originario di phrátrios doveva essere, secondo me, lo stesso di Zeus (splendore), più vicino al ted. brodel-n ’bollire’ o ted. braten ’arrostire’ o ingl. to burn ‘ardere’ che alla nozione di ‘fratello’. Tra le mandrie di buoi sacri al Sole è famosa quella violata dai compagni di Ulisse arrivati in Trinacria. I Dios-curi, figli di Giove e di Leda, ai quali veniva attribuito anche il fuoco di Sant’Elmo, nell’inno omerico loro dedicato, accorrono ksouthêisi pter-ýg-essi ‘ con le ali veloci’ alle invocazioni dei marinai in difficoltà nel mare agitato. E ugualmente non può meravigliare il fatto che i due gemelli, alle loro apparizioni, siano seguiti da uno stormo di rondini se è vero che ksouthos equivale a “rondine”[4].

    Anche in questo caso io penserei che le ali loro attribuite siano dovute al gioco delle assonanze come dimostra anche il relativo aggettivo ksouthόs dai significati molteplici di 'giallo-oro, fulvo, chiaro, sonoro, acuto, agile, veloce', tutti riconducibili, secondo me, all’idea basilare di movimento,vivacità. Nel mito poi, Ksouthόs, marito di Creusa, svolge il ruolo di padre putativo di Ione, figlio che Creusa aveva avuto da Apollo. Si è quindi sempre nell’ambito di termini, a mio avviso, collegabili con la luminosità del dio del sole. Nello Ione di Euripide c’è un passo in cui Ione, custode del tempio di Apollo a Delfi, descrivendo il suo duro, anche se gradito, lavoro di uomo delle pulizie, afferma che tutti i giorni deve svolgere il suo servizio hám’ halίou / ptér-ygi thoâi (letteral. ‘ con del sole l’ala veloce’, cioè ‘ col primo sorgere del sole’, vv. 122-23). Credo che anche quest’espressione vada inserita nel contesto di una tradizione poetica o mitica antichissima all’origine della quale il valore di ptér-yx (ala) doveva essere semplicemente quello di 'luce'. La componente tany()- corrisponde pari pari al greco Tán ( ma anche alle varianti DánZánZén,ecc.), forma dialettale di gr. Zeús (da *Di-eus: cfr. lat. di-es 'giorno', lat. Iu-piter inteso normalmente come Giove padre in cui però a mio parere -piter, insieme a pater, è qui variante di -pter-os; lat. Iov-emì 'Giove'). 

    C’è da fare ancora qualche osservazione sulla festa di San Zopito. Naturalmente non sarà sfuggita l’insistenza sulla idea di “luce, chiarore, bianchezza “  ricorrente a più riprese: il bue bianco, il ragazzino dai capelli biondi, il parasole bianco, i monili d’oro ornamentali, il busto argenteo di San Zopito. E’ un’orgia di luce e oggetti chiari, luminosi che sembra sottolineare la natura della divinità che si va celebrando.  Quanto al parasole è a mio avviso molto pertinente ricordare feste ateniesi che si celebravano ad Atene, in onore della di Atena Poliade (figlia di Zeus), protettrice della città, feste in cui un parasole bianco (come quello portato dal ragazzino sul bue nella festa di San Zopito) era portato alla dea del Partenone dalle sue sacerdotesse. La parola greca è skír-on ‘parasole’ e ha probabilmente la stessa radice di gr. skiá ‘ombra’, ted. Schirm ‘schermo, ombrello’.  Il parasole era portato anche ad Elio, dio del sole, e Posidone, dio del mare.  Ma poteva esserci stato l’incrocio del termine con radici come quella dell’ingl. sheer ‘puro, schietto’, arcaico ‘brillante’. Ci sarebbero altre osservazioni da fare relativamente alla festa di San Zopito, ma mi fermo qui  e ripeto che una festa con queste caratteristiche non può in alcun modo nascere improvvisamente nel 1711, in virtù della presunta o vera traslazione a Loreto Aprutino di spoglie di un martire sottratte alle catacombe di  San Callisto, Roma.
   Dimenticavo un’altra osservazione abbastanza importante: il nome stesso dell’antico paese di Loreto, contiene la radice di lat. laur-um ‘alloro’, pianta sacra ad Apollo, divinità del sole.
  
 
[1] Cfr. Luigi Mammarella, Alba Fucens, Adelmo Polla editore, Cerchio-Aq, 1987, p. 73. 

[2] Cfr.Andrea  Di  Pietro, Agglomerazioni delle popolazioni attuali della diocesi dei Marsi, Avezzano-Aq, 1869, p.146.

[3] Cfr. Aurelio Nardelli, Il secolo XX (breve?-lungo?), E. D. C. Editrice, Avezzano, 2005, p.225. 

[4] Cfr. Robert Graves, I Miti Greci, Edizione CDE spa, su licenza della Longanesi & C., Milano, 1985, p.144 n. 1, p.227 n.6. 




[1] Il  maschile casarìlë non esiste come nome comune nel nostro dialetto di Aielli-Aq  in cui mi pare che non esistano nemmeno altri diminutivi terminanti in – arilë., anche se il vocabolo viene  associato vagamente all’idea di  ‘casa, casale, ecc.’. Il diminutivo di casa, suona da noi cas-arèlla, casétta, nomi femminili.   Suppongo che cas-arìlë  debba avere a che fare con monte Cassino (.lat.  Cas-inum) c on la celebre abbazia edificata su pecedente sito sacro ad Apollo; con Zèús Kásios (del monte Casio); col vocabolo cassia (lat. casi-am) identificabile con la canella alba  con la corteccia bianca.  Infine propongo la parola ebraica ari-el (focolare di Dio) con cui veniva indicata a volte Gerusalemme. Dio aveva sul Sion il suo focolare: le cime dei colli e dei monti erano sedi preferite da queste divinità e da Giove.  Ma la seconda componente –arìlë potrebbe essere quella di un precedente cas-aurile  e richiamare il personale lat. Aur-eli-u(m) ‘Aurelio’  che si deriva da una radice italica (cfr.sabino aus-el ‘sole’) in rapporto con l’etrusco Usil ’dio del sole’.  

venerdì 17 aprile 2020

Vari nomi dell'agnello.

    


   

    Chi conosce ad Aielli, soprattutto tra i giovani, la parola amm-ìzzë? Significa 'agnello' come l'altra parola ain-ùccë (anche àinë ‘agnello’). Queste ultime sono dal lat. agn-u(m) 'agnello': la /g/ dinanzi a consonante si trasforma in /i/ talora. Ma la prima parola? Non abbiate paura! è il gr. amn-ìs, id-os 'agnellino' <amn-όs 'agnello', diventato amm-izze per influsso dell'altra voce dialettale ammizzë ‘abituato, avvezzato’ da dialettale ammëzzà ‘avvezzare’ < basso lat. ad-viti-are.

     Anche l’abbacchio non ce la racconta giusta, una parola registrata solo all'inizio dell'Ottocento ma che di certo doveva esistere nei dialetti da molto tempo prima. Nel meridione d’Italia compare, successivamente, anche una forma bacchio 'agnello', che è considerata derivante dall'altra per aferesi, come spesso succede. Ma io suppongo che essa fosse la forma originaria, che dopo molte vicende ha dato abbacchio. Quest'ultimo si fa derivare in genere dall'espressione latina ad bac-ul-u(m) 'presso il bastone, palo' dove talora il piccolo animale si legava per non farlo allontanare, in campagna. E' facile e normale  il passaggio da ad bac-ul-u(m) ad abbacchio, come ormai credo sappiate. Un'altra etimologia vuole abbacchio derivato dal lat. ove-cul-a(m), diminutivo di lat. ov-e(m) 'pecora', ma si sarebbe dovuto avere una forma ovecchio, al massimo un irregolare ovacchio un po' lontano da abbacchio. Comunque la cosa sarebbe stata possibile.

     A me disturba un po' questa derivazione da bastone in base a cui si indicherebbe un animale come l'agnello con parole che non attengono alla sua natura ed entità ma che solo casualmente lo riguardano. Infatti ritengo più praticabile far derivare il nome dal gr. phág-il-os 'agnello', ritenuto però falsamente apparentato con la radice di gr. phag-eîn 'mangiare': l'agnello indicato sarebbe quello che appena svezzato comincia a mangiare, in fondo ancora un lattonzolo, un abbacchio; dalla parola greca si dovette passare a *phágl-os con la sincope della /i/- e poi, seguendo il destino di altre parole derivate dal lat. come gland-a(m)> it. ghianda, si dovè avere la palatalizzazione del nesso /gl/ e la parola divenne  phághio , con la pronuncia però solo aspirata della /p/, come era nella reale pronuncia  greca, del gruppo /ph/, non trasformato successivamente in fricativa sorda /f/. Si ebbe, insomma nei dialetti un *paghio, magari col raddoppiamento *pagghio. Il passaggio successivo fu quello metaforico per cui la sonorità di -gh- passò alla iniziale sorda p- che divenne sonora b-. La parola a questo punto era diventata bacchio, come la forma dialettale meridionale di abbacchio di cui ho parlato all'inizio. Io penso che anche l'it. pacchia, fatto derivare dal verbo, ormai desueto, it. pacchiare 'mangiare’, possa essere tirato in ballo se si vuole dare un compagno credibile al bacchio (agnello) fatto derivare da me  dal gr. phág-il-os. Naturalmente questo bacchio non ha potuto evitare l'incrocio e la confusione con l'it. bacchio 'pertica usata per bacchiare' e con il verbo dialettale abbacchi-are 'abbattere, macellare', da cui deriverebbe  l'ab-bacchio (da *ad-bacchio) 'agnello di latte' italiano, che viene “abbacchiato” soprattutto nel periodo pasquale, e che è chiamato nella Bibbia anche semplicemente pascha.

 

   Questa storia del palo cui l'agnello veniva legato, finisce col diventare veramente invasiva. Esiste in effetti anche un dialettale abruzzese passun-àrë 'agnello respinto dalla madre' fatto derivare sempre dal concetto di palo, che nei nostri dialetti è detto anche passone, (ad Aielli pasciònë). Ma qui siamo di nuovo vittima di fraintendimento perchè dietro il passun-arë si protrebbe nascondere una forma metatetica *pask-un-are (rispetto alla radice di lat. pax-ill-um 'paletto, piolo'); la parte finale –arë potrebbe essere la radice di quella greca arn-a 'agnello', aggiunta tautologicamente alla prima, e di quella latina di ari-et-e(m) 'ariete'.

 

    Ma è possibilissimo che una radice op-, up- per 'pecora', non attestata ma ricavabile dal lat. up-ili-on-e(m) 'pastore' con le varianti op-ili-on-e(m) e ov-ili-on-e(m) si sia aggiunta al bacchio< gr. phag-il-os ' agnello' dando una forma dialettale ob-bacchio divenuto abbacchio per influsso del dialettale  abbacchiare ‘macellare’. Delle molte possibili varianti di un nome a noi restano solo rimasugli, bazzecole, salvatisi miracolosamente dall'azione livellatrice della lingua. Anche in inglese abbiamo il termine ewe che significa ‘pecora’ e che rimanda alla radice di lat. ov-e(m) ‘pecora’, ma si ha anche un ewe lamb ‘agnella’ , in cui lamb da solo significa già ‘agnello’.


    Pensate, in lat. esisteva anche una parola maschile ovi-fer-u(m) 'pecora selvatica', in cui l'elemento -fer doveva condividere la radice con lat. fer-a(m) 'fiera'.

 

Quanta storia per un agnello genuino!