martedì 30 giugno 2009
San Zopito, san Pietro, Giove ed altro
[1] Cfr. Luigi Mammarella, Alba Fucens, Adelmo Polla editore, Cerchio-Aq, 1987, p. 73.
[2] Cfr. Andrea Di Pietro, Agglomerazioni delle popolazioni attuali della diocesi dei Marsi, Avezzano-Aq, 1869, p. 146
[3] Cfr. Aurelio Nardelli, Il secolo XX (breve?-lungo?), E. D. C. Editrice, Avezzano, 2005, p.225.
[4] Cfr. Robert Graves, I Miti Greci, Edizione CDE spa, su licenza della Longanesi & C., Milano, 1985, p.144 n. 1, p.227 n.6.
[5] Cfr. Giovanni Semerano, L’infinito: un equivoco millenario, Bruno Mondadori, Milano, 2001. p.131. [6] Cfr. Giovanni Semerano, op. cit., p.131.
Origine degli agionimi relativi ai centri abitati e ai luoghi di culto cristiani
I paesi in genere non nascono perché qualcuno, re, condottiero, ecc. decide di fondarne uno con un nome da lui imposto, o perché così decide un gruppo di uomini riuniti a parlamento, bensì per processo naturale di agglomerazione di persone, famiglie, attorno ad una fonte, un ponte, su un colle (possibilmente con sorgenti) ecc., tutte realtà geografiche che avevano già da tempo, forse immemorabile già allora, il loro bel nome. Ora, si dava spesso il caso che questo antichissimo nome, designante la realtà geografica interessata, andava a combaciare, con l’avvento del Cristianesimo, con quello di un santo più o meno noto, o più o meno realmente esistito, e il gioco era fatto. Così si spiegano anche quei nomi strani di santi come quello del paese sardo di Santu Lussurgiu o quello del protettore di Loreto Aprutino (Pescara), san Zopito.
Emblematico a tal proposito è il nome del paese di Santa Anatolia-Ri, di cui tratto nell’articolo dedicato alla madonna della Vittoria di Scurcola Marsicana, il cui nome antico, scaturito dalle abbondanti sorgenti del luogo, chiaramente doveva corrispondere al greco anatolé ‘sorgente’. Ma interessantissima è la vicenda dei nomi dei paesi umbri Foligno, sul fiume Topino, e Ponte Felcino, sul fiume Tevere, e dei rispettivi nomi dei santi patroni san Feliciano e san Felicissimo. La voce “Foligno” si spiega alla perfezione se la si intende derivata da una forma latina *Fuliginium con vocale anaptittica /i/ inserita nel gruppo /-lg-/ della corispettiva forma attestata Fulginium. La gutturale sonora intervocalica è caduta anche nei nostri dialetti arcaici: Aielli, dal lat. Agellum, ha dato in dialetto Aéjje. Anche la ‘fuliggine”, dal lat. fuliginem, si ritrova in aiellese nella forma fijjìna, con palatalizzazione della liquida e il dileguo totale della gutturale sonora. Si dà il caso che una divinità Fulginia fosse già in antico protettrice della città, come risulta da un’epigrafe del C.I.L. Arrivato il Cristianesimo, la suddetta divinità non ha visto l’ora di trasformarsi, secondo me, nel più credibile Feliciano , aiutato anche dalle pronunce locali che in genere fanno oscurare i timbri delle vocali precedenti la sillaba tonica, per cui un eventuale opaco *Fuliciáno si sarebbe inevitabilmente trasformato nel trasparente Feliciano.
Il caso di Ponte Felcino, a 7 km da Perugia, serve da conferma a quanto finora detto. Il santo protettore del paese è Felicissimo, nome che ripete, nella forma superlativa, la stessa base del toponimo: anche qui probabilmente esisteva un culto precristiano che assunse poi le vesti cristiane. Ora, a giochi fatti, addirittura si innesca un processo inverso a quello che ha dato origine al nome del Santo, tanto che il nome del paese Ponte Felcino è fatto da taluni derivare, per deformazione volgare, da quello del Santo e non viceversa: certamente costoro non sanno che è attestato in epoca antica a Perugia un etnico felcinate da riferire forse proprio a questa località vicina alla città, anche se oscura in passato, e non alla nota Fulginium[1]. I meccanismi mentali che producono queste metamorfosi operano tuttora in piena era tecnologica. Infatti se si cerca in Internet Ponte Felicino, si incontra, tra l’altro, un discreto numero di commercials che reclamizzano merci e marchi di negozi presenti anche a Ponte Felcino, nome che, alle orecchie dei compilatori dei rispettivi siti e quindi nella scrittura, si trasforma costantemente ed automaticamente in quello di Ponte Felicino che non esiste, come non sono mai esistiti, almeno come diretti responsabili del nome attuale dei rispettivi paesi, né san Feliciano né san Felicissimo.
A questo punto sorge spontanea la curiosità di appurare il significato originario della radice felik in questi casi. Per me, come in tanti altri toponimi, l’etimo qui ci è fornito gratuitamente dalla parola “Ponte” che precede “Felcino”. Mi limito a citare, tra i tanti toponimi simili, la chiesa medievale Sancti Felicis in vado Albonis ricadente nel territorio di Ortona dei Marsi in un posto dove, secondo il nome (cfr. lat.vadum ‘guado, passaggio’), doveva esistere un valico. Anche il passo di Velika Vrata (Grande Porta) nell’ex Jugoslavia ripete,secondo me, nei due nomi (di cui uno assomiglia a Felice), l’identico concetto di ‘passo’. La tradizione orale sembra confermare la cosa. San Feliciano infatti sarebbe stato sepolto a Foligno presso il ponte di Cesare sul fiume Topino, dove ora si trova la cattedrale a lui dedicata. Meraviglie della fede che opera questi miracoli permettendo la ininterrotta continuità di un culto nello stesso luogo: attraverso i millenni esso non si è spostato di un centimetro! Ugualmente san Felicissimo sarebbe stato sepolto presso il fiume Tevere dove esisteva una chiesa fino a non ricordo quale epoca. Ma a noi interessa, più che la conferma del significato di ‘ponte’, la continuità tra passato e presente attestata con alto grado di probabilità dalla stretta somiglianza tra i nomi di partenza delle due località *Felcinum e Fulginium e quelli di arrivo Felicissimo e Feliciano.
[1] Aa.Vv. Popoli e Civiltà dell’Italia Antica, vol.VI, Biblioteca di Storia Patria, Roma 1978, p.118, par. 32.
lunedì 29 giugno 2009
Perchè gli aedi erano considerati ciechi
La festa di San Giovanni Battista di Castellafiume e le sue origini precristiane
I Santi Martiri di Celano e la Madonna della Vittoria di Aielli
L’origine
del culto dei martiri Simplicio, Costanzo e Vittoriano credo che, come tanti
altri, andrebbe rintracciata nella stessa toponomastica radicata nel territorio
, oltre che opportunamente interpretando quanto la tradizione orale e scritta
di essi ci dice. Operazione, quest’ultima, che, è bene sottolinearlo, va
ridotta all’osso e frenata in ogni modo, data la facilità con cui ogni dato può
essere interpretato in un senso o in un altro: cosa che finisce con
l’assecondare la naturale tendenza dell’uomo a lasciarsi prendere dal suo
bisogno di affabulazione e di mito, in specie quando egli rivolge lo sguardo
alle cose del passato più o meno antico e talora anche se è un ben armato e
agguerrito studioso.
La saga dei
martiri di Celano è evidente che ruota intorno alla Fonte Ranë ,
talianizzata in Fonte Grande, dove essi sarebbero stati
decapitati, verso la metà del II sec. d.C.: un abbondante capo d’acqua che
rimane anche costante nella portata nei vari periodi
dell’anno, come costanti rimasero i tre Santi dinanzi alle
minacce dei loro persecutori al tempo dell’imperatore Marco Aurelio, come
racconta la tradizione. Ora, mi sembra indiscutibile il rapporto tra il nome di
uno dei martiri, Costanzo, e la costanza del flusso che scaturisce
dalla fonte il cui riverbero si riflette, appunto, nel comportamento dei Santi.
Ma la cosa interessante, secondo me, si scopre nell’etimo del nome Simplicio
che confermerebbe la fermezza dei Santi, riflesso della
invariabile portata della fonte . Il latino sim-plex presenta
una prima componente sim- che è quella di sem-el ‘una
volta’, di sem-per ’sempre’, di sim-ilem ‘simile’,
inglese same ’stesso’, i quali tutti ne sfruttano il
significato di unità, identità. Questo fatto ci autorizza a sostenere che un
possibile significato di sim-plex, magari sviluppatosi da
quello attestato di ‘uno, solo’, oltre che di ‘semplice’, poteva essere proprio
quello di ‘uniforme, costante, identico, fedele’ non multi-plex’ molteplice,
vario, instabile’ né du-plex ‘doppio, di duplice
natura, falso’, riconfermando così il concetto di cui sopra, che sottolinea la
fermezza e la forza di resistenza dei personaggi, che riappare in trasparenza
anche nell’episodio fantasioso del ritrovamento dei martiri “illesi da
corruzione, come se nel giorno innanzi vi fossero stati rinchiusi”[1].
Ma forse, più semplicemente (e la verità ha spesso il volto della semplicità
più naturale, una volta scoperta), è da scorgere nella parola Simplicio null’altro
che una simplex aqua ‘acqua pura”, espressione
usata da Ovidio come ogni buon vocabolario latino registra. D’altronde il
concetto di purezza non si discosta molto da quello di sincerità e di fedeltà.
Una fonte
così abbondante avrà dato origine, fin da epoche lontanissime, a qualche
divinità, sia pure minore, legata alle acque così importanti per la
sopravvivenza dell’uomo preistorico, quando certamente non esistevano
acquedotti. Quasi ogni fonte, ancora ai tempi di Roma antica , aveva la sua
bella ninfa. E allora se Simplicio e Costanzo sono solo delle ipostatizzazioni
di una o più caratteristiche dell’acqua di Fonte
Ranë, divenute magari appellativi del genius loci,
possiamo e dobbiamo rivolgerci all’altro nome Vittoriano se si
vuole approdare alla scoperta di originari idronimi trasformatisi evidentemente
in nomi di divinità. Si dà il caso, ma non è un caso, che nelle immediate
vicinanze della fonte si trovi la chiesa di San Giovanni Capodacqua (oggi nota come S. Maria
delle Grazie) costruita forse nel secolo XI, ma che andava probabilmente ad
occupare un suolo già “sacro” da tempi immemorabili come è, appunto, logico
supporre anche se nessuno può confermarcelo. Ora questo nome Giovanni deve essere
stato immediatamente preceduto nel tempo da quello di Ianni o Sant’Ianni,
come diversi toponimi nella Marsica e altrove stanno ancora ad attestare: e non
sarà anche qui un caso se abbastanza spesso il toponimo indica direttamente o è
in rapporto con qualche fonte, anche
piccola , nelle vicinanze, come ad Ortucchio, Scurcola, località San Giovanni
tra Subiaco e Jenne, come nel gruppo montuoso del Gran Sasso con le due
fonti Giovanni e Acqua San Giovanni,
e in tanti altri luoghi . L’idronimo è così antico, secondo me, da essere
presente in una leggenda romana che voleva che, in occasione di una irruzione
di nemici attraverso non ricordo quale porta, dal vicino tempio di Ianus scaturisse
un torrente così violento che essi
furono costretti a retrocedere o vennero addirittura travolti.
Procedendo
nella nostra ricerca scopriamo che la fonte Ranë era nota in passato
anche col nome di Fonte d’Oro o Fons Aurea ,
esatto doppione del nome di una fonte di Pescina: si tratterà evidentemente
della stessa radice della seconda componente del Met-auro, fiume risultante dalle
acque dei torrenti Meta e Auro. Un po’ dappertutto
si trovano poi fonti che portano il nome di San Vito come
a Cerchio, a Canistro, ecc. C’è anche da notare che una chiesa di San Vito è
proprio di fronte alla notissima Fonte delle 99 cannelle all’Aquila. Ora, se
proviamo a mettere insieme le radici idronimiche di vito, oro (aureo),
iani (ianni) otteniamo,
quasi come dal cappello di un prestigiatore ma in realtà solo per naturale
processo di sedimentazione linguistica attraverso i secoli, il nome di Vitt-or-iano,
il terzo dei Santi, incrociatosi naturalmente col nome personale Victor,
dell’ultima età repubblicana. Che sia avvenuta una operazione di tal genere mi
pare confermato da una tradizione, riportata dallo storico aiellese
dell’Ottocento Andrea Di Pietro, in quanto attestata in un non meglio precisato
“manoscritto di Monsignor Febei” di epoca molto antica, secondo la quale altri
tre santi Vittore, Giovanni, Stefano, martirizzati nella vicina Forme sempre al
tempo di Marco Aurelio, furono rinvenuti, proprio come gli altri tre, dal Beato
Giovanni da Foligno che scavava con un bid-ente ( si
noti come bid-, la prima componente del termine, sia variante della
suddetta radice vit- e si tenga presente il fiume Bidente in
Romagna) e trasportati, come gli altri tre, nella chiesa di San Giovanni di
Celano. Ognuno può vedere che i nomi dei due martiri Vittore e Giovanni ne
formano in realtà uno solo, e cioè Vittor-iano, in quella
che si può considerare la versione ufficiale di una medesima storia. Mi pare
inoltre abbastanza sospetta la ricorsività del nome “Giovanni” in quelli
di Giovanni da Foligno e di Giovanni da
Parma, il presunto costruttore della cassa di marmo in cui furono posti i corpi
rinvenuti intatti, per poterle accordare una qualche parvenza di verità. La
cosa è invece una prova formidabile della vocazione mitopoietica di certi
toponimi, radicati come rocce nel terreno, che pazientemente e
imperturbabilmente assistono al lento ma continuo fluire dei secoli e dei
millenni intorno a loro modellando i fatti, sia pur minimi, e i nomi della
storia locale. A suggello di questa considerazione si può aggiungere la notizia
( tratta dal sito internet: http://www.santiebeati.it/dettaglio/91925) secondo la quale la famiglia dei santi
martiri, originaria della Borgogna, sarebbe stata battezzata da San Gennaro,
non quello di Napoli, come si affretta a specificare l’autore del sito, ma
nemmeno da qualche altro possibile santo perché esso è solo un nome immaginario
scaturito, è evidente, dalla fonte inesauribile della radice Iani o Iano,
da cui Ianu-arius e quindi Gennaro. Ma le
meraviglie non finiscono qui.
Ad Aielli
celebriamo la festa della Madonna della Vittoria la
quale, secondo la tradizione, dopo un periodo di sei mesi di siccità, avrebbe
mandato, invocata da un frate dinanzi la chiesa di San Rocco dove era stata
posta e ripulita la sua statua abbandonata, tanta acqua quanta non se n’era mai
vista. Ricordo che i vecchi di Aielli precisavano che, prima della pioggia
ristoratrice, era apparsa una nuvoletta sulla sommità del monte Sand’ Uttërìnë (San
Vittorino, a nord-est di Celano). Mi pare quindi inoppugnabile la stretta
colleganza tra il nome di uno dei Santi martiri, Vittore o Vittoriano,
e quello della Madonna della Vittoria. A
questo si aggiunga anche che il termine lat. unda ’acqua,
onda’, il greco hýdor ‘acqua’, l’inglese water ‘acqua’
nonché l’umbro utur ‘acqua’ sembrano formazioni da una stessa
radice wed/ud. Tenendo d’occhio la voce greca e quella
inglese si ricava un preistorico *wydor che, secondo me, sta dietro
il santo Vittore. Non è ancora una volta un caso se esistono
le Terme di San Vittore (Ancona)
e se San Vittorino è un altro santo che subì il
martirio presso le Terme di Cotilia sulla
via Salaria. Il suo corpo sarebbe stato traslato e sepolto a San Vittorino
vicino L’Aquila, l’antica Amiternum. E’ inoltre appena il caso di
accennare alle molte Fonti Vittoria, La Vittoria, Santa Vittoria, sparse in
tutta Italia e alla Fonte Vittor-iana (Valli del Pasubio, Vicenza).
Se si
vogliono poi vedere le teste cadere sotto i colpi del carnefice basta, secondo
me, rivolgere l’attenzione al nome di San Giovanni Capo (dacqua), per
immaginare una ‘testa’ di san Giovanni, o della divinità precristiana a lui
precedente, ruzzolare orrendamente per terra. Ho usato le parentesi per
–dacqua- perché Capo-, anche da solo, è una radice idronimica ben nota
in tutta l’area del Mediterraneo, che è presente, secondo me, anche nel
giapponese kawa, gawa ‘fiume’, e che si ritrova,
infine, nel nome del rio Capo-ri-torto (Rocca di
Mezzo-Aq) nonché in quello del paese Cappa-docia, alle
sorgenti del Liri, dove esiste anche una fonte Cap-equa.
Incredibile! La voce cavò (cavone) 'sorgente
d'acqua' del dialetto di Marcellina-Roma costituisce una formidabile conferma a tutto
ciò come la voce acqua-duce' sorgente' del dialetto di
Villapiana-Cs lo è nei riguardi della componente -docia del
toponimo Cappa-docia.
Il
nome Capo-ri-torto presenta una seconda
componente –ri- equivalente a 'rio', come attestano in Italia i diffusi
idronimi Rio Torto, nome in cui, però, l’elemento Torto è solo
ampliamento di una radice tor, dor, tur,
presente anche nel fiume svizzero Turt-männa e forse
nel germanico *trott-on ’correre’, ted. tret-en ’camminare’.
Credo che non esista in natura un corso d’acqua che non sia più o meno “torto”
nel suo tracciato. Dulcis in fundo anche
il nome di Gaudenzia, la presunta madre dei Santi Martiri, può
derivare, senza alcuna difficoltà linguistica, da una forma originaria *Caput-entia o
*Cavud-entia (per influsso del corrispondente antroponimo),
con una seconda componente notoriamente idronimica (cfr. fiume Liv-enza,
fiume Pot-enza, fiume Dig-entia nella
Sabina presso la villa di Orazio, ecc.) che richiama anche la seconda
componente del bid-ente del beato Giovanni.
Il
significato di ‘testa’ è riscontrabile anche nel nome di Fonte Ranë, italianizzato
in “Grande”. Probabilmente esso rimanda al greco krénē o krána ‘sorgente,
fonte’, termine molto simile a greco kára, káran-on
’testa, cima’. D’altronde anche l’italiano capo si presta
ad indicare sia la 'testa' sia la 'fonte'. La gutturale iniziale, assimilatasi
a quella di 'grano' , in dialetto ranë, è caduta senza lasciare
traccia. Il maggiore ostacolo che si oppone all’interpretazione di fonte Ranë come
'grande' è il fatto che nei nostri dialetti la voce più diffusa per ‘grande’ è
l’aggettivo rossë o grossë e l’italiano
‘grande’ suona ai nostri orecchi alquanto estraneo.
A questo
punto mi si offre la possibilità di far notare che nemmeno i linguisti si sono
resi conto della natura profonda delle radici, le quali si comportano come le
cellule staminali di cui oggi tanto si parla. Esse, infatti, sono inizialmente
indifferenziate nel significato e sono anche totipotenti perché capaci di assumere il significato specifico che
di volta in volta è necessario alla comunicazione. Qualcuno osserverà che
questo in teoria è possibile (partendo dall’idea di 'movimento', ad esempio, si
può agevolmente passare a quella di 'espansione, protuberanza, capo, monte,
estensione, distesa orizzontale, piano, diffusione, flusso, fiume, ecc') ma che
in pratica nessuno può confermarcelo, dato che attualmente tutte le lingue
posseggono un numero sovrabbondante di vocaboli specifici per indicare i
concetti magari più sottili e più diversi tra loro. Ma io mi permetto di far
notare che è proprio la toponomastica a darci un aiuto insostituibile per farci
capire che le cose sono andate proprio come ci indica la teoria secondo la
quale, ripeto, i concetti si diramano l’uno dall’altro anche perché, secondo
me, ogni radice ne possedeva uno all’origine talmente generico da poterli
contenere tutti, esattamente come si comportano le cellule staminali. Se
prendiamo l’oronimo Gran Sasso,
ad esempio, esso non è così trasparente come a tutti sembra, ingannati dall’apparente
dato di fatto che esso avrebbe sostituito la denominazione antica di Fiscellus
mons. A mettere una salutare pulce nell’orecchio bastano oronimi, dello
stesso gruppo del Gran Sasso, come Piano Grande,
relativo ad un costone ripidissimo come mostrano le ravvicinate curve di
livello della carta, dove, tra l’altro, non si scorge nemmeno un accenno di un
“piano” (questa è un’altra radice oronimica che conosco molto bene ma di cui
risparmio la storia al paziente lettore); come Montagna Grande che
certo ‘grande’ non è se paragonata al Gran Sasso vero e proprio; come Macchia Grande che
nel sostantivo richiama il Monte Le Macchie del
gruppo della Maiella dove si incontra anche un monte Macell-aro,
tutti facenti capo evidentemente a forme originarie simili ruotanti intorno ad
un archetipo *Magella, che i linguisti conoscono, e che ha dato nome
alla stessa Maiella. Ciò premesso, è inevitabile dedurre che il falso aggettivo
“gran, grande” fosse in realtà all’origine un termine per ‘monte’ con la stessa
radice greca che ho citato per Fonte
Ranë. Mi conforta in questo
giudizio la presenza nel gruppo del Gran Sasso di altri oronimi di chiara
ascendenza greca. Essi sono Pizzo Cefalone (cfr. greco kephalē ’capo,
testa’ che fa il paio secondo me con Pietra Cavalli) e
monte Corvo (cfr. greco koryphē o kόryphos ‘cima,
cocuzzolo’). Va da sé, comunque, che sia il concetto di ‘grande’ sia quello di
‘monte’, per quello che ho detto sulla genericità dei significati radicali, attingono
a quello più generico di 'espansione, estensione' e simili.
Chi tributa
dal profondo del cuore il proprio omaggio ai tre Santi Martiri o alla Madonna
della Vittoria non deve sentirsi sfiorare o offendere dalle mie considerazioni
perché esse, pur razionalizzando i dati della tradizione alla luce delle mie
competenze linguistiche e toponomastiche, del resto scarse, restano sempre e
solo una mia opinione. E poi dovrebbe essere, a mio avviso, molto bello
scoprire o riuscire ad intravedere che il culto dei santi del proprio paese va
a perdersi nella notte della preistoria e dell’umanità.
[1] Cfr.
Andrea Di Pietro, Agglomerazioni delle popolazioni attuali della diocesi dei
Marsi, Avezzano,1869, p.132.
La Madonna della Vittoria di Scurcola Marsicana
[1] Andrea Di Pietro, Agglomerazioni delle popolazioni attuali della diocesi dei Marsi, Avezzano 1869, p. 206.
[2] Dante Alighieri, Inferno, XXVIII, 18.
[3] Andrea Di Pietro, op. cit. p. 197.
domenica 28 giugno 2009
Epiteti di Ade
Scientificamente l’unica cosa che conti veramente in questo frangente è secondo me il ricorrere continuo della radice pol, pel, ple che, vedi caso, ritorna anche in occasione del concepimento di Pluto, dio della ricchezza, quando la madre Demetra si congiunge con Giasione in un campo tri-polos ‘tre volte rivoltato o arato’ (Noi esaltiamo troppo la ‘fantasia’ degli antichi i quali invece non facevano altro che seguire scrupolosamente le parole della tradizione, perché senz’altro più disposti di noi a tendere gli orecchi all’insolito, allo strano, al magico, al divino, e certamente non potevano rendersi conto del tiro giocato nei loro confronti dalle stesse parole che trascoloravano nei significati di generazione in generazione, in un tempo in cui esse non erano nemmeno fissate nella scrittura. Resta comunque anche il fatto che Demetra era una dea ctonia, la cui figlia Persefone fu rapita da Ade) come dice Esiodo nella Teogonia, riecheggiando un passo dell’Odissea: ciò va spiegato con la postulazione di un significato necessariamente unico dietro la radice che non vale alcune volte molti uomini e altra volta molte cose (in Pl-utos oppure Pl-uton), ma che rimanda, con ogni probabilità, al mondo sotterraneo al di là dei vari significati superficiali con le relative spiegazioni (ce n’è sempre pronta qualcuna; anche Plutone sarebbe stato così chiamato per allusione alle ricchezze della terra in superficie o del sottosuolo: però in questo modo si potrebbero trovare gratuitamente dozzine di altre spiegazioni, come il fatto che l’aldilà è ricco di persone morte, o che Plutone, che rappresenta la morte, è il più saggio e più ricco di tutti gli uomini che si lasciano abbagliare dalle false ricchezze del mondo dei vivi!). In tri-polos, il secondo membro è messo dai linguisti in stretta relazione col lat. col-ere ’coltivare’, nel senso originario di ‘rivolgere’ la terra con l’aratro. Io non so se questo collegamento sia formalmente giusto, comunque sta di fatto che in greco polos ha il senso di ‘movimento circolare, rotazione, volta celeste, cielo, polo, globo terrestre’ , il che equivale a dire, per me, che la radice si prestava ad indicare anche la ‘cavità, la rotondità, la palla, ecc.’. Si potrebbe elencare una lunga serie di vocaboli che vanno dal lat. pila ‘palla’, al tibetano pulu ‘palla, da cui il gioco del polo , per tornare al franc. peloton ‘ gomitolo, palla, plotone’ , che assomiglia molto, vuoi per il significante che per il significato, a Plutone e con cui così si torna anche al concetto di ‘gruppo, massa’, presente anche nel franc. antico com-plot ‘gruppo, folla, complotto’. Una conferma di quanto detto è data da Tri-polje, nome di un sito preistorico dell’Ucraina e del relativo villaggio. Si tratta di una facies culturale in cui gli insediamenti, costituiti da case di legno o di clay bricks ‘mattoni d’argilla’, erano vicinisimi ai loro cimiteri che erano una duplicazione degli insediamenti stessi con locali rotondeggianti chiamati archeologicamente con la parola greca tholos ‘volta, casa a volta’ (cfr. ted. Tal ‘valle’). Anche la parola neios usata in questo caso per ‘campo’ sia da Omero che da Esiodo fa riflettere: essa è messa in relazione da taluni con la radice ni-,ne- di neio-then ‘dal basso, dal profondo’, nozione del resto inclusa anche in neiatos, neatos ’il più basso, il più profondo’ ma anche ‘estremo, ultimo’ , significato presente anche in neos (lat. novum 'nuovo' ). Quanto al greco Aides ’Ade’ il termine combacia col lat. aedes ‘tempio, casa’ perché inizialmente esso faceva riferimento alla cavità sotterranea degli Inferi , e del resto il nome Ade è spesso accompagnato da parole greche per ‘casa’. Quindi, a mio parere, sono da scartare le interpretazioni che rimandano all’ invisibilità (cfr. *a-(w)ides ’invisibile’), o a quella di ‘luogo d’incontro degli avi’ (anche se così intendevano gli antichi almeno riguardo all’invisibilità) modificando anche la scrittura della parola che oscillava tra la forma col dittongo iniziale (Haides) e l’altra senza (Aїdes). L’onestà intellettuale vuole che io citi anche un altro epiteto eufemistico riferito ad Ade da Eschilo e cioè nekro-deg-mon ‘accoglitore dei morti, cadaveri’ che potrebbe essere neoformazione del poeta modellata su poly-deg-mon, già presente nell’inno omerico a Demetra, ma potrebbe essere anche un composto tautologico più antico che richiederebbe un’analisi approfondita del primo elemento su cui ora sorvolo (cfr. comunque it. nicchia, ingl. nick ’tacca, gattabuia’, ingl. nickey ’tipo di barca’, e l’espressione oraziana delectari sale nigro ’dilettarsi di facezie pungenti’, esempi che sembrano deporre per un significato di 'cavità' della radice ). Ed è, quindi, ugualmente interessante introdurre ora anche il termine nekro-polis che indicava all’origine il cimitero sotterraneo di Alessandria d’Egitto e che, alla luce di quanto ho sostenuto precedentemente, non fa arricciare il naso se sostengo che il suo membro –polis solo accidentalmente rimanda al termine per ‘città’, essendo legato strettamente ai precedenti poly- e al concetto di ‘cavità’. Del resto anche il concetto di ‘città’ potrebbe derivare da quello di ‘abitazione, casa’. A conclusione di tutti questi esempi cade a pennello un ultimo epiteto relativo a ouranos ‘cielto, volta celeste’ costituito dallo strano poly-chalkos ‘ricco di rame, bronzo’ che, invece, richiama polos ’volta celeste’ nel primo membro e chalche ’guscio della porpora, voluta’ con la variante kalche, nel secondo, della stessa famiglia di kalyx ‘bocciolo, calice del fiore’ e di kylix ‘calice’, da cui il lat. calix ’calice’. Quando incontro esempi come questi che chiaramente non vanno sbrigativamente risolti tirando in ballo l’eufemismo ma solo col dare una spiegazione del dato assolutamente rilevante, ma misconosciuto dai linguisti, della insistita occorrenza della radice pol-, pel-, pl- nei supposti eufemismi, non riesco a trattenere un senso di sgomento verso coloro che, senza battere ciglio, passano oltre imperturbati e verso la loro meticolosa e ‘scientifica’ ricostruzione della vita delle lingue . In questi casi mi parrebbe perlomeno sensato porsi dei dubbi. Accenno in ultimo ad un’altra considerazione. La parola succitata ple-thos ‘folla, massa’ significa talora anche 'estensione, ampiezza, durata' ed apre così la porta ad altre considerazioni che vanno nella direzione del significato generico delle radici. Infatti essa non a caso tocca il campo semantico della parola platos ‘estensione, ampiezza, circuito, latitudine’ e di platys ‘esteso, ampio, piatto, piano, ecc.’, le quali non sono però collegate alla precedente dai linguisti, troppo fiduciosi nelle loro leggi fonetiche.
Sfogliando un dizionarietto tascabile di serbo-croato ho incontrato il sostantivo po-coj ‘riposo, pace, quiete’. La radice di lat. qui-es ‘quiete, riposo’ combacia con quella dell’elemento –coj e richiama il gr. kei-mai ‘giaccio, riposo, dormo, ecc.’, gr. koim-ao ‘metto a giacere’ da cui deriva anche gr. koime-terion ‘cimitero’, tutti significati che ruotano a mio avviso intorno a quello di ‘giaciglio, bassura, tomba’. Il cimitero non sarebbe quindi all’origine un ‘dormitorio’, ma indicherebbe semplicemente un luogo di sepoltura. In effetti un derivato di po-coj, e cioè l’aggettivo po-kojni, in serbo-croato significa ‘defunto, compianto’ , evidentemente dal significato etimologico di ‘giacente, in riposo’. Ora il prefisso po- è una preposizione dal significato un po’ vario rispondente all’italiano per oppure a, ma è anche forma abbreviata dell’avverbio pola, polu- che significa ‘mezzo, metà’. Se suppongo un legittimo originario *polu-cojni, antecedente o parallelo all’attuale po-cojni, ottengo un perfetto sosia dell’epiteto di Ade di cui sopra e cioè poly-koinos , spiegato dai linguisti con qualche difficoltà come ‘comune a molti’, e non a ‘tutti’, come sarebbe più logico. Ed è verosimile presupporre che i due significati di superficie del termine, quello greco (completamente erroneo) e quello serbo-croato (più prossimo a quello vero) derivino da una forma originaria comune che faceva diretto riferimento all’idea di ‘tomba, sepoltura, mondo sotterraneo, aldilà’. Certamente risulta difficile accorgersi di queste per me lampanti corrispondenze, una volta sepolto il significato di gr. poly-koinos e di tutti gli altri epiteti simili relativi ad Ade sotto la banalità e l'incongruenza di quei vari significati di superficie.
I latini se-pel-ire ‘seppellire’, se-pul-cr-um ‘sepolcro’ cui ho accennato sopra e che quasi tutti rimandano ad un verbo presente nel sanscrito dal significato di ‘onorare’, molto probabilmente sono composti della stessa radice pol, pel testé analizzata e simile a quella di lat. pellis ‘pelle’, come giustamente pensa Mario Alinei, una delle poche voci fuori dal coro. Il prefisso se- si ritrova secondo me sotto mentite spoglie sempre nel serbo-croato sa-hr-ana ‘sepoltura’, sa-hrani-ti ‘seppellire’ (cfr. serbo-croato po-hrani-ti ‘depositare, custodire’, in cui si ripresenta il prefisso po), sa-kri-ti ‘nascondere, celare’ (cfr. kri-ti ‘nascondere’). Esistono anche l’antico slavo po-gre-ti ‘seppellire’, il serbo-croato po-greb ‘sepoltura’ (cfr. ted. Grab 'fossa, sepoltura, tomba'). A questo punto c’è da supporre che il presunto suffisso –cr-um di lat. se-pul-cr-um sia in realtà un’antica radice tautologica rispetto alle altre della parola, in linea con la radice kr, hr dei diversi termini precedenti, corrispondente a mio avviso anche a quella di Ker-beros ‘Cerbero’, nome del famoso cane dell’ Ade.
Le categorie aristoteliche ostacolano la comprensione dei concetti generali all'origine del linguaggio
(1) Cfr. Bertrand Russell, Storia della filosofia occidentale, Ed. Club del Libro su licenza della Longanesi, 1982, p. 209.
(2) Cfr. Alfredo Cattabiani, Calendario, Mondadori S.p.A., Milano, 2004, p. 238.
(3) Cfr. Giacomo Devoto, Dizionario etimologico, Ed. CDE S.p.A., Milano, 1984.
I Ciclopi e il concetto di rotondità
In greco l’aggettivo kýkl-ops significa ‘rotondeggiante’, senza alcun riferimento ai Ciclopi o al loro unico occhio circolare (gr.óps ‘vista,occhio’) sulla fronte, cosa che dovrebbe già farci balenare nella mente la possibilità che il mito sia un derivato di qualche termine antichissimo che faceva riferimento a qualcosa di diverso dalle figure dei suddetti ‘bestioni’. La componente -ops, inoltre, nasconde una radice tautologica rispetto a kykl-os, che potrebbe essere variante di lat. ov-u(m) 'uovo'. E in effetti, se si tiene presente il racconto omerico nonché la considerazione, fatta già in occasione dell’articolo di cui sopra, che i macigni nascondono in genere il concetto di ‘rotondità’ dietro i nomi con cui vengono variamente indicati in una medesima lingua o in lingue diverse, non si può escludere, nel nostro caso, che dietro l’idea di ‘cerchio’ (kýkl-) si possa vedere quella di ‘macigno', appunto. Il termine kýklos comprende infatti, tra i suoi significati, quello di ‘globo, sfera, bulbo dell’occhio’ formando così una tautologia con l’altra componente –óps dell’aggettivo di cui si parla. Il fenomeno viene ulteriormente sottolineato dai significati di vari termini che, a mio parere, non sono che varianti di kýklos come kóklos ‘conchiglia, chiocciola’, chóchl-ax ‘ciottolo, pietra da macina’, kokkália ‘conchiglie o lumache marine’, kókkalos ‘pigna’. E qui bisogna introdurre l'abruzzese cìcele 'ciottolo, endice, cinguettio, bisbiglio' (cfr. vocabolario del Bielli) di cui ho parlato anche nel post Etimo di chicchirichì 'gheriglio'. Il vocabolo mi sembra rimandare proprio a greco kyklos 'cerchio' con l'inserimento di una vocale anaptittica tra la /k/ e la /l/, come avviene, ad esempio, per il termine dialettale aiellese becechellétta (le /e/ non accentate sono mute) dall'italiano bicicletta. Una curiosità. Sappiamo che in Teocrito il ciclope Polifemo diventa un tenero cantore dell'amata Galatea: molto probabilmente in questo caso la metamorfosi era un riflesso di altra interpretazione, magari presente in racconti mitici a noi non noti, delle componenti del nome kykl-ops. La prima componente, infatti, mi sembra vicina al suddetto abruzzese cìcele 'cinguettio' (cfr. aiellese arcaico chechelà 'cinguettare', greco kichlìzo' scoppio a ridere, cinguetto, nitrisco') e la seconda è la stessa del greco ops 'voce', diversa da ops 'occhio, vista': sicchè il nome proprio Poly-phemos col suo etimo trasparente 'pieno di sonorità, di voce' sembra configurarsi come una mera 'spiegazione', in chiave musicale, del precedente.
Il ciclope Polifemo è paragonato da Omero al cocuzzolo (gr. rhíon ‘vetta, promontorio’) isolato di alta montagna selvosa . Egli chiude l’ingresso della sua spelonca con un masso enorme. Il recinto antistante la sua grotta è formato da enormi sassi confitti nel terreno. Quando si accorge che Ulisse con i suoi compagni si sta allontanando con la nave dall’isola, svelle e lancia contro di loro la cima (gr. koryphé ‘cima’, nome che secondo me è all’origine dei molti monti Corvo in Italia, come meglio suggerisce la variante kórphos) di una grande montagna, ripetendo invano il lancio una seconda volta e imprimendo al sasso un moto rotatorio . Conosciamo inoltre tutti l’espressione mura ciclopiche con cui ci riferiamo a cinte murarie cittadine composte di enormi massi più o meno squadrati, come quelli delle mura di Tirinto e Micene che sarebbero stati sistemati proprio dai Ciclopi. L’idea di ‘rotondità’ si era realizzata anche in quella di ‘caverna, spelonca’ in cui questi mitici mostri vivevano, dando origine anche a toponimi come Kykl-ópeia, grotta nell’Argolide, ad altri nomi di grotte del mondo greco, oltre che alle Isole dei Cicl-opi, faraglioni (quindi grossi massi) dinanzi ad Acitrezza, non lontano da Catania. Penso alla radice toponimica op- (che dovrebbe indicare la roccia o l'altura) presente in alcuni toponimi abruzzesi come Ov-indoli-Aq < Op-in-ol-u(m) e come Opi-Aq.
Un altro termine greco per ‘cerchio, ruota, disco’, e cioè tróchos, oltre a significare ‘pillola’ (corpo rotondeggiante), ne ingrandisce le dimensioni passando a significare ‘macigno’ nel nome composto oloí-trochos, la cui prima componente ritorna nell’altro composto tautologico cretese ouló-sphaira ‘sorta di pastiglia’. Sphaîra, anche da sola, può indicare la ‘pillola’. Le componenti oloí-, ouló-, a detta dei linguisti, rimandano al lat. volv-ere ‘girare’ e a diverse altre parole greche dello stesso campo semantico come olaí, oulaí ‘grani d’orzo’, ólyra ‘spelta’, élymos ‘panico, miglio, invoglio, astuccio’, oûlos ‘covone’, oulamós ‘torma, schiera, lat.globus’. Nel termine tróch-malos ‘pietra arrotondata, ciottolo’ compare nella seconda componente una variante di greco mýle ‘macina, mola’, greco mále ‘ascella, cavità ascellare’, lat. mola ‘macina’, ingl. mill ‘mulino’, got. mal-an ‘macinare’, ecc. L’aggettivo trócchjë ‘ tarchiato, tozzo, grassotto’, abbastanza diffuso nei dialetti della Marsica, credo si debba riportare a forme greche come troch(a)lós ‘ rotondo’.
Il greco rhómbos indica qualsiasi corpo sferico o circolare, come il ‘tamburo’ o la ‘trottola’, ma anche il ‘movimento rapido circolare, turbine’, oltre alla figura geometrica chiamata appunto ‘rombo’ o ‘losanga’, che rotonda non è, ma grosso modo rotondeggiante e, pertanto, figlia dello stesso identico concetto originario più generico di ‘involto, massa, pacco, ecc.’.
Ho incontrato proprio oggi 7 luglio 2009, in un vocabolario abruzzese presente in rete (una raccoltina di parole senza pretese ), il termine chichilùne 'pietre grandi, grandine', che conferma quanto dicevo sopra sull'altro termine abruzzese cicele 'ciottolo' e su greco kyklos 'cerchio': esso ha salvato anche la pronuncia gutturale!