domenica 30 giugno 2019

Incredibile! L’it. sprec-are è fratello di ted. sprech-en ‘parlare’. E tante altre sorprese.







Nei nostri dialetti il verbo spiccicà o spëccë (in italiano si ha spiccicare) significa da una parte ‘staccare’ qualcosa di appiccicato, e dall’altra ‘pronunciare con chiarezza’ parole o sillabe.  Se il primo significato si può considerare proprio, in quanto indica concretamente l’azione materiale del separare una cosa da un’altra, il secondo significato, in quanto ricavabile metaforicamente dal primo, mi suscita qualche perplessità.  Il mio fiuto, derivato da annosa esperienza, mi fa arricciare il naso, almeno un po’.  I significati figurati in realtà, se li si va ad osservare bene da vicino raschiandone via le solitamente abbondanti incrostazioni, rivelano sempre una base diretta, concreta, anche nel caso in cui i significati figurati calzino a pennello. 

   Qui, quale sarebbe questo fondamento diretto? Senza girarci intorno io penso che esso sia identico  a  quello di ingl. to speak ‘parlare’. So benissimo che questo verbo è ritenuto derivare da una forma simile a quella del ted. sprech-en ‘parlare’ con la perdita della /r/, ma secondo me questa supposizione è errata. Si incontra infatti in danese la voce spage dal valore di ‘scoppiettare, crepitare’ usato anche nel senso gergale di ‘parlare’. L’azione del parlare si configura come un ‘es-prim-ere’ ,  cioè un ‘buttar fuori’ un ‘erompere’ o ‘prorompere’ che si manifesta solitamente con l’emissione di suoni.  E non sarà un mero caso il fatto che nel dialetto di Gallicchio -Pt  l’espressione spacch’u taliiànë significa ‘ostenta il saper parlare bene in italiano’, dove il verbo spaccà non significa semplicemente ‘parlare’, ma ‘parlare con ostentazione’, come fa lo spacc-one italiano perché, a mio parere, all’antico significato si è aggiunto quello di spacc-are, fatto derivare da voce longobarda di identico valore. Ma probabilmente la parola preesisteva già in qualche dialetto all’arrivo dei Longobardi. 

  Se lo spacc-one  in italiano è chiamato anche spacca-monti o spacca-montagne non dobbiamo lasciarci intimidire dalla presenza di quei –monti che sembrano avvalorare la psicologia del gradasso che crede di essere capace di tutto e di più. Perché nei dialetti si incontrano anche altre denominazioni che apparentemente vanno nella direzione opposta, quella della ridicolizzazione della sua capacità di spaccare. Nel dialetto di Gallicchio-Pt si incontra, infatti, la forma spacca-frëttàtë[1] ‘spaccone, persona che si vanta sfacciatamente di poter compiere azioni incredibili’, ma letter. ‘spacca-frittata(e)’; in abruzzese si incontrano le denominazioni spacca-lòffë ‘spaccone, millantatore ridicolo’; spacca-mannàggë ‘spocchione’ e  spacch’-e- ppésë ‘tronfione’[2].

   E’ chiaro, secondo il mio modo di considerare la Lingua, che qui siamo di fronte a composti tautologici per cui dietro –monti bisogna scorgere piuttosto  una radice germanica come quella di ted. Mund ‘bocca’, ingl. mouth ‘bocca’, ingl. to mouth ’dire con enfasi, ecc.’, significato dal quale è facile passare a quello di ‘fare lo sbruffone, lo spaccone’.  Ma c’è anche la possibilità che i monti  siano una banalizzazione della radice dell’it. montarsi (la testa) detto di chi prende a comportarsi da esaltato e da superbo, per cui viene considerato un montato, appunto. In questo caso si avrebbe la facile specializzazione nel senso di ‘tronfio, gonfio, minaccioso della radice mon,men, min che indica lo sporgere (in altezza), il crescere, l’inturgidirsi, il sormontare e il minacciare (cfr. lat. min-as ‘merli degli edifici’ ma anche ‘minacce’).  La –frëttatë sembra un termine sarcastico usato nei confronti di simili smargiassi, ma non lo è: la lingua è sempre seria in questi casi, nel senso che le sue parole mirano a mettere in rilievo direttamente la natura delle cose, non attraverso parole usate figurativamente. Infatti, cercando il significato etimologico di it. fritt-ata si scopre che esso era molto adatto ad in dicare uno sbruffone rumoroso, visto che il lat. frig-ĕre indica sia il friggere nella sua accezione di ‘bruciare, tostare’ ma anche tutto il crepitio e rumorio connesso a tale operazione, tanto  è vero che il verbo frig-ĕre ‘frignare, strillare (dei bambini)’ viene considerato un verbo a parte, rispetto all’altro.  La radice, in effetti, offriva anche altre prestazioni come quella di ‘brillare’: ognuno credo sappia, per via di famose canzoni, che fricc-ico de luna, in romanesco, vale ‘brillio di luna’, anche se la voce friccico significa pure ‘briciolo’.  Il verbo esisteva anche in greco, nella forma phrýg-ein ‘arrostire, abbrustolire’ e nella forma bucolica phrýtt-ein <*phrýkt-ein ‘arrostire, abbrustolire’, cfr. part. passato phrykt-όs ‘arrostito, fritto’.  Ora in greco, partendo da questa base, si poteva avere benissimo un sostantivo-aggettivo *phrykt-át-ēs riferibile ad un tipo ‘scoppiettante, sbuffante’ nel senso negativo di ‘orgoglioso, borioso, spocchioso’, come avviene per gr. dorico poli-át-ēs ‘cittadino’ usato al posto del normale polí-tēs ‘cittadino’.  Insomma, nel composto tautologico lucano spacca-frëttàtë il secondo componente –frëttàtë non indica la ‘frittata’ ma designa un tipo scoppienttante, fanfarone, spaccone come il primo membro spacc-a-, probabilmente a suffisso zero. Un’altra utile osservazione si può fare per questo composto.  Se il secondo membro reclama parentele col greco (ma non perché esso ci giunga dalla lingua greca in epoca storica) allora è evidente che anche il primo membro spacca- non può derivare da un it. spacc-are considerato un presunto apporto longobardo dell’alto medioevo, ma deve essere di origine altrettanto profonda che si immerge nella preistoria.

   Che questo mio modo di spiegare questi nomi composti sia giusto è confermato dall’ altra sopra citata denominazione spacca-loffë  ‘spaccone, millantatore  ridicolo’ il cui secondo membro significa  già di per sé ‘spocchioso’ nella forma siciliana lof-uru ‘spocchioso’[3] ma anche ‘ladruncolo, spia, fannullone, ecc.’ messo in relazione con l’ingl. loaf-er ‘fannullone, vagabondo’, voce che sarebbe stata riportata dagli emigranti d’America.  Ma nel suo significato di ‘spocchioso’ la parola, abbinata a spacca-, deve aver vissuto da migliaia di anni su suolo italico proveniente da una base col significato di aria e quindi di boria, non avendo rapporti con quella di loaf-er ‘vagabondo’, di cui mi taccio.   La radice deve essere la stessa di it. loffa, ted. Luft ‘aria’ e anche ingl loft-y ‘alto, elevato (di edificio)’ ma anche ‘ superbo, altezzoso, borioso’.  Se la radice di questo termine con questo significato si ritrova nel suddetto abr. spacca-lòffë ‘spaccone’ non si può assolutamente supporre che essa ci sia stata riportata dagli emigranti d’America.

   Per il secondo membro di spacca-mannàggë non riesco a trovare qualcosa di meglio del lat. mantic-a(m) ‘bisaccia’ che poi dové assumere il significato di mantice ma non è detto che esso  non esitesse già in qualche forma dialettale. Il mantice è noto anche come mantaco da cui si sarebbe potuto avere una forma mandaco ed eventualmente *mànnaco (e) se il mutamento dalla sorda /t/ alla sonora /d/ avvenne già dai primordi (dial. aiellese mandac-éttë ‘mantice’).  Sappiamo infatti come il nesso /nd/ abbia dato /nn/ per assimilazione progressiva in molte parti del meridione d’Italia.   Il fatto è che numerose dovevano essere talora le varianti di un termine, andate però spesso perdute a tutto vantaggio di quella o quelle dominanti.    Il dizionario etimologico del Pianigiani  in rete dà un gr. mandákē ‘pelle’ come possibile origine di lat. mantic-a(m) ‘bisaccia’, termine che calzerebbe a pennello, anche se il suo valore etimologico resta oscuro, per una sua trasformazione in *mannàce(cia) prima che quest’ultimo si incrociasse con l’inevitabile, a questo punto, imprecazione dialettale mannàggia < malann’aggia ‘malanno abbia! sia maledetto!’. Così il composto di cui si parla assumerebbe la forma di spacca-soffione volendo designare sempre uno che non è ponderato, calmo e serio, ma scoppietta, esplode, sbuffa di boria e vanità.

   Non è infatti un caso che l’ultima denominazione abruzzese spacch’-e- ppésē ‘tronfione’ ha, secondo me, a che fare sempre con il mantice.  Essa è sciolta in due verbi che significano letter. spacca e pesa di cui il secondo sembrerebbe entrarci come i cavoli a merenda per designare uno spaccone pieno di sé.  La forma originaria quasi sicuramente  era *spacca-pisa il cui secondo membro, incrociatosi successivamente col verbo ‘pesare’, doveva combaciare con il gr. phýsa ‘soffietto, mantice, alito, ventosità, bolla, vescica’ proveniente da una radice considerata onomatopeica (per me l’onomatopea non esiste nella lingua) pu, phu da cui anche il lat. pust-ul-a(m) ‘pustola’, lat. pus-ul-a(m) ‘erisipela’.  Il sostantivo gr. phýsē-ma ripete i precedenti significati della radice, cioè ‘alito, soffio, pustola, bolla’ ma anche, si dice, quello figurato di ‘superbia, ostentazione,  millanteria’. Se ben si riflette, infatti, sia l’alito, sia la bolla, sia l’ostentazione e compagnia bella sono espressione di una forza che si realizza in vari modi non dipendenti necessariamente l’uno dall’altro: la forza dell’alito o del  vento l’avvertiamo fisicamente, anche se con minore o maggiore intensità, la forza della bolla la vediamo e possiamo anche toccarla nella sua turgida rotondità, la forza dei significati cosiddetti figurati ci investe anch’essa con i suoi vari modi: volontà di apparire più dotato di altri, ostentando la propria singolarità (vera o falsa che sia) e magnificando le proprie capacità e doti. Si tratta sempre di una volontà di imporre la propria presenza.  La radice, poi, ha ali talmente grandi ed estese da abbracciare diversi campi semantici come quello di gr. phý-ein ‘generare, essere generato’ in quanto dotato, secondo me, di soffio vitale proprio della Natura animata.  La radice è quella di lat. fu-i   ‘io fui’, di lat. fu-turu(m) ‘futuro’ e di lat. fi-eri ‘essere fatto, avvenire’.

   Ora, tornando al dialett.  spëccëcà ‘pronunciare con chiarezza le parole o sillabe’ oppure ‘staccare’, come bisogna intendere l’espressione abruzzese[4] spiccëca-sèndë ‘bacchettone’? Come ‘pronuncia santi’ o come ‘stacca santi (da qualche parte)’? A me pare parzialmente evidente la prima interpretazione di ‘pronuncia santi’ nel senso di qualcuno che pronuncia giaculatorie con i nomi di molti santi. Questa interpretazione potrebbe aver generato il significato dispregiativo di ‘bacchettone’, uomo dedito formalmente alle pratiche religiose.  Ma, più in fondo, l’espressione doveva indicare solo l’azione del ‘pronunciare, emettere suoni, ecc.’ e il suo secondo membro doveva ricordare l’ingl. to sound ‘risuonare, pronunciare, proclamare’ o finanche l’ingl. send ’impulso, spinta’ necessario per ‘inviare’ qualcosa o semplicemente per esprimere qualcosa. La forma ‘spiccicare’ nel significato di ‘pronunciare’ deve essere ampliamento di ingl. speak ‘parlare’. 

  Un’altra difficoltà però, è costituita dal partic.-aggettivo spiccicato nel significato di ‘perfettamente uguale, tale e quale’ usato solitamente per mettere in rilievo una somiglianza eccezionale in genere tra due parenti.   E’ lo stesso significato espresso dal participio pass. di sput-are, cioè sput-ato ‘identico’: questa particolarità deve risalire alla notte dei tempi se l’ingl. spit ‘sputo, sputare’ si presta ad analogo uso.  Per cercare di risolvere realmentela questione, senza dare spiegazioni più o meno fantasiose, bisogna a mio avviso calarsi negli strati profondi dei significati della radice.  Comincio col far notare che in tedesco si incontra un verbo spuck-en ‘sputare’ vicino formalmente all’ingl. speak, spoke, spoken ‘parlare, parlai, parlato’ che quindi ci suggerisce che i due diversi significati storici di ‘parlare, dire’ e di ‘sputare’ debbono all’origine incontrarsi con quello comune di ‘cacciar fuori’, in un caso lo ‘sputo’ nell’altro un ‘suono o parola’.  Si ripete qui lo stesso identico fenomeno che abbiamo registrato ed analizzato a proposito del verbo cac-are nell’articolo di circa una settimana fa intitolato Cacalèste (cfr. mio blog, giugno 2019).  Avevo in quell’articolo dimenticato di dire che nel nostro dialetto esso ha anche il significato di ‘generare (bambini)’ in senso un po’ dispregiativo, inevitabile a causa del significato più diffuso di cacare che si intromette a modificare in tal senso il significato originario neutro di generare (E’ cacatë trè fijjë, unë appressë a jj’atrë ‘Ha fatto tre figli, uno dietro l’altro).  Ebbene io credo che sia nel caso di spëccëcàtë ‘identico, tale e quale’ sia in quello di sputàtë ‘identico, tale e quale’  ci sia dietro proprio il concetto di ‘generato, nato’. Infatti si sente dire anche, ad esempio, E’ suo padre nato e sputato, in cui sputato inizialmente doveva indicare proprio l’essere stato generato, prodotto e riprodotto (identico).  Spicc-ic-are in questo caso non è da intendere come verbo simmetrico e contrario di appiccic-are (da *ad-picc-icare con riferimento a lat. pic-em ‘pece’) e cioè *ex-piccic-are > spiccicare, ma come ampliamento della radice di ingl. speak in un significato scomparso di ‘cacciare fuori, produrre, erompere’.  Meraviglia delle meraviglie, esiste infatti anche un it. spacc-ato ‘identico, tale e quale’ che, vedi caso, vale anche ‘evidente, patente’ perché, a mio parere, conserva ancora, in questo caso, il valore di ‘dichiarare, acclarare’ scaturente da quello di ‘dire, esplicitare’. Anche l’it. spicc-are ha il significato di ‘pronunciare chiaramente le parole’ e l’aggettivo spicc-ato è sinonimo di ‘evidente, marcato’ come il sopracitato  spacc-ato ’evidente, patente’. Che dall’idea di “parlare, pronunciare” si passi a quella di ‘evidenziare, marcare’ è dimostrato proprio dal verbo pronunciare che nel rispettivo part. pass. - agg. pronunci-ato  significa ‘spiccato, marcato, sporgente’ come nell’espressione: Ha un mento molto pronunciato. Il che conferma, a mio parere, che il valore di fondo di questi verbi era quello generico  di ‘spingere, spingere fuori’, da cui il verbo poteva prendere una direzione o un’altra, tra sé autonome, nel processo di specializzazione, per cui è in fondo errato parlare di linguaggio figurato, anche se apparentemente sembra che sia così. Ricordiamoci l’espressione lucana di Gallicchio-Pt sopra citata: Spacch’u taliiànë ‘Ostenta il saper parlare bene in italiano’.   A volte non è così facile ritrovare il bandolo che nel corso dei millenni si è molto intrecciato. Per il lat. pro-nunci-are o pro-nunti-are si mette in rilievo giustamente la radice di gr. néu-ein ‘accennare, piegare’, di lat. nu-ĕre, ingl. nod ‘cenno’, ecc., ma nel frattempo si trascura qualche significato, attestato magari solo una volta.  Secondo taluni questa radice è simile  a quella di ant.indiano nava-te ‘muoversi’ e questa considerazione potrebbe aiutarci a rendere più generico il significato  di ‘accennare’. Ma in un passo di Tucidide (v. il vocab. di Rocci) il verbo néu-ein  rivela, quasi incredibilmente,  il significato di ‘sporgere’: ecco perché, allora, in italiano un ‘mento pronunciato (sporgente)’ è tale! Di conseguenza non si può pensare che questo significato sia ad un certo momento improvvisamente apparso in italiano dal verbo pronunciare, dietro la spinta della metafora: quel significato ha covato piuttosto per millenni sotto la cenere di qualche dialetto anche per tutto il periodo della latinità, rispuntando poi all’improvviso in italiano e facendo credere di essere nuovo di zecca, grazie a quello che sembra un semplice fenomeno metaforico, figurato.   

    Il francese tout craché ‘pretto sputato’ ripropone, per quanto concerne il verbo crach-er ‘sputare’, gli stessi meccanismi sopra analizzati sviluppatisi intorno ad una radice simile all’ingl. crack ‘scoppiettare, spaccare, prorompere, cacciar fuori’ produttiva di molti significati, tra cui quelli del ‘dire, dichiarare, chiarire’ o di ‘produrre, riprodurre’. Cfr. l’espressione C’est son père tout craché ‘E’ suo padre spiccicato, spaccato, pretto sputato, nato sputato’.  E così spero di essere arrivato alla fine, ma c’è ancora qualcosa da aggiungere. 

   Uno potrebbe giustamente meravigliarsi della presenza su suolo italico di tante parole germaniche,  ma a mio avviso non a ragione. Perché i dialetti soprattutto non finiscono mai di stupirmi in tal senso.  Donde mai potrebbero derivare verbi come l’abr. spell ‘pronunciare bene le parole, scolpirle, spiccicarle’ e l’ abr. spuldallo stesso significato? Io non vedo altro che l’ingl. to spell ‘compitare’, da una radice che rimanda ai significati di ‘lingua, il racconto, le parole, ecc.’. 

    E’ in certo senso una meraviglia, non avendoci pensato bene prima, che la radice del ted. sprech-en   ‘parlare’, ted. Sprache ‘lingua’  la usiamo anche noi in italiano senza accorgercene.  Il verbo it. sprec-are, infatti, ne condivide la radice insieme al verbo  sparg-ere, dove essa si presenta in forma metatetica. Insomma la radice spreg-, sprag-, sparg- ha il valore essenziale di ‘spargere, spingere, cacciar fuori (di tutto: parole ed altro), buttare in giro’ o, meglio, più che l’emissione specifica, ad esempio,  di parole, essa indica la forza e lo sforzo connesso a queste operazioni di espulsione. Cfr. ingl. spark ‘scintilla’, danese spark ‘calcio’, gr. sparg-an ‘essere turgido’. Questo è il motivo per cui noi, abituati ormai da sempre ai significati specializzati delle parole, non ne riconosciamo più le parentele ed ascendenze, e magari ci meravigliamo di questa operazione compiuta del resto da noi stessi ma quasi inconsapevolmente, per dar vita al linguaggio chiaro e differenziato dei nostri tempi, ma che cominciò a specializzarsi in epoche preistoriche lontanissime. Oddio, il linguaggio è sempre complicato, nonostante tutto, e lo sanno bene i nostri studenti alle prese con i suoi molti trabocchetti. Ma tant’è! nella vita nulla è perfetto.
 
  
   
 




[2]Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese , A.Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

[3] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani , UTET, Torino, 1998.

[4] Cfr. D. Bielli, cit.





mercoledì 26 giugno 2019

Il concetto di "anima".


      Il concetto di “anima”

    Non essendo uno studioso di psicologia mi sono accorto solo ora che Jean Piaget, famosissimo psicologo e pedagogista svizzero del secolo scorso, aveva già notato che gli oggetti nominati dai bambini (dai 18 mesi fin verso i 6 anni) sono considerati da essi in possesso di un'anima. La mia ricerca linguistica mi ha portato alla consapevolezza che dietro ogni parola, nel suo fondo originario, giace il concetto di "anima" e simili. A mio avviso allora, il bambino, parlando, non fa altro che riprodurre la fase iniziale del linguaggio, quando l'animale uomo riuscì ad entrare in possesso di quel concetto e ne fece la base del linguaggio: quel concetto, d'altronde, all'alba del pensiero riflesso, non poteva non combaciare con una visione viva della realtà, specchio del che l'animale uomo intuiva al suo interno, segnando così il passaggio dall'animalità inconsapevole alla umanità consapevole.

   Tutte le cose erano animate ma il fatto che esse cominciassero  ad essere espresse con suoni distinti l'uno dall'altro già introduceva quella diversificazione necessaria a distinguere, appunto, un oggetto da un altro nel processo linguistico, altrimenti tutto sarebbe rimasto offuscato nell’unicità di un significato sempre uguale a sé stesso.  

  Quell’unico significato di fondo cominciò a diventare per così dire etimologico (cioè nascosto sotto superfetazioni semantiche successive), dato che un animale chiamato con il suono sco corrispondeva stabilmente, ad esempio, ad uno scoiattolo, mentre un altro animale chiamato con il suono ra corrispondeva stabilmente ad una rana; ora una rana è certamente diversa da uno scoiattolo: questa consapevolezza, insieme alla diversità dei suoni con cui gli animali venivano indicati, cominciava a scalfire il senso  originario di anima  legato a quei suoni e si cominciò a credere che quel suono particolare sco, tra i tanti altri relativi agli altri animali, dovesse la sua ragione di esistere al fatto che indicasse le caratteristiche dello scoiattolo (il suo concetto, insomma) assolutamente peculiari rispetto a quelle di altri animali, e che non indicasse la caratteristica, genericissima  e comune a tutti, tanto da poter diventare sottintesa ed inutile, in un mondo considerato animistico in partenza: cioè l’anima.  Scusate se non sono riuscito ad esprimermi meglio.





lunedì 24 giugno 2019

Cacalèstë


   

Cacalèste ‘chi parla subito imprudentemente’[1]  è voce abruzzese apparentemente composta dalla radice del verbo cac-àre usato anche in italiano e dall’avverbio-aggett. lèstë ‘lèsto’, aiellese léstë con la prima /é / acuta.  Non c’è linguista, credo, famoso e no, che non sottoscriva il significato etimologico sopra indicato.  Una parola, dunque, che potrebbe essere stata generata l’altro ieri secondo loro, visto che in dialetto il verbo cac significa anche ‘rivelare cose nascoste’ , ad esempio alla polizia, magari non appena si è stati da essa fermati. “E’ cacatë tuttë“ ‘Ha rivelato tutto per filo e per segno’ o ‘Ha cantato’, usando un’ altra espressione.  Fine del problema? Ma nemmeno per sogno!

  Non ci si può accontentare di ciò se solo si riflette che esistono verbi abruzzesi (e non solo) quali cacalïà, cachëlëjà, cachilïà ‘lo schiamazzare della gallina che ha fatto l’uovo’ e cacàjjë ‘balbuziente’ per cominciare a pensare che l’abr. caca-lèstë dovrebbe essere messo in rapporto, anche per la legge dell’economia linguistica, con una forma originaria *cacal-èstë il cui suffisso, presente già in latino e greco (lat. ista, gr. istēs) indica in genere l’agente o la persona che segue una certa Scuola o teoria o ha certe abitudini. Futur-ista, animal-ista, opportun-ista. Ora seguendo il significato già specializzato dei suddetti verbi abruzzesi dovremmo spiegare cacal-èstë come ‘schiamazzatore, schiamazzante’ e simili, ma il significato originario della radice era quasi sicuramente più generico, quello di ‘emettere un suono’ e quindi ‘parlare, rivelare’. Così il cacal-èstë non è altro che un ‘parlante, parlatore, rivelatore’ come volevasi dimostrare.

   I linguisti, beati loro, si cavano subito d’impaccio, supponendo per la radice cacal- una origine onomatopeica, imitativa (cf. fr. cacaill-er ’tartagliare’ , ingl. cackle ‘schiamazzo, coccodè ridacchiamento’, lat. cach-inn-um ‘risata’, ecc.), non ponendosi nemmeno il problema che la lingua, secondo me e altri studiosi più preparati di me , come Konrad Lorenz, ha un’origine concettuale. Forte di questa convinzione dirò di più: se la voce cacal-èstë si incrocia con il verbo cac ‘evacuare’, non è per caso ma perché il significato di fondo delle due radici cacal- ‘parlare, schiamazzare’ e cak- ‘evacuare’ era uguale in ambedue: ‘espellere, cacciar fuori, esprimere’, il quale ultimo vale, come è evidente, ‘cacciare fuori premendo’. Allora si comprende benissimo che l’espressione dialettale di cui sopra (E’ cacàtë tuttë ‘ha cantato’) non può essere intesa come metaforica sin dalla sua origine: lo è diventata quando si è incrociata col verbo dialettale cac-à il quale era metaforico anch’esso rispetto ad significato originario di ‘cacciare fuori’. Allora nella Lingua  tutto è metafora di alcunchè o nulla lo è! Inoltre, in questo modo, si risolvono con una certa facilità espressioni come quella del dialetto di Apricena-Fg che suona caca-mentë ‘seccatura’, la quale si configura in genere come una pressione fisica o psichica non gradita esercitata nei  confronti di qualcuno. Trovo una corrispondenza nell'inglese del Midland hack che significa 'disturbare, importunare imbarazzare'. Anche l’uso gergale giovanile di cacare, nel senso di interessarsi di qualcuno, usato spesso nella forma negativa (non ti caca più quella tizia) può essere comodamente inteso come espressione di una premura usata nei confronti di qualcuno. Quasi tutto diventa comprensibile e spiegabile, quando il significato di un termine allarga le sue grandi ali man mano che si avvicina alle sue origini.

   Ordunque, se i linguisti non riescono ad abbandonare gli strati superficiali delle parole o quelli prossimi ad essi, rimarranno sempre inesorabilmente impigliati in un visione  fortemente dispersiva e superficiale della lingua, fatta di un numero enorme di concetti diversi, e non potranno mai toccare con mano il fondo solido ed unitario della somiglianza profonda di tutti i concetti, perché derivanti dall’unico concetto di anima, essere, vita ecc.  E’ il fondo che sta alla base di ogni lingua, come Chomsky, Lorenz ed altri hanno già capito.  Naturalmente questi studiosi sanno che esiste un fondo comune, di cui però non sono arrivati a delineare tutte le caratteristiche empiriche, mi pare, soprattutto per ciò che concerne il significato.

 
    



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

martedì 18 giugno 2019

Filosofia, mio malgrado.


Filosofia, mio malgrado
Cominciò Socrate a parlare di “concetto” inte
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Filosofia, mio malgrado
Cominciò Socrate a parlare di “concetto” inte





















Cominciò Socrate a parlare di “concetto” inteso come pensiero che raccoglie i tratti salienti di un animale, una cosa, o di un’idea.
Platone spiccò il volo verso l’Iperuranio conferendo ad esso una realtà immutabile ed eterna, al di là delle sue varie e imperfette realizzazioni terrene indicate attraverso le parole delle lingue, tutte diverse l’una dall’altra e certamente forme sbiadite di quella forma divina archetipica. Successivamente si riportò l’idea, come era a mio parere giusto, sulla terra e la si vide, di volta in volta come innata (Cartesio, Leibniz, ecc.) nella nostra mente, mantenendo così la possibilità di una sua origine sovrumana, o come il prodotto di un’operazione tutta mentale realizzatasi mediante il concorso dei nostri sensi (Locke, Hume, ecc.), cosa per me più credibile. Kant percorse una via di mezzo tra le due contrastanti posizioni, non riuscendo tuttavia a far a meno dell’elemento ultraterreno rappresentato dai due a priori dello spazio e del tempo. Ma Einstein e la sua rivoluzione, anche gnoseologica, era di là da venire.
A parte le concezioni più o meno accettabili circa la natura e l’origine del concetto o idea mi pare che nessun filosofo, che io sappia, abbia mai accennato alla possibilità che tutte le idee che costituiscono il Linguaggio dell’uomo provengano da una sola idea originaria che balenò nel suo pensiero in formazione e che venne realizzata con una qualche emissione di voce (non importa quale), idea che non poteva non essere la più generica possibile (non avendo del resto a disposizione altre idee specifiche da utilizzare) rispondente più o meno a quella di “forza, essere(vivente), anima, movimento, esistenza” come ho detto in altri articoli.
Ora, una volta accertato (cfr. i due precedenti articoli del giugno 2019: 1) A rëmastë gni dun Falcuccë[…] ;2) La “stacca” abruzzese) che il concetto di “essere vivente” è lo stesso di “rampollo, pianta, pollo, animale, animaletto, asina, asinello, cavallo, giovincello(a), ragazzo, ecc. “ e non perché si potrebbe credere, ad esempio, che gli abruzz. stacca ‘giovane e formosa donna’ e ‘asinella’ siano significati metaforici di un precedente *stacca, staccia ‘pertica, palo, pianta, rampollo’, allora non si può non concludere, nella forma più perentoria, che i vari significati espressi da quella radice sono da considerare su un piano di parità, essendo essi già presenti, sebbene in forma occulta, sin dall’origine, in essa, quando indicava genericissimamente un “essere vivente”. Il significato di ‘rampollo, pianta’ è già una specializzazione vegetale della radice, diversa (sebbene simile) da quella di ‘giovane donna’ o di ‘asinella’. Naturalmente questa origine comune, da cui si dipartono come tanti rami diversi tutti i significati, non è sempre rintracciabile per tutte le radici, data la serie di specializzazioni e di incroci intervenuti, nel corso della lunga vita di una lingua, a intorbidare le acque e a confondere la nostra mente.
L’origine prima di tutte le lingue è quel concetto genericissimo di cui ho parlato, alla cui formulazione l’animale uomo arrivò, nel corso della sua evoluzione. Del modo in cui, secondo me, esso ha presumibilmente dato il via al linguaggio, ho parlato in articoli scritti molti anni fa. Del resto si sa che anche gli animali, come certi tipi di scimmie, emettono suoni tra sé diversi quando si tratta di avvertire gli altri dell’apparire di un tipo di pericolo (non so: un serpente) o di un altro tipo (un leone, un’aquila). Ora, mi sembra sostenibile che questi suoni che la scimmia emette sono ancora da considerare come un colpo dato con una mano per avvertire del pericolo imminente, e che essi non siano affatto portatori di un concetto, per quanto genericissimo come quello di “anima, animale”, cosa che invece avviene per il linguaggio dell’uomo. Questo è il discrimine che segna il passaggio tra il cosiddetto linguaggio animale e quello umano.
Mi sono accorto che il filosofo Antonio Rosmini (1797-1855) -che conoscevo ma non tanto da poter fare le riflessioni seguenti- pone alla base della conoscenza umana il concetto innato di essere. Il suo ragionamento è piuttosto semplice: se togliamo ad esempio -egli sostiene- al concetto di uomo tutte le qualità che lo rendono tale, ci restano ancora tutte le qualità che potrebbero essere di un vegetale; se togliamo anche queste proprietà resta comunque un oggetto simile a quello del regno minerale, resta la sua esistenza: se togliamo anche questa nel nostro cervello non resta più nulla, nemmeno la possibilità di iniziare a pensare qualcosa. E questo a mio parere è vero. Solo che questa idea fondante del nostro pensiero, secondo lui è posta nell'uomo da Dio. Tutte le altre idee sono un prodotto dell'attività umana che opera, nel processo conoscitivo, sulla scorta dell'idea dell' ESSERE, in lui innata e che, come il sale, è presente in tutte le altre.
Ora questa concezione del Rosmini sembra avvicinarsi di molto alla mia che però vede tutte le idee, compresa quella genericissima iniziale (forza, spinta, esistenza, essere, anima) come prodotto della mente umana e come specializzazioni di quell'idea fondamentale, cosa non precisata dal Rosmini. Il ragionamento del Rosmini è astratto e ipotetico, anche se per alcuni tratti veritiero, mentre il mio è ricavato dal comportamento concreto rilevato nelle radici delle parole. E' vero, come ho accennato più sopra, che tra il linguaggio animale e quello umano sembra esserci un salto apparentemente insormontabile (e per questo taluni, come il Rosmini, ne sostengono un'origine divina), ma la storia della scienza, soprattutto negli ultimi secoli, ci ha abituato a salti che prima sembravano impossibili, anzi, nemmeno concepibili, perchè, come nella teoria della relatività di Einstein, ci si è dovuto abituare a idee, come quello di spazio e tempo, completamente diverse da quelle che sembravano fondanti per la mentalità e la scienza umana precedenti.
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domenica 16 giugno 2019

A remàste ‘gni dun Falcucce, senz’àsene i senza staccùcce (Guardiagrele-Ch)




Il detto, che tradotto significa ‘E’ rimasto come don Falcuccio, senz’asino e senza asinello’ risuona in molte parti d’Abruzzo e nel Meridione, con qualche leggera variante.  A dire il vero nel Lazio, e anche in Abruzzo, si sente piuttosto un modo di dire ibrido, perché risultante dall’incrocio di due detti, il precedente mescolato con quello relativo a Pietro l’Aretino, lo studioso famoso e bizzarro del Cinquecento toscano.  “E’ rimasto come l’Aretino Pietro, con una mano davanti e l’altra dietro”, essendo stato colto in flagrante adulterio con una compiacente signora, e costretto ad abbandonare l’alcova in quel modo per coprire le pudenda.  L’ibridazione dà questo risultato: E’ rimasto come don Falcuccio, con una mano davanti e l’altra dietro.  Si descrive sempre una situazione incresciosa, ma l’altra sembra essere quella originaria, confermata anche dalla rima.

    Don Falcuccio pare fosse un religioso caduto vittima di briganti, ma il nome Falco compare nei paesi germanici ed era  già un gentilizio ai tempi dei Romani.  Quindi non bisogna pensare che il detto sia di origine più o meno recente. Tutt’altro.  A me pare che esso si sia sviluppato intorno ad un unico concetto, quello di “ pianta, pertica’ e simili, come abbiamo visto succedere per l’abruzz. stacca ‘puledra d’asina’ , sviluppatosi dall’idea di “rampollo, staccia, pertica”.  Ora stacc-ùccë è diminutivo del maschile stacchë ‘puledro d’asina, asinello’.  La voce às-ënë è ampliamento della radice di ingl. ass ‘asino’ e dall’alto della nostra conoscenza possiamo affermare che il termine lat. as-in-u(m) doveva nascondere in sé anche il significato di ‘rampollo, trave, ecc.’.  Infatti il gr. às-illa significa ‘bastone, pertica’ e combacia col lat. as-ell-a (m) ‘asinella’.

  Arrivati a dun Falc-ùccë il pensiero vola verso termini come il gr. phál-ang-s ‘falange, fusto, bastone cilindrico, ecc.’ in cui si nota l’inserzione della nasale /n/ nel secondo membro.  C’è anche il ted. Balk-en ‘trave’ nonché il secondo membro dell’it. cata-falco il cui primo membro cata- non può derivare dal gr. katà- ‘giù’, secondo le norme tautologiche della mia linguistica. Esso piuttosto richiama termini come l’abruzz. cat-èllë ‘stanghetta del chiavistello’.  Il quale mostra il suo lato animale col lat. cat-ell-u(m) ‘cagnolino’ diminutivo di lat. cat-ul-u(m) ‘cagnolino’ a sua volta diminutivo di cat-u(m) che però vale ‘gatto’, ma come si può facilmente dedurre si tratta solo di specializzazioni di un originario significato di ‘animale, animaletto’, sia esso cane o gatto. Si passa facilmente dal regno animale a quello vegetale se, come pare, l’it.  cacchio ‘rampollo, getto, tralcio’ deriva dal lat. cat-ul-u(m) ‘cagnolino’.  In abruzzese vale anche ‘spicchio, la quarta parte del gheriglio della noce’: a mio avviso è segno che la parola, strada facendo, deve essersi incrociata anche con altro termine, tipo l’ingl.cut ‘tagliare’, svedese dial. cata ‘tagliare’.  Infatti ad Aielli, il mio paese, e in molte altre parti d’Abruzzo la ‘ngacchiatόra è il punto in cui  il tronco si divide in due o tre rami più piccoli o il punto in cui le gambe si biforcano, il cavallo dei pantaloni. Ma il significato della radice era ancora più complesso se essa indicava anche il congiungersi nell’atto sessuale, specialmente dei cani, ad Aielli. Essa si riferiva comunque ad un intersecarsi tra loro di due o più parti.  E non poteva mancare il significato di ‘ragazzo, marmocchio’ dell’abr. scacchiàtë < *scat(u)l-àtë con la /s/ rafforzativa iniziale[1].

  Anche il lat. falcon-e(m) deve avere il suo sosia vegetale che mi pare rappresentato dall’abr. falgë ‘felce’, lat. felῐc-e(m) o filῐc-e(m)‘felce’.  Gli accostamenti con lat. falc-e(m) ‘falce’ per via della curvatura del becco dell’uccello o delle stesse ali mi sembra totalmente fuori strada. A meno che non si voglia fare un salto verso l’originario significaro dalla radice falk che doveva essere ‘spinta, forza, anima’, in mancanza di un termine più vicino.  Io penso che anche il lat. fulic-a(m) ‘folaga’ sia della stessa natura, in quanto ‘animale’ e non in quanto ‘nera’ di colore.

   Non crediamo di essere arrivati alla fine, giacchè resta da interpretare anche il dun o dum di dum Falcùccë. A mio parere esso potrebbe trovar pace nel lat. dum-u(m) ‘sespuglio’, nell’abr. tùmë ‘timo’ o abr. tùm-ulë ‘catafalco’.  Una cosa è certa: esso non è una invenzione casuale avvenuta nel corso della tradizione del modo di dire.
  
  
   




[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004. 






giovedì 13 giugno 2019

La "stacca" abruzzese.




Il termine in abruzzese (anche ad Aielli) indica una giovane puledra dell’asina. Esiste anche il maschile stacchë, diminutivo staccùccë, accrescitivo staccònëLa voce viene riferita anche ad una donna alta e bella: è na bèlla stacca ‘è una donna alta e formosa’, direi giunonica.  Una volta, tanti anni fa, mi fecero conoscere, quando ero in Sardegna, una collega abruzzese che insegnava in un paese vicino al mio.  “E’ una bella stacca abruzzese” dissi, scherzando, ai miei amici quando lei se ne fu andata.  Naturalmente loro non capirono il significato del termine stacca che subito spiegai.

 Ora, la solita domanda: da dove ci può venire la parola stacca ’puledra dell’asina’ che appare anche nel meridione d’Italia, col significato di ‘puledro/a’ [1]?   Un legame l’ho trovato, e abbastanza forte, con il termine ingl. stag che significa però ‘cervo maschio’. Io credo che, come al solito, questo significato sia il prodotto di una specializzazione della parola che anteriormente doveva valere ‘animale, rampollo, ecc.’ La specializzazione si è avuta in questo caso attraverso l’incrocio, credo, con l’ingl. stake ’palo, asta, paletto’, equivalente delle corna del cervo. Il termine si riferisce anche ad altri animali maschi, come il gallo.  Ma il significato più vicino a quello abruzzese e lucano è lo scozzese stag ‘giovane cavallo, specialmente non domato’. 

  La radice germanica di ingl. stake ‘palo, paletto, pertica’ si ritrova in diversi dialetti italiani nella forma staccia[2] (calabrese, siciliano) ‘pertica per sostenere i rami ricolmi di frutti’, da cui anche l’it. stacci-on-ata.  Anche ad Arcevia-An le voci stacca, staccona, staccotta stanno per ‘donna grossa ed alta’. Non credo che in quel dialetto ci sia la voce stacca per ‘puledra d’asina’, di conseguenza la ‘donna alta e grossa’ verrà accostata  all’idea di “pertica”.  Ora, qual è la condizione giusta e originaria, quella della donna/puledra o della donna/pertica? Nessuna delle due o tutte e due! Inizialmente il valore della parola  stacca  e simili doveva essere quello di ‘rampollo, germoglio, piantina’ il quale poteva essere utilizzato ad indicare qualsiasi rampollo del regno vegetale e del regno animale, compreso naturalmente anche l’uomo: insomma la stacca abruzzese (giovane donna) è tale non perché viene paragonata alla puledra dell’asina, ma perché essa era già di per sé un ‘essere giovane in fiore’, prima magari che si incontrasse casualmente, nei nostri dialetti, con lo stesso termine che era già di per sè un ‘giovane animale’ o un ‘giovane virgulto’.  I significati di lat. pull-u(m) ‘germoglio, pulcino, puledro, piccolo di ogni animale’ insegnano.

    La regola che si desume da questo è che tutti i significati che sembrano dipendere da altri, in realtà erano già presenti, anche se in forma occulta, nella radice d’origine uguale per tutti. Da questo deriva   un’altra regola importante nella mia linguistica: che i significati specialistici, che sembrano derivare da una radice particolare, in realtà presuppongono una radice comune con tanti altri termini. E così procedendo si arriva per forza alla constatazione, come altre volte ho sottolineato, che i milioni di parole che costituiscono le varie lingue, presenti e passate, scaturiscono tutte da un unico concetto, quello di “anima, forza, spinta”, così generico da sfuggire quasi ad ogni definizione la quale ne è già una specializzazione, ma così importante per l’uomo primitivo che riusci a concepirlo, esprimendolo in vario modo e piegandolo ad esprimere con esso le diversità di significato via via da esso ricavate.

   Si può essere annebbiati fino a tal punto da non capire la limpida verità?
 
 



[2] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998. 





domenica 9 giugno 2019

In bocca al lupo! crepi!

Ripubblico questo articoletto perchè vi ho aggiunto l'espressione inglese break a leg 'in bocca al lupo!' e perchè i linguisti sembrano fare orecchie da mercante, o sono giustamente convinti di quello che pensano, visto che non riescono nemmeno a spiegare l'espressione inglese fat chance 'scarsa probabilità' (letter. ' grassa possibilità') se non attraverso il sarcasmo, come fa Steven Pinker nell'Istinto del linguaggio (A. Mondadori Editore, Milano, 1997, p. 380).  Io ne ho data una spiegazione molto naturale, non ricordo in quale articolo del mio blog, mettendo in relazione l'agg. ingl. fat 'grasso' (danese fedt 'grasso') col verbo danese fedte , che significa 'lesinare'  e che quindi doveva indicare una probabilità lesinata, ridotta, scarsa.   




Il diffusissimo augurio In bocca al lupo! crepi! proveniente dal mondo dei cacciatori credo che debba essere spiegato diversamente da come normalmente avviene, anche se esso sembra adattarsi bene ad indicare una situazione di estrema difficoltà da cui il cacciatore saprà cavarsi, come è espresso dal perentorio “crepi!” il quale, però, suona un po’ vago perché non ci dice in conseguenza di che cosa (una fucilata?) il lupo debba crepare. Se si suppone che il detto abbia un’origine ben antecedente all’epoca dell’invenzione della polvere da sparo, come è molto verosimile, allora bisognerebbe pensare più che a una fucilata ad una frecciata o qualche altro termine che rispecchi le modalità di caccia di epoche remote, anche preistoriche.

    In effetti io penserei ai lacci con cui si catturavano uccelli e altri animali, sistemati in posti dove essi erano soliti trovarsi o passare. L’espressione simile (oggi poco usata) andare in bocca al lupo, trova infatti un esatto corrispondente nel francese donner dans le panneau (dare nel laccio). Ma la bocca del lupo che cosa starebbe lì a rappresentare? Secondo me essa, in tempi lontanissimi, stava ad indicare proprio il nodo scorsoio formato dal laccio usato dal cacciatore, se è vero che in italiano esiste ancora il termine marinaresco bocca di lupo ‘tipo di nodo scorsoio’. In tutte queste espressioni il lupo non sarebbe altro che il paravento di un termine antichissimo per ‘nodo scorsoio, cappio’ apparentato con l’ingl. loop ‘cappio’. Allora acqisterebbe tutto il suo luminoso valore il “crepi!” in questione riferito al laccio che il cacciatore si augura che 'si spezzi', uno dei significati del lat. crepare. Il laccio inoltre poteva essere formato di strisce di pelle, di spaghi più o meno consistenti e, nella notte dei tempi, di materiale vegetale come steli di grano, ramoscelli flessibili, ecc.

    Magari nella notte dei tempi, prima che l'espressione acquisisse la stringatezza attuale, qualcuno poteva avvertire  il cacciatore di non andare a finire in bocca al lupo nel senso suddetto di non rimanere intrappolato, al posto della selvaggina, in qualche insidia tesa da altro cacciatore.  In questo caso il cacciatore si augura che il laccio si spezzi, come tante volte sarà successo anche per l selvaggina che riusciva così a filarsela via. 

    A mio parere non si tratta di frasi così dette antifrastiche che indicherebbero il contrario di quello che affermano ma espressioni che provengono da strati linguistici preistorici e che pertanto vanno soggette, attraverso incroci di termini, a tali stravolgimenti di significati, i quali  ci costringono a escogitare la soluzione antifrastica.

 
E’ possibile che anche l'ingl. break a leg 'rompiti una gamba' inizialmente facesse  riferimento ad un cappio, un legaccio espresso con un sostantivo della famiglia di lat. liga-men 'legame, benda, fascia'.   Infatti nel basso medio tedesco si incontra lik 'benda, legame', nel medio alto tedesco ge-leich vale 'giuntura, arto, membro' : allora era fatale che una radice del genere si confondesse con quella dell'ing. leg 'gamba', modificando così l'originario significato dell'espressione che doveva essere  'rompi, spezza il cappio' in quello di 'spezzati una gamba'.  In inglese pare che l’espressione fosse in uso nell’ambito degli attori teatrali, ma essa era probabilmente antichissima. La forza della tradizione è tale che una frase continua ad essere usata in una formula cristallizzata, anche se per caso strada facendo il significato letterale dovesse cambiare direzione e se per un lunghissimo periodo ha dovuto vivacchiare all’ombra di qualche oscuro dialetto.
 
    A pensarci bene break a leg potrebbe aver avuto all’inizio anche il significato di ‘spezzare un nastro’, operazione che con la dicitura “tagliare il nastro”, è tuttora in uso ogni qual volta si deve procedere ad una inaugurazione o in occasione di qualche avvenimento importante o particolare. L’espressione, quindi, aveva un valore augurale diretto, senza il ricorso all’antifrasi che tanto piace ai linguisti.  



giovedì 6 giugno 2019

L’importanza della pronuncia, a volte risolutiva, di parole dialettali.




Ad Aielli il ragno è chiamato ranghë.  Questa voce non trova riscontro, che io sappia, nelle altre parlate locali che si sono allineate più o meno con l’it. ragno, il quale proviene dal lat. arane-u(m) con la caduta della vocale /a/ iniziale e la palatalizzazione della consonante /n/.  E allora come si spiega la pronuncia gutturale dell’aiellese ranghë? In greco la parola suonava arákhnē, voce che spiega benissimo quella aiellese, la quale ha attuato solo una normale metatesi nel nesso consonantico –khn- diventato così –nkh-  ed è l’esito della trafila aránkhē > ránkhē > ránghë. La radice è del resto ben evidente nel verbo aiellese-abruzzese arrancà ‘arrampicarsi’ come fa appunto il ragno. Questo arrancà  però pare non debba essere confuso con l’it. arranc-are ‘procedere claudicando, con affanno’ per il quale si pensa ad una radice germanica, ma io credo che non sia detta l’ultima, perché l’azione di arrampicarsi può rendere bene anche l’idea del procedere affannosamente.

  Ora il problema è un altro, però. Noi siamo portati a credere che vuoi il latino arane-u(m) (che anticamente doveva avere una forma *aracne-um) vuoi le altre forme dialettali derivino dal suddetto termine greco.  Io non lo credo. Anni fa ho scritto diversi articoli riguardanti le parole di origine greca ad Aielli e nella Marsica, nei quali sono arrivato alla conclusione che quelle parole erano presenti da noi da tempo immemorabile.  Le tribù indoeuropee che avrebbero dato origine al greco e quelle che avrebbero generato le lingue italiche, vivevano mescolate insieme e avrebbero portato con sé parole che poi sarebbero sembrate di derivazione greca, ma erano di origine indoeuropea sia per i Greci che per gli Italici. Non è sostenibile che parole riguardanti la quotidianità più elementare siano state mutuate dal greco come succede per i termini relativi ad oggetti commerciali o idee culturali.