sabato 13 dicembre 2014

La parola "omertà"



                                                                                     

    Anche per questo termine  la linguistica mi pare annaspare miseramente nella ricerca di un etimo accettabile.  Le proposte principali oscillano tra una pronuncia napoletana di it. umiltà (omertà), intesa come soggezione supina di affiliati ad una associazione mafiosa che eseguono senza batter ciglio i dettami criminosi  imposti dai capi e un presunto comportamento da veri uomini d’onore degli stessi (dal sicil. omu ‘uomo’, attraverso lo spagn. ant. hombredad ‘virilità’, da hombre ‘uomo’) dinanzi a simili efferatezze.  Il comportamento omertoso si estende poi alla società tutta costretta a vivere in ambienti fortemente inquinati da queste associazioni, pronte a punire selvaggiamente chiunque si azzardi a denunciare i loro affiliati o addirittura solo a parlarne con mancanza di rispetto.  Sicchè, quando succede un misfatto di matrice mafiosa, non si trovano solitamente testimoni: nessuno ha visto, nessuno ha udito, nessuno era presente. L’omertà è dunque una sorta di vincolo ermetico di solidarietà non solo tra associazione mafiosa e affiliati ma anche tra società civile e mafiosi.  

   Anche in questo caso l’errore a mio avviso scaturisce dal limitarsi al latino o addirittura all’italiano nella individuazione di una radice etimologica.  Che i due etimi proposti siano errati ce lo suggerisce anche il fatto che essi  fanno riferimento  a concetti in fondo estranei al fenomeno che si vuole indicare: quello dello stretto legame (o piuttosto sudditanza) tra i membri dell’associazione e i capi nonché quello indotto tra la società civile ed i malavitosi che però è appunto un sottoprodotto dell’esistenza nel territorio di simili associazioni. Secondo il mio metodo etimologico, ormai convalidato da moltissimi esempi, una parola deve invece indicare direttamente il referente o il concetto fondamentale di cui è portatrice.

   Nell’articolo Il “municipio” ovvero il concetto di “unità”[] del mio blog (apr.2014) abbiamo già incontrato la parola greca hóm-ēr-os[1] ‘unito, marito, moglie, pegno, ostaggio’ collegabile col gr. ṓm-er-os ‘spalla, omero’ (lat. humerum, umerum ’spalla’) in quanto ‘articolazione, connessione’ e quindi ‘unione, associazione, solidarietà’.  Pertanto il meridionale omertà si inserisce alla perfezione in questa serie, supponendo come precedente immediato di esso un sostantivo latino in –itas, gen. –itatis, la cui radice veniva comunque da lontano, come *omer-(i)tas, *omer-(i)tatis uguale a tanti altri che hanno dato come esito, in italiano, forme tronche in –(i)tà quali sever-ità, pover-tà, car-ità, ecc. ecc. Il concetto di “omertà” non sarebbe dunque altro che lo stretto legame che unisce i membri di un’associazione qualsiasi e, nel caso specifico, dell’associazione a scopi criminali di cui abbiamo parlato.  In ultima analisi, poi, sia l’idea di “associazione” sia quella di “nodo, stretto legame” che si estrinseca, nel caso specifico, nei modi di cieca subordinazione degli affiliati ai loro capi, finiscono col combaciare perfettamente. A monte delle parole c’è sempre un’idea generica che poi si specializza ad indicare questo o quel referente con caratteristiche spicciole non combacianti. Così stando le cose, potevamo risparmiarci la fatica (per me comunque piacevole) di andare a trovare l’etimo della voce omertà di origine meridionale: come ho più volte ricordato, esso ce lo offre gratuitamente la parola stessa, una volta definito l’esatto suo significato spogliato di tutti gli accidenti, operazione talvolta non facile, per la verità.  La radice  da rintracciare come etimo, deve avere comunque quel significato.  In questo modo il lavoro dell’etimologo diventa veramente un’operazione fruttuosa e scientifica che finalmente può aspirare a fare piazza pulita dei mille tentennamenti cui egli attualmente è costretto, non possedendo sostanzialmente nessuna bussola orientativa, fatto che lo costringe a navigare a naso e lo fa finire quasi sempre nelle fauci immense dell’aleatorietà nel mare magnum delle lingue.  Il rasoio di Occam, principio fondamentale della scienza, sfoltisce le ipotesi inutili e pletoriche anche in linguistica. Mi auguro che una nuova epoca si schiuda per la Linguistica, scienza che porterà una viva luce a tutte le lingue e a tanti fenomeni anche extralinguistici, dando così il via ad un nuovo umanesimo.  
   
    A conclusione di questo articoletto vorrei puntare l’attenzione su uno dei significati specifici assunti in greco dal termine suddetto hóm-ēr-os, cioè ‘marito, moglie’.  Il lat. mar-itu(m) ‘marito’ viene dai linguisti messo in relazione con lat. mas, maris ‘maschio’ ma, secondo i canoni della mia linguistica poco fa ricordati, questo è errato perché il concetto di fondo di “marito” è in rapporto, più che con il maschio, con quello di “legame, connessione, ecc.” in quanto il marito è tale solo se visto affianco di una moglie non se è un maschio, che può essere anche scapolo.  Una volta stabilito ciò è facile rapportare il lat. mar-itu(m) ‘marito’ alla serie numerosa di radici cui appartiene anche il m.oland. mar-en, mer-en ‘annodare, ormeggiare’, ingl. moor ‘ormeggiare’[2]. Ma che il marito facesse capo a una realtà diversa da quella di maschio ci era suggerito già dall’espressione italiana, di ascendenza comunque latina, maritare le viti (agli olmi, pioppi, ecc.) con cui si intende ‘collegare le viti a queste piante’: l’espressione non è una metafora da marito come tradizionalmente si pensa, ma, semmai, sarebbe il marito a derivare da questa espressione, nel senso che egli è un uomo  legato alla sua con-sorte.  Quest’ultimo termine, inoltre, viene inteso, a mio avviso erroneamente,  come ‘(colui) che ha la stessa sorte (lat. sort-em ‘sorte’)’ quando invece a me pare evidente che il/la consorte è semplicemente il coniuge legato, appunto, all’altro come vuole l’etimo che rimanda al lat. con-iung-ere ‘congiungere’.  Pertanto io vedrei il lat. con-sort-em come ‘colui/colei che partecipa di un insieme’ costituito qui dalla coppia di coniugi.  Il verbo di riferimento deve essere il lat. con-ser-ere ‘intrecciare’.  Il lat. sors, sort-is ‘sorte, estrazione a sorte, ecc.’ indicava la verghetta di legno che, mescolata insieme ad altre, componeva un insieme da interpretare di volta in volta in modi diversi. Anche il lat. seri-e(m) ‘serie, fila’  che deve essere messo in rapporto con lat. sort-em, costituisce un insieme di elementi allineati, appunto.  Il lat. con-sort-em significava talora anche sorella (lat. sor-or ‘sorella’) per cui i due termini dovrebbero essere a mio parere equivalenti, sicchè l’etimo usuale di lat. sor-or-e(m) che accomuna il termine all’ingl. sister’sorella’, ted. Schwester ‘sorella’ non mi pare adeguato[3].

   E il maritozzo, il noto dolce romano, cosa potrebbe entrarci con la radice di marito? E’ molto semplice a mio avviso rispondere a questa domanda.  Il dolce in questione, per lo più di forma ovale, è inciso profondamente in senso longitudinale, sì da dividersi in due parti, quasi due valve di un tutto riempite di panna. Le due valve non sono altro che una coppia come quella maritale, cioè, etimologicamente, un legame matrimoniale!  Ma non ci giurerei che il dolce fosse stato creato nella lontana antichità apposta per il matrimonio.  Esso poteva avere già una vita autonoma col significato, appunto, di coppia di fette di pane  (farcita con panna).


                        Sors tibi prospera sit, scriptum meum! ( La sorte ti sia prospera, articolo mio!)
   
  
  
   
    



[1] Per l’etimo dei due componenti tautologici della parola rimando al suddetto articolo.

[2] Cfr. l’articolo del mio blog Il termine “armento” [] (marzo 2014).

[3] Questi due termini germanici sono più vicini a voci come quelle del dialetto di Trasacco-Aq susta e sùstalë. Il primo significa ‘spilla pettorale o fermaglio che le donne d’altri tempi usavano portare sulla camicia’, il secondo significa ‘tassello di ferro che mantiene due assi unite e aderenti in modo che non si stacchino’ (cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003). A Rocca di Botte-Aq susta significa ‘robusta corda usata dai carrettieri per sostenere il carico’ (cfr. M. Marzolini, “… me ‘nténni?”, Arti Grafiche Tofani, Alatri 1995). A Gallicchio-Pz sustë vale ‘bordo della manica’ perché esso è caratterizzato dal rafforzamento del tessuto mediante ripiegamento e cucitura dello stesso(cfr. Dialetto di Gallicchio online).  Il significato di fondo è quindi quello di ‘stretto legame, connessione, solidità, ecc.’, significato che, come abbiamo visto, può designare sorelle e coniugi in genere, attraverso il valore di ‘legame’.  Susta  ha anche il significato di ‘alterigia, spocchia’, atteggiamento di chi cammina impettito, rigido e tutto d’un pezzo, come fosse il suo corpo sostenuto da verghe di legno o ferro.  Mi pare che dietro queste parole si possano individuare voci greche simili a sy-stás (ampélōn) ‘insieme di viti’, a sy-stéll-ein ‘stringere insieme’, a sy-stolé ‘restringimento, sistole’ o anche sy-ster-iz-ein ‘consolidare, fissare’. L’ingl. sister-ing significa ‘contiguo’. L’it. sosta potrebbe suggerire che il lat. sub-stare ‘stare sotto’ e ‘tener duro, saldo’ sia in realtà reinterpretazione di precedente voce greca proveniente dal verbo  syn-íste-mai (come la precedente sy-stás) che, tra l’altro, significa anche ‘mi fermo’.

lunedì 17 novembre 2014

Il villaggio di Ain Karem e i suoi rapporti con le figure evangeliche di Zaccaria, Elisabetta, Giovanni e Maria. Ed altro ancora



    Ho dovuto constatare, negli articoli precedenti, che anche il Vangelo presenta talora episodi che, a mio parere, rimandano a miti e leggende sviluppatisi verosimilmente già prima del tempo di Cristo e inseriti, volutamente o meno, nella trama delle vicende in esso narrate le quali, almeno per i credenti, avrebbero il crisma indiscusso della storicità.  O si deve ammettere, con buona pace dei fedeli, che potrebbe essere vero l’inverso, che cioè è la gran parte delle vicende stesse riportate dal Vangelo a trarre origine e giustificazione da miti e leggende preesistenti?

Mi sono imbattuto per caso, nelle mie scorribande toponomastiche alla ricerca di nomi particolari, nelle terme di San Zaccaria della città di Brennero-Bz, e le ho collegate con il toponimo Casale San Zaccaria del comune di San Gregorio Magno-Sa, nei pressi del quale sgorga una abbondandissima sorgente captata da un acquedotto.  Diverse altre saranno le località così chiamate collegabili a sorgenti, e pertanto simili, nel nome, a fonte Val-zacchera (Serravalle di Chienti-Mc) in cui la componente Val- rimanda a molti altri idronimi (per l’etimo cfr. ted. Welle ‘onda’).  L’altra componente, variante di Zaccaria, chiama in causa il got. tagra ‘lacrima’, n.a. tedesco zähra ‘lacrima’, longob.  Zahhar ‘liquido gocciolante’ (da cui l’it. zàcchera), gr. dákry ‘lacrima’, acque minerali Zagori in Grecia e Zagro in Iran.  In Austria scorre un Sacher-bach (ruscello Sacher, come rio Sacro sui monti Sibillini), nome la cui /s/ iniziale è sonora e quindi vicina all’affricata sonora /z/.  L’idronimo risulta a mio avviso incrociato col ted. Sache ‘cosa’; allo stesso modo quelli del tipo ted. Zucker-bach, ingl. Sugar-brook ‘ruscello dello zucchero’ si sono incrociati con le rispettive parole per ‘zucchero’.

    Nel Vangelo di Luca si parla del sacerdote Zaccaria, marito di Elisabetta, originario della Giudea secondo il vangelo di Luca (I,39) e, secondo la tradizione, precisamente del villaggio di Ain Karem ‘Fonte (arabo Ain) dell’Orto (Karm)’. Questo nome della fonte dovette passare ad indicare globalmente il paese, probabilmente già nella preistoria, come avviene spesso, e comunque prima della venuta di Cristo nonostante l’apparenza, lasciando la fonte libera di ricevere altra denominazione nell’avvicendarsi nel luogo di civiltà diverse perché essa attualmente è chiamata Ain Sitti Maryam ‘Fonte (Ain) della Signora (Sitti) Maria (Maryam)’[1]. E’ proprio questo nome, allora, che potrebbe aver dato il via, secondo me, alla leggenda dell’incontro ivi avvenuto tra Maria e la cugina Elisabetta, la cui eco sarebbe presente nel racconto di Luca. Maria, già incinta di Gesù, avrebbe raggiunto questa località della Giudea situata a circa 120 chilometri da Nazaret in Galilea sottoponendosi, così, ad un notevole strapazzo da sopportare anche nel viaggio di ritorno, avvenuto dopo tre mesi. Non sembrano distanze abbastanza disagevoli per quei tempi, da percorrere a piedi o sul dorso di un animale, da parte di una donna incinta? Questa domanda se la sono posta in molti. Si sa che il nome Maria in ebraico suona Miryam ma in aramaico era Maryam: si trattava evidentemente di varianti fonematiche facilmente intercambiabili, specie in toponomastica. La radice di quest’ultimo idronimo si ritrova in diversi altri sparsi in varie parti d’Europa come nel Fiume Mare-potamo (Calabria), Rio Santa Maria, affluente del Cedrino (Sardegna) e addirittura in idronimi dell’area germanica come Marien-quelle ‘Sorgente Maria’, terme presso Vienna, e Marien Brunnen ‘Fonte di Maria’ (acqua minerale) o come le varie Saint Mary’s Well ‘pozzo di Santa Maria’, sorgenti sacre nella Scozia, dove si trova anche un idronimo come Isle Maree, il quale dovrebbe togliere ogni dubbio sul valore delle precedenti Mary (Maria).  La radice riappare anche nella località chiamata Mara dove gli Ebrei guidati da Mosè fecero la prima sosta nell’attraversamento del deserto del Sinai (Esodo 15,23-25).  Il racconto biblico riferisce che in quel luogo le acque erano amare ma  è chiaro che questa loro caratteristica è venuta fuori solo in conseguenza dell’interferenza con la parola ebraica per ‘amaro’(marah), se il testo afferma “per questo lo (il luogo) chiamarono Mara “.  Mosè vi gettò un legno mostratogli dal Signore e le acque diventarono dolci.  Lo erano, in effetti, già in precedenza, ma, come ho detto, gli incroci, favoriti dall’ ampia dimensione diacronica delle parole di questi testi antichissimi, che avranno avuto anche un lungo periodo di trasmissione orale, determinano questi, chiamiamoli così, incidenti di percorso.  Molto significative, infine, sono la Pieve di Santa Maria dell’Aquila, a Sorano in prov. di Grosseto nei pressi di una sorgente termale, e la chiesa di Santa Chiara d’Aquili, nata come Santa Maria d’Aquili (cfr. anche Fonte Santa Maria, sul Gran Sasso),  nella cui area, secondo la maggioranza degli studiosi, si troverebbe la sorgente principale della famosa Fontana delle 99 Cannelle all’Aquila; nelle vicinanze sorgeva l’insediamento altomedievale di Acquili che, probabilmente, ha dato il nome all’intera città.  L’etimo del toponimo L’Aquila potrebbe essere quindi di natura idronimica ed essere apparentato col lat. aqua ‘acqua’ come la Fonte dell’Aquila (Parco Nazionale dei Sibillini), il torrente Aquila (Finale Ligure) ed altri idronimi.  Anche la chiesetta di San Vito, dirimpetto alla Fontana delle 99 Cannelle, si inquadra nella serie idronimica di Fonte San Vito di Cerchio, Canistro, ecc.  La radice, secondo me, non può essere in quest’ultimo caso che quella del greco (w)ýdor ‘acqua’  come ho avuto modo di notare, con dovizia di particolari, in altri articoli.  Una fontana Ain Sitti Maryam (Fonte della Signora Maria) esiste tuttora anche a Nazaret e naturalmente si tramanda che lì avvenne l’annunciazione dell’arcangelo Gabriele a Maria.  Sono convinto che, andando a cercare in tutto il territorio della Palestina e dintorni, si incontrerranno diverse altre fonti di tal nome che per ciò stesso dovrebbero togliere credibilità, a mio avviso, ai racconti che tradizionalmente collegano alcune di queste fontane ad episodi della vita di Maria narrati dal Vangelo. 

   Nella chiesa della Natività di San Giovanni, esistente nel villaggio di Ain Karem, si trova una grotta nella quale sarebbe nato il Santo: mi viene in mente la grotta di Pan nelle Macre di Atene dove Creusa, incinta di Apollo, avrebbe dato alla luce Ione, il cui nome assuona bene con quello di Johannes, oltre a richiamare le varie Grotte di san Giovanni, sparse in tutta Italia. La radice in questo caso è simile a quella di lat. ianu(m) ‘passaggio coperto’, lat. ianua ‘porta’.  Mi chiedo perché mai, quando leggiamo di simili eventi fantastici in altre religioni, non possiamo non accogliere  con un malcelato sorriso i relativi racconti, ma quando poi si tratta della nostra religione diventiamo razionalmente sordi, pronti ad accettare anche le cose più incredibili, giustificandole con il sostenere che Dio può tutto.

   Nell’altra chiesa del villaggio, quella della Visitazione, sgorga, da un’altra grotta, l’acqua di una fonte la quale, evidentemente, doveva portare il nome di San Giovanni prima che esso passasse ad indicare quello della chiesa , come ci fa capire la tradizione secondo cui la fonte servì a dissetare il Santo e sua madre Elisabetta, quando essi, in un anfratto della parete rocciosa aperto da Dio, si erano nascosti per sfuggire ai soldati inviati da Erode nella famosa strage degli innocenti.  Questa fonte, in realtà, deve essere stata oggetto di culto fin dai tempi più remoti, precedenti all’avvento del Cristianesimo, come avveniva per moltissime altre fonti, e deve aver dato il via a storie più o meno leggendarie confluite successivamente nel racconto evangelico.  Numerosissime sono anche in Italia e in Europa le fonti che si richiamano al nome del Santo, e che riconducono pertanto alla stessa radice di ianu(m) nel suo significato di ‘passaggio’ e quindi di ‘movimento’, caratteristica fondamentale dell’acqua.  E in effetti in ebraico il termine per ‘fonte, sorgente’ suona ma’yan oppure maa-yan: che la parola debba essere segmentata in questo modo, risultando così composta da due costituenti tautologiche, me lo suggerisce l’arabo maa ‘acqua’.  Anche la mitologia porta acqua a questo mulino, se il dio latino Ianus  era capace di far scaturire fiumi e fonti ed aveva come moglie la ninfa Iuturna, protettrice delle sorgenti, e come figlio Fontus o Fons. Chiarificatrici del processo di “santificazione” sono la Fonte Giovanni e l’Acqua San Giovanni nell’area del Gran Sasso.

   Elisabetta (ebr. Elishebà), la moglie di Zaccaria, doveva essere anch’essa   un altro nome per ‘acqua, sorgente’ composto di almeno due elementi, Eli-  e  -sabetta (-shebà).  Per il primo basta pensare alla Fonte di Elia, sul monte Carmelo in Palestina, e alle varie altre dell’Italia come Fonte Elia a Collelongo (Aq). L’idronimo fa venire in mente il fiumicello laziale Allia, famoso per la sconfitta che i Galli inflissero ai Romani nel 390 a.C.  Ma non bisogna passare sotto silenzio nemmeno la località El-im, seconda tappa degli Ebrei nell’attraversamento del deserto, dove erano ben dodici sorgenti.  La radice EL è ben nota ai linguisti nel suo significato di ‘essere in movimento’ come nel lat. amb-ul-are ‘andare attorno, passeggiare’, greco elá-o ‘spingere, muoversi’ e, credo, nel fr. aller ‘andare’. La segmentazione Eli-sabetta  mi è stata suggerita dal passo del pofeta Zaccaria in cui egli afferma che “ il ventiquattro del mese undecimo, cioè del mese di Sabat (o Sebat) ’’ il Signore gli rivolse la sua parola: sono davvero strane queste precisazioni al minimo dettaglio e, pertanto, esse dovettero essere causate, a mio parere, dai suaccennati incroci di termini omofoni che potevano mostrare separatamente significati diversi, ma che comunque erano entrati, mitologicamente, nell’orbita del nome “Zaccaria”,  fosse esso il profeta oppure il marito di Elisabetta.  In queste faccende generalmente vale più l’assonanza tra i termini che altro.  C’erano anche molti altri Zaccaria nella Bibbia e spesso si faceva confusione tra loro. Comunque la loro ricorrente caratteristica di essere sacerdoti, o portinai del tempio, o aiutanti nel trasporto dell’Arca a Gerusalemme, può ricevere luce dal termine greco, probabilmente di origine ionica, zákoros ‘servo, ministro del tempio’, forse prestito di qualche lingua asiatica piuttosto che da riportare al gr. koréo’ spazzare’. Tra i cantori del coro del tempio, stabiliti da Davide, c’era anche uno Zaccur.

   Un perfetto corrispondente del nome del mese di  Sabat  e della componente -sabetta si ritrova nel fiume campano Sabato, lat. Sebethos (nome che assuona con lat. septem ‘sette’, come la seconda componente di ebraico Eli-shebà corrisponde ad ebraico shebà ‘sette’), nel fiume Savio (Romagna) o anche nella località termale del Belgio Spa, da cui l’inglese spa ‘terme’.  Frequenti sono in Italia le fonti Sp-ino, Sp-ina, ecc. Lo stesso cliché si ripete nell’ex Iugoslavia con idronimi del tipo Sava, Sav-inja.

   Ad occidente del villaggio di Ain Karem, a circa tre chilometri, si trova il convento del Deserto di san Giovanni con una grotta, che si inquadra nel ciclo del rifugio di Elisabetta e suo figlio, nei pressi di una sorgente, che doveva avere, precedentemente, lo stesso nome del Santo, come abbiamo supposto per la sorgente della chiesa della Visitazione.

   Come ciliegina sulla torta viene la considerazione che il nome del Monte Karm-el deve essere di origine idronimica se è vero che nella sua sommità si trovava la Sorgente di Elia, nome che dà ragione della seconda componente di karm-el, come l’idronimo Ain Karem dà ragione della sua prima componente Karm-.  E non è un caso se, già molto tempo prima dell’avvento del Cristianesimo, presso la Sorgente di Elia si riunivano eremiti e si fondavano edifici di culto.  Ma non è tutto.  Uno dei nomi di questa fonte dovette essere proprio quello di Maria se furono alcuni di questi eremiti, a quanto si tramanda, a dedicare verso il 93 d.C., una cappella alla Santa Vergine Maria del Carmelo . La data della fondazione della cappella potrebbe, però, essere il frutto di un adeguamento alla storia evangelica  di Maria e così potrebbe essere spostata ad epoca anteriore al Cristianesimo; inoltre, secondo l’interpretazione di tutti i mistici cristiani e degli esegeti, il profeta Elia (IX sec. a.C.) ebbe in quel luogo la visione prefiguratrice della Vergine Maria quando, inginocchiatosi a pregare Dio, suscitò dapprima una nuvoletta ‘piccola come una mano d’uomo’(I Re 18,41ss) che salì poi ingrandendosi su per il monte a portare la pioggia ristoratrice alle campagne assetate di Israele, allo stesso modo in cui la Vergine Maria, portando in sé il Verbo divino, diede la vita e la fecondità al mondo. Sta di fatto che anche il titolo sotto cui è noto il santuario mariano attuale, Stella Maris ‘Stella del Mare’, sembra richiamare fatalmente questa antica radice idronimica. La spiegazione della parola Carm-elo come ‘giardino, orto (karm-) di Dio (-el)’ è basata sui significati dello strato superficiale del nome e pertanto è poco attendibile.  Non è un caso che le Madonne del Carmine, ben frequentemente, si trovano presso sorgenti come a Pescina e a Celano.

   Con questo quadro di riferimento a me sembra altamente probabile che diversi tratti delle storie relative alle figure bibliche connesse con questi luoghi abbiano potuto ricevere linfa vitale dai toponimi stessi del luogo, in specie dagli idronimi. Oppure, se non si vuol credere ad una improbabile completa invenzione dei personaggi del Vangelo, come pure taluni sostengono, si può supporre uno scenario in cui alcuni idronimi di questo luogo chiamato Ain Karem (il quale si trovava a pochi chilometri da Gerusalemme e quindi poteva fungere benissimo da cassa di risonanza della vicenda di Cristo che in quella città fu crocifisso) potrebbero avervi attratto i fatti reali che magari si erano svolti altrove e che qui trovavano la loro naturale sceneggiatura toponomastica, anche perché non sono propenso a credere che i nomi delle sorgenti qui coinvolte siano stati imposti successivamente ai fatti evangelici, ma che essi risalgano piuttosto alla preistoria. E non deve costituire un ostacolo la presenza concentrata di idronimi corrispondenti a nomi personali: a Cappadocia-Aq si incontrano due fonti chiamate Pietro e Nina. I santi martiri di Celano, cioè Costanzo, Simplicio e Vittoriano credo che siano, come ho mostrato in altro articolo, nomi diversi relativi alla stessa sorgente di Fonte Grande. I toponimi, infatti, in ogni tempo e in ogni luogo hanno svolto spesso una potente azione mitopoietica, sicchè non è improbabile che miti relativi a punti sensibili di questo villaggio, formatisi in epoche antichissime, anche prima dell’era cristiana, siano poi confluiti nella vicenda terrena di Cristo e di Giovanni Battista, apportando qualche tratto nuovo o anche andando solo a sovrapporsi ai nomi nudi e crudi dei personaggi reali e assorbendone quindi le vicende. L’episodio dell’annuciazione a Maria e della visita di costei alla cugina Elisabetta, in una città della Giudea, è presente solo nel vangelo di Luca e non negli altri vangeli sinottici, motivo per cui diversi studiosi pensano che esso derivi da una fonte personale dell’evangelista, fonte –aggiungo io- che poteva essere costituita proprio dalla tradizione, probabilmente orale, che si era originata, in virtù  di quegli idronimi, in quella località dove, ancora nei nostri giorni, essa continua a resistere.

   Credo sia qui il caso, in relazione alla funzione mitopoietica dei toponimi, di portare l’esempio, tra gli altri, del paese di Canal San Bovo nel Trentino, con relativa statua del Santo nella chiesa del paese, il cui nome si è incredibilmente generato dalla santificazione del “sambuco”,  perché il toponimo deriva in verità dalla voce dialettale sambovo ‘sambuco’, essendo esso attestato nel 1275 come “Canale Sambugo”.

   Il paese di San Pelino di Avezzano avrebbe tratto il nome da un vescovo di Brindisi dell’alto medioevo, il quale sarebbe stato mandato in esilio a Corfinio nella valle Peligna dove sarebbe stato martirizzato: uso il condizionale perché i fatti attribuiti al Santo dall’unica biografia che ci resta, non credo possano essere accettati senza battere ciglio.  Sappiamo quanto siano incerte e fantasiose le Vite dei Santi che ci vengono dal medioevo, che molto spesso fanno le lodi di santi addirittura mai esistiti. Un bel giorno  egli, di ritorno dalla città di Roma, avrebbe fatto sosta a San Pelino, secondo quanto afferma la tradizione seguita dallo storico Corsignani che certamente non si distingue per precisione ed attendibilità, e gli abitanti gli avrebbero innalzato, successivamente, una chiesa, la quale, però, stranamente, non è confermata non solo dalla continuazione del culto fino ai nostri giorni, ma nemmeno da tracce archeologiche o ricordi  circa il sito della sua edificazione. E non basterebbe, per smontare la credenza tradizionale, la semplice riflessione che quel paese doveva avere  già il suo bel nome, per di più sparito nel nulla, e che difficilmente lo avrebbe cambiato, anche se avesse dedicato la suddetta chiesa al Santo?  Più concretamente, e rimanendo letteralmente coi piedi ben saldi a terra, io volgerei piuttosto lo sguardo al vicino Monte Vel-ino, il cui nome presenta una ben nota radice oronimica mediterranea (bal/bel), per dedurre che Pel-ino  ne è una semplice variante e che essa ricorre in  Cima Piange<*Pl -ange (Magliano dei Marsi) da mettere accanto alla parola del dialetto di Scanno-Aq che suona chiancone ‘sasso’< *pl-anc-one, Monte Bello (Luco dei Marsi), Colle Pil-ato (contrada tra Cappelle e San Pelino), nel toponimo Pela-costa (Tagliacozzo) che non è  da sciogliere, forse, in ‘per la costa’ perché in tal caso dovrebbe suonare dialettalmente Pella-costa, con la /l/ geminata, a meno che non si tratti di errore di trascrizione da parte del cartografo dell’IGM.  Anche ad Aielli la radice si ripresenta nel Monte Costa Pel-ara e nelle contrade Dalla Vella e Da Pel-ara, ambedue in forte pendio. E non è forse vero che San Pelino Vecchio svetta proprio su un colle?  Al massimo lascerei al Santo quel San che precede il nome del paese, anche se nemmeno questo è sicuro, come potrei ben argomentare, ma è meglio non andare troppo per le lunghe.  Se di Santo si tratta esso va situato molto indietro nel tempo: esisteva in antico una non meglio precisata dea Pelina.   Anche nel lessico dialettale è rimasto un valore della radice pel-, pal-consono al significato in questione:  ‘nchianà < *in-planare vale ‘salire’ nel vocab. abruzzese del Bielli; acchianata  significa ‘salita’ a Filiano, prov. di Potenza.  Che dire della spiegazione che danno i linguisti de I Dialetti Italiani della UTET dei verbi siciliani e calabresi nchianà, acchianari, secondo la quale il significato profondo di essi sarebbe ‘arrivare al piano’? La risposta non voglio darla io ma la lascio all’espressione del dialetto di Buccino (Salerno) acchiána la quale significa ‘in salita’ ed esclude la possibilità di introdurre surrettiziamente un verbo di movimento che porti all’eventuale ‘ripiano’ riscontrabile dopo una salita (a parte la considerazione che si ‘sale’ anche in cielo o su un albero dove non è previsto nessun ‘piano’): l’espressione, nel suo riferirsi ad una condizione di staticità, dovrebbe quindi significare ‘in piano’ e non ‘in salita’, visto anche che il significato etimologico di ‘piano’ è ben presente nella coscienza del parlante!  Come se non bastasse ci viene incontro anche il termine serbo-croato plan-ina ‘montagna’.   Ma già oronimi come Costa Piana (Terminillo) e Piano Grande, una parete scoscesa del Gran Sasso, e tanti altri gridavano a squarciagola la loro verità, senza essere ascoltati da nessuno![2]

   Mi rendo conto di dire delle cose alquanto inquietanti e incredibili per chi è un fedele cristiano, ma, se tutta la mia annosa ricerca ha un senso, sento anche il dovere di trarne le conseguenze, anche se incresciose: ognuno, d’altronde, alla fine saprà tenersi stretto alle proprie convinzioni religiose e non saranno certo le mie osservazioni, che presentano pur sempre un margine di fallibilità, a distrarlo o a turbarlo. 

   Da  parte mia, intanto, voglio ribadire il concetto, già di Galilei, secondo il quale sono piccole cose di questo mondo a nascondere il segreto anche di grandi verità.  In questo caso sarebbero proprio questi idronimi e oronimi, se rettamente intesi, a svolgere una funzione insostituibile di chiarificatori di fatti del lontano passato, destinati altrimenti a restare completamente avvolti nella nebbia dell’incertezza e del mistero acriticamente accettato o rifiutato.  E’ proprio il caso di dire che i toponimi, oltre a svolgere essi stessi una funzione mitopoietica, a volte captano, come moderne parabole satellitari, l’eco di eventi e credenze occorsi persino nella preistoria, e la trasmettono intatta a noi uomini smaliziati e distratti del XXI secolo.  Se riusciamo a fornirci degli strumenti di decifrazione adeguati, i toponimi si rivelano così dei collaboratori indispensabili nella immane fatica di separare il poco grano della verità dalla molta zizzania degli scritti, delle leggende e dei racconti che la tradizione è riuscita a traghettare fino ai nostri giorni.



[1] Numerose sono oggi le località in Africa settentrionale che cominciano con l’espressione Ain Sidi […], cioè Fonte Signor[…].

[2] La questione del valore della radice preistorica plan viene risolta definitivamente nell’articolo del mio blog del luglio 2011 Col tempo e con la paglia […].