lunedì 1 luglio 2013

Incredibile ma vero: nelle lingue le parole sottotraccia non sono una rarità! Etimo, tra l'altro, di abruzzese "fiadone", un tipo di dolce

                

Come avevo affermato nel precedente articoletto, le parole che, provenendo da strati linguistici sepolti addirittura nella preistoria, riescono a vivere tuttora nelle lingue (naturalmente sotto mentite spoglie perché altrimenti nessuno le avrebbe salvate da sicura morte), non sono poche.  Alle parole facenti capo alla radice indoeuropea ven- ‘amare, ben volere, ecc.’, di cui ho parlato nel post precedente, bisogna aggiungere lo spagn. bien avenido ‘affiatato’ (che richiama il sintagma bien venir ‘ben amare’ dell’espressione francese ivi citata) dal verbo a-ven-ir il quale, oltre a significare normalmente ‘avvenire, accadere’, vale anche ‘accordar(si)’ condividendo cosi ad esempio la sua identità con lat. venia(m) ’grazia, favore’ e con tutte le altre parole che ho citato in quell’articolo, ed entrando così nella condizione di  chi è ben disposto verso l’altro, ne avverte scambievolmente la disponibilità, lo apprezza e magari finisce per amarlo.

L’it. affiatato ha, a sua volta, messo in moto il mio pensiero sempre in cerca dei probabili e giusti etimi, della genuina affinità ancestrale delle parole, da quando si è accorto che quelli tradizionali, gli etimi, lasciano spesso parecchio a desiderare.  Mi sono chiesto dove andare a rintracciare per gli it. affiatato, affiatamento, affiatar(si) quell’empito che unisce due cuori che agiscono all’unisono, in un’intesa simile a quella dell’amore, quando sono appunto affiatati.  Perché banale o piuttosto artificioso, metaforico, non cogliente direttamente il segno mi è parso in tal senso il significato estraibile da affiatar(si, come fosse un ‘respirare (all’unisono)’ dalla radice di lat. fl-atu(m) ‘fiato’ e lat. fl-are ‘respirare, soffiare’ preceduta dalla prep. ad ‘a, verso’. L’idea del “respirare”, insomma, non mi è parsa il massimo per esprimere l’intima compenetrazione dell’affiatamento.  Con questa convinzione nella mente mi sono messo a cercare nel web dove si fanno talora graditissimi incontri (debbo essere un tipo ben strano se traggo sommo diletto da questi incontri internettiani, a volte meramente virtuali!). Mi è sembrata come manna dal cielo la voce del dialetto di Spinazzola-Ba che suona fiatodd  e significa ‘affetto’[1].  Ho esclamato tra me e me:«Ci siamo!» perché la parola ci porta direttamente nell’ambito dei sentimenti amicali o amorosi tra gli individui, lasciando comunque aleggiare il ritmo del respiro in superficie, dato che questo fiatodd ‘affetto’, col suo corpo resta in apparenza immerso quasi totalmente, tranne il suffisso, nella parola fiato.  Il vero problema, a questo punto, è che il fiato, come sostenevo, non è propriamente e inequivocabilmente un segno d’affetto, soprattutto qui che la parola mostra un puro significato superficiale di ‘fiato’ e non è derivata da un verbo che possa far pensare ad un’operazione particolare da esso compiuta in modo da ottenere un affiatamento.  E allora dove andare a sbattere la testa per un etimo accettabile?

Mi è cominciata a frullare per la testa l’idea che la radice di lat. fl-are ‘respirare, soffiare’ poteva benissimo confondersi con quella di gr. philé-o ‘amo, ho cura di, ecc.’ e gr. phíl-os ‘amico, amato, amante, ecc.’, ma con tutto ciò restava la difficoltà costituita dal fatto che questa intuizione poteva dar ragione della sola prima parte di fi-ato, derivata da precedente *fl-ato <*f(i)l-ato , con la normale palatalizzazione della liquida /l/ e la chiusura completa e relativa scomparsa della /i/ non accentata. Ma andando a compulsare il vocabolario greco (non posso ricordare o semplicemente conoscere tutte le parole del vocabolario, comprese quelle meno comuni! non sono mai stato un perfezionista quantitativo e plateale, anche se al liceo qualcuno diceva, certamente esagerando, che conoscessi il vocabolario di greco a memoria!)  ho potuto vedere che esiste un verbo phil-ēdé-o ‘godere, dilettarsi di’ che è un denominativo dall’aggett. phil-ēd-és ‘amante del piacere’, composto da due membri di cui il primo ci è noto. Il secondo –ēd-  significa ‘dolce, piacevole’ e simili, e rimanda a gr. hēd-ýs ‘dolce, piacevole, amabile, benvoluto, ecc.’.  Ma basta una piccola riflessione per capire che questi termini erano inizialmente tautologici, secondo i canoni della mia linguistica. I due componenti infatti ruotano intorno al medesimo significato di ‘piacevolezza, simpatia, amore, gioia’. Inoltre il componente -ēd- aveva la variante dorica -ad-, da precedente *(sw)-ad, come attestano varie forme indoeuropee quali ingl. sw-eet ‘dolce’, a. a. ted suazi ‘dolce’ e suozi ’dolce’, lat. su-ad-eo ‘persuadere’, lat. su-ave(m) ‘soave, dolce’.  Anche in greco, ve ne sarete accorti, le parole tendono a specializzarsi e ricavano, in questo caso, il doppio concetto di ‘amante del piacere’ dal termine phil-ēdés che precedentemente era solo un composto tautologico per l’unico concetto di “piacevole, amato, caro, ecc.”. Questo mio ragionamento viene confermato dalla citata parola del dialetto di Spinazzola fi-at-odd <*fl-at-odd ‘affetto’, i cui primi due elementi corrispondono in pieno a gr. *ph(i)l-ad-és, probabile versione dorica del precedente phil-ēd-és, comunque debba intendersi il suffisso –odd < *oll  (è caratteristica di questo dialetto, come di altri, la trasformazione della /l/ geminata in dentale /d/ geminata. Cfr., ad esempio, il siculo bedda (con pronuncia apicale della dentale) per it. bella

Ora, se quello che ho detto è vero, non possiamo passare sotto silenzio che le forme colloquiali italiane fil-are, nel senso di ‘amoreggiare’, e fil-arsi ‘tenersi in considerazione l’un l’altro, rispettarsi, andare d’accordo’ più che derivare da un uso metaforico del verbo fil-are nel significato di ‘ridurre in fili, tessere’, sono diretti discendenti del gr. philé-o ‘amo, ecc.’ o, meglio, della forma dorica originaria philá-o ‘amo’.  E non è escluso che anche l’ingl. fl-irt ‘amoreggiamento’ paghi lo scotto a questa radice che, comunque, oltre ad indicare l’eccitamento o sensazione di piacere doveva avere un significato più primitivo di ‘movimento, agitazione’ come in inglese. 

Ritornando allo spinazzolese fi-at-odd ‘affetto’ < *fl-at-oll si può pensare che il segmento at-oll possa corrispondere al lat. ad-ul-ari ‘adulare, vezzeggiare, prosternarsi’, verbo considerato di etimo incerto ma che in questo caso sembra essere ampliamento in –ul della radice greca sopra citata per ‘dolce, piacevole’ incrociatasi con la prepos. lat. ad ‘a, verso’: cfr. gr. ēd-yl-íz-o ‘lusingare’.  Altro ampliamento della radice è probabilmente il lat. ad-or-are che assume diverse sfumature di significato, a seconda delle parole con cui si incrocia ‘venerare, rivolgere la parola (cfr. os, oris ‘bocca, parola’), prosternarsi’ ma che doveva avere il significato originario di ‘movimento (verso l’oggetto amato)’ simile a quello di fr. transport ‘trasporto, impeto, entusiasmo, gioia, commozione’ e del verbo lat. ad-or-iri ‘assalire, lanciarsi contro’.  Da non dimenticare il fr. fl-att-er ‘adulare, lusingare, ingannare’ passato all’ingl. fl-att-er ‘adulare, incensare, dare piacere’  in cui si riaffaccia, più direttamente, il valore di ‘dolce, piacevole’ del gr. (sw)-ad-ýs ‘dolce, piacevole’, ingl. sw-eet ‘dolce’, ted. süss ‘dolce’.

Buon ultimo arriva il fiad-one oppure fiat-one, dolce abruzzese-molisano ma prodotto anche altrove, in varie forme: c’è anche la versione salata!  Dalle nostre parti, nella Marsica,  esso appare come una sorta di raviolo ripieno di formaggio e crema di ceci.  Resta il fatto che comunque esso è sempre un dolce e che, nel nome, non può che richiamare la radice di cui sopra.  Naturalmente non è da credere che il termine fiadone sia un derivato diretto  dal greco storico.  Ci dobbiamo spesso accontentare, come è solito ribadire il famoso linguista sardo Massimo Pittau, di stabilire una semplice comparazione tra due termini, in questo caso quello greco e quello abruzzese, perché molto probabilmente essi rimandano ad un antenato comune nella preistoria.  Il termine d’altronde lo incontriamo di nuovo nell’a. a. ted. flado ‘focaccia’, nell’a. fr. flaon ‘dolce prelibato’ e nel lat. medievale flado, fladonis ‘focaccia’, nell’ingl. flan ‘crostata’. Esso ha subito l’influsso di una radice per ‘piatto, piano’ (cfr. ingl. flat ‘piatto’) a cui i linguisti riannodano il termine.  Ma anche qui essi, non avendo individuata la corrispondente radice greca per ‘dolce’, si sbagliano di grosso.  Perché un’altra cosa, molto importante per la scienza etimologica e ricorrente con costanza, ho appreso nel corso della mia ricerca: la Lingua è solita indicare direttamente il referente nella sua essenzialità, e non attraverso qualcuna delle sue più o meno risaltanti caratteristiche, come in questo caso la ‘piattezza’ di alcuni tipi di dolci che rientrano tra quelli indicati dal nome in questione.  L’interferenza con radici formalmente simili, ma con un significato che non coglie esattamente il bersaglio, è anch’essa ricorrente e per questo bisogna aguzzare l’ingegno per non restarne vittima, una volta che si è raggiunta una piena consapevolezza di questo fenomeno.  Il ted. Fladen indica una semplice ‘focaccia, galletta’: si tratta sempre della radice del termine che era nato come “dolce” ma che ha cambiato il significato in ‘focaccia, schiacciata’ per influsso della radice germanica di ingl. flat ‘piatto’.

Un altro esempio di questo tipo è, a mio avviso, rappresentato dall’ingl. cake ‘dolce, pasticcino, torta’  che nel vocabolario Merriam-Webster viene interpretato come espressione di un’idea di “massa, rotondità, testa”, data evidentemente la forma spesso rotondeggiante della torta.  Ma anche qui ci si sbaglia di grosso, anche se con l’attenuante che effettivamente non era facile trovare la strada giusta, strada che però le linee guida della mia linguistica aiutano moltissimo ad individuare.  La soluzione in effetti diventa semplice quando si è convinti che dietro il termine cake deve per forza albergare il significato di ‘dolce’, significato essenziale di questo referente e di quello incontrato sopra di fiadone ‘tipo di dolce’.  Si deve a questo punto essere fortunati nell’incontrare qualche radice adatta.  Nel napoletano esiste infatti l’espressione ire ‘ncacazza ‘andare in brodo di giuggiole, bearsi, estasiarsi’. Ora, il secondo termine si deve sciogliere chiaramente nell’espressione in-cac-azza , cosa che mette in rilievo la radice –cak-  che presumibilmente ha il valore di ‘dolce’ se a Cerchio-Aq il termine cac-azz-unë  significa ‘dolce composto da mosto cotto e da noci, farina e fichi secchi’[2] e ad Avezzano-Aq cac-azz-élla/cac-azzétta vale ‘piccolo dolcetto confezionato dalle monache per allettare i bambini irrequieti’ oltre che ‘escremento di pecora, capra, coniglio’[3] come in altri paesi.  La radice riappare nel composto tautologico napoletano caca-mele ‘dolce’, lett. ‘caca-miele’.  Si deve trattare di aggettivo: nel sito web da cui ho preso la voce non è specificato, ma questo ai nostri fini non è rilevante[4].  Anche qui l’elemento caca- deve avere il valore di ‘dolce, piacevole’ e simili.  Dalle nostre parti il composto ha assunto il significato negativo di ‘insulso’[5] partendo probabilmente da quello di ‘sdolcinato’ e quindi ‘melenso’, qualità certo poco apprezzata tra gente rude e maschia come quella marsa.  Ecco perché l’americanismo cake significa ‘persona sciocca, semplicione’! ma anche ‘giovanotto che flirta’! perché la parola è adatta ad esprimere le coccole[6], le moine, le smancerie, le leziosaggini e tutto il resto del comportamento caratteristico di chi è preso dal demone dell’amore.  E il termine gergale it. checca ‘omosessuale maschio molto effeminato’ non c’entra nulla? Io credo di sì e che esso non debba essere inteso come accorciativo del personale Francesca!: la chicca ‘dolciume, caramella, cosa preziosa, persona graziosa, amore’ sta lì a dimostrarlo!

La seconda e terza componente del cerchiese cac-azz-ùne di cui sopra deve avere a che fare, in ultima analisi, con la parola dorica had-oné ‘piacere, godimento, voluttà, ecc.’ variante di ionico hed-oné .  Ma quello che più stupisce è incontrare di nuovo la voce nel verbo ingl. at-one che oltre al significato attuale di ‘espiare, riparare, fare ammenda di’ aveva in antico il significato di  ‘ristabilire relazioni amichevoli, armoniose, pacifiche’ o intransitivamente ’godere di una pacifica, armoniosa relazione, essere d’accordo’ [7].  Secondo me anche il gr. ház-o-mai ‘rispetto, venero, ecc.’ proviene da questa radice più che da gr. hági-os ‘sacro, santo, puro’.
Che bello constatare che in fondo le lingue europee, e non solo, sono come dialetti di un’unica lingua madre tutta speciale! e che le parole sono composte di pezzi saldati insieme, come mattoni diversi per forma (significanti) anche se ciascuno con lo stesso e unico peso (significato originario), ben cementati tra loro a realizzare il tessuto multicolore delle parole e delle frasi nelle diverse lingue: insomma una sorta di ragnatela linguistica ramificatissima che avvolge tutto il mondo, seguendo passo passo il percorso dell’homo loquens dall’Africa agli altri continenti, e che opera sempre con lo stesso metodo, alla base  delle innumerevoli lingue, ad un tempo semplicissimo in profondità e complicatissimo in superficie!

Ma sarà mai esistita una lingua madre? Certamente in fasi più o meno antiche, nella preistoria dell’evoluzione linguistica dell’uomo, devono essersi già formate delle lingue dominanti (in corrispondenza di più o meno vaste compagini tribali) che hanno dato poi vita ad altre lingue più o meno ad esse ricollegabili, ma agli inizi, secondo i principi della mia linguistica, il linguaggio è nato con il virus vitale della diversità per quanto riguarda la varietà dei significanti che ogni piccolo gruppo parlante poteva usare in modo diverso dagli altri gruppi, abbinandoli a cose e concetti diversi, ma non certo per quanto riguarda la varietà dei significati i quali si riducevano in fondo ad uno solo (quello di “essere, spinta, forza, vita, ecc.”), pronto questo stesso, però, a specializzarsi in mille e mille modi per creare, proprio con l’aiuto della diversità dei significanti a disposizione, una multiforme, differenziata nominazione di cose e concetti e, quindi, una più facile comunicazione tra gli uomini.
                                                         




[2] Cfr. F. Amiconi, Tradizioni popolari marsicane: il dialetto cerchiese, Museo Civico di Cerchio-Aq, anno VII 2004, Quaderno 57.

[3] Cfr. U.Buzzelli-G.Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese (l’opera non reca indicazioni sulla stampa e sull’anno di pubblicazione).  Per il significato di ‘escremento […]’ la parola risfodera il concetto di “rotondità” cui si è accennato.  Cfr. la voce di Ovindoli-Aq  caca-funghë ‘vescia’, e caca-mmàni ‘ciclamini’ in quel di Rocca di Botte (cfr. M. Marzolini, “me ‘nténni?”, Tofani edit., Alatri-Fr 1995).  I cicla-mini sono così chiamati per la radice tuberosa (pan porcino) di forma sferica (cfr. gr. kýklos ‘giro, cerchio’).  La 2° componente del nome gr. kýklá-minos deve essere variante della 2° di caca-mmani.  Anche il noto frutto del cachi (giapp. kaki) rientra nel gruppo. 

[5] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006, p. 56.

[6]  Questa voce cocc-ola presenta una radice che deve essere variante di cak- e rimanda alla sfera dei sentimenti ‘dolci’ di cui si è parlato.  I linguisti per spiegarla si rifugiano nel campo del linguaggio infantile, vicino a quello onomatopeico, da loro sommamente prediletto quando non sanno dove andare a sbattere la testa.  La parola è ampliamento di it. cocco, nel significato di ‘beniamino, prediletto, pupillo’. Anche l’it. cotta ‘innamoramento improvviso’ deve avere a che fare con questa radice amorosa anche se esso viene senz’altro sfiorato dal verbo cuoc-cere (lat. coqu-ere) che del resto è vicinissimo all’agitazione ed esaltazione dell’amore, come pure a quella dell’ubbriacatura indicata famigliarmente dallo stesso termine cotta    La voce gagà ‘bellimbusto, giovane affettato, damerino , ecc.’ ci viene dal fr. gaga ‘stupido’ che naturalmente i linguisti si riaffrettano a sistemare nel campo dell’onomatopea continuando così ad alimentare impunemente (chi può mai fermarli? non certo risultati incontrovertibili e concreti di esami di laboratorio, come avviene ad esempio per la fisica e la chimica)  la favola dell’elemento imitativo nella Lingua la quale, invece, è di natura conoscitiva, che è tutt’altra cosa. Ho l’impressione, senza volermi ergere a loro maestro, che se i linguisti leggessero opere sull’evoluzione animale, e quindi anche umana, come L’altra faccia dello specchio del famoso etologo austriaco Konrad Lorenz (1903-1989), gigante del pensiero, ne trarrebbero gran vantaggio e correggerebbero alcuni pregiudizi di fondo sulla conoscenza umana. Per la questione dell’onomatopea rimando al post Etimo di chicchirichì […] del mio blog (giugno 2009) e al post Il diavolo non vuole lasciarmi […] dell’agosto 2012.
La voce fr. gaga è variante in effetti dell’americano cake ‘persona sciocca, semplicione’ che abbiamo citato. Se qualcuno non digerisce il fatto che in area germanica, secondo la cosiddetta legge di Grimm o rotazione consonantica, avremmo dovuto avere una forma in spirante *hahe al posto di ingl.cake, rifletta su questa forma francese in velare sonora che poteva circolare anche in area germanica (cfr. la forma danese kage ‘torta’ con la seconda velare sonora), da cui, sempre secondo la legge di Grimm si sarebbe avuto una normale forma cake in velare sorda.  Il fatto è, a mio avviso, che la realtà delle lingue nella preistoria, o anche solo nella protostoria, era molto più variegata di quanto queste leggi vorrebbero farci credere. Leggi che potevano riflettere la situazione linguistica stabilitasi e diffusasi in Germania a partire da una parlata divenuta dominante sulle altre, forse intorno alla metà del I millennio a.C. Ma l’etnico latino dei Cimbri e Teutoni, popolazioni germaniche con cui Gaio Mario ebbe a scontrarsi nel 102 a.C. ad Aquae Sextiae in Provenza annientandole completamente, non mostra rotazione consonantica (che avrebbe dato pressappoco *Himbroz e *Theudanoz), anche se qualcuno suppone per questi nomi una mediazione celtica.  Anche l'altra norma riguardante la resa in germanico delle vocali indoeuropee mi pare che venga contraddetta dall'esempio delle due voci dell'antico alto tedesco suazi 'dolce' e suozi 'dolce' già citate in questo articolo.  La migliore spiegazione di questa duplicità è che, a mio modesto parere, esse continuino in germanico forme già presenti, anche per altri termini, nell'indoeuropeo comune (che è illusorio credere che costituisse un modello unico, senza variazioni) e che una di esse finì col divenire dominante e prevalere sull'altra in germanico, generando così l'impressione nello studioso che si trattasse di derivazione e trasformazione  dell'originaria forma indoeuropea. C'è ancora tanto, in questa concezione, della falsa idea di derivazione che avevano i linguisti dell'Ottocento i quali elaborarono un albero genealogico delle lingue, come se queste fossero state veri e propri prodotti genetici originati da un ceppo monolitico di partenza. Cfr. anche, per questo argomento, l’articolo del mio blog del 2 gennaio 2013, La voce “bbuve” […]. 

[7] Il verbo potrebbe essere denominativo da gr.*(sw)-adoné ‘piacere’Io sarei del parere di considerare come un elemento tautologico a sè, col valore di ‘dolce’, la parte sw- considerata caduta dal termine.  Essa è invece semplicemente assente fin dall’inizio in tutti i casi in cui sembra mancare e corrisponde all’a. ind. su ‘bene’, gr. ‘bene’.  I linguisti derivano il verbo atone dall’espressione dell’inglese arcaico at on = at one ‘d’accordo’, lett. ‘come uno, all’unisono’. Esso poteva indicare in inglese, come abbiamo visto, una perfetta sintonia amorosa tra persone, ma sarebbe potuto servire anche a definire un sentimento di languida e sfibrata tenerezza producendo il significato di ‘fiaccare, sfibrare’ e simili.  Dante usa un paio di volte nella Commedia il verbo adon-are, d’origine provenzale, con questo significato (cfr. Inferno VI, 33 e Purgatorio XI, 19).  A dire il vero esso aveva, a seconda dei contesti, diversi significati ma riconducibili forse alla stessa base etimologica.  Il significato arcaico del verbo inglese atone rispunta nell’it. arc. adonare ‘avere rapporti, frequentare’ (ante 1250, presso Giacomo da Lentini) corrispondente all’occitanico antico adoner ‘avere rapporti con’: cfr. sito web Addone –Woerterbuchnetz- Lessico Etim. Ital. E così va a farsi friggere l’ingenua  proposta etimologica at on= at one ‘d’accordo’ per il verbo inglese.  Degli interessanti significati di questa radice, e di altre, mi ripropongo di parlare nel prossimo articolo.  La radice cak- , che spesso come abbiamo visto si unisce a quest’altra,  mostra il significato di ‘sfibrarsi, fiaccarsi’ nell’espressione marsicana ‘n-cac-àsse ‘perdere energia, reattività’, detto di qualcuno non più capace di affrontare i compiti che la vita richiede.