domenica 5 agosto 2012

Il paese di Gioia dei Marsi. Il suo vero etimo. Il diavolo ci ha messo la coda.


                                                               

Da quando abbiamo fatto conoscenza nel precedente post, il diavolo non vuole staccarsi da me che pure lo tengo, guardingo, a debita distanza. Egli in verità, pur sentendosi un po’ offeso, non ha intenzione di farmi del male perché sa che, nonostante io sia in fondo un povero diavolo come lui, tengo molto alla mia indipendenza di solitario che è diventata, ormai alle soglie dei 70, una mia esigenza vitale.  E ad essa non rinuncio, pena la mia tranquillità, per quanto avara, e la mia stessa vita.  Egli è prodigo di attenzioni nei miei riguardi e mi ha messo a parte di molti dei suoi meravigliosi segreti ma ha capito che le mie decisioni sono irremovibili e pertanto non insiste, da logico sopraffino quale sempre è stato, con atteggiamenti collerici o sfide bibliche,  a tirarmi dalla sua.  Comincio a pensare che proprio la mia indifferenza inattaccabile lo abbia conquistato e ora si lascia andare persino a sorridermi, senza secondi fini, scodinzolandomi vicino o cercando di accoccolarsi nei paraggi, socchiudendo gli occhi, come a voler finalmente riposare dopo la lunga vita da disperato e reietto.  Io, dico la verità, dovrei venerarlo con devozione per il resto della mia vita (se non sussistessero le condizioni irrinunciabili di cui ho parlato) dovendolo molto ringraziare della condivisione dei suoi stupendi segreti, anche se si trattasse solo di questo che sto rivelando prima degli altri.

 

Secondo il più volte ricordato Vocabolario Abruzzese del Bielli  i termini ciàvele, ciàvule, ciàule (tutte le –e- sono mute) significano ‘gramola’ cioè quell’attrezzo di legno chiamato anche maciùlla con cui ricordo che negli anni lontani della mia fanciullezza le donne dirompevano ancora la canapa per ricavarne le fibre utili alla filatura.  E’ curioso che le tre varianti con cui viene indicato il congegno corrispondano a quelle con cui in tutto il Centro-meridione, ma anche in zone del Settentrione, si designa un uccello o, meglio, vari tipi di uccelli simili, come la ‘cornacchia’, la ‘taccola’, il ‘gracchio’, ecc.  Ora, si dà il caso che, col termine devil ‘diavolo’ si indichino in inglese[1] vari tipi di macchine o strumenti atti a lacerare, dirompere o macinare qualcosa come legno, lana, ecc. sicchè non mi sembra affatto azzardato richiamare uno dei significati di gr. dia-bállo ‘disunisco, separo’ che potrebbe spiegare l’origine della parola unitamente agli elementi appuntiti, taglienti, affilati di cui queste macchine debbono essere dotate e che, come abbiamo visto nel post precedente, sono caratteristici di alcuni strumenti col nome di diavolo.  Ciò assodato mi sembra di conseguenza abbastanza credibile che la voce ciàvele ‘gramola’ di cui sopra provenga da un originario *dia-volo o *dia-vola (o il tià-ulë di certe parlate) come del resto l’italiano giorno deriva da lat. diurnu(m) ‘diurno’.   Ma, secondo me, è cosa di notevole peso linguistico il dover constatare che anche l’uccello ciàvëla, ciàula, nome per il quale i linguisti sanno al massimo indicare un’origine onomatopeica, sfrutta la stessa radice di diavolo, in uno dei suoi significati originari (come più sotto vedremo), cioè quello di ‘soffio, spirito, vento’ che poteva servire a designare qualsiasi animale, cioè etimologicamente un ‘essere che respira e vive’.  Anche un pesce è chiamato in alcuni dialetti ciàula (più comun. menola), della classe degli Attinotterigi a cui del resto appartiene la maggior parte dei pesci: il nome scientifico fa riferimento alla caratteristica comune costituita dalle pinne sostenute da raggi  (gr. aktís, inos ‘raggio’).  Anche il nome scientifico della famiglia dei centr-acantidi (gr. kéntron ‘pungolo, pungiglione’ e gr. ákantha ‘spina’) cui appartiene la ciaula non lascia dubbi sulla sua caratteristica principale.  Ma si badi bene, all’origine il suo nome dialettale indicava l’ ‘animale, essere vivente’ incrociatosi evidentemente anch’esso col significato di ‘raggio’ che, come abbiamo visto nel precedente post, la radice dia-bolos  poteva avere. L’ingl. devil-fish ‘polipo’ lett. ‘pesce-diavolo’ conferma secondo me l’incrocio con l’idea di “tentacolo”, una sorta di raggio.  Il significato di ‘manta’ nell’inglese americano credo provenga dalle due caratteristiche protuberanze anteriori della manta, chiamata in italiano anche diavolo del mare.  La manta nell’immaginario collettivo di alcune popolazioni rappresenta un essere mostruoso e maligno, pur essendo in realtà innocua.   Queste credenze sono originate dai nomi che, tra i tanti che potevano indicare queste creature, arrivano più facilmente fino a noi perché rispondenti anche a quel qualcosa di negativo suscitato dalla forma un po’ paurosa di questi esseri.

 

Chiarite queste cose, mi si è aperta una via maestra che mi ha portato alla definizione dell’etimo del nostro paese di Gioia dei Marsi, ad esempio, quando ho scoperto che nel Salento le giole o ciole non sono altro che le più note ciàule, con normalissima riduzione ad –o- del dittongo –au-.  Con questa forma giola ‘cornacchia, taccola, gracchio’ siamo, senza che ce ne accorgiamo, ad un passo dalla forma gioia per la quale manca solo la palatalizzazione della liquida –l- così diffusa nei nostri dialetti: cf. luchese jupe[2] da lat. lupu(m) ‘lupo’, aiellese jjojje da lat. loliu(m) ‘loglio’, trasaccano ciàvia ‘ciavola, ghiandaia’[3] e lo stesso luchese dïàveje [4]‘diavolo’. A volte bastano due o tre passaggi fonetici, specialmente quando un nuovo termine interviene a coprire il vecchio,  a stravolgere completamente la fisionomia di una parola che ci diventa così una perfetta estranea. Chi potrebbe mai supporre, infatti, senza le precedenti osservazioni, che la voce dialettale giola ‘cornacchia’  non sia altro che un’originaria *diabola ?  Mai nessuno in effetti in passato si è nemmeno lontanamente sognato di porre in rapporto il nome del paese di Gioia dei Marsi (Vecchia) con il vicinissimo Passo del Diavolo[5], nome rimasto intatto fin dalle origini, sottratto alle vicende linguistiche proprie della parlata del relativo nucleo abitato probabilmente perché, come valico montano finì inavvertitamente sotto una sorta di tutela linguistica ufficiale da parte di tutte le parlate delle comunità della Marsica, distanziandosi così sempre di più dal nome del centro abitato inizialmente omofono ma finito tra gli ingranaggi deformanti della pronuncia locale.  Chi potrebbe in effetti di primo acchito indovinare, ad esempio, che la città di Ivrea era la romana Eporedia? Nel post Perché gli abitanti di Gioia dei Marsi erano chiamati […] supponevo che la forma più attendibile per l’etimo di Gioia dovesse coincidere con lat. iugu(m) ‘giogo, passo montano’ ma, benchè una forma Iuge risulti in qualche documento, bisogna tuttavia considerarla una rietimologizzazione delle forme medievali più attestate joja, joje, joya.  Resta comunque valido, in base a questa possibile rietimologizzazione, quanto lì asserisco sul nomignolo pesavéndë appioppato ai Gioiesi.

 

Va da sé che Passo del Dia-volo è una espressione tautologica in cui Dia-volo (probabilmente il più antico nome del passo) indica appunto il passaggio montano, dalla radice di gr. dia-báll-ein ‘passare attraverso, ecc.’.  Nella Marsica esiste qualche altro passo meno noto dallo stesso nome, come mi diceva un alunno di Villavallelunga-Aq, per averlo saputo dal padre.

  

La radice onomatopeica suggerita dai linguisti per la ciàula non può soddisfarmi, non solo perché sono convinto, come ho cercato di spiegare in altro post, dell’insussistenza del fenomeno onomatopeico per quanto riguarda l’origine del linguaggio, fenomeno che considero piuttosto una facile e comoda scappatoia per le spuntate armi degli studiosi e non una solida realtà[6] operante nella lingua, ma anche e soprattutto perché i signori linguisti, in questo caso specifico, dovrebbero trovare il modo di spiegarmi perché nel vocabolario abruzzese del Bielli ciavul-arelle significa ‘farfalla, farfallina’ e ciavul-étte significa ‘farfalla diurna’: che io sappia le farfalle sono troppo leggere, aeree e soprattutto silenziose per poter sopportare una motivazione onomatopeica (che parola riempi-bocca!) per questo loro nome coincidente con quello delle chiassose ciàvule dallo sgraziato crah.  Questo fatto, piuttosto, conferma la mia supposizione espressa nel post precedente che gr. diábolos significasse, in qualche parlata, anche ‘spirito, essere vivente’ come il gr. psykhé ‘spirito, soffio, anima, farfalla’ e il sardo logud. ispiritu ‘farfalla’.  Nel dialetto pugliese di Corato-Ba la ciàula, non ancora specializzatasi, indica infatti un ‘uccello in genere’[7].  E, a mio modesto parere, è anche pressochè impossibile che questi diversi significati della voce ciàula provengano da diverse radici originarie.  Il fatto, poi, che a Palmoli-Ch la voce ciàvela significa ‘cicala’  non inficia minimamente il mio discorso sull’onomatopea, anzi, lo rafforza.  Tra i diversi animali che la parola indica è comprensibile che possa ritrovarsi anche la cicala che ha abitudini canterine, anche se con tutt’altro suono rispetto alla ciaula, e per questo può farci erroneamente credere che il significato d’origine della parola fosse quello onomatopeico di ‘sonorità’.  Ma a parte la considerazione che la parola indica anche le farfalle che canterine non sono,  io sono convinto che questa ‘sonorità’ sia in effetti solo uno dei tanti aspetti che la radice assume in virtù del suo significato sovraordinato di ‘animalità’.  In altri termini a me sembra che il concetto di sonorità  rientri in quello di animalità e che sia in fondo fuorviante riportare i dialettali ciaulà, ciavëlà, ciavëlià ‘ciarlare, cicalare’  al nome dial. ciaula, ciavëla ‘cornacchia, ecc.’.  Che dietro simili termini operi, con questo significato di ‘sonorità’ non attestato in greco, la radice di gr. dia-bállo ‘gettare tra’  me lo fa pensare la voce abr. ciavajjà ‘balbettare’ (v. vocab. del Bielli) che deve aver significato, agli inizi, un ‘essere incastrato’ (gr. dia-bàll-esthai ‘essere incastrato, messo in mezzo’) o un ‘urtare contro, inciampare’, significato che può rientrare nella sfera semantica del verbo.

 

Tutto il precedente ragionamento viene confermato definitivamente, almeno spero, dall’etimo del siciliano ciàuru, sciàuru ‘odore buono’, calabrese sciàuru ‘odore, lieve sentore’, campano sciàuro ‘alito, fiato, odore pesante, fetore’.  Tutti i linguisti, compreso il grande Gerhard Rohlfs[8],  propongono una derivazione del termine da una supposta (legittimamente, per carità!) forma *fragrum, dal verbo lat. fragr-are ‘mandare odore’, mutata in *flagrum, altra forma supposta, anche se legittimamente, del latino parlato dove esisteva il verbo flagrare ‘odorare’[9].  Da quest’ultima si sarebbe avuto il siciliano ciàuru secondo il normale trattamento del nesso consonantico fl-  che ha dato, ad esempio, il sicil. ciùri, sciùri dal lat. flores ‘fiori’.   Ora, io credo che si possa rintracciare un etimo della parola meno soggetto a supposizioni.  Manco a farlo apposta esso, anche qui, coincide con quello del nostro dia-volo, nella fattispecie nel significato sopra supposto di ‘spirito, soffio’ e quindi di ‘odore, puzza’ (non per nulla il diavolo, nella tradizione popolare, viene spesso accompagnato dallo sgradevole odore di zolfo, segno della sua presenza). In questo caso la liquida laterale –l-  dell’ultima sillaba viene scambiata, come spesso avviene, con la liquida  vibrante –r- [10]. Abbiamo visto sopra come la parte iniziale del termine dià-volo abbia dato cià-  in cià-vola, ad esempio, parola presente in Sicilia con sue varianti.  Nel dialetto del paese di Girifalco-Cz, in Calabria, si incontra il termine àcciavulu ‘diavolo’, con lo strano accento sulla prima sillaba[11], accanto ad acciàvula ‘taccola, gracchio’.   L’estensore del vocabolarietto fruibile in rete si affretta a notare che àcciaulu corrisponderebbe ad ‘arcidiavolo’[12] in barba a due considerazioni: 1- esistono altri termini in quel vocabolarietto che presentano l’arci- ben distinto ed intatto; 2- spesso i nomi di animaletti, e non solo, vengono in quella parlata fatti precedere da una a-  prostetica rafforzativa, come in agghìru ‘ghiro’,  agrancu ‘granchio’, agrìddu ‘grillo’.  Nulla ci vieta, quindi, di considerare àcciavulu ‘diavolo’ una forma rafforzata del semplice *ciàvulu non attestato, con spostamento dell’accento sulla prima sillaba, come avviene per acciàvula ‘specie di cornacchia, taccola’ rispetto alla forma ciàvula, più diffusa e più semplice. La probabile presenza del diavolo nella parola ciàuru ‘odore, fiato’ viene ulteriormente riconfermata dal riapparire dello stesso, anche se con significato diverso, nella parola simile ciaur(r)-ina che apparentemente non sembra averci a che fare. La ciaurrina è una caramella a base di miele stirata in forma di bastoncini, e preparata tradizionalmente soprattutto a Barcellona Pozzo di Gotto-Me in occasione della festa di San Sebastiano del 20 gennaio[13].  In provincia di Cosenza la ciaurrina  indica i bastoncini della liquirizia. I bastoncini in realtà non sono altro che le frecce con cui, secondo la tradizione, venne martirizzato san Sebastiano legato ad un palo sul Palatino e precisamente sui gradus Helagabali, probabilmente i gradini di un tempio di Eliogabalo, divinità del Sole introdotta a Roma non molti decenni prima del presunto martirio del Santo, dall’imperatore Eliogabalo. In questo caso frecce e palo non possono che rinviare ad un’unica idea di ‘punta, lancia, raggio’ che poteva essere espressa, come abbiamo visto nel post precedente,  anche dai monumenti megalitici della preistoria presenti in Inghilterra e chiamati Devil’s Arrows ‘Frecce del Diavolo’ o Devil’s Bolts ‘Dardi del Diavolo’, vere e proprie aste di pietra infisse nel terreno e svettanti verso il cielo.  Quasi sicuramente, quindi, non si sbaglia se si afferma che san Sebastiano doveva essere il nome di una divinità solare di origini antichissime.  Il termine ciaurr-ina si presta benissimo, in base a quanto osservato foneticamente in precedenza, ad essere spiegato come derivante da un’originario *diabol-ina, *diaul-ina.

 

 E’ probabile, quindi, che anche il fr. javel-ot ‘giavellotto, dardo’ derivi da un antenato comune rispetto alle espressioni inglesi per le ‘frecce (o dardi) del diavolo’ sopra citate.  Naturalmente il nome diable ‘diavolo’ portato dal  Cristianesimo è successivo all’altro già esistente evidentemente da molto prima nel lessico francese e fatto derivare (erroneamente, a mio avviso) da una base gallica *gabalo, presente anche nel lat. gabal-u(m) ‘forca, croce’, e nel ted. Gabel ‘forchetta’.

 

 Last but not least è il caso del trovamento archeologico noto come Gambe del Diavolo, parte inferiore di una stele dal cui fondo risaltano due gambe a clava dall’inguine in giù. Il reperto è conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Chieti e proviene da Collelongo-Aq nella Marsica, dove si trovava inserito in una vecchia muraglia da tempi remotissimi[14]. La sua datazione è incerta ma la stilizzazione delle gambe lo avvicina al famoso Guerriero di Capestrano (VI sec. a.C.). Ora, a me sembra che qui la voce diavolo potrebbe ripetere tautologicamente, come al solito, lo stesso concetto di “gamba”, ma la singolarità della denominazione che poteva anche alludere all’intero manufatto e non soltanto alla sua parte restante (le gambe), mi spinge a credere che la parola diavolo indicasse nel dialetto italico corrispondente, l’intero manufatto, cioè una stele, concetto coincidente con quello di ‘punta, colonna, statua, palo, ecc.’ del resto simile a quello di ‘gamba’: a Sover-Tn ciavela in effetti significa ‘gamba’ e ciaola vale ‘cornacchia, gracchio’. Voglio sottolineare, anche se può sembrare superfluo, che queste tradizioni, le quali possono arrivare anche dalla più lontana preistoria, sono veramente impagabili soprattutto sotto il profilo linguistico.

Passo ora ad analizzare alcuni Diavoli (tra i tanti) della toponomastica che ritengo di particolare interesse.  Non si può tacere del Ciolo, insenatura profonda della costa del Salento, nel comune di Gagliano del Capo, vicino a Santa Maria di Leuca.  Come al solito il nome Ciolo viene messo in relazione con le giole o ciole ‘gazze, cornacchie’  “che un tempo vi si rifugiavano e nidificavano” ma noi, che ormai possiamo dire di saperne una più del diavolo in questo campo,  ce la ridiamo a crepapelle soprattutto quando riflettiamo  che, sempre nella costa del Salento e non molto lontano dall’insenatura del Ciolo, si incontra una Grotta del Diavolo, cioè, a suo modo, un’altra insenatura, passaggio o cavità.

 

E’ semplicemente fantastico, poi, il gioco di nomi e toponimi che interessa il paese di San Pellegrino in Alpe-Lu situato in uno dei versanti dell’ Alpe di San Pellegrino nell’appennino tosco-emiliano presso il cui crinale esiste il cosiddetto Giro del Diavolo, un percorso circolare intorno ad un campo dove ogni anno, soprattutto in passato, schiere di penitenti andavano a deporre sassi più o meno grandi, portati sulle spalle dal paese che si trova più in basso, formandone così dei mucchi. Mi pare chiaro che inizialmente il termine diavolo dovesse qui indicare il valico che metteva in comunicazione la zona toscana della Garfagnana con quella della provincia di Modena e della Pianura Padana.  Anche il nome del paese di San Pellegrino non fa che riprodurre, a mio avviso, il significato che abbiamo dato anche in questo caso al diavolo[15]. Dietro di esso opera infatti la radice del lat. per-egrinu(m) ‘straniero’, lat. per-egr-in-are ‘viaggiare all’estero, peregrinare’, lat. per-agr-are ‘percorrere, penetrare’, tutti in fondo legati a lat. per-ag-ere ‘trafiggere, trapassare, spingere, perseguitare, compiere’ col quale siamo tornati ad uno dei significati di gr. dia-bállo ‘trafiggo, trapasso’.   Sulla sommità dell’Alpe, dove il Santo sarebbe stato tentato più volte dal diavolo, si trova anche una piccola cappella a lui dedicata.  Ma la cosa veramente stupenda è rappresentata dal racconto della tradizione secondo cui un bel giorno il Santo, adirato contro il maligno che non desisteva dal tentarlo, gli affibbiò un schiaffo (o un calcio, secondo altra versione) che lo fece girare per tre volte su se stesso e addirittura lo scaraventò verso le abbastanza lontane Alpi Apuane dove il diavolo perforò la parete rocciosa e lasciò quindi il buco del Monte Forato, un arco naturale di grandi proporzioni, visibile in lontananza. Potenza immaginifica delle parole (non della mente dell’uomo che in questi casi non fa che registrarne i vari significati, diversi di epoca in epoca, i quali finiscono col diventare i veri alimentatori dei racconti mitici della tradizione) ! Ora, non si può negare che un buco è legato all’idea di passaggio, passo espressa dalla parola diá-bolos, ma, se ci si riflette, un buco è anche una ‘rotondità (più o meno regolare)’, idea che sta alla base dell’espressione Giro del Diavolo nonché, miei cari lettori, del concetto di “masso, pietra” [16] riaffiorante come un’ossessione nelle pietre che i penitenti, simili ai superbi del Purgatorio dantesco, portano sulle spalle. Nel Valdarno Superiore i Pani del Diavolo designano tipi particolari di pietre; la Murata del Diavolo indica resti di mura ciclopiche a Canzatessa-Aq. Almeno un’eco di questo gioco sottile diavolo/pietra si può scorgere, a mio parere, anche nell’episodio evangelico del ritiro di Gesù nel deserto, lì dove egli viene invitato dal diavolo a mutare in pani le pietre per dimostrare di essere veramente figlio di Dio[17]. In questi casi la parola dia-volo si avvicina al gr. para-bolélinea obliqua, sinuosità, giravolta’ e certamente si confronta con l’it. diavoletto ‘bigodino’, aggeggio di forma cilindrica per arricciare capelli.  Gli inglesi devil’s bones ‘dadi’, lett. ‘ossi del diavolo’, ribadiscono ancora, con devil ‘diavolo’, la loro natura di ‘pietruzze, cubetti, pedine’.

 

Il diavolo, in questo significato, naturalmente ha valicato anche le Alpi dando origine, in Austria e in Germania, ai vari Teufels-mühlen ‘Mulini (-mühlen) del Diavolo (Teufel-)’, località dove esistevano nel lontano passato, o esistono ancora, mulini con la macina, pietra rotondeggiante.  Talvolta il mulino non c’era mai stato se non nell’immaginazione della gente del luogo, ma c’erano e ci sono solo pietre particolari entrate naturalmente in leggende il cui protagonista è il diavolo[18].  Mi ha colpito l’esclamazione gioia mé! ‘poverino! poverina!’ riportata nel vocab. del Bielli la quale significa il contrario di quello che afferma in superficie (gioia mia!): per antifrasi! diranno quelli che se ne intendono, ma io vi scorgo sotto la presenza del diavolo e intendo come ‘povero diavolo!’ con l’aggiunta di quel ‘mio’ che serve ad infondere all’espressione quel tanto di partecipazione affettiva che la caratterizza.

Considerate tutte le meraviglie precedenti e quelle ancora da scovare nella toponomastica sotto il suo nome, mi toccherà, nonostante i propositi, di innalzare un degno altare anche al Diavolo!

 

 

Ps.  Oggi, 13 agosto 2012 il signor Vincenzo Giampà, autore del vocabolarietto del dialetto di Girifalco-Cz, mi ha mandato una email in cui spiega gentilmente che la forma ácciavulu ‘diavolo’ con l’accento sulla prima in realtà è errata, essendo giusta quella piana acciàvulu con la variante femminile acciàvula dalla stesso significato.

 

 

                                             

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Cfr. vocab. Miriam-Webster s. v. devil.

[2] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq 2006, p. 96.

[3]  Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003, p. 497.   In area piemontese si incontrano gli ornitonimi Cioja, Gioja d’ montagna, Gioja dal bech giaun (Cuneo), Gioia dal bech rous (Cuneo) per varie specie di “gracchio”.

[4] Cfr. G. Proia, cit. p.79.

[5]  Cade così, a mio avviso, il tentativo, per quanto dotto, di far risalire il toponimo Gioia, abbastanza diffuso nel Meridione (Gioia Sannitica, Gioia del Colle-Ba),  ad una forma aggettivale latina Iovia di origine italica, attributo di  località (arx, urbs) consacrata a Giove.  Supposizione validissima ma che andrebbe, di volta in volta, sostanziata con concreti riferimenti archeologici (cfr. Aa. Vv. Dizionario di toponomastica, UTET, Torino 1997, s.v. Gioia del Colle).

[6] Cfr. nel mio blog il post Etimo di chicchirichì ‘gheriglio della noce’ del giugno 2009, sull’onomatopea.

[7]  E’ interessante far notare che nel dialetto di Corato ciàula significa anche ‘membro virile’.  Questo significato però non deriva dall’altro di ‘uccello’ per via metaforica, ma dal valore di ‘punta, chiodo, ecc.’ spesso assunto dal termine diavolo, come si è visto nel precedente post.  Pertanto inviterei gli studiosi a trovare un altro rapporto, che non sia quello metaforico, anche tra i due significati di ‘volatile’ e ‘membro virile’ per l’it. uccello.

[8] Cfr. G. Rohlfs, Nuovo dizionario dialettale della Calabria (con repertorio italo-calabro), Longo, Ravenna 1977.

[9]  Nel latino medievale è attestato solo il verbo flagrare per fragrare ‘odorare’:  cfr. Ch. Du Cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis presente in rete.

[10] Cfr. la forma tiàvere al posto di tiàvele ‘diavolo’ in Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z , Grafiche Di Censo, Avezzano 2003, p. 510.

[11] La stranezza dell’accento di ácciavulu rispetto ad acciàvula potrebbe essere dovuta al fatto che i due termini, venuti a trovarsi nel bel mezzo di un sistema di accentazione di tipo greco,  furono considerati nomi provenienti  l’uno da un aggettivo proparossitono maschile e l’altro dalla corrispettiva forma parossitona femminile con spostamento dell’accento (che prima doveva in realtà già insistere sulla penultina dei due sostantivi originari acciáulu, acciáula) sulla penultima nella forma femminile, come avviene, ad esempio, nel gr. népios ‘puerile, di tenera età’ che al femminile diventa nepía.  In questo caso la particella rafforzativa prostetica a- doveva essere già presente al momento dello spostamento dell’accento. Mi azzardo a ipotizzare forme dialettali come *á-tjavlos, *a-tjávla all’origine di questi termini.

[12] E’ vero che nel dialetto di Girifalco è presente anche la voce arcissimu ‘grande diavolo’ ma anche ‘sommo, altissimo, principale’ che pare quindi derivare dal gr. árkhos ‘capo, duce’  e che riconferma, a mio avviso, la tendenza del dialetto a mantenere ben distinte queste forme inizianti per arci-.

[13]  Il dolce è quindi caratteristico della tradizione religiosa di diversi paesi della Sicilia, prima di diventare una leccornia venduta  nei mercati e nelle fiere come desumo da: Cortelazzo-Marcato, I Dialetti Italiani, UTET, Torino 1998, s. v. cia(v)urrìnaLa Marcato, fuorviata dal termine ciavarra ‘beverone di crusca che si dà agli animali’ e dalla semipresunta poca igiene dei rivenditori di ciaurrina, che viene comprata soprattutto dai ragazzi, pone la parola ciavarra all’origine di ciaurrina, non tenendo in alcun conto l’importante relazione del termine con la tradizione religiosa, come ci ricorda ancora una volta la voce ciaur(r)uni citata dalla Marcato, una pertica con un chiodo all’estremità, con cui si lavora la pasta della ciaurrina. I due termini sottolineati ci riconducono con forza nel mondo delle ‘frecce, pali, punte’ che hanno una parte fondamentale nella saga di san Sebastiano di cui parlo subito di seguito nel testo. 

[14] Cfr. Aa. Vv., Popoli e Civiltà dell’Italia Antica, vol.V, Biblioteca di Storia Patria, Roma 1980, p.80.

[15]  Ecco perché, nella leggenda popolare cui abbiamo accennato nell’articolo precedente a proposito dell’espressione piemontese l diàu di pe dré (il diavolo Dite Padre),  il diavolo se ne va in giro come un pellegrino! Si tratta in effetti di due sinonimi, ma probabilmente di due lingue diverse succedutesi nel territorio!

[16] Cfr. il mio post I Ciclopi e il concetto di rotondità del giugno 2009.

[17] Cfr. Mt. 4,3.

[18] Cfr. il noto Grosse Teufelsmühle ‘Grande Mulino del Diavolo’, catena dello Harz (lat. Hercynia silva), Germania settentrionale.  E’ utile in questo caso riflettere che l’etimo di lat. mola(m) ‘macina’, gr. mýle ‘macina’, ecc. non deve essere ricondotto alla radice del verbo lat. mol-ere ‘macinare, triturare’ con cui si incrocia e che è ben rappresentata, con molteplici forme, nell’area indoeuropea, ma deve essere messo in rapporto con una radice per ‘massa, pietra’ come viene, ad esempio, suggerito dallo stesso gr. mýlos ‘mola, macina’ ma anche ‘pietra’ e da gr. trókh-malos ‘ciottolo,sasso’ composto tautologico.  Il primo membro trókh-, benchè incrociato con gr. trékho ‘corro’ con cui viene messo in rapporto, doveva comunque distaccarsene se gr. trokh-ós significa ‘ruota, disco, cerchio, borchia, pillola’, cioè una rotondità, comprese le pietre, come nel composto tautologico gr. oloí-trokh-os ‘macigno, masso’ il cui primo membro ci riporta alla radice del lat. volv-ere ‘volgere, girare, rotolare’, gr. (v)eilý-o ‘avvolgo’ e ci riavvicina anche al 2° membro dell’indimenticabile diá-bol-os  nel sign. di ‘pietra, macigno’. Ma, al di là di queste calzanti corrispondenze nella lingua greca, la parola che secondo me taglia la testa al toro è il marsicano trócchjë ‘tarchiato, tozzo, grassoccio’ confrontabile, ma non necessariamente derivabile, col gr. trokh(a)lós ‘rapido, veloce’ ma anche ‘rotondo’. Nel vocab. del Bielli si incontra il lemma truccul-òne ‘tombolotto, persona bassa e fatticcia; donna grossa e lenta nell’operare’.  Gli stessi lat. mola(m) ‘mola, macina’ e gr. mýle ‘mola, macina, rotula del ginocchio, denti molari’ indicano anche una massa carnosa che si forma nell’utero in caso di degenerazione del feto.   Per il principio tautologico un composto come il ted. Mühl-stein (ingl. mill-stone)‘macina, mola’, letter. ‘pietra di mulino’ deve per forza attingere al significato più generico di ‘pietra’ in ambo i membri.  Del resto il lat. mole(m) ‘mole, massa, scoglio’ e il fr. moell-on ‘pietra da costruzione’ stanno  lì a  convalidare il mio ragionamento.  Per moellon attenti a non lasciarsi ingannare da un etimo come (pietra) morbida, molle: si scivolerebbe nell’errore di credere che il termine sia stato creato apposta per quel tipo di pietra, che pure esiste, quando esso era invece già bell’e pronto per la bisogna, ma con un suo significato generico. Allo stesso modo io non credo che l’it. moll-ica sia un derivato diretto del lat. molle(m)’molle’(con cui si è certamente incrociato), ma del citato lat. mole(m), da cui anche it. mole-cola. Il termine antiquato mola per ‘dente molare’ quasi sicuramente doveva essere in precedenza termine generico per ‘dente, punta’ prima di specializzarsi come ‘(dente) trituratore’. Possono chiarire la questione i significati di ingl. mull ‘capo, promontorio, macinare, rimuginare’ nonché l’agg. gr. myl-ikós ‘di mola’ ma anche ‘per i denti’ e non ‘per i molari’, se si tratta di rimedio .  Può sembrare strano (ma quelli che mi seguono sanno che non è così), che per me la prova più valida per sostenere l’equivalenza ciauru=diavolo è rappresentata dall’espressione siciliana muluni ri ciauru’melone’, lett. ‘cocomero di profumo’.  Questa locuzione può sembrare perfetta perché descrive con precisione quasi da vocabolario il ‘melone’ solitamente caratterizzato, quando è ben maturo, da un profumo particolare.  Ma noi sappiamo che in questi casi c’è sotto l’inganno, perché in genere le parole non nascono per descrivere le cose o i loro concetti, di cui invece si caricano solo nel corso della loro lunga storia, in conseguenza degli incroci con altri termini, sempre dietro l’angolo, ma anche a causa dello specializzarsi del loro significato generico di partenza.  In inglese infatti si incontra l’espressione devil’s melon, per un tipo di melone che ugualmente prenderebbe nome dal ‘diavolo’, certamente non nell’accezione di ‘profumo’ ma in quella più probabile di ‘rotondità, cucurbitacea’ ripetuta tautologicamente come nell’espressione siciliana muluni ri ciauru.