giovedì 1 agosto 2013

Principi di gnoseologia. Come l'uomo avvertì ed espresse le sensazioni, i sentimenti, la conoscenza tutta che cominciò ad affiorare alla sua coscienza almeno sin dal Paleolitico




Si ripete fino alla nausea da parte degli studiosi che il verbo accorgersi (cfr. anche it. scorgere) non è altro, etimologicamente, che un correggersi preceduto dalla preposizione ad- ‘a, verso’ comunissima come prefisso in italiano ed in latino, ma pochi si chiedono, a quanto pare, quale sarebbe la correzione che si dovrebbe apportare, e a che cosa, per arrivare alla nozione espressa dal verbo che vale appunto solo ‘avvedersi, rendersi conto’.  Credo che non sia scientificamente accettabile risolvere il problema sostenendo che l’ accorgersi è una sorta di precisazione, una messa a punto di una visione immediatamente precedente a quella della correzione, perché se questa, diciamo così, approssimata prima visione avviene, deve di certo svolgersi nel subconscio e noi non potremmo allora fare alcunchè che assomigli ad una sua correzione per il semplice motivo che non abbiamo coscienza del dato da correggere.  Tuttavia questa idea della correzione, che non poteva certamente non continuare ad aleggiare intorno al verbo quando questo mostrava ancora evidente ai parlanti la sua presunta etimologia nella probabile forma *accorrigere  o *accorreggere, ha contribuito a far mutare talora leggermente il significato del verbo da un franco e semplice ‘avvedersi’ a quello di ‘notare qualcosa che prima non si era visto’. 

   La questione, secondo me, si risolve piuttosto facilmente se si pone un po’ d’attenzione al significato del verbo lat. corrig-ere < *con-rig-ere (con=cum rafforzativo)[1] ‘raddrizzare, correggere, emendare’. Questo significato, già tutto piegato verso un’idea secondo me collaterale di “correzione” certamente non fu quello originario che doveva esprimere solamente un’idea di “direzione, guida” come l’altro verbo lat. di-rig-ere ‘dirigere, guidare’. Ma questo movimento (in linea retta) come si deve intendere ―si chiederà forse qualcuno―  per arrivare ad un concetto di “avvistamento, conoscenza, individuazione, ecc.”?  Gli è che esso si configura come quello idealmente compiuto dai nostri occhi che indirizzano l’attenzione verso un oggetto che in virtù di ciò appare alla coscienza o viene avvertito come presente; questa operazione si rivela appunto come un tendere e intendere, alla base della nostra presa d’atto delle cose e della loro comprensione.  In questo modo la supposta e un po’ ingombrante idea di correzione svanisce come neve al sole dal concetto di “accorgersi”, lasciando però a noi un piccolo-grande problema che si risolve solo in un modo: questa forma romanza  evidentemente non è derivazione diretta di quella classica, dove appariva solo il significato di ‘correzione’, ma di forma coesistente e confusa con essa ab antiquo, rimasta attiva nella lingua parlata. Non molti anni fa Mario Alinei, professore emerito dell’Università di Utrecht, ha ribadito con esempi illuminanti, ma suscitando la critica  di tutti i linguisti tradizionalisti, che le forme dialettali sono spesso più antiche delle classiche: eppure la cosa era già nota alla romanistica tradizionale che però non ne aveva tratto tutte le implicazioni[2]: chapeau bas, dinanzi a tanta solitaria perspicacia! Il meccanismo che sta dietro il nostro accorgersi non è diverso da quello di lat. in-tu-eri ‘guardare (tu-eri= guardare), guardare fisso, osservare’ da cui l’it. intuire che, strada facendo, ha assunto non so se qualcosa di più profondo del normale capire, per via della prep. in ‘verso, dentro’, o qualcosa di più vago, avvicinandosi al concetto di “intravedere”.  Una prova di notevole peso, circa il significato d’origine, mi pare il fatto che arcaicamente scorgere è usato addirittura in riferimento ad un suono (E non si scorge altro rimore che strida — Pulci).  Dietro gli specifici significati apparenti perdura sempre quello sovraordinato di ‘tendere’, in questo caso non la vista ma l’udito: difatti abbiamo anche per l’udito, l’espressione drizzare, tendere gli orecchi. 

Il senso dell’udito, tuttavia, sembra essere più soggetto di quello della vista alla forza esterna delle cose che entrano in contatto con noi per il concorso dei nostri organi di senso da un lato e dall’altro delle varie forme di  emananazioni dagli oggetti verso di noi (onde elettromagnetiche, sonore, effluvii, ondate di calore) per le quali abbiamo sviluppato, nel corso dell’evoluzione, adeguati organi di senso.  Basta volgere un po’ più a destra o a sinistra gli occhi, però, per escludere parti notevoli della realtà dal campo visivo, mentre i suoni ci investono sempre, sia pure con intensità variabile, da qualunque direzione provengano e qualunque sia l’orientamento dei nostri orecchi.  Tornando al nostro problema, ci accorgiamo che in queste condizioni c’è poco da aggiustare e correggere in funzione di una più chiara o meno chiara ricezione di suoni.  Alla luce di questa realtà appare insufficiente, come sfocata, l’interpretazione che tutti danno all’espressione it. dar retta.  Si fa infatti  di solito riferimento, per spiegarla, all’espressione lat. arrigere (part. p. arrectum) aures ‘drizzare le orecchie’ spiegandola come derivante da una presunta espressione dare arrectas aures ‘porgere orecchie dritte’ quando l’unico signif. che possiamo legittimamente trarre dall’espressione italiana è quello di ‘direzione’ (cfr. it. retta, detto di una linea, da lat. rectam, part. p. di lat. reg-ere ‘reggere, dirigere’) e, al massimo, di ‘attenzione’. Non poche delle errate etimologie dipendono proprio da questo atteggiamento molto comune negli uomini, di voler comunque dare una soluzione in specie quando essa sembra lì certa e a portata di mano.  E’ lo spirito dell’intraprendenza umana, insomma, molto proficuo in altri campi, dove produce vantaggi e ricchezza, che può purtroppo creare guai seri in una materia in cui è essenziale, più che l’attivo e pronto intervento della mente, il passivo atteggiamento di chi osserva, quasi in adorazione, il suo oggetto misterioso tendendo semmai gli organi di senso per percepirne ogni minimo sentore, scricchiolio, ombra d’alcunchè che confermi o contraddica imprevedibilmente la nostra conoscenza teorica precedente dell’oggetto  e ce lo presenti in una luce e in una veste fondamentalmente diverse dal solito. L’espressione popolare toscana da’ retta!, usata per richiamare vivamente l’attenzione (non l’ascolto) su qualcosa, suggella il nostro ragionamento[3].

Interessantissimo ai fini di convincersi che la tensione è alla base dei verba sentiendi ‘verbi che indicano sensazioni’ è lo stesso verbo lat. sent-ire ‘sentire’ che praticamente copre tutto l’arco dei sensi: tatto, olfatto, udito, gusto (si usa in italiano l’espressione sente di per sa di), vista, oltre a significare ’pensare, stimare, giudicare’.  In Lucrezio, infatti, esso significa anche ‘vedere’ nell’espressione colorem sentire ‘vedere un colore’.  Quasi sicuramente la sua radice corrisponde a quella di ted. sinn (cfr.it. senno) ‘senso (udito, vista ecc.), sentimento, coscienza, intelligenza, mente, intenzione, significato’ che rimanda al ger. sinno ‘direzione’, concetto alla base dei verba sentiendi sopra analizzati.  All’origine tutti i verbi di questo tipo potevano abbracciare evidentemente tutte le sensazioni, per il semplice motivo che il significato di fondo delle loro diverse radici aveva il significato generico di tensione, attenzione, direzione (della mente) verso il flusso delle emanazioni provenienti dall’esterno o verso i moti interni della psiche. Nel corso della lunghissima storia di queste radici, che probabilmente raggiungevano anche il Paleolitico, avvenne che molte di esse si specializzarono ad indicare solo una o due delle sensazioni, facendoci fatalmente credere che esse recassero l’impronta di questo stampo particolare, diverso per le diverse sensazioni, fin dall’origine, come del resto avviene anche per tutte le altre radici.  Dinanzi a verbi come it. vedere che a volte presenta anche il significato di ‘capire, sapere’ come nei corradicali  lat. vid-ere ‘vedere, accorgersi, capire’ e gr. (w)oíd-a ‘so’[4], la nostra mente inevitabilmente deduce che il significato di ‘sapere, accorgersi’ è in qualche modo derivato da quello primario di ‘vedere (con gli occhi)’, perché essa registra lo stadio e il sistema attuali della lingua e non può, se non attraverso lo studio e la riflessione in profondità, rendersi conto della situazione iniziale di questo stupendo mezzo di comunicazione che è la Lingua.  La metafora, cioè la possibilità di usare una parola non in senso proprio ma in quello, come si dice, figurato, è certamente l’anima del linguaggio,  ma nonostante ciò bisogna ficcarsi bene in mente (perché il fatto è gravido di conseguenze) che anche il significato che nello stadio attuale della lingua riteniamo proprio è in realtà figurato anch’esso, provenendo da uno antecedente e sovraordinato da cui deriva in parallelo anche l’altro significato indebitamente considerato una sua emanazione, per l’errore di prospettiva commesso dalla nostra mente che, come spero di aver ben spiegato, non può essere dotata della giusta profondità etimologica, senza molto studio e meditazione, soprattutto quella di tipo passivo, come ho detto più sopra. 

Che dietro questa radice di lat. vid-ere ‘vedere, sapere’ ci sia stato anche il significato di ‘sentore, odore’ ci viene confermato dal sostantivo gr. (w)eíd-os  che vale normalmente ‘apparenza, aspetto, idea, forma’, tutti concetti riannodabili a quello di ‘vedere’ che è alla loro base, ma anche ‘aroma’ in Filostrato[5].  Il concetto di “odore” ha bisogno per la sua formazione delle sottilissime particelle odorifere che si staccano dalle cose esterne alla persona, e che, una volta raggiunti i nostri apparati percettori, causano l’invio di un segnale al cervello che si tramuta in tensione psichica la quale avverte la loro presenza e ne distingue la natura più o meno gradevole.  Questa tensione (agitazione, moto di coscienza, ecc.) è la stessa che si ha per gli altri sensi ed è quella che l’homo loquens ha registrato per mettere i nomi alle cose, senza doversi preoccupare di stare a distinguere tra le diverse sensazioni.  Naturalmente egli aveva a disposizione un certo numero di forme sonore (significanti, formati di monosillabi o di polisillabi ottenuti per accoppiamento di monosillabi) fra loro diverse che, proprio per questo, aiutavano  ad iniettare il virus della differenziazione nell’unico significato generico iniziale ad esse sotteso dando vita alla varietà dei nomi necessari alla comunicazione tra gli uomini. Questo significato, quindi, non poteva in genere non restringersi ad indicare di volta in volta questo o quel referente, acquistando in chiarezza e precisazione quello che perdeva in ampiezza e profondità. Anche nel verbo it. sapere si nota la commistione del significato di ‘conoscere’ con quello di ‘aver sapore di’ come avveniva del resto già in latino.  Si direbbe che il nostro linguaggio sia espressione di un tentativo (compiuto inconsapevolmente dal nostro inconscio), apparentemente ben riuscito, di farci credere che i concetti che elaboriamo nella nostra mente e che ci comunichiamo a vicenda abbiano effettivamente una base di verità che li differienza gli uni dagli altri, mentre alla luce della nostra analisi purtroppo essi rivelano tutti la vanità di questa pretesa essendo cloni dell’unico significato primordiale, quello dell’essere, che è d’altronde il più sfuggente di tutti per la vastità dei suoi non delineabili confini.  E’ inutile illudersi. Il linguaggio non è la porta maestra che conduce alla realtà o alla cosa in sé (nemmeno ad una semplice caratteristica di essa), contrariamente all’apparenza[6].  Esso esercita una sorta di potere ipnotico su di noi trastullandoci come bambini inquieti che si calmano ed addormentano al suono malioso di una ninna nanna le cui parole ingenue sembrano tuttavia raccontarci grandi e pacifiche verità, mentre esso, il linguaggio, messo a nudo, può al massimo etichettare e additarci i vari referenti i quali, nonostante il suo serio intento conoscitivo, finiscono con lo sfuggire al suo inseguimento e col conferire ai nostri discorsi l’inconsistenza di meri simulacri.  Il linguaggio della scienza, insensibile ai vari e ingannevoli fantasmi evocati dalla parola, può certamente sperare in qualcosa di più concreto e profondo, e i fatti lo dimostrano, anche se mai forse raggiungerà i recessi più reconditi della grande Verità.  Ed è certamente un miracolo che da uno strumento come il linguaggio, caratterizzato sin dalle origini da elementi essenzialmente emotivi, pletorici, approssimativi e mutevoli si sia potuto sviluppare parallelamente un tipo di linguaggio come quello della scienza che mostra una natura fondamentalmente opposta: razionalità, sobrietà, precisione ed universalità, tutte caratteristiche che hanno permesso uno sviluppo straordinario della conoscenza nonostante la relativamente giovane età della Scienza che possiamo far iniziare con Galileo, non più di quattro secoli fa! Ma se poniamo mente all’unico significato generico sotteso ad ogni parola, forse scopriamo l’altro polo verso cui è orientata tutta la ricerca scientifica, la cui caratteristica principale, a me sembra, è quella della scoperta dell’unitarietà di fondo di tutti i fenomeni.

I filosofi ionici presocratici, che tenevano in gran conto la natura nelle loro osservazioni, sostenevano, secondo Aristotele, che la parola hed-oné, dor. had-oné ‘piacere’ indicasse in realtà la qualità sensibile di una cosa, come il sapore, l’odore, il caldo, il freddo, ecc.: in una parola, cioè, essa designava quello che noi chiamiamo sensazione.  Ma potendo questa essere buona o cattiva, come giustifichiamo il significato fondamentale di ‘piacere’ che la parola esprime? In verità essa poteva indicare anche un piacere maligno, dannoso, eccessivo, che conduceva alla lussuria o altre sregolatezze, ma con tutto ciò non arrivava effettivamente ad indicare l’esatto contrario del ‘piacere’ che è il ‘dispiacere, dolore’: al massimo poteva assumere il senso di passione come avveniva effettivamente per il plurale hedonaí ‘passioni’[7].  E il motivo a mio parere è semplice: la specializzazione univoca dell’aggettivo hedýs ‘dolce’ impediva al sostantivo corrispondente di assumere anche il significato di ‘sensazione spiacevole, dolore’, significato monopolizzato, a mio parere, dal termine simile gr. od-yné ‘dolore’, gr. ōd-înes ‘dolori del parto, travagli (in genere)’.  Ma che hed-ýs nascondesse un significato un po’ diverso da quello canonico, confermando così che i significati sono in genere restrizioni di quello generico di fondo, ce lo suggerisce il termine gr. hed-ysmόs ‘profumo, odore’, odore che può essere buono o cattivo e che perciò mi spinge a considerare la prima parte hed- del termine una variante della radice od- presente in greco e latino (cfr. lat. od-or ‘odore’) per il concetto di “odore”.  Lo so che il linguista tradizionalista osserverà che il nuovo significato della parola si è avuto per estensione da quello precedente di ‘dolce’, ma l’osservazione che a mia volta mi accingo a fare dovrebbe tarpare le ali alla sua.  La seconda parte –ysmόs non va infatti considerata una semplice appendice suffissale, essendo essa a mio avviso variante tautologica di gr. os-mé ‘odore buono o cattivo, fiuto, odorato’ la cui prima componente è fatta derivare dalla radice od- di cui sopra con valore olfattivo che però a sua volta proviene, stando a queste considerazioni, da un significato più generico di ‘spinta, impulso’ che si ritrova in gr. ōs-mόs ‘spinta, impulso’ (a sua volta ampliamento da ôs-is di identico significato), gr. én-os-is ‘scossa, spinta’ fatti derivare ambedue dal verbo ōthé-ō ‘spingo, urto’.  Appare evidente, a questo punto, che nonostante le possibili aporie formali che al livello sincronico dello strato superficiale della lingua potrebbero creare qualche difficoltà, il concetto di “odore” attinge a quello di “impulso” e quindi di “effluvio” esalante  dall’oggetto odoroso verso il soggetto che lo riceve il quale nel contempo attiva, attraverso gli apparati percettori, una reazione positiva o negativa a ciò che viene dal di fuori registrata come  una sensazione tra le altre (nel significato chiarito sopra).  Ed è sommamente interessante e chiarificatore notare che in greco il verbo ōd-ín-ō ‘ho i dolori del parto, soffro’ significa anche ‘fo tremare, scuoto’, cosa  che ci dà la possibilità di riannodare insieme i tre dispersi concetti di “scossa”, “dolore” e “odore” nonché quello di “piacere”, il quale non è altro che una sensazione, piacevole invece che dolorosa: ma queste differenziazioni sono dovute, come abbiamo visto, a specializzazioni di un significato generico sovraordinato[8].

Circolano abbondantemente nei dialetti centro-meridionali voci come add-usëmà, usëmà ‘annusare, odorare’ ma anche ‘capire, intuire’, voci che sono composte a mio avviso dalla radice ad-, variante di od- di cui abbiamo parlato, e certamente corrispondente alla forma dorica had-ýs ‘dolce’, più antica (almeno così si crede) della relativa forma ionica in eta hēd-ýs ‘dolce’: non si tratta, insomma, di corruzione della prima vocale di lat. od-ore(m) ‘odore’ a cui inoltre sta di fronte anche il dialettale add-órë. Il secondo elemento  usëmà, che vive nei dialetti anche autonomamente, è pari pari il gr. os-mé ‘odore, fiuto’ con l’inserzione di una normale vocale anaptittica /ë/.  Allora ben si dovrebbe capire l’origine del verbo dialettale, pronominale e no, adunà, adunasse, addunarse (con varianti) ‘rendersi conto, capire, accorgersi’: esso non è altro che l’ormai a noi ben noto termine gr. hadoné ‘piacere’, nel suo dignificato profondo di ‘sensazione’ che ci avverte di qualche cosa, in questo caso dell’odore. Dante stesso usa il verbo adunare in riferimento all’attività cerebrale (vano pensiero aduni) col significato di ‘accogliere nella mente’: mi sembra chiaro in questo caso che dietro il verbo adunare ’raccogliere, unire’, travasato in italiano pari pari dal latino, si annidi il nostro dialettale adunà di tutt’altra origine (Inferno, VIl, v.52).  Il verbo dialettale presenta anche il significato di ‘provar nausea (di cibi)’ nel Catanese e nel Siracusano riallacciandosi così alla famiglia dei termini per ‘odore, sapore’.  In Giacomo da Lentini, poeta della Scuola siciliana, il verbo adonare vale ‘avere rapporti, frequentare’ come nell’ant. occitanico adonar ‘avere rapporti con’.  Allora risalta, a mio parere, la sua parentela con l’ingl. arcaico atone ‘godere di una armoniosa relazione, concordare’ di cui ho parlato nell’articolo precedente Incredibile ma vero […], nota 7, a cui rimando. Un solo significato sembra allontanarsi da questi riconducibili alla sfera delle sensazioni, ed è quello di ‘afferrare’[9] che fa il paio con quello di ‘raccogliere (un oggetto)’.  La cosa si spiega riflettendo sul fatto che una sensazione corrisponde comunque ad una tensione interna della nostra psiche: essa in questo caso esce all’esterno della coscienza e si materializza nella spinta in avanti delle mani tese ad afferrare o raccogliere. Ovviamente anche tutti gli altri verbi italiani e latini che esprimono il concetto di “comprendere, capire”, come avevo già intuito e scritto ai primordi della mia ricerca, fanno riferimento ad una tensione diretta verso l’interno per i sentimenti e i pensieri, come dire, intimi che nascono e finiscono nell’interno della psiche, ma anche verso l’esterno quando si tratta di stimoli provenienti dal mondo esteriore.  L’it. capire, dal lat. cap-ere ‘prendere’, prima di diventare un ‘afferrare’, anche metaforico, dovette essere un ‘protendersi’ verso un oggetto.  Cfr. l’espressione cap-ess-ere portumdirigersi verso il porto’ e cap-ess-ere superiora  tendere verso l’alto’ con la forma desiderativa di cap-ere. Il verbo lat. per-cip-ere ‘prendere, percepire, sentire, capire, ricevere, ecc.’ mostra anch’esso la sua vera identità nel sign. di ‘invadere’ come nella frase aera percipit ardor ‘il calore invade l’atmosfera’ di Lucrezio.   Questo sarà il motivo per cui “ […] ancor oggi, in russo, quando un matematico annuncia di aver ottenuto un risultato o dimostrato un teorema, usa il verbo polučat, «ricevere»”[10]

L’etimo che va per la maggiore per il lat. intel-leg-ere, intel-lig-ere ‘accorgersi, capire, essere intelligente, ecc.’ è quello che lo interpreta come un ‘tra- (inter) scegliere (leg-ere)’.  L’intelligenza come una capacità di scegliere tra diverse opzioni.  Ed effettivamente per questa operazione della mente ci vuole un po’ di intelligenza, ma con tutto ciò non ci siamo, anche perché il fatto non combacia esattamente con i principi della mia linguistica che, come abbiamo visto, per questa nozione del “capire” richiedono il concetto di tensione, attenzione.  Sembrano così dei veri rompicapi etimi come questo, eppure la soluzione è lì a portata di mano: basta scavare un po’ più a fondo nei significati delle radici coinvolte. Il lat. leg-ere mostra il significato di ‘raccogliere, scegliere’ ma anche quello di ‘leggere’ oscuramente derivato, si sostiene, da quello precedente, forse attraverso la nozione di ‘raccogliere (con gli occhi le lettere di uno scritto)’.  Quanti contorcimenti per cercare di capire una lingua che non li ama!  E infatti abbiamo poco sopra notato che anche il dialettale adonare, il quale spesso significa ‘capire, accorgersi’, presenta ugualmente il significato di ‘afferrare, raccogliere’: la stessa cosa sarà avvenuta per questo lat. intel-leg-ere ‘capire’ e per il semplice leg-ere ‘raccogliere, leggere’ in cui la nozione di ‘leggere’ si configura, evidentemente, come un protendersi verso lo scritto da interpretare, piuttosto che come un ‘raccogliere’ il quale ultimo, del resto, prima di assumere questo significato, non poteva essere estraneo a quello precedente di ‘tendere (la mano o gli occhi)’.  Basta guardare chi sta leggendo, tutto concentrato e come proteso verso lo scritto, per convincersene.  La lettura, in altri termini, è solo una conoscenza e un tendere, quindi, verso qualcosa come avviene nel gr. ana-gi-gnό-scō ‘conoscere, accorgersi, leggere’.  Che così stiano le cose ce lo conferma lo stesso latino leg-ere che a volte significa proprio ‘ascoltare’ o addirittura ‘vedere, guardare’ come in sermonem leg-ereascoltare una conversazione’ di Plinio o in omnes adversos leg-erevedere tutti di fronte’ di Virgilio[11].  E questo naturalmente si spiega non, come generalmente si fa, ragionando che il vedere e l’ascoltare sono rispettivamente un raccogliere qualcosa con gli occhi o con gli orecchi,  ma osservando semplicemente che queste sensazioni si riannodano tutte direttamente, attraverso l’idea di “tensione”, a quella di “leggere” e di “conoscere, sapere”, come ormai ci è chiaro[12].  Il prefisso in-ter ‘tra, fra, dentro’ doveva essere all’inizio solo ampliamento di in, preposizione che doveva indicare un movimento verso qualcosa, poi anche dentro qualcosa, e fungeva quindi da prefisso intensivo come nel verbo in-tend-ere. L’ingl. under-stand ‘capire’ dovrebbe significare piuttosto goffamente, se ci atteniamo ai valori attuali delle radici che compongono il verbo, qualcosa come ‘stare (stand) sotto (under)’ . Ma in tedesco unter oltre a ‘sotto’ significa anche ‘tra, in mezzo’ come il precedente lat. inter.  Resta da spiegare –stand.  In inglese arcaico stound significa ‘tempo, momento’, nozioni che possono scaturire da quella di ‘durata, continuazione, movimento (del tempo)’ tanto più che in tedesco stund-en significa ‘prorogare, dilazionare’ riconducendoci quindi all’idea di “estensione” variante di quella di “tensione” a noi nota perché alla base del concetto di “capire, intendere”. Il ted. Stunde ‘ora’ doveva significare ‘periodo, tratto di tempo’.  Un altro significato arcaico di ingl. stound era ‘dolore acuto’ e con questo si ritorna nell’ambito delle sensazioni analizzate più sopra.  Il ted. ver-steh-en (part.p. ver-standen)‘capire’, ma anche ‘udire con l’orecchio’, è composto dal prefisso inseparabile non meglio identificato ver- (evidentemente il suo valore generico iniziale si adattava ad ogni evenienza, visto che esso precede tanti altri termini) e dal verbo steh-en ‘stare in piedi, stare dritto’ che, a mio parere, riversa in questa direzione verso l’alto tutta la sua originaria tensione che è quella che ci interessa.  Lo stesso meccanismo dobbiamo scorgere nel gr. ep-í-sta-mai ‘so, conosco’ composto dalla prep. epí ‘sopra, verso’ e dal verbo hí-ste-mi ‘colloco, sto, erigo, resisto, persevero, ecc.’

Il verbo gr. lég-ein ha il significato di ‘raccogliere’, non quello di ‘leggere’, e quello di ‘dire, parlare, annunziare, esporre, ecc.’ che attinge sempre all’idea di fondo del  “proferire, esprimere” che sono, come ci fanno capire le relative e facili etimologie, altri aspetti della tensione[13].  In questo modo si comprendono molto meglio le voci dialettali, in genere centro-meridionali, al-lucc ‘urlare, gridare, sgridare, straparlare, parlare a lungo, borbottare’, ma anche, sebbene molto meno frequentemente, ‘fare attenzione, guardare’, ricongiungendosi così al diffuso alluccià (ad Aielli-Aq ajjuccià con la palatalizzazione della /l/ geminata) ‘guardare con attenzione, cercare aguzzando la vista (qualcosa perduta nei paraggi)’.  I linguisti si premurano e affannano a cercare per ognuno di questi significati l’etimo particolare, per cui pensano ad un allucco=allocco per il concetto di ‘urlare’ o al termine luce per quello di ‘guardare’ ma non si accorgono, ahimè, che così facendo, oltre ad andare contro lo spirito della Lingua che punta all’unità di fondo dei significati, ciurlano nel manico spinti dalla presunzione, appunto, che ogni concetto abbia la sua certa, luminosa e separata origine. Quello di “luce” è uno dei concetti che più rispondono all’archetipo di “emanazione, spinta, tensione” alla base di tutti gli altri, in specie di quelli qui espressi con lo stesso significante[14].  Presso gli antichi si avevano anche alloccare ‘guardare insidiosamente’  per influsso di allocco, uccello di malaugurio, e bada-lucc-are ‘stare a guardare’[15] che presenta l’elemento tautologico iniziale bada- [16].

Interessanti sono poi i rapporti di questa radice con l’ingl. look ‘guardare’ , anglo-sass. loci-an ‘guardare’, ecc.  Nell’ingl. dial. look  significa addirittura ‘contare (le pecore, ad esempio)’, valore che rispunta nel gr. lόg-os sopra citato (in nota 13) che oltre al sign. di ‘parola’ presenta anche quello di ‘conto, computo, ragione’.  Esso, sempre nei dialetti inglesi, significa infatti anche ‘esaminare uno ad uno, attentamente’ facendo balenare sempre questa idea del contare che sembra configurarsi come un ‘guardare con attenzione’ e quindi ‘esaminare uno ad uno’ i vari componenti di un insieme. Si incontrano altri significati particolari di questa voce inglese riconducibili sempre al significato di fondo di tensione.  L’ingl. log ‘registro di bordo’ mi pare possa riposare molto bene sul significato di ‘resoconto, racconto, libro’ del gr. lόg-os, anche se non altrettanto bene sulla legge di Grimm[17]. L’altro termine ingl. log-book ‘registro di bordo’ dovrebbe confermare tautologicamente il concetto di “registro, libro”.

Mi è stata sempre ostica la presenza di atto nella comune espressione italiana prendere atto di ‘riconoscere che qualcosa è avvenuto o c’è, avvertirne l’esistenza, accorgersi di essa’ e quindi ‘accettarla’: fin da quando cominciai a sentirla le prime volte l’ho guardata sempre con un certo sospetto e quasi con senso di rigetto perché non sapevo come intendere quel misterioso atto e i vocabolari non mi aiutavano di certo, dando magari la spiegazione dell’insieme della locuzione ma guardandosi bene dal chiarirne la parola atto. Anche il francese ha prendre acte ‘prendere atto’. Ora la voce att-ëv-ëtà ‘intelligenza’[18] del dialetto lucano di Gallicchio-Pz  mi dà, dopo tanto tempo, la possibilità di risolvere definitivamente il problema di it. atto, apparentemente dal lat. act-u(m) ‘atto, azione’.  La sua radice invece è quella del precedente termine lucano e pertanto non si è lontani dal vero indicando per esso il significato iniziale di ‘attenzione, conoscenza’, significato che gli permette di collocarsi senza forzature dopo il verbo prendere.  Non solo: leggo nel Vocabolario abruzzese del Bielli[19] la voce atta-mentà, atta-mmentà ‘guardare fissamente, por mente’ il cui primo membro non può essere che il nostro atto di cui parliamo che condivide tautologicamente la tensione interpretativa col secondo membro –mentà dal lat. ment-e(m) ‘mente, animo, intelletto, ecc.’, cfr. ingl. mind ‘mente’.  Una osservazione importantissima (che conferma l’idea di Mario Alinei, di cui abbiamo già detto, circa la maggiore antichità delle forme dialettali romanze rispetto a quelle corrispondenti del latino classico) mi pare si possa fare per il lucano att-ëv-ëtà il quale non può essere inteso come tardivo sviluppo di lat. act-u(m) ‘atto, azione’, tanto più che in questo dialetto di Gallicchio già esisteva il termine ndëlëggénzë ‘intelligenza’ dal lat. intelligentia(m) e quindi non si vedeva la necessità di inventarne un altro forzando inoltre il significato di lat. act-ivu(m) ’attivo’ .  In latino in verità si incontrava anche act-iv-itate(m) ma nel senso grammaticale di ‘significato attivo’.  Il fatto è che, secondo me, l’intelligenza può essere intesa come un aspetto dell’attività, concetto tratto da quello di lat. ag-ere ‘spingere, fare’ per cui l’act-u(m) equivale ad una ‘spinta’, e, in qualche comunità il cui linguaggio andava a perdersi nella preistoria, indicava realmente quella ‘tensione’ caratteristica degli altri termini per ‘intelligenza, conoscenza’, come abbiamo visto.  Da questa radice non va disgiunto nemmeno il ted. acht-en ‘considerare, tener di conto, stimare’, ted. acht-ung ‘attenzione, stima’.  Buon ultimo, di questa famiglia, viene il termine del dialetto di Aielli, il mio paese, att-ëcchià ‘ascoltare attentamente, origliare’ uguale all’avezzanese att-ecchià ‘ascoltare’[20].  Si incontra anche l’abr. att-ecchià ‘sentire con piacere il palpeggiamento (o anche la lode)’ ma anche ‘mignolare (il mettere i boccioli del fiore- detto degli ulivi)’ o ‘spuntare delle corna negli animali’.  Questi due ultimi significati forse sono dovuti all’incrocio col verbo it. attecch-ire[21] ma il primo si riallaccia ai verbi precedenti per ‘ascoltare’.  Solo che la tensione e l’attenzione per l’ascolto sono in questo caso rivolte alla sensazione del tatto o a quella della lode.  Il verbo si va specializzando in senso positivo, come se volesse esprimere un ‘provar piacere, godere’. Esso mi pare derivi da un *acti-cul-are simile, tranne che per il primo membro, ad *auri-c(u)l-are alla base di it. ore-cchi-are, da lat. auri-cul-a(m) ‘orecchia’. L’elemento –cul-, più che diminutivo, doveva all’inizio essere tautologico: cfr. gr. klý ‘udire, ascoltare’, lat. clu-ere ‘ aver fama di, essere noto’.  A Trevi nel Lazio (Frosinone) si incontrano due forme del verbo, una transitiva atticcà ‘orecchiare, sentire’ e l’altra intransitiva atticchià ‘stare attento, ascoltare con attenzione, sentire, curiosare’.  E’ possibile anche che queste forme siano partite da una originaria *act-ic- , aggettivo con suffisso indoeuropeo ben attestato in latino e in germanico, simile per il significato alla voce lucana di Gallicchio att-ivë ‘intelligente’ che presenta l’altro noto suffisso -ivë.

E’ forse utile notare ancora come nell’antichità greco-romana il cuore, non il cervello, fosse considerato la sede dei nostri sentimenti.  A tal punto che esso arrivava a contendere al cervello anche l’attività più caratteristica di questo, quella dell’intelligenza e della memoria, motivo per cui si incontrano nelle lingue romanze verbi come l’it. ri-cord-are o l’espressione fr. par cœur ‘a memoria’. A dire il vero il meccanismo era attivo anche in inglese dove si incontra l’espressione by heart ‘a memoria’e la parola heart ’cuore’ presenta anche il signif. obsoleto di ‘intelligenza, memoria’.  Allora il fenomeno doveva essere di vasta portata e risalire sicuramente alla preistoria. E’ esperienza di ogni uomo constatare, infatti, che è proprio il nostro cuore a registrare, con le sue palpitazioni più accelerate del solito, ogni nostra situazione di pericolo, di spavento, di disagio ma anche di entusiamo e gioia.  Palpitazioni che sono la traduzione sensibile di quella tensione psichica alla base della nostra capacità di parola.  I termini che indicavano il ‘cuore’, con il suo battito caratteristico, pertanto potevano condividere la radice con quelli che indicavano i vari sentimenti e le varie passioni come li abbiamo spiegati sopra, compresa l’intelligenza, e il gioco era fatto per un loro felice connubio![22]

Un’ultima considerazione. Il significato di ‘aver rapporti con’ del verbo ad-on-are fa venire in mente il lat. con-suetio, onis ‘rapporto (amoroso)’, con-suet-udo, udinis ‘consuetudine, rapporto, familiarità’ e il gr. é/ēth-os ‘uso, costume’ dal quale sarebbe caduto il su- iniziale, che invece era secondo me una prima parte tautologica della radice.  Questo accostamento dei due concetti di “rapporto, familiarità” e quello di “piacere” mi pare che finora non era stato fatto da altri[23]. 
Spero che la lettura di questo articolo possa allargare i confini dello spirito costretto spesso a restringerli dalle idee correnti. 


Platone con la sua teoria delle idee eterne, immutabili e divine provenienti addirittura dall’iperuranio (regione al di là del mondo) ha recato danni notevoli alla comprensione dei meccanismi della conoscenza umana, la quale però, sia pure con difficoltà abbastanza spesso riaffioranti nella storia per  l’opera infausta dei suoi vari epigoni, è andata sempre più a sistemarsi sotto una visione, diciamo così, concreta ed empirica della sua natura e dei suoi meccanismi, che partono dal basso della realtà sensibile, dove siamo totalmente immersi, e non dall’alto vertiginoso ed astratto della metafisica.  Maggiore senso di realtà e maggiore verità era nelle osservazioni di alcuni filosofi presocratici, in specie di Democrito (sec.V a.C.), discepolo di Leucippo,fondatore dell’atomismo.Tirando le somme, molte cose tra quelle che ho detto riguardanti la conoscenza le sapeva già Democrito come la sostanziale uguaglianza tra i meccanismi della percezione sensoriale e quelli della percezione intellettiva e pertanto egli, anche per questo, non poteva cadere nella trappola della divisione fittizia della realtà in fisica e metafisica, divisione favorita surrettiziamente proprio dal linguaggio con la ipostatizzazione da esso compiuta, quasi per impulso naturale anche se arbitrario, di coppie dicotomiche come anima e corpo, materia e spirito, sostanza e accidente, ecc. Basta però una semplice analisi etimologica della parola anima, indicante solitamente nelle religioni una entità stratosfericamente immateriale, per riprendere un contatto salutare con la sua origine materiale, fresca di vita concreta: il soffio del respiro animale vivifica la parola in latino mentre quello del vento ne dissolve le pretese d’immortalità in greco.[24]  Democrito non poteva conoscere, ad esempio, il significato generico di fondo delle parole, alla base di tutti gli altri, ma nonostante ciò era arrivato a capire che la nostra conoscenza si limita ad essere un simulacro della realtà in sé. D’altronde non scorgeva nessun iperuranio, oltre i confini del mondo, dove trasformare la realtà in iperrealtà del tutto astrattamente. A voler essere rigorosi bisogna anche osservare che tutte le mie precedenti considerazioni non hanno il potere di serrare le porte definitivamente, almeno in linea teorica, ad una superrealtà oltre i confini del mondo, ma tuttavia esse escludono a mio avviso definitivamente l’illusione di poterla scorgere o solo intravedere, ammesso che ci sia, con i mezzi della nostra mente e del nostro linguaggio, i quali non sono altro che strumenti, per quanto sbalorditivi, prodotti dall’evoluzione dell’uomo nella  realtà in cui viviamo.  Del resto tutti sappiamo che lo stesso Immanuel Kant (1724-1804), il grande filosofo di Königsberg che di certo ateo non era, pervenne alla ferma convinzione che la metafisica come scienza è impossibile, nonostante l’ausilio dei cosiddetti principi a priori (25)  della conoscenza, ultimi fantasmi, a mio avviso, delle idee trascendenti, immutabili ed eterne di Platone. 

Oggi,15 settembre 2013, ho incontrato in web un altro interessante esempio che conferma il meccanismo dei verbi indicanti le sensazioni e la conoscenza.  La voce adde-seru-à (le due -e- sono mute) 'sentire' del dialetto molisano di Chiauci-Is (26) è una chiara fotocopia, a mio parere, di lat. ad-serv-are 'guardare, conservare, custodire' e lat. ad-serv-ire 'tendere a, concorrere a, favorire' con la sola diversità dell'inserimento del suono indistinto della -e- evanescente tra la prepos. ad- e la fricativa iniziale del verbo serv-are. Ora, l'etimo di lat. serv-are 'conservare, salvare, custodire, badare, stare attento' è in genere considerato lo stesso di quello di gr. hor-ào 'io guardo, vedo, osservo, faccio attenzione a', e cioè (s)er oppure (sw)er alternante con (w)er e col significato di 'osservare, guardare, vedere'.  Nella voce del dialetto di Chiauci la tensione che sta alla base di questi significati si specializza, come è avvenuto nei numerosi altri casi presi in esame, per indicare l'azione dell'udire (probabilmente con tutte le accezioni contenute nell'it. sentire) e non quella del vedere. Questo fatto, inoltre, ci informa che la voce adde-seru-à 'sentire' del dialetto di Chiauci non può essere derivata direttamente dal lat. ad-serv-are 'conservare, guardare, custodire' e che quindi bisogna supporre, per essa, un idioma sovraregionale precedente sia al dialetto di Chiauci sia alla lingua latina così come noi la conosciamo, idioma che possa dar ragione, con un significato più generico e sovraordinato della voce in questione, degli altri due specializzati, espressi dalle due diverse realtà linguistiche.









[1]  A meno che il con- non sia, come propendo a credere in questo caso, variante della diffusissima radice indoariana di lat. co-gno-sco ‘conosco’, ted. kenn-en ‘conoscere’, ingl. know ‘conoscere’, ecc. che qui formerebbe composti tautologici.

[2] Cfr. Mario Alinei, Origini delle lingue d’Europa, I.  La Teoria della continuità, il Mulino 1996, Bologna, pp. 207-12. L’autore ha elaborato, appunto, la cosiddetta Teoria della continuità della Lingua, che io sottoscrivo, dal Paleolitico ai nostri giorni, secondo la quale una parola non muta continuamente per via di una forza interna (come si credeva nell’Ottocento) ma solo quando è costretta a farlo per l’intervento di un agente esterno.  La stabilità, semmai, è l’unica legge della Lingua: perché mai, infatti, una parola dovrebbe mutare pelle e sostanza contraddicendo così anche la naturale legge d’inerzia scoperta più di tre secoli fa da Newton?  O dobbiamo credere che l’uomo sia come un bambino viziato e capriccioso che disfa e ridisfa a suo incontenibile piacere il balocco parlante che l’evoluzione, nel lungo cammino che ha portato fino a lui, gli ha lentamente costruito e regalato e che lui amorevolmente trasmette, senza comprometterne il funzionamento, alla sua prole?

[3] Cfr. G. Devoto-G.C. Oli,  Vocabolario Illustrato della Lingua Italiana, vol. II, Casa Edit. Felice Le Monnier, Milano 1982, s.v. retta.

[4] Cfr. ingl. arc. wit ‘conoscere, sapere’, ted. wiss-en ‘sapere, conoscere’, sscr. veda ‘ io, egli sa’.

[5] Cfr. G. Gemoll, Vocabolario greco-italiano, Edizioni Sandron, Firenze, 23° ediz.

[6] Qui si spuntano le armi anche dei sostenitori dell’onomatopea  che, come ho ribadito più volte nei miei articoli, non ha spazio alcuno nel linguaggio.  Per un approfondimento della questione rimando al post Etimo di chicchirichì ‘gheriglio della noce’ del mio blog (giugno 2009) e al post Il diavolo non vuole lasciarmi (agosto 2012).

[7] E’ di certo illuminante constatare i vari significati di gr. páth-os che possono comunque ricondursi ad uno solo, quello di ‘sensazione’ che agita la coscienza.  Essi sono: ‘esperienza, evento, avvenimento, pena, sofferenza, danno, afflizione, malattia, dolore, piacere, affetto, amore, odio, ira, passione, proprietà o accidenti delle cose (e qui capiamo meglio perché i filosofi ionici presocratici sostenevano per hed-oné ‘piacere’ quello di cui si è detto sopra), fenomeni, ecc.’.   Poteva succedere, ed in parte era iniziato a succedere, che il significato di páth-os si restringesse a indicare le sensazioni negative, e che lasciasse cadere dal suo campo semantico tutte le altre che venivano espresse anche da altri termini di cui la lingua abbondava. Ma questo non successe.  La Lingua mantiene tra le sue caratteristiche quelle della libertà ed imprevedibilità. In effetti anche se l’uomo ha sviluppato, ad esempio, organi come le papille gustative e olfattive della lingua e del naso per distinguere tra loro un certo numero di sapori ed odori, non ha caricato di questi valori specializzati le parole che li indicavano perché questo fatto avrebbe tarpato le ali, inceppandone il funzionamento, alla splendida, vitale e versicolore capacità delle parole di adattarsi alle varie situazioni trascolorando mirabilmente e plasmando duttilissimamente i significati.
[8] L’espressione italiana morire in odore di santità, che a mio avviso ha prodotto la credenza popolare che il corpo dei Santi emani un odore particolare, dovette in origine significare piuttosto morire in concetto di santità, come pure si usa dire. Il concepire (con la mente) e l’odorare (con il naso) si configurano come una presa d’atto di qualcosa che viene dall’interno o dall’esterno rispetto a noi.

[9]  Cfr. anche per gli altri significati il sito web: Addonare – Wörtebuchnetz – LEI (Lessico Etimologico Italiano).

[10] Cfr. P. Odifreddi, Le menzogne di Ulisse, Longanesi & C., Milano 2004, p. 17.  L’autore spiega il fatto inserendolo nell’ambito della visione metafisica della realtà che per tanto tempo nella storia dell’uomo ha prodotto oracoli, sibille, divinità e anche poeti e profeti presi da divino furore, i quali ricevevano, appunto, da esse quello che annunciavano o cantavano nelle loro opere.  Io sarei piuttosto del parere che fu il linguaggio stesso ad aiutare incredibilmente l’uomo a creare l’apparato metafisico  cui era spinto perciò a credere; di conseguenza tutta l’attività poetica, intellettiva e creativa, che era espressione della sua tensione conoscitiva, finiva per essere percepita come voce diretta o ispirazione della divinità che lui stesso aveva creato.  Detto altrimenti,  si verificavano casi in cui un termine poteva abbracciare i significati di ‘conoscenza, ispirazione (divina), voce’ che mettevano in moto l’immaginazione, senza parlare dei molti altri casi in cui un termine andava a sovrapporsi, nel corso dei secoli, ad un altro generando scorciatoie euristiche (nella mente che ne cercava l’etimo) a volte anche passabili, ma che più spesso provocavano dei veri e propri cortocircuiti della logica, che alimentavano più pregiudizi che giudizi.

[11] Cfr. Aen. VI, 755.

[12]   Questo significato di ‘tendere, stendersi, protendersi’ ricompare stranamente anche nell’ingl. lie ‘giacere’, verbo di stato da m. ingl. ligg-en, lig-en ‘giacere’, a. a. ted. lig-an ‘giacere’, ted. lieg-en ‘giacere’ cui fanno riscontro i realtivi verbi di movimento come gr. lég ‘metto (a giacere)’ o ‘metto a letto’, ted. leg-en ‘porre, deporre’, ingl. lay ‘porre, calmare, ecc.’, got. lagj-an ‘porre a giacere’. Dicevo “stranamente” perché sarebbe difficile ricavarlo dal significato di ‘giacere, trovarsi’ che normalmente il verbo esprime, mentre è facile ricavarlo da quello di ‘porre, deporre’ degli altri verbi di movimento: l’azione del porre o deporre si configura come effetto di un movimento che si sviluppa in genere dall’alto in basso e quella di estendersi, protendersi implica un movimento in genere in avanti, in alto o in senso orizzontale. Si tratta solo di specializzazioni di un unico significato iniziale, quello del ‘muovere’ o del ‘muoversi’.  Cfr. la frase citata dal vocab. Merriam-Webster the route lay to the west ‘la strada procedeva verso ovest’.  Qui la forma lay non corrisponde certamente a quella dell’infinito to lay ‘deporre’ ma al  passato di to lie ‘giacere’, senza condividerne però il significato di stato.

[13] Cfr. anche gr. lόg-os ‘parola, discorso, ragione, ecc.’, lat. loqu-i ‘parlare’.

[14] Dovrebbe significare qualcosa in tal senso il fatto che l’ingl. light into, che secondo me ha la stessa radice di light ‘luce’(le due parole, l’inglese e l’italiana, sono a loro volta corradicali), valga ‘assalire’ e ‘sgridare’, riportandoci con quest’ultimo significato ad uno dei valori già visti di alluccà, cioè ‘sgridare’. 

[15] Cfr. Giovanni Pansa, Saggio di uno studio sul dialetto abruzzese, Carabba editore, Lanciano 1885.

[16] Un uso, diciamo così, “violento” della radice luc-, che fondamentalmente esprimeva un tendere, si riscontra nel toscano alluccà ‘uccidere velocemente un animale con un colpo alla testa’ (cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET 1998) o anche ‘stordire’ che non proviene però a mio parere da annuccà (umbro-abruzzese) dello stesso significato fondamentale.  Credo che la nuca (quindi: colpire alla nuca) sia effetto di un incrocio successivo del verbo con questo termine, verbo che sarà stato magari della famiglia di lat. nec-are ‘uccidere’, it. an-neg-are. La violenza si nota anche nell’it. arc. bada-lucco ‘piccolo scontro armato’, una batt-aglia,insomma.  Ma il termine significa anche ‘trastullo, passatempo’ e mi fa venire in mente l’aiellese cummàttë, letter. ‘combattere’ ma usato quasi per un ‘perdere tempo’ in attività di scarso rendimento. A Cerchio infatti il verbo vale ‘combattere’ ma anche ‘giocare, passare tempo’ (cfr. F. Amiconi, Trad. popol. mars. Il dial. cerchiese, Quaderno 57, anno 2004). In altre parlate della Marsica esso mostra il significato di ‘svolgere un lavoro impegnativo, trattare faticosamente con qualcuno, ecc.’.  Come si vede, le parole sono sempre in cerca di una specializzazione purchessia.

[17] Con questa radice deve far i conti anche l’ingl. log ‘solcometro’ il cui modello più antico e più semplice, detto a barchetta, sembra però risalire al sec. XVI.  Non può significare granchè il fatto che nell’antichità greco-romana questo misuratore della velocità delle navi probabilmente non esisteva. Anche il metro come noi lo conosciamo non risale più in là di qualche secolo da noi, ma la parola rimonta perlomeno al greco.  Costituisce uno specchietto per le allodole, a mio avviso, il fatto che un tipo di solcometro usava un tronco (ingl. log ’tronco, ceppo’) al posto della cosiddetta barchetta (un pezzo di legno triangolare) piombata alla base per mantenerla eretta e sufficientemente stabile mentre la nave si allontanava, facendo quindi dipanare una sagola da un rullo fissato alla poppa e legata alla barchetta.  La sagola aveva dei nodi ad una distanza fissa tra di loro: un marinaio era incaricato di contare i nodi che man mano passavano tra le sue mani nell’unità di tempo, e così era facile calcolare la velocità.  L’idea essenziale di solcometro si riduce a quella di “misuratore, contatore, calcolatore” e non a quella di “tronco”.

[18] Cfr. M.G. Balzano, sito web: www.dizionariogallic.altervista.org/index.htm . In questo dialetto c’è naturalmente anche l’aggettivo attivë ‘intelligente’

[19] Cfr. D. Bielli, Vocabolario Abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq 2004.  Ristampa della edizione N. De Arcangelis di Casalbordino 1930.

[20] Cfr. U.Buzzelli-G.Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese (il libro non reca altre indicazioni nè sulla stampa né sull’anno di pubblicazione).  Ora che ci penso, anche il verbo lat. ag-ere ‘spingere, fare’ ha talora il sign. di ‘fare attenzione, badare’ come nell’espressione hocine agis an non ? ‘stai attento o no a quello (che ti dico)?’ (Terenzio, Andria).  Visto che si è tornati nell’ambito dell’ attenzione e della conoscenza, allora negli atti pubblici bisogna vedere piuttosto l’informazione ufficiale, il docu-mentu(m)’documento’ che etimologicamente vale ‘insegnamento, ammaestramento’ come del resto avviene per la parola omosemantica instrumentu(m) ‘strumento’ nel senso di ‘atto ufficiale’ dal lat. in-stru-ere ‘costruire, istruire’.   Anche il lat. acta ‘azioni, imprese, atti pubblici, resoconto, cronaca, giornale’ gronda, in casi specifici, del significato di ‘informazione’ e di ‘resoconto’.  Una notizia è sempre una presa d’atto di un avvenimento ma ciò non significa assolutamente che nel lat. acta uno dei due significati derivi metaforicamente dall’altro: semmai ambedue, compresenti nel termine, parallelamente tendono ad un significato comune originario, quello della tensione (dell’animo, della mente oppure del corpo).  Quando avevo già scritto questa nota ho scoperto (precedentemente la ignoravo!) l’espressione latina actum habere ‘approvare’ la quale conferma tutto quello che abbiamo osservato sulla radice. Il suo significato compare anche nel verbo gr. ág ‘spingere’, il quale ha quasi tutti i valori del corrispettivo verbo lat. ág-ere e, molto chiaramente, anche quello di ‘stimare, valutare, apprezzare, pesare’.  L’it. prendere atto ha finalmente trovato la sua pace almeno dentro di me!  Il sopra citato actum habere è una caratteristica costruzione latina che si allinea, ad esempio, con quella di compertum habere ‘conoscere bene’ ed altre, risultanti composte da voci del verbo habere ‘avere’ + un participio passato, che danno l’idea di un sicuro stato di fatto.  Esse hanno dato origine al nostro passato prossimo che in latino non esisteva come forma autonoma in quanto coincideva col passato remoto.

[21] Cfr. got.  *thikj-an‘prosperare’, ingl. thick ‘grosso’ cui si sarebbe aggiunto il pref. a(d)-.  Ma la spinta che sta dietro il concetto di “germogliare” e di “spuntare (delle corna)”  potrebbe essere la stessa che dà vita allo “ascoltare” e allora saremmo di fronte allo stesso verbo che si inserisce in coniugazioni diverse in italiano, quella in –ire o quella in –are, cosa molto più probabile.

[22] Non è vano esercizio mentale notare come ingl. heart ‘cuore’ assomigli a ingl. hard ‘duro, forte’ ma anche ‘fisso, intento’ come nell’espressione he looked hard to him ‘lo guardava intentamente’, a gr. krad-ía ‘cuore’ (con cui ufficialmente condivide la radice insieme al lat. cord-em ‘cuore’) e a gr. krát-os oppure kárt-os ‘forza’, concetto alla base di tutti gli altri.  Il lat. re-cord-ari ’ricordare’ ha anche l’altro significato, molto meno noto ed usato, di ‘pensare’.  Con quest’ultimo si è ad un passo da quello di ‘conoscere’, attività propria della mente.  La teoria della conoscenza platonica, detta della reminiscenza,  potrebbe aver tratto alimento, oltre che dalla credenza di Platone nel mondo effettivo e metafisico delle idee, di cui la nostra anima eterna si ricorderebbe sulla terra a contatto con le “brutte” copie di esse, anche da suggestioni che il filosofo poteva ricevere dai significati della radice di mi-mné-iscō ‘ricordare’ ma anche ‘pensare’, molto diffusa in greco, e rispondente al lat. ment-e(m) ‘mente, pensiero’. Non per nulla  Mnemò-sine che significava ‘memoria, pensiero’ era madre delle Muse, le dee protettrici di ogni manifestazione del pensiero, della scienza e dell’arte, benchè il filosofo finisse per condannate l’arte mimetica (imitazione della natura che a sua volta imitava le idee!) soprattutto, a mio avviso, per motivi moralistici, non coincidendo essa sempre con il Bene. 
Anche a me, che ho una qualche esperienza di latino, suona di primo acchito un po’ strano, ad esempio, il significato del lat. memoria(m) normalmente ‘memoria, ricordo’ ma anche talvolta ‘pensiero (di cose future)’ come nella espressione liviana memoria periculi che significa non ‘ricordo del pericolo’ ma ‘pensiero per il pericolo (avvenire)’.  Bisogna quindi rendersi conto una volta per sempre della estrema volatilità dei significati delle radici, la quale va ben oltre il gioco dei normali significati metaforici di un termine: il loro (delle radici) presentarsi a noi con uno o pochi significati fondamentali, incapsulati nelle parole di questa o quella lingua, è pura finzione! Questa mia visione del problema è vicina al cosiddetto decostruzionismo testuale del filosofo francese J.Derrida di origine ebraica (1930-2004).

[23] Questo fatto mi consente, ad esempio, di vedere sotto altra luce il lat. man-suet-u(m) ‘addomesticato, mansueto, tranquillo’ (da lat. man-sue-sco ‘addomesticare, ecc.’) il cui primo elemento non è, come tutti pensano, il lat. manu(m) ‘mano’, da cui la spiegazione  di ‘abituato (-suetus) alla mano (man-)’,  ma l’aggett. lat. arc. manus, a, um ‘buono’ che tautologicamente si affianca all’altra componente -suet-u(m).  Quest’ultima doveva avere lo stesso significato di ‘dolce’ dell’aggettivo ingl. sweet ‘dolce’.  L’aggettivo, molto significativamente, ha in inglese anche il senso di ‘abile, addestrato’ o anche ‘maneggevole’, in genere non registrato nei comuni vocabolari, ma nel Merriam-Webster sì: una espressione come ingl. sweet ship ben difficilmente riusciremmo a capire di primo acchito cosa voglia significare senza conoscere questo valore di ‘easily managed, maneggevole’ per ingl. sweet, valore che ci riconduce insieme all’altro di ‘abile, addestrato’, al lat. suet-u(m) o  con-suet-u(m) ‘solito, abituale’ i quali però non hanno compiuto in latino (meglio: nel latino così come noi lo conosciamo) il brevissimo passo che li separa dall’idea di “abile (perché pratico del mestiere)” e di “maneggevole, docile” che invece è presente nel termine inglese sweet  e, sottotraccia, nel lat. man-suet-u(m). Ma ancora più chiara risulta la cosa nel lat. man-suesc-ere ‘addomesticar(si)’ che ha anche il significato di ‘diventar dolce’(detto dell’acqua di mare, in Lucrezio): è molto più naturale pensare che dall’idea originaria di “dolce” riferita ai sapori il termine sia passato a significare quella di “mansueto, tranquillo” piuttosto che l’inverso, soprattutto tenendo presente il presunto sign. etimologico di mansuetu(m) e cioè ‘abituato alla mano’ che sarebbe proprio degli animali.  Il lat. immane(m) < *in-mane(m), con in- negativo, significa ‘feroce, crudele, barbaro, enorme, straordinario’ confermando per man-um il valore sottotraccia di ‘mansueto, docile, civile‘ e quello di ‘usuale, solito’ contrapposti a tutto ciò che è fuori della norma e della civiltà, e cioè ‘insolito, enorme, barbaro, straordinario’.  E’ molto probabile che anche il verbo lat. ut-i ‘usare, impiegare, essere in rapporto con, ecc.’ faccia parte di questa famiglia allargata (che comprende anche gli od-ori) in cui gli strumenti troppo sottili della linguistica tradizionale (adusa a sminuzzare, distinguere, separare, limitare e restringere) si spuntano e perdono la loro forza penetrativa e conoscitiva, rivelandosi del tutto inadeguati a capire una realtà così varia e mutevole come quella dei significati di una lingua, pronti a trascolorare  sotto i nostri occhi.  Mi pare che anche qui si mostri in azione un principio fondamentale dell’evoluzione biologica, che ha spinto gli esseri viventi verso le più disparate direzioni, senza nessun progetto, nessun disegno preordinato nella storia della vita, come invece alcuni, anche biologi, testardamente e talora pateticamente continuano a credere: i significati particolari delle parole non sono affatto impressi indelebilmente fin dall’inizio a caratteri di fuoco in ognuno dei numerosi significanti (involucri sonori) di cui l’uomo può fornirsi, ma sono mirabilmente aperti a qualsiasi forma di sviluppo e specializzazione interagendo con gli altri a seconda delle necessità espressive, compresa la possibilità negativa di atrofizzarsi e di estinguersi come è avvenuto a tante specie animali.  Il principio fondamentale è lo stesso che fa sì che le cellule staminali, di cui a ragione tanto si parla perché possono risolvere egregiamente tanti problemi di salute, siano chiamate totipotenti, cioè capaci di trasformarsi nei diversi tipi di cellule che costituiscono i tessuti del nostro corpo proprio perché ancora indifferenziate, allo stesso modo dell’unico e generico significato d’origine delle parole.  

[24] In latino anima(m) vale infatti ‘soffio vitale, fiato, respiro, vita, ecc.’. In greco ánemos vale ‘vento’.

(25) In un articolo del 1941, La dottrina cantiana nell'a priori alla luce della biologia contemporanea, l'etologo Konrad Lorenz evidenzia come gli a priori dell'individuo siano in realtà degli a posteriori della specie, cioè un prodotto dell'evoluzione umana.

(26) Cfr. vocabolario internet  www.chiauci.com/chiamasi3.htn