lunedì 19 aprile 2010

L'italiano "bidente" ovvero le insidie etimologiche. Raffronti con le rispettive voci abruzzesi e marsicane

Si può con certezza affermare, senza tema di smentite, che tutti gli etimologi spiegano senza difficoltà alcuna l’appellativo bi-dente, strumento notissimo a chi come me è vissuto in un piccolo paese di montagna dove si era quasi tutti contadini e/o pastori, risalendo al lat. bi-dente(m) ‘bidente (zappa a due denti)’. Eppure, frugando tra i dialetti abruzzesi, ho dovuto constatare che la storia del nome potrebbe essere del tutto diversa. A Pescina-Aq lo strumento è chiamato bili-dente. Nel Vocabolario Abruzzese di Domenico Bielli sono registrate diverse varianti come bel-dentebul-denteple-denteple-tente che costantemente esibiscono un primo membro diverso dal prefisso latino bi- (due, due volte). A Cerchio-Aq (cfr. Fiorenzo Amiconi, Tradizioni popolari marsicane: il dialetto cerchiese, Museo Civico, anno VII 2004, quad. 57 sub voce) la voce suona biu-dende, a Luco dei Marsi-Aq bié-dente oppure bio-dente (cfr. Giovanni Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006, p. 53), tutte trasformazioni regolari di un precedente *ble-dente o *blu-dente. Cosa può significare tutto ciò?

      La mia risposta è che, come in tanti altri casi, qui ci troviamo di fronte ad un originario composto tautologico di due membri. Non si può pensare ad uno sviluppo del termine a partire dal lat. bi-dente(m), con l'aggiunta ingiustificata della liquida -l-, per quanto riguarda il primo membro, data anche la costanza con cui essa appare nelle diverse parlate. La mia supposizione è, quindi, che questo membro sia costituito dalla stessa radice di ingl. bill ‘piccone, alabarda, ronca, becco, promontorio, punta’, ted. Beil ‘scure’ e che, all’origine, il *bil(i)dente fosse uno strumento ad una sola punta, non importa se triangolare come quella di una marra, ad esempio, o assottigliata come quella di un piccone. E certamente non si può escludere che il concetto di 'punta' che la parola portava con sè provenisse dal Neolitico o anche dal Paleolitico, naturalmente in riferimento a strumenti con punta di pietra . Quando questo termine dell'antico strumento si incrociò con quello relativo al nuovo strumento a due punte, inventato successivamente nel tempo, esso si riciclò, per così dire, adattandosi con una leggera modifica formale (ma abbiamo visto che in molte parlate non fu necessario, forse per l'assenza nel loro lessico della particella latina bi- portata dalla latinizzazione) a designare esclusivamente il nuovo e letterale bi-dente. Del resto anche il piccone, benchè sia munito di due punte, una delle quali appiattita a forma di zappa molto stretta, porta un nome che designa, nella forma accrescitiva, solo il concetto di 'punta'. Ma il bello è che in latino esiste anche il termine bi-palium 'vanga'  che, secondo il significato di superficie, dovrebbe indicare una 'doppia vanga', cioè uno strumento per dissodare dotato  di due lame a punta, cosa del tutto irreale per una vanga: è quindi gioco forza dedurre che il bi-  iniziale derivasse da un precedente bili- come abbiamo visto per lat. bi-dent-e(m) 'bidente', e che il composto bi-palium indicasse tautologicamente l'unica lama della vanga.

    Ci tengo a ribadire che anche in questi casi opera il principio saussuriano che stabilisce che, contrariamente alla falsa idea che noi facilmente ce ne facciamo, una lingua non è un organismo creato ed ordinato in vista dei concetti da esprimere. In altri termini la parola bi-dente circolava molto tempo prima che assumesse in latino il significato specializzato di '(strumento) a due denti'. D'altronde la lingua rimane spesso legata al passato come nel caso di it. penna, lo strumento usato per scrivere, che da qualche secolo non è più formato da una penna d'oca e che probabilmente continuerà ad essere chiamato così anche quando, nei secoli futuri, dovesse assumere altre forme ed essere costituito di materiali completamente diversi da quelli attuali, ammesso che il suo uso non sia destinato a scomparire. Con questo si conferma il fatto che generalmente i nomi non indicano funzioni o caratteristiche particolari di un referente, ma piuttosto la sua natura essenziale e profonda, che, nel caso del bidente, non sarebbe il suo significato d'arrivo che pone l'accento sui due denti, ma il significato di partenza che indicava uno strumento a punta. Qualcuno potrebbe obbiettare che tra i dialetti italiani non si incontra una radice per 'bidente' simile a ingl. bill. Effettivamente io non so se sia così (nessuno è andato a frugare per bene in ciascuna parlata di ogni più isolato villaggio, ed è un vero peccato), ma so che si incontra, ad esempio, la voce ligure bel-ìn ‘membro virile’ appartenente alla numerosa famiglia di *bill/*bell tra i cui significati si annovera quello di ‘birillo’ (cfr. Cortelazzo-Marcato, I Dialetti Italiani, UTET, Torino, 1998, sub voce). Se ciò non bastasse si possono elencare i numerosi toponimi composti dalla stessa radice come Bel-monte del SannioBel-monte CalabroMonte-bello sul Sangro-Ch ecc. che, come i linguisti sanno, non presuppongono all’origine un giudizio estetico sul 'monte' relativo, ma una radice preistorica bal/bel per ‘monte’, concetto che solitamente copre, in quanto ‘protuberanza’, anche quello per ‘membro virile’ come nel succitato bel-ìn e nel siciliano minchia da lat. ment-ula(m) 'membro virile', uguale a lat. ment-u(m) ‘mento’, variante di lat. mont-e(m) ‘monte’. 

     Sulla stessa scia dei composti tautologici credo vada collocato l'interessante vocabolo greco (Il. XXIII851883) hemi-pélekk-on 'scure ad un solo taglio' da Omero contrapposto, in questi versi, al termine pélek-ys 'scure a doppio taglio' che però, normalmente, designava anche la 'scure ad un taglio, accetta'. Secondo il mio modo di vedere le cose anche la voce hemi-pélekk-on, letteralmente 'mezza (hemi-) scure (-pélekk-on)', è partita col significato di 'scure' in ambo i membri. Il primo membro hemi-, da *semi(cfr. lat. semi- 'mezzo)che all'origine doveva essere variante della radice di gr. smi-le 'coltellino, trincetto, roncola' e di grsmi-nye 'bidente, zappa', si è prestato, col suo significato (acquisito strada facendo) di 'mezzo, metà', a specializzare il significato generico dell'altro membro -pélekkos, simile a pélek-ys 'scure' e a pélyk-s 'scure', in quello di 'scure a doppio taglio'. Così, anche in questo caso, vediamo in azione l'importantissimo principio saussuriano sopra ricordato.

     Per quanto riguarda il significato di semi 'mezzo' c'è da osservare che esso molto probabilmente si è sviluppato da quello di 'taglio' e di 'cosa tagliata, scheggia', il quale a sua volta sarà trapassato da quello di 'pezzo (risultante da un taglio)' all'altro di 'pezzo (risultante da un taglio a metà), metà'. I diversi termini inglesi relativi a questi strumenti a punta o taglio seguono le stesse linee tautologiche di cui sopra. Il pick-ax(e) 'piccone' è composto da pick 'piccone, piccozza, martellina' e da ax(e) 'ascia, scure'. Attenti a non lasciarsi ingannare da una spiegazione simile a 'ascia a punta, a forma di piccone' come si è portati a fare per tutti i composti di questa lingua che hanno subito un processo di adattamento allo schema determinante-determinato sovrappostosi, secondo me, a quello preistorico tautologico . Il termine  prong-hoe 'bidente' è compost da prong- ' bidente, forca, tridente, dente, rebbio (il che conferma che non è il numero dei denti a determinare il nome dello strumento, ma la sua idea primordiale di 'punta')' e da hoe' zappa', legata al verbo to hew 'tagliare, fare a pezzi, fendere' che presuppone l'azione di una 'punta' (cfr. ted. hau-er 'zappatore, zanna, coltello da caccia', tra altri significati) o di una 'lama tagliente'. L'inglese ha ereditato dal lat. furca(m) 'forca' il termine fork' forchetta, forca, forcone'. Pare che il latino lo abbia preso dal gr. fork-s 'palo', attestato solo al pl. fork-es (cfrAaVv. Popoli e Civiltà dell'Italia antica, volVI, Biblioteca di Storia Patria, Roma, 1978, pp. 493-494). L'ingl. pitch-fork 'forcone' sembra un composto costruito apposta per indicare lo strumento adatto a gettare il fieno nel carro per trasportarlo alla stalla (cfr. l'espressione to pitchfork hay 'caricare fieno (nel carro)' ma se andiamo a cercare l'etimo di to pitch, che ha molti significati tra cui quello di 'gettare' e l'arcaico 'piantare e fissare', ritroviamo il pick del sopra citato pick-ax(e) 'piccone'. Quando però l'inglese prese fork 'forconeforca' dal latino furca(m) l'epoca preistorica dei composti tautologici era passata da un pezzo, e così il composto suddetto dovette formarsi in ottemperanza alla nuova norma determinante-determinato regolatrice dei composti, che sfruttava la specializzazione  dei significati di ciascuno dei due membri originariamente tautologici intervenuta a causa del loro incrocio con parole di altro significato: in questo caso il composto perciò passava a significare 'forca per gettare (pitch-) fieno nel carro'. A meno che la voce fork non esistesse già in inglese indipendentemente dal latino: un indizio, per quanto labile, è costituito dal ted. Furche 'solco' corrispondete al lat. porca(m) 'rialzo di terra tra solco e solco'. Ora, data la intercambiabilità sopra evidenziata del concetto di 'punta' e quello di 'protuberanza, rialzo, monte' potrebbe esserci in effetti la possibilità, almeno in linea teorica, che il fork inglese fosse preesistente all'arrivo del latino. 

     Moltissimi termini composti delle lingue germaniche, provenendo dalla preistoria, rivelano nel fondo, se ripuliti dall'incrostazione superficiale, il meccanismo tautologico originario. Se prendiamo, ad esempio, l'ingl. black-smith ' fabbro' mi suona poco convincente la spiegazione corrente del termine, secondo la quale il primo membro black- rimanderebbe al ferro, il cosiddetto black metal 'metallo nero', che sarebbe così chiamato dalla patina di ossidi che ricopre il ferro quando viene surriscaldato nella forgia. Prima di tutto essa è di colore rosso o porpora, e poi è poco credibile sostenere, piuttosto artificiosamente, che black-smith sarebbe da intendere come 'colui che lavora quel metallo che, quando viene surriscaldato, si ricopre di tale strato di ossidi': mi viene da dire che non ci crederei nemmeno se fosse vero. E in effetti esiste in inglese una radice simile a black 'nero' che ha però lo stesso significato del secondo membro smith 'fabbro' (dal verbo to smite 'colpire'), probabilmente imparentata con la radice smisopra analizzata a proposito di gr. hemi-pélekk-on 'scure'. Essa corrisponde a quella di ingl. to blow 'colpire' il quale presenta varianti come il medio inglese dialettale blaw 'colpo', a. ingl. blaw-an 'colpire'a. norreno bleg-thi 'cuneo', gotico bligw-an 'battere, picchiare'. La forma blaw rimanda quindi, a mio parere, a un precedente *blag (cfr. medio oland. blak-en 'colpire, agitare')quasi uguale black-, e variante di lat. plaga(m) 'percossaferita' da una radice plag/plak attiva anche in greco e rappresentata in area germanica almeno dall'ingl. dial. flack 'colpobattito' (che non vedo perchè dovrebbe essere di origine imitativa come vuole il vocabolario Webster), dal ted. flack-en ' battere la lana, aprire spaccando', ingl. flay< *flag 'scorticare, battere, frustare, criticare aspramente'. E non esisteva nemmeno la necessità, per indicare il 'fabbro', di ricorrere al black riferito al supposto 'metallo con la patina...', dato che il solo smith già aveva, ed ha ancora, il significato di 'fabbro'. Inoltre è probabile che la radice in questione si ripresenti nel ted. bleck-en, usato in espressioni come Die Zunge bleck-en 'cacciar fuori la lingua (Zunge)', dove esso si configura come uno 'spingere (fuori)', concetto molto simile a quello di 'battere' e riconfermato nel ted. Bleck-zahn 'dente (-zahn) sporgente(Bleck-)'. Il significato di 'mostrare' come nell'espressione Die zaehne bleck-en 'mostrare i denti' deve essere derivato da quello di 'sporgere' come nel lat. os-tendere' protendere, esporre, mostrare' e come in tutti gli altri nomi e verbi che in latino indicano un 'evento eccezionale, fenomeno' quali por-tentu(m) por-tend-ere 'presentare' , os-tentu(m) ed os-tendere 'protendere', prod-igiu(m) prod-ig-are 'spingere avanti' sicchè mi parrebbe quasi un torto accostare il lat. mon-stru(m) 'prodigiomostro' mon-strare alla radice men di latmente(m) 'mente' e mon-ere 'ammonirericordare (da parte della divinità, come volevano gli antichi)': a mio avviso si tratta dell'altra radice men 'sporgere' di monte(m) 'monte' mentu(m) sopra citati, radice che, tuttavia, come indica il 'movimento (spinta) verso qualche direzione' che può concretizzarsi in una sporgenza, così può concretizzarsi nel movimento della mente o del pensiero oppure direttamente nella mente o nello spirito, come nel ted. Mann 'uomo': il soffio dello spirito può anche animare l'universo intero come fa il mana, la forza soprannaturale impersonale dei polinesiani, e Manitu, forza soprannaturale, personificata o impersonale, degli algonchini dell'America del nord. Il soffio si trasforma in una furia tempestosa nel grmain-o, main-o-mai 'rendere (oppure essere) furente, pazzo, ubbriaco, invasato' . 

     Anche in latino, per il concetto di 'pensare', si incontra un verbo per così dire di movimento, azione come cogit-are 'pensare', da lat. co-agit-are 'mescolare agitando'. Si noti che anche lat. ag-it-are è frequentativo di ag-ere 'spingere, fare'. L'elemento -str-um di mon-str-um credo corrisponda alla radice ster, la stessa della grande famiglia di lat. stern-ere 'stendere, abbattere' che dovrebbe essere qui tautologica rispetto a mon- 'sporgere'. In altri termini il concetto di 'apparire' e 'far apparire, mostrare' verrebbe nella fattispecie ottenuto attraverso quello di 'tender(si), protender(si), presentar(si)'. Ma le stesse radici si prestavano ad indicare un 'presagio, preannuncio' in quanto ciò che si pro-tende può trasformarsi in una 'indicazione, saggio, anticipo, avvertimento, avvisaglia, cenno, presentimento, pre-monizione' di ciò che in futuro potrà avere pieno compimento. In questo senso, e per la radice stersi tenga presente il lat. str-ena 'presagio, augurio, segno' ma anche 'strenna, dono augurale', concetto che può essersi sviluppato da quello di '(s)porgere, dare': cfr. la voce strine ' strenna, legumi cotti che i ragazzi van chiedendo la mattina del capo d'anno' nel Vocabolario Abruzzese di Domenico Bielli. Infine ritorno all'espressione black metal 'ferro' per osservare che essa si spiegherebbe più agevolmente se la si intendesse come *blag's metal nel senso di 'metallo del fabbro(*blag)'. Tutto tornerebbe così al proprio posto.





sabato 17 aprile 2010

L'italiano "folla" ovvero la genericità dei significati profondi

L’appellativo italiano folla ( port. fula, fr. foule) dai linguisti contemporanei viene riportato in genere alla radice del verbo follare i cui significati, secondo il vocabolario Devoto-Oli, sono: 1) pestare o pigiare (riferito al panno o all’uva). Oggi, sottoporre a follatura. 2) arc. premere da presso, incalzare. Si suppone all’origine di esso il verbo *full-are ‘premere, pigiare’ corrispondente al lat. fullo,-onis ‘lavandaio’, il quale, dopo aver pigiati i panni in un bacino pieno d’acqua e di sostanze sgrassanti, li batteva con l’ausilio della pressa per rassodarli e infeltrirli. La folla, pertanto, non sarebbe altro che una ‘calca’, un insieme di persone che si pigiano o pressano.L’idea di ‘premere’ si ritrova nel lat. fulc-ire ‘puntellare, sostenere, calcare, premere’ che mi pare ampliamento della radice precedente.
Ottorino Pianigiani, nel suo dizionario etimologico (1907), oltre a questa etimologia ne presenta una seconda di alcuni linguisti, i quali si appoggiano, nel sostenere le loro tesi, ai molti termini germanici di cui fa parte l’ingl. full ‘pieno’, intendendo così la folla come un ‘pieno’ di persone. Questa etimologia è stata abbandonata forse anche perchè la fricativa labiale sorda (f-) in germanico dovrebbe corrispondere a una occlusiva labiale sorda (p-) in latino secondo gli schemi canonici di ricostruzione dell’indoeuropeo comune, ma nell’articolo Etimologia di finestra abbiamo visto che si incontrano nei nostri dialetti forme parallele tra loro equivalenti, con l’una e con l’altra consonante. Allora, a mio avviso, il problema è di riflettere sui significati delle due radici, quella che rimanda alla pressione e quella che indica la pienezza, per vedere se per caso esse non possano essere considerate semplici varianti che non esigono una netta separazione tra di loro.
Nel vocabolario abruzzese di Domenico Bielli si incontra, sotto la voce fólle ‘folla’, anche l’espressione A la fólle de lu mezzeggiorne ‘in pieno mezzoggiorno’. Ora, cercare di spiegare questo significato del termine fólle partendo semplicemente da quello di it. ‘folla’, ‘gran quantità’ credo che non produrrebbe alcunchè, come pure se si partisse da quello di ‘pressione’ della radice di lat. *full-are (cfr. sp. volgare foll-ar ‘scopare’). Resta allora la possibilità che la radice sia effettivamente la stessa di ingl. full ‘pieno’. Ma è proprio indispensabile, poi, ritenere che l’idea di ‘pienezza’ sia inconciliabile con quella di it. ‘folla’ e con il significato della radice che ha portato all’it. folla , cioè la ‘pressione’? Un recipiente si dice pieno quando è occupato interamente da qualcosa, allorchè si può dire che sia sotto la massima pressione di un oggetto o di oggetti che a loro volta riempiono il recipiente premendo contro di esso e tra loro stessi. A me pare che sia sempre questa idea di pressione ad operare sotto il lat. ple-nu(m) ‘pieno, gravido, grosso, grasso, pesante, ecc.’, parente stretto di gr. plé-r-es ‘pieno’, lat. plu-r-es ‘più numerosi’, gr. pol-ýs, aggettivo dai molti significati diramantisi tutti, in sostanza, da quello di ‘forza’. Esso infatti significa ‘molto, ampio, largo, esteso, lungo, grande, alto, forte,violento, veemente’. L’it. folla, allora, può non derivare direttamente dal verbo *full-are ‘premere’ ma da un'idea di ‘moltitudine’ nascosta sotto la radice, come è naturale, la quale, comunque, scaturisce sempre dall’idea di ‘forza, pressione, grandezza, grossezza, estensione, quantità, ecc.’ da cui può generarsi a sua volta quella di ‘massa, mucchio, folla’. Per non lasciarsi prendere e confondere dal solo significato di ‘premere’ espresso dal lat. *full-are e per aprire gli occhi sulla multiforme dinamica dei significati, è utile considerare il significato del dialettale foll-àrese (a Luco dei Marsi-Aq) ‘ avventarsi, gettarsi addosso, correre con foga verso una persona’ (cfr. Giovanni Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006) o del trasaccano fell-àsse, foll-àsse ‘ azzuffarsi, gettarsi in una mischia, affollarsi, aggredire’ (cfr. Quirino Lucarelli, citato più sotto). I significati dei due verbi sono una specializzazione di un concetto più generale che indica un movimento (violento) verso qualcuno o qualcosa, diverso da quello compiuto dal follatore che pesta i panni, anche se espresso dalla stessa radice. Una conferma del significato dei due verbi ci è fornita dallo sp. foll-ón ‘tumulto, disordine, confusione’.
Se l’espressione abruzzese sopra citata non dovesse bastare per sostenere il valore di ‘intensità’, di ‘forza’ e di ‘pienezza’ giacente sotto quello di ‘fólle (de lu mezzeggiorne)’, chiederemo aiuto all’altra parola abruzzese, sempre presente nel vocab. del Bielli, che suona fóte ‘piena del fiume, del torrente’ e che corrisponde all’it. ‘folto, fitto’ come attestano le altre tre voci abruzzesi fóte, fóvete, fólde dello stesso significato di ‘folto’. Nel mio dialetto di Aielli si incontra l’unica forma fútë. La liquida -l- in questi casi può cadere come in abruzz. vòta ‘volta’, o trasformarsi in –u- oppure –v- come in abruzz. áutre ‘altro’(aiellese átrë), aiellese ávëtë ‘alto’. L’it. folto viene normalmente fatto risalire al participio aggettivo fultu(m) del verbo sopra citato fulc-ire col sign. di ‘puntellare, premere’. Il significato di ‘denso, fitto’ non è attestato in latino, ma doveva già esistere in qualche parlata dialettale: è difficile sostenere che esso si sia sviluppato nel medioevo dal significato già specializzato di ‘puntellato, premuto’. La somiglianza con il danese fuld ‘pieno’ (ampliamento di ingl. full ‘pieno’) è perfetta. A me pare, quindi, che l’abruzz. fóte <*folde ‘piena’ sia un ampliamento della radice di abruzz. fólle ‘pienezza (del mezzoggiorno)’, di got. fullo ‘abbondanza, piena, moltitudine’. Ma la coincidenza fra il termine abruzzese fóte e quelli germanici relativi ritorna ancora per i significati di ‘bottaccio, cavità, piccolo bacino di raccolta delle acque di un mulino’ di abruzz. fóte (cfr. aiellese -fóta dallo stesso significato) e per il significato affine di ‘cavità del terreno, avvallamento’ di ingl. fold ‘piega, cavità, avvallamento del terreno’, ma anche ‘ovile’ attraverso l’idea di ‘cavità, recinto, stalla’.
Curioso il fatto che anche l’it. fitto ‘pieno, zeppo, denso, ecc.’ derivi dal lat. fictu(m) ‘conficcato, impresso’ dal verbo fig-ere ‘conficcare, ecc.’. Nei nostri dialetti fittë vale in genere ‘fermo, quieto’, significato ben ricavabile dall’altro participio di fig-ere, cioè fixu(m) ‘fisso, conficcato’. Ma a Trasacco-Aq la voce fitta (cfr. Quirino Lucarelli, Biabbà F-P, Centro Studi Marsicani, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2002, sub voce), oltre ad avere lo stesso significato del corrispondente termine italiano fitta ’dolore intenso ed improvviso’ ha anche il valore, per la verità presente anch’esso in italiano, di ‘folla, gran numero (di cose o persone)’. Come può essersi originato questo significato? Mi viene in soccorso la parola sfilza, filza che non pare, comunque, etimologicamente legata al verbo fig-ere ‘conficcare’, ma mi fornisce l’idea di una serie o gran numero di oggetti composti di molti elementi addossati gli uni agli altri. E in effetti l’aggettivo "fitto" si riferisce spesso a elementi stretti gli uni agli altri, come i soldati che formano una schiera o i pali piantati a formare una palizzata. C’è dietro sempre un’idea di ‘spinta, pressione’ ma non diretta verso il suolo per conficcarvisi come nel caso dei pali, bensì di ogni elemento verso altri elementi, sì da formare una struttura compatta, una massa, una folla. Ho usato l’aggett. compatto perchè esso richiama anche il termine compagine, l’unione stretta di più elementi per formare un organismo complesso. Il verbo latino com-pingere ‘ mettere insieme, unire, costruire, spingere dentro,comporre’ richiama il verbo pang-ere che da solo, senza il prefisso com- ‘con’, significa ugualmente ‘comporre’ anche se solo nel senso di ‘scrivere’ opere letterarie, oltre a significare ‘conficcare, piantare’. Anche i sopra citati verbi dialettali follàrese, follàsse ‘scagliarsi addosso a qualcuno’ possono rientrare in questa dinamica dell’aggregarsi, dell’unirsi, dell’ammassarsi se solo si elimina dal loro significato l’elemento della violenza: allora lo ‘scagliarsi addosso’ diventerebbe un placido ’addossarsi’ per formare una compagine o un insieme. Il termine citato filza, considerato di etimo incerto, potrebbe anch'esso chiamare in causa l'a. ingl. ge-fylce 'banda, masnada, truppa, esercito', l'a. norreno fylki 'banda', ambedue legati alla radice di ingl. folk 'gente' di cui parlo più sotto. La presenza di aiellese 'mbelàcce (da *infilacce) 'filza' e di abruzzese 'mbiveze 'filza' (da *(in)filza) mi offre la possibilità di sostenere che queste siano forme parallele di it. filza provenienti da un precedente *(in)filacia simile all'it. filaccia 'filo o insieme di fili che si sfilacciano'. Alla sua origine io pongo un composto tautologico il cui secondo membro è pari pari il lat. acia(m) 'filo' e pertanto non condivido la sua derivazione dal solo lat. *filacea(m), da filu(m) 'filo'. Tutto questo basta a render conto del significato di 'filo' del termine ma non spiega quello di 'filza, serto'. Il quale potrebbe, comunque, risalire alla radice dei termini germanici suddetti. E probabilmente *filacia sarà passato, in qualche parlata, a *filcia>filza per intervenuto spostamento dell'accento tonico sulla sillaba iniziale, fenomeno che in antico interessò molte lingue, riscontrabile anche nella parola aiellese-abruzzese òbbeche 'bacìo, ombroso, esposto a nord', da lat. opacu(m).
Sull’onda di quanto ho detto credo possa risultare meno indigesto, per gli stomaci di coloro che sono abituati a cibarsi dei prodotti della tradizionale scienza etimologica, interpretare in maniera insolita il modo di dire Far ridere i polli ‘essere assolutamente ridicolo’. Cosa c’entrano qui questi volatili che potrebbero, d’altronde, essere sostituiti da qualsiasi altro animale, in specie quelli il cui verso assomiglia effettivamente ad una sguaiata risata come quello delle iene? Anche qui si può sperare di arrivare all’origine dell’espressione solo se si va al di là dei significati superficiali e si rintraccia qualche probabile parola più consona al significato di tutta l’espressione. Non si può accettare, come spiegazione, il ragionamento tutto cerebrale secondo cui uno fa ridere i polli quando è talmente ridicolo da muovere il riso finanche dei ‘polli’ che per natura non possono ridere, come del resto tutti gli altri animali. Tutto potrebbe essere molto più semplice se fermassimo l’attenzione su una espressione greca che suona hoi poll-oí 'la maggior parte, moltitudine, gente, popolo’ (nomin. pl. dell’aggett. pronome pol-ýs ‘molto, grande, forte, potente, ecc.’ sopra citato per la spiegazione di it. folla). L’espressione in origine quindi, a mio parere, voleva semplicemente dire Far ridere la gente.
Quando si filo da torcere ad una persona significa che essa affronterà, a causa nostra, molte e gravose difficoltà nel raggiungimento di qualche obbiettivo. Anche qui mi sembra che ci sia uno iato tra la lettera dell’espressione e il suo significato. Torcere della lana, del lino o cotone per farne dei fili non mi pare che sia un lavoro scelto bene a rendere l’idea di ‘enorme difficoltà’. In effetti ci sarebbero molte altre attività più adatte a rendere il senso di pena e sudore di chi le svolge: il tessere stesso dovrebbe essere più impegnativo dello strappare fiocchi di lana dalla rocca per trasformarli in filo con l’aiuto del fuso! Per questo, ma non solo, sarei dell’idea di cercare sotto il termine ‘filo’ una voce germanica come il got. filu ‘molto’, ted. viel ‘molto’. Se è vero, come mi pare di aver ben mostrato sopra, che in antico circolavano sul suolo italico parole come le abruzzesi fólle e fóte< *folde , strettamente legate ai rispettivi termini germanici, non vedo il motivo per cui si debba negare il permesso di soggiorno in Italia anche a quest’altra variante. Così il significato originario dell’espressione sarebbe Dare molto da torcer(si) nel senso di ‘dare molto da tormentarsi, agitarsi, arrovellarsi, ecc.’. In latino torquere ha appunto anche il valore di ‘tomentare, angustiare, affliggere’. Se questo è il caso, la particella riflessiva –si , presente nella frase originaria, è naturalmente scomparsa quando è intervenuto l’incrocio della voce corrispondente a germanico filu ‘molto’ col lat. filu(m) ‘filo’, che ha costretto il verbo ad assumere la forma transitiva.
Di radici germaniche se ne incontrano con una certa frequenza nei nostri dialetti e a mio avviso bisogna pensare che esse non risalgano sempre al periodo medioevale, portate da qualche popolo barbarico, ma ad epoche preistoriche. Una voce ricorrente in Abruzzo è quella del verbo fioccá, fioccárse, fioccásse ‘lanciare, lanciarsi, aggredire’. Questo significato non può, a mio parere, essersi sviluppato da quello di fioccá ‘fioccare, nevicare’. La caduta di un fiocco di neve o di lana è caratteristicamente lenta e oscillante e non può aver prodotto il significato di ‘avventarsi’ spesso riferito anche ai cani o solo ai cani in alcune parlate locali (cfr. il vocab. del Bielli). Anche in questo caso io penso che l’etimo di questo verbo debba essere comparato con quello di ted. flieg-en ‘volare, muoversi rapidamente’, imparentato con l’a.a.ted. fliog-an ‘volare’.
La fiètta o fiètte è una 'treccia, filza' come quella di fichi secchi o di sorbe, ma in alcuni paesi come Aielli essa è (era) una salsiccia ripiegata ad arte in modo da poter essere inserita, insieme ad altre, in una pertica che solitamente si stendeva, sostenuta orizzontalmente da due appositi ganci alle estremità, al di sotto del soffitto della cucina. In alcuni casi essa presenta la forma flette (cfr. vocab. del Bielli), l’esatto corrispettivo del ted. Flechte ‘treccia’ e variante di lat. plecta ‘ghirlanda’(termine architettonico). La palatalizzazione della liquida –l- è un fenomeno diffusissimo nei nostri dialetti e di origine antichissima (cfr. aiellese jjójje ‘loglio’ dal lat. loliu(m), cavàjjë ‘cavallo’, centëpéjë ‘centopelle’, ecc.). Che la voce fosse radicata nel dialetto lo dimostra anche il lemma fijétte, spiegato dal Bielli con un esempio: Ena fijétte tra acqu’ e vvine ‘E’ un dappoco, un melenso’ . L’etimo di fijétte deve essere allora lo stesso di fiètta, fiètte, cioè un ‘intreccio’, un incrocio, e quindi, nella frase in questione, un miscuglio tra vino e acqua che icasticamente allude ad un tipo umano insulso o scipito. Ma si tratta veramente di parole di origine germanica? Il fatto che in latino si incontra il verbo flect-ere ‘flettere, piegare’, forma parallela a plect-ere ‘intrecciare’ e connessa con lat. plic-are ‘piegare’ nonchè col gr. plék ‘piegare’, e che nell’espressione abruzzese precedente si ha un significato piuttosto particolare (miscuglio) della radice mi spinge a credere che si possa trattare di forme che circolavano sul nostro territorio fin dalla preistoria. Oggi troveremmo difficoltà ad usare un’espressione come Una treccia tra acqua e vino, nel caso in cui avessimo tratto di peso e da poco tempo il termine Flechte ‘treccia’ da qualche lingua germanica.
Leggo, nel vocabolario di Tullio De Mauro, il lemma fiocca ‘fiocco di neve, grande quantità di cose o persone’ e mi viene in effetti il dubbio che questo termine obsoleto, che allarga di molto i suoi confini rispetto al ‘fiocco di neve’, non me la racconta giusta, e che dietro di esso ci possa essere qualcos’altro. Infatti, se riflettiamo sul referente di lat. floccu(m) ‘fiocco di lana’ ci accorgiamo che esso, il fiocco, è formato da un intrico di peli, da un batuffolo, una massa di piccoli filamenti di lana, insomma; e allora, molto probabilmente, alla base del vocabolo, deve esserci proprio questo concetto di ‘quantità, massa, insieme, mucchio, grumo, globo, gomitolo, agglomeramento, moltitudine, ecc.’ che si ritrova nell’ingl. flock ‘gregge, stormo, folla’ della stessa struttura dell’ingl. folk ‘gente’(legato a ingl. full ‘pieno’ e all’it. folla), sua probabilissima variante metatetica e, verosimilmente, nell’italiano bioccolo. In tedesco e inglese esiste anche flock ‘fiocco’ che però i linguisti non mettono in rapporto col lat. floccu(m) perchè la cosa non rispetterebbe gli schemi da loro elaborati per quanto attiene al gioco consonantico p/f che pure, come abbiamo già ricordato, subisce frequenti trasgressioni. L’it. bioccolo presuppone una forma *blocc-ulu(m), a mio avviso allotropo di flocc-ulu(m) e imparentata con il termine it. blocco (nel senso di massa, gruppo), provenuto successivamente dall’area germanica attraverso il francese. Proporre un incrocio tra fiocco e tardo lat. buccula(m) ’boccolo, ricciolo’, come vogliono alcuni, non mi pare accettabile anche perchè un “bioccolo” non è precisamente un “boccolo”, lungo ricciolo a spirale. Siamo tornati così al concetto e alla radice di ‘folla’, ‘massa’ da cui eravamo partiti. Il cerchio si è chiuso. Speriamo che le nostre menti si aprano, invece (senza offesa per nessuno).

giovedì 8 aprile 2010

Il vocabolo abruzzese "befùlge" 'bifolco, bue, gufo, questuante'

Il termine bëfùlgë (cfr. nel dizionario abruzzese del Bielli le varianti befùce, befòce, befùleche, befùlge, bufòce) merita attenzione per i suoi diversi significati, e perchè costituisce certamente un cospicuo esempio della stupenda stratificazione linguistica avvenuta attraverso i millenni. Il termine l’ho tratto da un dizionarietto approntato da Fiorenzo Amiconi, ricercatore indefesso di tradizioni cerchiesi e marsicane (cfr. Fiorenzo Amiconi, Tradizioni popolari marsicane: il dialetto cerchiese, anno VII 2004, quaderno 57. Museo civico di Cerchio-Aq). L'Amiconi trae a sua volta i significati di 'bifolco, bue, gufo' del vocabolo dal Saggio di uno studio sul dialetto abruzzese di Giovanni Pansa, Arnoldo Forni Editore,1977, ristampa dell'edizione di Lanciano del 1885, p. 11. Il significato di 'questuante' è invece proprio del dialetto di Cerchio.
La parola, come mostrano i quattro significati appartenenti ad aree semantiche molto diverse tra loro, non può fare i conti col solo latino bubulcu(m) ‘bifolco, bovaro’ attraverso la variante rustica *bufulcu(m), ma deve essersi incrociato con altri vocaboli di strati linguistici anche molto più lontani nel tempo. A me pare chiaro che i significati di ‘bue’ e ‘gufo’, contenendo il concetto di fondo di ‘animale’ secondo la mia teoria linguistica, presuppongono un termine composto di due membri tautologici del tipo *bub-ulcu(m). Il primo deve appartenere all’area semantica di ‘bue’ (cfr. lat. bos, bov-is 'bue' ) incrociatasi con quella di lat. bubo,-onis ‘gufo’, tosc. bufo ‘gufo’, lat. bufo,-onis ‘rospo’; il secondo mi pare la copia quasi perfetta di latino tardo ul(u)cus, ul(u)ccus ‘uccello notturno, allocco’. Nel vocabolario del Bielli si incontra anche la forma bufùce 'specie di gufo' da riallacciare alla parola bifolco. Molto interessante è l'appellativo omerico hélik-es riferito formularmente ai buoi. I linguisti in questo caso si trovano completamente in balia delle onde senza una bussola che li guidi e si sforzano pertanto di trarre un senso più o meno accettabile dalla radice dal significato di 'avvolgente, a spirale', e così alcuni propongono l'interpretazione di 'tondi, pingui, lucidi', altri di 'dalle corna ritorte', altri di 'dai curvi piedi', altri ancora 'dall'andatura avvolgente'. La mia idea che si tratti, invece, di una variante della radice di latino tardo ulucu(m) 'uccello notturno' dalla stessa struttura consonantica e inserita nel composto abruzzese bef-ùlge 'bue', potrebbe al limite anche essere falsa, ma di sicuro essa segue linee teoriche che mi paiono funzionare. Si trattava quindi di un antico vocabolo per 'buoi' finito col diventare già in Omero un apparente, inspiegabile o artificiosamente spiegabile aggettivo. Nel canto XXIII dell'Iliade l'aggettivo si incontra insieme con un altro che indica apparentemente i 'piedi' dei buoi. L'emistichio finale del v. 166, infatti, suona eili-podas helikas bus e viene solitamente tradotto 'buoi dai piedi e (dalle corna) ricurve'. La forma eili-podas risulta un accorciamento di eliko-podas 'dai piedi (-podas) ricurvi (eliko-)' e per me si tratta sempre dello stesso concetto di 'bue' ricucinato in diverse forme diventate aggettivi e trascinatesi tradizionalmente come attributi, per così dire fissi e formulari, di questi animali. Che l'elemento -pod-as, acc. pl., originariamente fosse altro nome o reinterpretazione di altro nome per 'bue' lo suggerisce il greco moderno bodi 'bue'. Per la radice eliko- è utile un confronto col ted. Elch 'alce', grosso quadrupede con corna palmate, diffuso nelle regioni fredde dell'emisfero boreale, l'a. alto ted. elaho 'alce', sved. elg 'alce', lat. alces 'alce'. Il problema si complica con gli altri due significati di ‘bifolco’ e ‘questuante’ . Per il primo ci potremmo accontentare dell’etimo vulgato che insiste su un primo elemento bu- rispondente al lat. bos, bov-is ‘bue’, e su un secondo elemento variamente proposto (fatto risalire in genere al greco) e interpretato come ‘custode, incitatore (di buoi)’. Io, tenendo sott’occhio anche l’altro significato di ‘questuante che la mattina della festa religiosa va alla ricerca delle ultime offerte in denaro con un fazzoletto annodato ai quattro angoli’ individuerei in bi-folco una seconda costituente da avvicinare alla radice del lat. fulc-ire ‘puntellare, sostenere’ ma anche ‘calcare, premere’, verbo che quindi evidenzia un significato di fondo come ‘premere, urgere, incalzare, spingere’: quale altro significato potrebbe essere più appropriato di questo, senza che si debba scomodare il greco, per designare il ‘bifolco’, l’aratore che incita i buoi innanzi a sè, e nel contempo il ‘questuante’ la cui funzione è esattamente la medesima, solo che la pressione da costui esercitata è rivolta alla gente per farle offrire qualche spicciolo e non ai buoi? Resta il problema di bu-, bi- che viene comunemente inteso come radice di ‘bove’, ma che, sempre in base alla mia teoria, dovrebbe essere una radice che si incrocia certamente con quella di ‘bue, bove’ ma che, originariamente, doveva avere lo stesso significato della seconda componente –folco. A questo punto non posso fare altro che additare, come antico precedente del primo membro di bi-folco, particelle intensive come greco bu- e ted. be- che ha varie funzioni tra cui quella rafforzativa. Il ted. be-folg-en ‘seguire, eseguire', molto simile formalmente a bi-folco potrebbe essere stato un suo remoto parente nel caso di un probabile suo altro senso di ‘inseguire, perseguire, cercare di raggiungere, corteggiare, implorare’(uno dei significati antiquati di ingl. follower ‘seguace’ è ‘spasimante, ammiratore’), significato affine a quello di ‘questuante’ che etimologicamente rinvia alla radice del lat. quaer-ere ‘cercare, andare in cerca, domandare’. Ma è da tener presente anche il ted. bei-folg-en 'tener dietro subito', quindi 'essere prossimo, incalzare'.
Un passo del canto XXIII (vv. 130-132) del Paradiso di Dante potrebbe essere inteso diversamente da come viene solitamente spiegato, se si tiene a mente uno dei significati del cerchiese befùlghe ossia 'bue'. Il passo è il seguente: Oh quanta è l'ubertà che si soffolce/ in quelle arche ricchissime che fuoro/ a seminar qua giù buone bobolce. Dante si riferisce qui alla ricchezza spirituale contenuta in quelle arche (le anime dei beati) che furono in terra, intendono alcuni critici, buone seminatrici della parola di Dio. Le bobolce rappresenterebbero una forma femminile da lat. bubulcus 'bifolco'. Altri preferiscono chiamare in causa il termine dialettale dell'Italia settentrionale biolca, bubulca, bibulca, una misura di terra corrispondente a quella lavorata da una coppia di buoi in una giornata, intendendo che le anime dei beati sono state un buon terreno da coltivare, e fanno riferimento alla nota parabola evangelica del seminatore. Una terza ipotesi potrebbe essere quella che, traendo lo spunto dal significato di 'bue' del termine, paragona le anime a dei buoi che hanno duramente e proficuamente arato il terreno per una buona seminagione destinata a dare frutti spirituali abbondanti.

sabato 3 aprile 2010

Etimologia di "labirinto" ovvero l'inadeguatezza della linguistica tradizionale. Appunti alla posizione di Massimo Pittau.

Affrontiamo ora l’etimologia di labirinto, parola considerata del sostrato mediterraneo da alcuni, di quello egeo o preellenico o preindoeuropeo o giudicata di origine ignota da altri, come meticolosamente afferma Massimo Pittau in un articoletto del suo sito internet. Sia chiaro che questo mio “prendere di petto” gli scritti di uno dei più grandi linguisti italiani, non scaturisce da una sorta di incontenibile furia iconoclasta o di improvviso furore eroico desideroso di bruciare nell’ardore della sua fiamma soprattutto quello che i grandi nomi della linguistica affermano su questo o quel problema, nella speranza di vedere qualcuno battermi le mani per la mia bravura o per il mio coraggio. La semplice verità è che, leggendo le proposte di questi insigni autori, mi accorgo che esse contrastano spessissimo con il punto di vista che mi sono formato sul fenomeno lingua, nel corso di una ventina d’anni di studio solitario e appassionato, al di fuori degli schemi rispettabilissimi elaborati dai linguisti. In genere, dopo un po’ di riflessione, riesco a trovare i punti deboli dei loro articoli, e ad avanzare delle prosposte alternative che a me sembrano almeno più percorribili e naturali rispetto alle altre per un maggiore grado di verosimiglianza, che comunque starebbe al purtroppo raro lettore preparato in questo campo, o allo studioso, se non si lascia soffocare da un suo complesso di algida superiorità, leggere e valutare.
A me sembra che i linguisti cadano spesso nell’errore di cercare la verità dei nomi, come ho messo in evidenza anche in altri articoli, in radici costrette ad esprimere un significato limitato, individualizzante, in totale opposizione a quanto io penso su di esse, e cioè che il loro significato di fondo sia uguale per tutte e corrisponda ai significati di ‘forza, vita, spinta’ o anche a quello che è il concetto dotato della massima estensione e genericità, cioè il concetto di ‘essere’, di per sè indefinibile, in quanto ogni sua definizione dovrebbe far uso della copula essere e aggiungere qualche nuova qualità a quelle già contenute nel soggetto, ma si instaurerebbe così un circolo vizioso tra il soggetto (essere), che contiene in potenza già tutte le qualità di ogni possibile suo predicato, e il predicato stesso che perciò non potrebbe allargare i confini di un soggetto siffatto. Mi spiego meglio: posso affermare benissimo, ad esempio, che il melograno è un albero perchè l’idea di ‘albero’ aggiunge qualcosa di più generico alla semplice nozione specifica di ‘melograno’ del soggetto, ma non potrei dire che l’albero è un melograno perchè l’idea di ‘melograno’, in questo caso, non aggiungerebbe nulla a quello che l’idea di ‘albero’ del soggetto contiene già in potenza. Anche lo spirito della Lingua, dunque, sembra chiedere istintivamente conforto, quando si tratta di esplicitare il significato di un termine, a parole ad esso sovraordinate dal significato più ampio: ciò non succederebbe, a mio avviso, se i termini da definire nascondessero dentro di sè significati propri, particolari, di cui la Lingua probabilmente avrebbe allora mantenuto una memoria storica, una traccia qualsiasi capace di riesumarli. E’ del resto un fatto che essa è dominata e diretta da spinte generalizzanti, per evitare quella che costituirebbe la palude immensa, invalicabile e paralizzante della rappresentazione meticolosa della realtà con denominazioni tagliate su misura per ogni singolo individuo appartenente a una specie o un genere, nel gran concerto della natura. La parola “melo”, ad esempio, vale per per tutte le numerosissime piante della specie e non per qualcuna di esse soltanto.
Questa mia concezione sui significati originari delle parole viene supportata dalla concezione saussuriana più volte da me ricordata nei precedenti articoli, secondo la quale è vano e fuorviante credere che la lingua, e quindi le parole, siano state create in vista dei concetti da esprimere, stabilendo così la regola, anche se forse senza una sua piena consapevolezza delle conseguenze in campo semantico, secondo cui un termine si sarebbe paradossalmente formato per esprimere un concetto diverso da quello che esso si trova ora ad esprimere nella lingua, e questo perchè, aggiungo io, il suo significato non è circoscritto e fissato ab origine, ma molto generico e soggetto, molto di più di quanto non si pensi, a cambiare non solo attraverso i secoli, in base ai normali slittamenti metaforici, ma soprattutto nell’immediatezza della sua originaria sistemazione contestuale con gli altri termini e nel rapporto con il referente su cui va a depositarsi, e in cui è costretto a piegarsi, di volta in volta, verso un significato piuttosto che verso un altro, assumendo così quella specificità ed unicità che poi sembrerà essergli stata cucita addosso da sempre, tanto che i linguisti ora non sanno prescinderne nella ricerca dell’etimo il quale, invece, andrebbe cercato in tutt’altra direzione.
Un altro forte sostegno alla mia concezione della lingua lo offre la ricerca contemporanea sui nomi dei piccoli animali condotta da svariati ed insigni studiosi dell’area romanza, coordinati da ricercatori dell’Università di Grenoble, che ha portato alla pubblicazione a Roma (2001) del secondo volume dell’ Atlas Linguistique Roman in cui vengono studiati molti zoonimi europei soprattutto dell’area romanza (se ne può leggere un breve e chiaro sunto in rete: basta cercare il titolo Rita Caprini. I nomi dei piccoli animali). Ne viene fuori un quadro che, guarda caso, conferma ancora una volta la mia idea fondamentale della genericità dei significati. In effetti i molti nomi dei vari animaletti analizzati, delineano un quadro chiarissimo in cui, ad esempio, si scopre, non senza meraviglia, che i piccoli animali non hanno nomi particolari, individualizzanti, perchè questi passano regolarmente, non eccezionalmente, da un animaletto all’altro. Naturalmente i linguisti, non avendo elaborato una concezione come la mia, non si sognano nemmeno di trarre da questo fatto statistico incontrovertibile ed importantissimo le dovute conseguenze, le quali condurrebbero dritte dritte alla mia posizione, che è in perfetta armonia con questa straordinaria constatazione della estrema mobilità degli zoonimi che sorprende gli studiosi. Essa si spiega alla perfezione quando ci si convince che i nomi originari degli animaletti (e non solo) contengono nel fondo esclusivamente il concetto generico di animale, cucinato in tante salse proprio perchè la Lingua, pur partendo da basi semantiche genericissime, è costretta poi a specializzarsi per poter comunicare in una maniera sempre più precisa e razionale, da ambigua e poetica che era.
Dopo la precedente premessa metodologica ci portiamo velocemente al nocciolo del problema per l’individuazione dell’etimo di labirinto. Secondo il Pittau il vocabolo sarebbe di origine egeo-anatolica e deriverebbe dal (pre)greco leberhís,-ídos ‘coniglio’(greco di Marsiglia), lo stesso che léporhis ‘lepre’ (Eolide e Sicilia) e lat. lepus,-oris ‘lepre’. Il semplice, cristallino e apparentemente inattaccabile ragionamento del Pittau è che come il coniglio (lat. cuni-culum) è così chiamato, secondo l’etimo corrente non contestato forse da nessuno, dal fatto che esso si scava delle tane nel terreno a forma di cunicolo (lat. cuni-culum), allo stesso modo bisogna vedere un rapporto strettissimo di dipendenza genetica tra i vocaboli egeo-anatolici sopra citati per ‘lepre’ e per ‘coniglio’, e quello relativo al gr. labýr-inthos ‘labirinto’ di simile radice. C’è però un’aporia in questa che sembra una tenace morsa logica. Il vocabolo di origine egeo-anatolica presenta, come abbiamo visto, il significato di ‘lepre’ in latino e nei dialetti greci dell’Eolide e della Sicilia, e quello di ‘coniglio’ solo nel greco di Marsiglia, per cui è da credere che il signif. di ‘coniglio’ sia secondario rispetto a quello di ‘lepre’. E la cosa non è di scarso rilievo ma va ad incidere, a mio avviso, profondamente nella questione dell’etimologia. Le lepri, infatti, non scavano cunicoli o tane nel terreno: questo è un tratto etologico distintivo tra le due specie! Io mi sono documentato perchè, in verità, non ero e non sono convinto nemmeno della giustezza del ragionamento seguito dai linguisti circa il presunto e stretto nesso semantico tra il ‘cunicolo’ e il ‘coniglio’. La mia convinzione si è rafforzata quando ho letto il sopra citato sunto di Rita Caprini riguardanti gli studi sui nomi dei piccoli animali in Europa, giacchè la studiosa in esso mette giustamente in rilievo il fatto che « le denominazioni relative all’habitat, ai comportamenti e alle abitudini alimentari non sono così frequenti come vorrebbe la nostra mentalità razionalista». Ed io sono convinto che, anche nei non molti esempi in cui la denominazione sembra rispondere a queste condizioni ambientali, come è il caso di ‘coniglio’, si tratta quasi sicuramente di una illusione semantica causata da incroci delle radici originarie con altre parole, nella maggior parte dei casi. Seguendo i principi della mia teoria linguistica, ad esempio, non trovo nessuna difficoltà nell’inquadrare il lat. cuni-culu(m) ‘coniglio’ nell’ambito di radici come il gr. kýōn, genit. kyn-ós ‘cane’, ted. Huhn ‘pollo, gallina’, lat. can-e(m) ‘cane’.
Se qualcuno dovesse giustamente obbiettare, in merito al significato dei termini egeo-anatolici sopra riportati, che facilmente esso poteva slittare da quello di ‘lepre’ a quello di ‘coniglio’, allora, pur accettando la probabilità di questa evenienza, data la stretta somiglianza dei due animali coinvolti e la norma generale della intercambiabilità dei nomi relativi ai (piccoli) animali, non potrei nel contempo non far notare che proprio questa facilità di passaggio del nome da un animale all’altro comporta la rinuncia definitiva al diamantino presunto rapporto del nome ‘coniglio’ con quello di ‘cunicolo’, alla plausibilità, insomma, dell’idea che un animale possa regolarmente ricevere il nome dal suo habitat e dalle sue abitudini.
Eliminata, dunque, la necessità del nesso tra il gr. labýr-inthos e i relativi nomi con esso comparati dal Pittau in base al concetto di coniglio-lepre, quale ne potrebbe essere l’etimo giusto? La mia modestissima idea è che la radice del termine in questione debba essere considerata simile a quella di gr. laúra ‘ passaggio stretto, corridoio, via, viottolo’ se solo si pone mente ad un fenomeno linguistico abbastanza frequente in aree del nord Italia che produce, ad esempio, leura (Piemonte) al posto di lepre e caura al posto di capra (Valtellina). Si obietterà che comunque queste voci dialettali sono uno sviluppo posteriore alle rispettive forme latine, ma qualche dubbio che esse talora possano essere di data molto più antica credo di averlo avanzato, almeno con qualche grado di verosimiglianza, a proposito di mazza-cauras (nel Surselva) ‘vento freddo del nord’ nell’articolo, presente nel blog, intitolato Come intendere l’animismo attraverso i suoi riflessi nelle parole. Anche ammesso che il detto fenomeno sia da intendere come avvenuto nella direzione latino>dialetti, nulla osta a che esso sia potuto verificarsi nella direzione opposta in latino o in greco, nel lungo periodo preistorico dove vanno a immergere le radici questi termini. Chi ci può assicurare, infatti, che il piemontese leure sia posteriore al lat. lepore(m) se quest’ultimo termine non era tra l’altro patrimonio esclusivo del latino essendo considerato in genere dai linguisti appartenente all’antichissimo sostrato mediterraneo o a quello egeo-anatolico, tanto che lo stesso Pittau è convinto che esso circolasse in Sardegna già nella preistoria o protostoria? Si obietterà che altre parole con lo stesso gruppo consonantico vengono trattate allo stesso modo in quei dialetti ma, anche qui, chi ci assicura che questa particolarità di questi dialetti si sia originata successivamente all’arrivo del latino e non sia invece da riportare alla lingua di sostrato che aveva avuto modo di trasformare la parola mediterranea che poteva essere già presente nel lessico, prima che ve la portasse il latino? Anche nel greco ci sono parole che potrebbero costituire almeno un indizio che in tempi remoti si siano avuti fenomeni simili di trasformazioni di gruppi di lettere in una o nell’altra direzione. Il laconico abór ‘alba, aurora’ mi pare che possa alludere a una forma sottostante simile al lat. aurora ‘aurora’ riconducibile ad una radice *ausosa (cfr. gr. éōs ‘aurora’)>lat. aurora,>*abror-a, semplificata in abór. Anche l’aggettivo gr. habrós ‘delicato, molle, splendido’ mi sembra molto simile al lat. aura ‘soffio d’aria, aria, esalazione, profumo, eco, luce, scintillio’, il quale sancisce, quindi, il connubio tra il concetto di ‘soffio’, di ‘luce’ e di ‘eco’, tutti espressione, a mio avviso, di un unico concetto ad essi sovraordinato di ‘anima, vibrazione, forza’. Credo sia il caso di scomodare anche l’ungher. abra ‘illustrazione’. Il lat. aur-um ‘oro’ conferma l’idea di ‘luce’. Anche la pronuncia, nel greco moderno, di termini come mauros ’nero’, saúra ’lucertola’, che suonano rispettivamente màvros e sàvra, non è detto che sia posteriore a quella canonica del greco antico, ma potrebbe essere stata solo una caratteristica di qualche circoscritta parlata antica estesasi poi al greco moderno.
Il Pittau segnala il nome della città di Lábr-anda nella Caria in Asia Minore considerandolo corradicale con labýr-inthos. In verità il suo abitato non superò mai le dimensioni di un villaggio, anche se nel periodo ellenistico raggiunse una certa floridezza. Si trattava in realtà di un antichissimo sito di culto, con un famoso tempio dedicato a Zeús Labrandeús , ricco di acque che rifornivano la vicina città di Milasa. Il luogo era noto anche come Labra-unda e, secondo me, dovettero essere proprio le acque a dargli in origine il nome, ma non è questo il momento di approfondire la questione. Faccio solo notare, per curiosità, la seconda componente –unda del nome che combacia perfettamente col lat. unda ‘acqua, onda’. La lábrys ‘ascia bipenne (termine lidio)’, attributo di Zeus e di altre divinità solari o lunari, simbolo dell’autorità regale proveniente da quella divina, adornava le stanze numerose del famoso labirinto di Cnosso a Creta, sede del mitico re Minosse. Il Pittau, pertanto, non sbaglia nel collegare il termine labýr-inthos al nome della città di Lábr-anda ma doveva sottolineare anche che in essa non risulta, che io sappia, la presenza di un palazzo reale, sede del potere che potesse dare corpo consistente alla sua proposta.
I motivi per cui è possibile, in questo caso, il raffronto tra labýr-inthos e Lábr-anda vanno cercati altrove, in significati estranei a quello di ‘labirinto’. I secoli trascorsi dal momento in cui queste parole furono per la prima volta pronunciate erano certamente innumerevoli e nel frattempo, quindi, non saranno mancate occasioni perchè esse si incrociassero con vari altri termini simili ma di diverso significato, alimentando così una fioritura di storielle e di miti. In base al fenomeno di cui ho parlato più sopra, mi sento spinto a supporre, ad esempio, che il nome dell’antichissima misteriosa città latina di Laur-entum abbia qualcosa in comune con esse, potendosi facilmente trasformare in *Labr-entum. Ho detto misteriosa città perchè archeologicamente non ne resta nè un vestigio nè uno straccio di iscrizione e, allora, essa doveva essere, secondo alcuni, altro nome della città di Lavinium o Lavinum (il cui sito corrisponde all’attuale Pratica di Mare), la quale era nota anche come Lauro-lavinium . E questo duplice nome mi sembra molto significativo non appena si pensa al termine  pergameno (da Pergamo, città dell’Asia Minore) láphne, un’apparente variante di gr. dáphne ‘alloro’, e assonante con –lavin-um, secondo costituente di Lauro-lavinum che, con la componente Lauro-, trae in ballo il lat. laurus ‘alloro’, parola anch’essa del sostrato mediterraneo. E in effetti l’etimologia vulgata per il nome della città di Laur-entum addita il termine lauru(m) ‘alloro’.
A questo punto, però, la questione sembra complicarsi perchè, se è vero che il territorio di questa città abbondava di boschi di alloro, è anche vero che la pianta aveva un forte valore simbolico essendo legata strettamente, sia in Grecia sia in Roma, alla divinità solare chiamata Apollo. Ed è quindi opportuno, a mio avviso, tentare di rintracciare, nei sottofondi della parola lauru(m), anche un significato consono a quella divinità. Si incontra in Euripide l’appellativo laûr-on ‘metallo d’argento (ad Atene)’ che fa il paio con l’oronimo Laúrei-on, Laúri-on dell’Attica, monte con ricche miniere d’argento. Che il termine sia legato in questo caso al significato di ‘chiaro, luminoso’ potrebbe confermarcelo il gr. leur-ós, che ha il valore di ‘libero, esteso, piano’ ma anche di ‘lucente’, sia pur dubitativamente. Ma a mio parere l’incertezza scompare se lo si affianca al lat. lur-idu(m) ‘ molto pallido, giallastro’. Ma non si può nemmeno escludere un suo incrocio con il citato gr. laura 'stretto passaggio, corridoio, ecc.' in riferimento alle 'cavità' delle miniere. Ed è a mio avviso piuttosto frettolosa l'etimologia che i linguisti danno di località come Lauro e Pago del Vallo di Lauro nella provincia di Avellino. Il significato originario del termine non è legato, a mio avviso, alla pianta del laurus 'alloro' ma allo stesso concetto di 'valle', che è una forma di 'cavità', anticipato dall'appellativo Vallo (cfr. Aa. Vv., Dizionario di Toponomastica, UTET, Torino, 1997). Una curiosità: nella frazione Sopravia di Pago del Vallo di Lauro si celebra il 10 agosto la festa di San Lorenzo, santo che molto probabilmente in questo caso non ha dovuto attendere, per il nome, quello del martire cristiano ma era forse già una divinità o un eroe pagano locale successivamente cristianizzato, come è spesso avvenuto in simili occasioni. In mezzo alla reggia di Latino a Laurento, immaginata da Virgilio (che sicuramente non ha inventato tutto, ereditando dalla tradizione almeno i nomi), si trovava un laurus dedicato a Febo=Apollo (cfr. Virgilio, Aen., VII 62). Il capostipite dei re di Laurento, Saturno, rispondeva a qualche antica divinità del sole se nelle feste a lui dedicate, i Saturnali (17-23 dicembre), si regalavano e accendevano candele e si vegliava la notte in attesa del sorgere del nuovo sole e se la Saturnia virgo non era altri che Vesta, madre o figlia di Saturno, nota divinità del fuoco. E’ poi risaputo che, pur nella loro complessità, queste feste rientrano tra quelle celebrate in tutto il mondo in concomitanza col solstizio invernale. Tra le statue dei re di Laurento presenti nel vestibolo della reggia, Virgilio inserisce (Aen., VII 180) anche quella di Giano (lat.Ianus), divinità del Lazio precedente allo stesso Saturno, notissima per le sue funzioni di apertura e chiusura, inizio e fine , molto meno quale probabile antichissima divinità della luce, come starebbero ad indicare le feste cristiane dei due Giovanni, il battista e l’evangelista, cadenti l’una il 24 giugno e l’altra il 27 dicembre, più o meno in corrispondenza dei due solstizi regolati da Giano, custode delle porte celesti. Ognuno vede la stretta somiglianza fonetica tra i due nomi di Ianus e Iohannes (cfr. A. Cattabiani, Calendario, A. Mondadori edit., Milano, 2003, pp. 231 e segg.) che, secondo alcuni, avrebbe causato la trasformazione in senso cristiano di antiche ricorrenze pagane. Secondo me anche il termine lat. strenae ‘strenne’, doni che i Romani si scambiavano in occasione dei Saturnali ma anche a Capodanno, giorno naturalmente sacro a Giano come del resto l'intero mese di gennaio, può rivelare nelle sue stratificazioni un rapporto con un significato di ‘luce’, se si riflette che in origine esse consistevano in ramoscelli d’alloro recisi da un boschetto che circondava il tempio della dea Strenia sulla via Sacra. Una curiosità: la struttura consonantica di lat. str(e)n-a è la stessa di lat. S(a)t(u)rn-us e di ted. St(e)rn ‘stella’. Dalle pareti della reggia pendono curvae secures (Aen.,VII 184), le asce da guerra, quasi sicuramente a doppio taglio, e così siamo tornati alla lábrys del labir-into=Laur-ento. Non sarà ugualmente un caso se San Lorenzo (da lat. Laurentius) fu martirizzato, secondo la tradizione, mediante arrostimento sui carboni ardenti e se la sua festa cade il 10 agosto, nel periodo in cui è più facile avvistare nel cielo sereno le stelle filanti, come ricorda l’incipit della famosa poesia del Pascoli X Agosto: San Lorenzo, io lo so perchè tanto/di stelle per l’aria tranquilla/ arde e cade, perchè gran pianto/ nel concavo cielo sfavilla.
Last but not least, come dicono gli inglesi, credo sia interessante riflettere sull’espressione, che Virgilio usa a conclusione della lista dei re mitici di Laurento, aliique ab origine reges, che viene solitamente spiegata come se fosse aliique Aboriginum reges, cioè ‘gli altri re degli Aborigeni’. Questi sarebbero stati i primitivi abitatori del Lazio, secondo buona parte degli autori antichi anche se qualcuno di essi come Catone, esprimeva il parere che essi fossero arrivati dalla Grecia da dove erano stati espulsi. Sull’etimo del termine regna molta incertezza, anche se gli studiosi moderni sembrano suggerire che si tratterebbe di una reinterpretazione di parola precedente. E in effetti, stando a tutto quello che ho detto sopra, a me sembra di individuare un’espressione di tipo greco come Abori-genés ‘generato, discendende di (un non meglio definito) Abor o Abori’ intendendo questo nome come quello di una divinità della luce o del sole. Il laconico abór ‘alba’, il gr. habr-ós 'delicato, molle, splendido, simile a lat. apr-icu(m) 'aprico, soleggiato’ (incrociatosi col lat. aper-ire ‘aprire’) e il nome Abari del sacerdote di Apollo che volava nel cielo su una freccia d’oro (cfr. Ovidio, Metamorfosi, V 86 e segg.) potrebbero confermarlo. Gli Aborigeni quindi, secondo questa linea interpretativa, non trarrebbero il nome dal fatto di essere gli abitanti autoctoni del Lazio, ma dal culto di un divinità o eroe eponimo, come i Marsi dal dio Marte (anche se io ho i miei dubbi), gli Agatirsi, popolo della Sarmazia, da Agatirso, uno dei figli di Eracle, gli Elleni da Elleno, figlio di Deucalione e Pirra, per fare solo qualche esempio. Una seconda interpretazione del nome potrebbe essere quella di ‘figli dell’Oriente, orientali’: la cosa corrisponderebbe in pieno a quello che la tradizione e la ricerca ci dicono sulle migrazioni nel Lazio e in Italia di popoli provenienti dalla Grecia e dall’Asia Minore.

P.S. Consultando in rete il Vocabolario Etimologico della lingua italiana (1907) di Ottorino Pianigiani, famoso magistrato-linguista, ho potuto constatare, in base a quello che egli dice sotto la voce labirinto, che già qualcun altro ne aveva proposto come etimo il gr. labir-os 'cavità' oppure laur-a 'corridoio, viottolo' di cui sopra. Si tratterà, a proposito di labiros, di qualche rara glossa, dato che i normali vocabolari greci non la riportano. Essa comunque attesta che il ragionamento da me fatto sull'alternarsi nella pronuncia di forme laur-/labr- è ineccepibile.

giovedì 1 aprile 2010

L'appellativo abruzzese "parasacche"

Nell’articolo Etimologia di finestra osservavo che il significato di superficie proteggi-sacco dell’appellativo abruzzese para-sacchë veniva a contrapporsi paradossalmente al suo significato di ‘forasacco’, con cui viene indicata in genere la nota spiga munita di ariste a forma di lancia la quale, come dice il nome, piuttosto che ‘proteggere’ il presunto sacco, lo avrebbe invece lacerato. Ma, dopo aver ben riflettuto sulla questione, sono arrivato alla conclusione che la radice che produce questi significati, ed anche altri, apparentemente irrelati, è in realtà sempre la stessa. Se si parte dall’idea di ‘tagliare, forare’ di cui ho parlato nel suddetto articolo, ci si accorge che si approda del tutto naturalmente al concetto di ‘separazione, divisione’ e subito dopo a quello di ‘discostamento, distacco, separazione, allontanamento, difesa, riparo’. A mio avviso allora dovremo considerare anche il lat. se-par-are un verbo che sfrutta la stessa idea di ‘taglio’, cominciando così a ritenere almeno problematica la sua appartenenza ai diversi composti del lat. par-are ‘preparare’, il quale, del resto, è continuato in italiano e nei dialetti da termini con significati non sempre ben armonizzabili tra loro.
Nel dialetto di Trasacco-Aq, ad esempio, la voce para, sinonimo di par-àta, significa ‘sbarramento, piccola diga (fatta in genere di sassi)’ di un corso d’acqua, ma anche ‘separazione di due litiganti che si azzuffano’, come ad Aielli-Aq. Con ciò si viene a capire che la base para, anche senza il prefisso disgiuntivo lat. se-, poteva avere il valore di ‘separazione, scissione’, Questi significati mi sembrano tutti riannodabili con quello di paratia, parete che separa locali all’interno di un’imbarcazione. Anche il lat. pari-ete(m) ‘parete’ dovrebbe, quindi, appartenere alla stessa area semantica. Il senso di ‘bloccare, fermare’ credo sia naturalmente derivato da quello di ‘sbarrare’, conseguente a quello di ‘separare’. In toscano par-are vuol dire anche ‘condurre, portare avanti, guidare (specialmente mandrie al pascolo)’. Forse quest’ultima accezione richiama quella di ‘porgere, stendere, spingere avanti’ dell’espressione parare le mani.
A questo punto non vedrei molta difficoltà nell’aggregare alla stessa radice anche quella del verbo lat. par-are ‘preparare’ che potrebbe configurarsi come uno ‘spingere, sollecitare (all’azione tempestiva)’ se si tiene presente l’avverbio gr. pároi-then ‘prima, anticipatamente’ che non può non rimandare, oltre che al gr. páros ‘prima, innanzi’, anche al gr. párai (lat. prae ’avanti, innanzi, ecc.’) variante di gr. pará ‘presso, oltre’ di cui ho parlato nell’articolo Etimologia di finestra.
Non dovrebbe essere separato dal gruppo di parole precedente nemmeno il lat. parte(m) ampliamento della radice in questione, il quale è semplicemente un ‘taglio’, una ‘sezione’ rispetto a un tutto. Il lat. partu(m) ‘parto’ (da lat. par-ere ‘partorire’) si configura secondo me come uno ‘spingere fuori’, un ‘distaccare’, un ‘prodotto’. Ma seguitando con queste connessioni dove andiamo a parare? Con precisione non lo so, ma so che questa espressione si ritrova nello sp. donde vamos a parar? e che sp. parar significa ‘andare a finire, finire’ riconfermando il connubio del significato di ‘proseguire, spingere avanti’ con quello di ‘arresto, sbarramento’.
Un’altra cosa vorrei far notare: l’etimo di it. parecchio che i più riconducono al un latino parlato *pari-culum , diminut. di par ‘pari’, nel senso di ‘doppio’ o ‘dello stesso genere’ a me pare possa avere la stessa storia di ingl. several ‘alcuni, diversi, vari, parecchi’ derivato, attraverso il francese antico, dal mediolat. se-par-ale(m),da lat. se-par-are. Se esisteva una forma volgare *par-are dal significato di ‘separare’, come risulta dal ragionamento e dagli esempi sopra riportati, allora è molto più naturale e probabile che il *pari-culu(m) che sta dietro all’it. parecchio, derivi da quella forma volgare e non da lat. par ‘pari’ il cui significato del resto mal si adatta, secondo me, a quello di parecchio. Quest’ultimo sarebbe, quindi, il risultato di un naturale sviluppo attraverso la trafila di ‘separato, individuale, diverso, vario, parecchio’.
Concludendo, mi piace ripetere quello che Einstein diceva a proposito della validità di una teoria, e cioè che essa è tanto più valida quante più numerose sono le cose che collega e quanto più vasto è il suo campo di applicazione. Nel mio piccolo mi capita quasi sempre di scontrarmi con teorie di insigni studiosi che, invece, tendono spessissimo a restringere i significati delle radici, innalzando intorno ad esse paratie insormontabili.