domenica 31 marzo 2019

TERREMOTO (solo negli etimi!)


                                                         

Tutti gli studiosi fanno osservare che questa parola è l’esatta traduzione del lat. terrae-mot-u(m) ‘terremoto’ facendo magari notare che in italiano si è mantenuta la desinenza del genitivo terr-ae della parola lat. terr-a(m) della prima declinazione. Tutta l’espressione significa infatti ‘movimento (mot-um) della terra (terr-ae)’. Francamente anche un normale  studente di Liceo  non avrebbe nessuna difficoltà a fare un’analisi del genere, senza nessun bisogno di ricorrere ai linguisti. Da quello che sto per dire, però, risulterà che le cose non sono andate precisamente così. E’ per questo che mi vado sempre più convincendo che sarebbe ora che la linguistica tradizionale andasse ad ingrassare le ortiche.  Sinceramente non intendo offendere offendere nessuno, se penso che essa ha fatto il suo tempo, anche se, senza di essa e i suoi grandi nomi, sicuramente non avrei potuto raggiungere questi traguardi.

   Una parola come terrae-mot-u(m) apparentemente sembra che sia nata da una naturale riflessione da parte di qualcuno, magari fatta a caldo, dopo aver avvertito un movimento tellurico. Una parola, insomma, nata a tavolino, mentre avveniva una scossa o subito dopo.  Eppure le parole, e soprattutto le locuzioni, sono solite riciclare materiale linguistico precedente, esistente ab antiquo, magari prima dello strato linguistico del latino, senza che qualcuno le inventi, diciamo così, ex novo. E quindi la supposizione che facevo testè suona un tantino innaturale, dato che se si avverte una scossa, si entra immediatamente in fibrillazione e difficilmente ci mettiamo a riflettere su alcunchè che non sia il pensiero di mettersi al riparo e di salvarsi la vita.  Esiste per di più il tosc. tre-moto che potrebbe metterci secondo me sulla buona strada ma che, sempre secondo i linguisti, sarebbe un derivato di terremoto, con la sincope della prima –e- e l’incrocio col verbo trem- are < lat. trem-ere ‘tremare’.

   Ora questo lat. trem-ere ‘tremare’ è ampliamento in –m di una radice ter/tre ben attestata in area indoeuropea. Lo stesso lat. terr-ēre ‘atterrire’, da cui lat. terr-or-e(m) ‘terrore, in quanto tremore’, ne è un prodotto. La radice è quella del secondo elemento di lat. i-ter ‘cammino, viaggio’, in quanto movimento: di essa ho parlato abbondantemente nell’articolo Tramoggia del mio blog (pietromaccallini.blogspot.com –18 marzo 2019). Allora è molto più naturale supporre che come in lat. esiste un trem-or-e(m) ‘tremore,brivido,terrore’, ma anche ‘scossa, terremoto’, così ci sarà stata nel linguaggio parlato anche una forma *tre-mot-(u)m, da cui sarà derivato direttamente il tosc. tre-moto ‘terremoto’ sopra citato, e una variante *ter(r)e-mot-u(m) ‘terremoto’, composto tautologico formato dalla suddetta radice ter(r)- ‘tremare’ e da lat. mot-u(m) ‘moto, movimento, impulso, scossa’. Allora è giusto pensare che  il lat. terrae-mot-u(m), espressione troppo precisa che sembra nata per indicare solo il movimento della terra e non altro, aveva avuto in realtà una lunghissima vita precedente allo strato  latino, così come noi lo conosciamo, e indicava genericamente un movimento o tremore: l’idea di terra è stata ricavata, per etimologia popolare, dalla radice ter(r)- sopra analizzata, come è avvenuto in tanti altri casi. E non è da credere a tutti i costi che il sostantivo lat. mot-u(m) ‘moto, movimento’ venga dal part.pass. mot-u(m) ‘osso’ del verbo mov-ēre ma deve essere parente di gr. mόth-os ‘tumulto, strepito’ o gr. mot-ári-on ‘canaletto di scolo’.

   Una controprova di quanto detto si può avere analizzando le parole inglese e tedesca per ‘terremoto’, e cioè ingl. earth-quake, letter. ‘scuotimento(-quake) di terra(earth)’e ted. Erd-beben ‘tremore (-beben ) di terra (Erd-)’. In antico, alto ted. il termine per ‘terra’ era ero (gr. éra ‘terra’, in Euripide) il quale quindi poteva prestarsi benissimo a generare una reinterpretazione del prefisso indivisibile del verbo ted. er-beb-en ‘tremare, fremere’, per cui si passò dal significato generico di ‘tremare, fremere’ a quello speciale di ‘tremore della terra (ero)’.  

     Come abbiamo osservato altre volte, le parole o espressioni che si presentano con il crisma della self-evidence, sono spesso come dei furbissimi extracomunitari che, per necessità, camuffano i propri connotati e si fanno rilasciare permessi, documenti taroccati e persino indennità di disoccupazione per poter vivere legalmente insieme agli altri e mantenere le amanti. Amen!

   Rinnovo l’invito a buttare alle ortiche tutto quello che non è più efficiente in linguistica, con buona pace di tutti.  

mercoledì 27 marzo 2019

Le "ferratelle"


                                                     
                                                 


Quanta storia raccontano alcuni termini! Uno fra i più interessanti è senz’altro la ferratella, nome che, come tutti sappiamo almeno in Abruzzo e Lazio, indica un dolce costituito da una sfoglia sottile di pasta opportunamente preparata con diversi ingredienti, cotta per compressione tra due piastre arroventate di un ferro che solitamente lasciano anche delle nervature in rilievo, tra loro intrecciate a formare una sorta di inferriata a disegno in genere romboidale.

  Che io sappia, tutti gli etimologi, da quelli improvvisati agli studiosi per mestiere o per passione, non mancano di chiosare che l’etimo della parola è di per sé evidente, data la sua derivazione dal quel tipo di ferro, appunto.  Secondo me, invece, essi sono completamente fuori strada; non solo, ma così facendo possono tarpare dfinitivamente le ali ad ogni tentativo, da parte di qualcuno, di trovare una strada diversa. Non parlo di me, che ormai sono abbastanza smaliziato su queste cose.

    In Wikipedia, l’enciclopedia online, si specifica anche che la ferratella, soprattutto nell’Abruzzo meridionale e nel Molise, è considerata un dolce tipico dei matrimoni. E sfido io! che pubblicai  già nell’aprile del  2016 un articolo[1] molto stimolante, La “fara” longobarda [], in cui parlavo anche dell’istituto matrimoniale romano della con-farre-atio, cerimonia nella quale gli sposi condividevano, mangiandola, una focaccia di farro (tipo di grano antichissimo e comune a Roma) offrendola anche a Iuppiter Farr-eus, espressione che potremmo tradurre per ora con Giove del farro, ma vedremo cosa si nasconde anche sotto questo appellativo.  Nell’articolo citato facevo vedere come uno dei significati di questa radice far/fer, prima dello strato linguistico latino,  fosse proprio quello di ‘unione, mescolanza, ecc.’ qui applicata naturalmente all’idea di “matrimonio”, uno stretto legame tra un uomo ed una donna sancito dalla legge. Ecco dunque il motivo per cui le ferrat-elle, anche oggi, alludono ad esso. E non in virtù dell’essere prodotte dal ferro, ma in quanto farr-ata ‘cibi di farro’, consumati nella con-farre-atio ‘cerimonia nuziale’. 

Nel Gargano, soprattutto a Manfredonia, si produce un altro dolce, un po’ diverso dal precedente, chiamato proprio farr-ata.  Questo è composto da due sfoglie rotondeggianti di cui una si riempie di farcitura di ricotta insieme ad un po’ di cannella, l’altra vi si mette sopra  a mo’ di coperchio avendo cura di premere e incollare insieme i bordi delle due sfoglie prima di infornare e cuocere. Questo tipo di dolce viene fatto risalire ai Romani che lo usavano nella confarreatio, come ho detto prima, a differenza della ferrat-ella, per quanto riguarda il nome, che invece ne condivide l’etimo, a mio avviso. Il particolare ferro con cui si formano, non schioda i linguisti dalla loro convinzione.

  In un sito web[2] si riporta un’usanza scomparsa da anni: al mattino, prima dello spuntar del sole, ragazzini infarinati percorrono le strade di Manfredonia cercando di vendere le farrate ancora calde al grido di farrète cavede uè… uè… chi vole i farrète farrate calde uè… uè, chi vuole le farrate?’ (mi sia perdonato qualche involontario errore). Sorge spontanea la domanda:” Perché questi ragazzi percorrono le strade prima dello spuntare del sole?”  Per il semplice motivo che il sole, in qualche lingua del remotissimo passato,  doveva essere indicato con quella radice /far/, come ho mostrato nell’articolo sopra citato, e come fa intuire l’appellativo di Iu-piter (Giove) Farr-eus, che doveva ripetere inizialmente  lo stesso significato di Iu- ‘luce del giorno’, prima di incrociarsi col lat. farr-eus ‘di farro’. Secondo me, come ho mostrato non ricordo in quale articolo, anche l’elemento – piter ‘padre’ doveva ripetere il significato di ‘luce,luminoso’. Sicchè vendere e comprare farrate  intorno allo spuntar del sole era di buon auspicio, data la consonanza semantica dei termini relativi, ma anche perchè si avvicinava l’ora della prima colazione. Ma questo adesso ci interessa poco.

    L’espressione italiana sul far del giorno ‘alle prime luci dell’alba’ potrebbe attestare qualche contatto con questa radice /far/ col significato di luce, fuoco L’altra espressione sul far della sera potrebbe alludere alla luce del crepuscolo. E’ comunque naturale che queste espressioni si siano poi incrociate col verbo farsi (non fare) che assume talora il significato di ‘divenire, diventare’. Sul far della notte sarebbe nata per analogia rispetto alle precedenti, quando quel far era diventato sinonimo di principio o variante di farsi. Quindi, se si vuole essere razionali fino in fondo, le espressioni italiane avrebbero dovuto suonare sul farsi del giorno, sul farsi della sera.

   Il nome farr-ata dové incrociarsi, oltre che con il ferro, anche con lat. for-u(m) ‘buco, cella delle api’, in conseguenza del suo disegno in superficie richiamante il favo delle api con le numerose celle esagonali. La farrata mi pare esente da questa caratteristica, ma in uno dei siti consultati per farrata[3], il dolce di Manfredonia, appare ben visibile sulla superficie di alcune di esse, un disegno risultante da diverse figure vagamente esagonali  e giustapposte come le celle di un favo: scherzi della cottura? Per chi non lo sapesse anche il wafer ’cialda,ostia’ inglese fa capo a waffle ‘stampo per cialde’ il quale, almeno all’origine, doveva imprimere un disegno uguale a quello di un favo. La parola ted. wabe ‘favo’ ne è la prova. C‘è anche il ted. Waffel ‘cialda, cialdone’. L’it. feritoia non trae l’etimo dal verbo ferire, come tutti sostengono, ma da una radice variante di quella di  foro ‘buco’, sia che si debba suddividere la parola in feri-toia o in ferit-oia.  Credo che anche lo spagn. barqu-illo ‘cialda’ avesse un rapporto con spagn. e it. barca, in quanto cavità, buco. Uno potrebbe legittimamente chiedersi perché questo ricorrere dell’idea di “cella, favo”. La risposta è che, secondo me, le api fin dagli Egizi erano considerate simbolo di divinità, sacralità, autorità, potenza. Abbiamo visto sopra che il farro ci ha condotti addirittura al Giove Farreo. Ma questo è un altro discorso che ci distrarrebbe dal nostro assunto.

    La ferratella aveva altri nomi come cancellata, naula, neola, nevula, nivola . Cancellata deve far riferimento al disegno impresso sul dolce a mo’ di in-ferri-ata (questo sarebbe, semmai, il valore iniziale (?) di ferr-at-ella: altro che il ferro che la produce!). Ora che ci penso il valore di in-ferriata dové svilupparsi molto per tempo nell’anticità e potrebbe essersi riferito addirittura al grande dio romano-italico Giano, il dio delle porte (lat. ianu-am ‘porta’), ingressi, e passaggi. Sappiamo che il suo tempio più antico a Roma costituiva una sorta di passaggio coperto, con due porte, una d’entrata e l’altra d’uscita. Il mese di Gennaio, come dice il nome stesso, era il suo mese, in quanto inizio dell’anno. Il primo giorno di ogni mese era a lui dedicato. Nel periodo dell’anno compreso tra dicembre e gennaio, ricorrevano un po’ dappertutto feste dedicate al Sole, e Ianus era stato, secondo alcuni, una divinità della luce. Era infatti invocato come Pater matutinus ‘padre dell’aurora’. In altro articolo anch’io ho mostrato come questa radice implicasse anche il concetto di ‘luce’. Nelle sue feste si mangiavano e regalavano naturalmente focacce.  Il ricorrere di questo concetto di “inferriata” o “cancellata” in queste denominazioni potrebbe essere una chiara allusione al grande padrone dei passaggi, Giano appunto.

   L’altra voce nàula (Castel del Monte-Aq), con le sue diverse varianti, a mio parere deve essere riallacciata al concetto di “nave”, una cavità, dunque, allo stesso modo di altre connesse col dolce di cui si parla, come visto sopra. Il termine rispunta addirittura nella Catalogna, nella forma di neula, un dolce natalizio composto di una sfoglia sottilissima, arrotolata, sì da formare una specie di cannoli, ma senza ripieno. L’idea di “buco, cavità” riappare anche qui, come del resto in alcune forme di ferratelle in Italia, accartocciate su sé stesse, con contenuti vari.   L’etimo che se ne dà, quello di ‘nuvola’, mi pare inadeguato. La voce nao, in molti dialetti dell’Italia del Nord, indica la nave, ma anche una serie di recipienti destinati a vario uso. Cfr. inoltre ingl. nave ‘navata’, ingl. nav-el ‘ombelico’, ted.Nab-el ‘ombelico’. C’è da far notare che in una delle  prime monete romane (un asse di bronzo) nel recto compariva la figura di Giano Bifronte, nel verso la prua di una nave da guerra. Giano ne era considerato l’inventore.

  A Trasacco-Aq e altrove la ferratella era chiamata anche cuperchiòla (inteso come coperchietto )in conseguenza –dice il Lucarelli[4]- del fatto che una di esse veniva spesso messa sopra l’altra con in mezzo uno strato di marmellata di frutta. Ma, se si vuole seguire fino in fondo il ragionamento, si dovrebbe desumere che solo una delle due avrebbe avuto il diritto di chiamarsi cuperchiòla, in quanto usata a mo’ di coperchio. Io sono del parere che anche qui c’entra l’etimologia popolare che spesso opera miracoli, trasformando una parola in un'altra anche solo vagamente simile. Ricordo il ted- Trampel-tier, letter. ‘animale (-tier) che pesta i piedi (trampel)’ dal lat. dromedari-u(m) di origine greca.  In questo caso la parola di partenza sarebbe il lat. cup(p)edi-a(m) ‘ghiottoneria, dolce’, in una forma diminutiva *cup(p)edi-ola che, divenuta semanticamente immotivata, offri tuttavia   al parlante comune la possibilità di essere trasformata in una comprensibilissima coperchi-ola, cuperchi-ola.  Un’altra prova che dà man forte alla mia supposizione (tanto più convincente perché ne sono venuto a conoscenza solo dopo aver scritto quanto sopra) è la presenza, nel dialetto trasaccano, proprio della voce chëpèta ‘dolce casalingo fatto di miele e noci tritate, che formano un croccante natalizio’. Chëpèta è dal latino sopra citato cup(p)edi-a(m) ‘ghiottoneria, dolce’, cela va sans dire, e non ha dato appigli al parlante, per una sua reinterpretazione. Nel vicino paese di Luco dei Marsi esiste la voce copèta[5]  che indica lo stesso impasto di miele e noci, utilizzato però per legare insieme due ferratelle. La voce copèta, con la sua funzione di ripieno per ferratelle, ci guida per mano verso l’etimo giusto di trasaccano cuperchiòla ‘ferratella’, che è quello che ho dato più sopra, cioè lat. *cup(p)edi-ol-a(m) ’dolcetto’.  Le parole colgono qualsiasi occasione per specializzarsi.  In abruzzese la voce ferratë[6]oltre che inferriata, significa  ‘quantità di  ostia che dà il ferro in una volta', perchè il termine è stato inteso come uno dei tanti sostantivi in -ata, suffisso aggiunto in questo caso ad un presunto verbo *ferr-are 'usare il ferro (delle ferratelle)'. Così va il mondo, Amen!
  
      Questa storia della  ferratella è semplicemente stupenda! e farebbe capire, senza eccessive difficoltà, anche  a generazioni di studenti come funziona la Lingua, nelle sue varie forme, in tutto il mondo.  Conoscenza culturale senza pari, che sarebbe degna almeno di un dibattito. 
    
  


[1] Cfr. il mio blog : pietromaccallini.blogspot.com.

[4] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censso, Avezzano-Aq, 2002.

[5] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.

[6] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.





                                                   
                                                   



domenica 24 marzo 2019

Collo 'involto, bagaglio, balla, baule'.


                              

Ma come è possibile! Ho controllato i due dizionari etimologici e i quattro vocabolari in mio possesso in cerca dell’etimologia del termine del titolo e non ho potuto fare a meno di meravigliarmi, in senso negativo, di quello che tutti ripetevano. La parola sarebbe derivata dall’italiano collo, parte del corpo umano fra la testa e le spalle, per metonimia, cioè (per quelli che non conoscono o non ricordano il vocabolo tecnico metonimia), dal fatto che inizialmente il carico da portare in qualche viaggio lo si accollava, in altri termini lo si metteva sul collo o sulle spalle proprie o di qualche persona prezzolata.

        Ora, ammesso che il verbo possa derivare dal sostantivo collo anatomico (non ne sono certo, succedono cose incredibili nelle lingue!) credo che non sia affatto certo lo stesso etimo per il sostantivo collo ‘bagaglio, sacco’, perché esiste lì, a portata di mano, il lat. culle-u(m) o cule-u(m)‘sacco di cuoio’. Forse gli illustri studiosi hanno pensato che una derivazione da culle-u(m) avrebbe dovuto dare come esito in italiano un *cuglio o *coglio allo stesso modo di it. coglia ’scroto’, it. cogli-one dal lat. cole-u(m) ‘testicolo’, latino tardo cole-on-e(m)’coglione’. Ma una tale derivazione avrebbe creato problemi di confusione tra l’eventuale *coglio ‘sacco’ e la coglia ‘scroto’. A questo punto è più logico supporre un normale incrocio (non derivazione!) intervenuto tra lat. culle-u(m) ’sacco’ e lat. coll-um ‘collo (parte del corpo)’ che ha dato it. collo ‘balla, bagaglio’. A parte il fatto che l’it. coglia ‘scroto’ sembra avere un antecedente uguale a quello greco di cole-όn ‘guaina, fodero’ molto simile, d’altronde, al lat. culle-u(m) ‘sacco’, il resto mi sembra normalissimo, inutilmente complicato da menti peraltro dotte!  O forse è stato il significato in qualche modo ristretto del lat. culle-u(m), cioè ‘sacco di cuoio (in genere per liquidi)’ a farlo mettere da parte, ma allora, con la stessa pignoleria, non dovremmo collegare alla radice cul(l)- nemmeno il lat. cul-ill-a(m) ‘grande tazza’, diversa dall’idea di “sacco” come il lat. cul-ign-a(m) ’piccola coppa’. Ma è chiaro che il significato di fondo di questi termini è quello generico di ‘cavità’ o 'rotondità', non importa se concava o convessa. Del resto anche lo stesso culle-u(m) indicava un sacco dentro il quale non si mettevano liquidi, ma i condannati per parricidio, in compagnia di qualche vipera o serpente, prima di essere gettati nel Tevere.

   Spinto dal dubbio che nutrivo sull’etimo di it. accoll-are sono andato a compulsare i vocabolari e i dizionari etimologici e ho avuto la conferma di quello che più sopra sospettavo. Tutti ripetevano la stessa cosa, tranne il vecchissimo vocabolario di P.Petrocchi (1892), il quale per lo meno non si lasciava prendere per il naso dal termine “collo (parte del corpo)”e proponeva come etimo l’ingl. coil ‘corda raggomitolata’.

    Debbo dire che si possono trovare ottimi etimi, anche solo riflettendo sui significati che una parola può avere o avere avuto in diacronia o in sincronia, nei diversi settori di applicazione. Mi sembrava che il verbo avesse potuto avere come base di partenza non il lat. coll-u(m) ‘collo (anatomico)’ ma un termine in uso nel lat. volg. *colla risalente al gr. kόlla ’colla, glutine’.  Il verbo in questione doveva così avere all’origine il significato di ‘incollare, attaccare, applicare (qualcosa su qualche altra)’ e poi, incrociatosi col lat. coll-u(m) ‘collo’, non ha potuto evitare di trasformarlo in quello di ‘applicare un carico o incarico sul collo, sulle spalle (di qualcuno)’ facendo credere a tutti, compresi gli studiosi, che questa fosse la sua legittima e incontrovertibile natura, legata a filo doppio con il significante e il significato di collo, parte del corpo umano. Ma questa è tutta una messinscena, che viene smontata da un significato che il part. passato del verbo, cioè accollato, prende in araldica: esso si riferisce a due scudi contigui, cioè accostati e quasi in contatto l’uno con l’altro, o alle figure di losanghe che si toccano per le punte.  Non si può avere una prova migliore e più concreta di questa, circa il significato originario del verbo. 

   Ora, sicuramente ci saranno altri termini nel nostro vocabolario e in quello di tante altre lingue che si comportano esattamente come questo accollare, ed è un gravissimo peccato che generazioni di giovani studenti, in tutto il mondo, debbano restare all’oscuro di questi stupendi comportamenti dei vocaboli che del resto non sono difficili da capire, perché uno studioso solitario come me (anche se da alcuni anni pubblico qualche articolo sulla rivista internazionale Quaderni di semantica) difficilmente riuscirà a far traballare apparati culturali  e poteri consolidati in linguistica, anche se dovessero per caso  condividere in cuor loro la mia visione.

   Soprattutto nei modi di dire tradizionali si annidano vere e proprie chicche che stupiscono molto, come succedeva ai miei studenti quando gliene spiegavo alcuni. Perché si dice non dire mai gatto se non ce l’hai nel sacco? In effetti non sarebbe stato meglio parlare, ad esempio, di coniglio data la maggiore commestibilità o gustosità della sua carne rispetto a quella di un gatto, anche se talora in periodi di magra, ricordo, mangiavamo noi ragazzi anche gatti.  L’equivoco si scioglie subito se si suppone dietro la voce gatto il latino capt-u(m) ‘preso’ che risulta più realistico rispetto al gatto, in quanto tutta la locuzione verrebbe a significare non dire mai: «preso!» se non ce l’hai nel sacco. Si poteva allora trattare di qualsiasi animale.

   Perché mai, ancora, si dovrebbe dare per scontato che, tr le tante addizioni aritmetiche possibili, solo quattro e quattro otto possa esprimere qualcosa fatto in un batter d’occhio? In verità basta grattarne la crosta superficiale per vedere apparire, ancora una volta, il lat. coacte ‘alla svelta’ sotto il quattro (cfr. il napoletano quattë ’quattro’) e il lat. oc(i)te(r) ‘velocemente’ sotto l’otto.  Si nota un cumulo di avverbi allo stesso modo in cui diciamo, concitatamente, a qualcuno di sbrigarsi, usando l’espressione subito, subito, veloce!

    Anche la mia lingua madre, il dialetto di Aielli, mi ha riservato una sorpresa con l’espressione ‘ngòr’ a ssòlë ‘in faccia, di fronte al sole’, la quale di primo acchito sembra doversi interpretare come, anche se con insoddisfacente approssimazione, come in cuore al sole; in realtà sotto si nasconde il puro latino incoram solis ‘di fronte al sole’.

    Questi stupendi “giochetti” non sono naturalmente appannaggio del solo italiano e dei suoi dialetti.  C’è in inglese, ad esempio, un’espressione abbastanza strana, fat chance ‘grassa (fat) possibilità’, che ha lo stesso significato di slim chance ‘esigua, minima (slim) possibilità’. Ora, lo studioso Steven Pinker[1], direttore del Centro di neuroscienza cognitiva al famoso MIT (Massachusetts Institute of Technology di Boston), si trae d’impaccio prontamente osservando che la locuzione fat chance è sarcastica: a mio avviso egli avrebbe potuto più dimessamente, ma con maggiore aderenza alla realtà, avviarsi a risolvere il problema, se avesse umilmente sfogliato un dizionario danese (io ne posseggo uno tascabile!) constatando così che dan. fed ‘grasso’ corrisponde ad ingl. fat ‘grasso’, ma che esiste anche un verbo formalmente simile alla radice in questione, e cioè fedte ‘lesinare’ e un agg.  fedted ‘unto’ ma anche  ‘spilorcio’, i quali lo avrebbero messo sulla buona strada facendogli balenare nella testa  che l’ingl. fat chance  doveva aver iniziato il suo cammino come ‘lesinata, risicata, scarsa possibilità’, dato che il fat dovette necessariamente coincidere, alla partenza, con la radice di dan. fedte ‘lesinare’. E ognuno conosce l’importanza del danese per il lessico inglese. In danese esiste anche l'aggettivo fatt-ig 'povero'  che rimanda ad una idea di "scarsità". C’è poco da fare, gli studiosi non riescono a staccarsi dalla superficie delle lingue forse perchè troppo imbevuti di norme che ne descrivono sostanzialmente solo lo strato superiore, senza riflettere abbastanza che bisogna sempre sospettare che sotto sotto la Lingua ci stia ingannando, nonostante l’evidenza! Amen.





[1] Cfr. S. Pinker, L’istinto del linguaggio, A. Mondadori edit., Cles-Tn 1997,p. 380. 





                             

sabato 23 marzo 2019

La -pidria- ‘imbuto’


                                         
La denominazione pidria ‘imbuto’, con molte varianti, è comune in diverse parti dell’ Alta Italia e nelle Marche, ma qualche suo emissario è arrivato fino in Umbria, e fino in Abruzzo se la voce pitrï-òlë ‘pevera’ si trova anche nel Vocabolario abruzzese di Domenico Bielli. I dialetti abruzzesi presentano generalmente forme   come m-mutt-ijjë, mut-ellë ecc. e così non saprei precisare di quale paese sia la forma, da noi piuttosto rara, registrata dal Bielli, il quale non è solito, però, indicare l’origine dei lemmi.

   Va ancora per la maggiore, mi pare, la spiegazione della parola data dall’ Ascoli, famoso linguista dell’Ottocento.  E anche geniale se egli propose all’origine di pidria  una forma *plè-tria (la ‘riempitrice’, dalla nota radice greco-latina ple-). Si scoprì successivamente che una voce plédria ‘imbuto’ esisteva veramente nel dialetto di Bormio, provincia di Sondrio in Lombardia. Anche nel friulano si ha plére.  Sempre nel nord Italia ricorrono forme come piria ‘imbuto’ con molte varianti, derivabili da pidria allo stesso modo in cui il personale Pietro ha dato Piero.

   Ebbene, nonostante tutto questo, debbo dire che io sono entrato in un ordine di idee che non mi consente di sottoscrivere il pur accettabile ragionamento dell’Ascoli.  Per il motivo che dirò.  Io credo che la forma pitria ‘imbuto’ sia indipendente da plé-dria ’imbuto’ e lo deduco dal fatto che essa doveva avere come base un termine indicante un vaso, una cavità come l’abr. pet-ittë ‘boccale grande’, abr. pët-àrrë (cfr. pidariò ‘imbuto’, in Lombardia) ‘vaso di terracotta per conservare olio, frutta’ che, a mio parere, rinvia al gr. pith-ári-on ‘vasetto, botticella’, gr. píth-os ’orcio, botte’, gr. pith-ṓn ‘cantina, tinello’: il nome di un famoso inghiottitoio del lago del Fucino, presso Luco dei Marsi-Aq, persiste nel toponimo attuale Petόgna.  Un inghiottitoio fa proprio al caso nostro di “imbuto”. La radice si poteva prestare anche a designare una casa cadente (pet-arr-èllë, sempre nel Bielli), come dire un buco, una baracca.  E sono convinto che l’it. federa, fatto derivare da un longobardo *fedara, con la spiegazione che esso avrebbe indicato le penne (cfr. ted. Feder ‘penna’) o altro materiale simile di imbottimento, in realtà indicasse il sacchetto stesso come da noi. Naturalmente da una forma *petara con il passaggio normale della labiale sorda /p/ a fricativa sorda /f/: d’altronde non si tratterebbe d’altro che di una variante di gotico fōdr ‘custodia della spada’. 

   Ma il termine che mi ha fatto sussultare di stupore è il trasaccano pittriàta,pettriàta (ma diffuso ampiamente altrove) e la spiegazione che ne dà il Lucarelli[1] nel suo libro che è la seguente:

“ E’ così detta la sacca che si forma intorno a tutta la vita di una persona, fra il petto e la camicia,chiusa, quest’ultima, nel davanti con i bottoni e tenuta bloccata, nella parte bassa, dalla cinghia dei pantaloni. In tale sacca, a contatto col corpo, da bambini mettevamo la frutta che rubavamo nei campi altrui, ad esempio uva, mele, pere, noci e così via. Essa veniva usata anche dagli adulti per le stesse occasioni, oltre che per altre necessità.”. 

   A me pare chiaro che questo significato di sacca debba riportare il termine a quelli simili  precedenti, citati per il concetto di ‘cavità,vaso, botte’ e che la parola “petto” non sia altro che una disturbatrice sguinzagliata dalla Lingua, col compito di indurci ingannevolmente a credere che la radice della parola sia la stessa di petto, come tutti credono. In realtà siamo di fronte, come spessissimo accade, ad un riuscitissimo camuffamento messo in atto dalla Lingua nei nostri riguardi, giacché siamo persone razionali finché rimaniamo, in fondo, sulla superficie delle cose, ma appena si tratta di andare più a fondo, facilmente ci confondiamo ed impappiniamo, contrariamente alla Lingua che è molto, ma molto più vecchia di noi e forse più saggia, e trova facile menarci per il naso. Ha questo comportamento, probabilmente, perché non vuole essere disturbata, e vuole dormire sonni tranquilli per l’eternità vasta e silenziosa, in cui si nascondono forse il seme e la prima radice della Verità.

   Un altro, sia pur timido, indizio che conferma quanto vado sostenendo è l’ingl. pit ’abisso, voragine, buco, fossa, fosso, ecc.’ che in anatomia indica quello che noi chiamiamo bocca dello stomaco, cioè la cavità superficiale dell’addome appena sotto lo sterno (per chi naturalmente riesce a mantenere la linea).

   Faremmo meglio, se la scienza linguistica ce lo permettesse, ad auscultare piuttosto, con attenzione, e prendere per vero quello che certi toponimi ci suggeriscono, come Valle-pietra in provincia di Roma, il cui secondo elemento ripete a mio parere il primo di Valle; come Fosso la Pietra di Castel di Sangro-Aq, e fosso Pietra di Salomone che dovrebbe trovarsi non lontano dal Passo delle Capannelle vicino all’Aquila.

   Per la plé-dria ’imbuto’ di Bormio penserei ad un radice simile  a quella di lat. pil-a(m) ‘mortaio, tinozza’ o gr. péll-a ‘vaso  per mungere’, gr, pél-yks ‘vaso per mungere’,lat. pel-vi(m) ‘catino, paiolo’ con intervenuta metatesi pel/ple .  D’altronde la radice di lat. ple-nu(m) ‘pieno’, considerata alla base di plé-dria, aveva la forma normale di pelē-.  Per il membro –dria non c’è di meglio che rimandare all’elemento tri- di lat. tri-modi-u(m) ‘vaso di tre moggi, tramoggia’ di cui ho ampiamente discusso nell’articolo Tramoggia di qualche giorno fa e presente nel mio blog (pietromaccallini.blogspot.com).

    Spulciando il vocabolario del Bielli ho incontrato anche la forma pìrïë (non pitrïë) imbottatoio, pevera’ che mi pare, dagli elenchi in mio possesso, non scenda più in giù dell’Emilia Romagna.  Ora a me sembra che nei nostri dialetti, almeno in quello di Aielli che conosco meglio, non si possa ammettere un passaggio dal gruppo consonantico /tr/ alla sola /r/ credo per il semplice motivo che da noi non si è avuta una fase intermedia di indebolimento delle consonanti sorde come la /t/ trasformate in sonore come /d/ e poi magari cadute. Da noi il personale Piero, ad esempio, che pure esiste, lo si avverte come straniero, stante il suddetto comportamento del dialetto. Allora la forma pìrïë reclama a gran voce un radicale diverso da quello di abr. pitrï-òlë  sopra citato.  Si possono elencare l’it. paiolo <lat. mediev. parjol-u(m), sp. per-ol ‘paiolo’,port. par-ol ‘paiolo’, cornovallico per ‘paiolo’, ecc. in quanto cavità. Secondo me la radice profonda è quella di gr. pόr-os ‘passaggio’, gr. peír-ein ‘passare da parte a parte, attraversare’, prepos. lat. per ‘attraverso’, lat. port-u(m) ‘porto, in quanto passaggio’, ingl. ford ‘guado’, ted. Furt ‘guado’, ingl. firth ‘braccio di mare, fiordo, estuario (tutte insenature, aperture, cavità)’.  Ma la parola che ha assestato il colpo finale è il trasccano pir-éttë, termine maschile singolare. Con esso si indicava una specie di fiasco rigonfio dal collo lungo, schiacciato al centro,in modo da creare due canaletti: nell’uno passava il vino da versare, nell’altro entrava aria man mano che esso si versava,senza provocare rigurgiti.   Un perfetto sistema di sifonamento! Se vi si fa caso, la voce pir-éttë, oltre che a mostrare una forte parentela con con i termini precedenti, è il perfetto sosia italico del germanico firth ‘fiordo, estuario’ sopra citato che, secondo le norme della cosìddetta rotazione consonantica, indicata spesso col termine ted. Lautverschiebung, presenta la fricativa sorda iniziale –f- al posto della labiale sorda –p-.  Non deve  sfuggire il forte accento iniziale delle parole germaniche che provoca in genere la caduta delle vocali atone successive: così una eventuale forma pir-éttë  sarebbe diventata *pirt > firth.

    Così stando la situazione, si può dare il caso che anche nel settentrione d’Italia le forme del tipo piria ‘imbuto’, sebbene ricollegate, del tutto legittimamente per la fonetica, alle forme pitria ‘imbuto’, possono aprire uno spiraglio per la supposizione che esse, invece, attingano a radice originaria –pir- da rintracciare in qualche parola di significato affine o genericamente di cavità, oppure in qualche toponimo per fosso, valle e simili. Amen!




[1] Cfr. Q.Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo, avezzano-Aq, 2002.

mercoledì 20 marzo 2019

Campo Cavallo


                                   

La località è presente nella cartina dell’IGM 1/25000 del territorio di Aielli-Aq. registrata, però, in forma errata: Campo Carallo. Si tratta di una zona a noi ben nota, appena a sud-est di Aielli Stazione.

   Inizialmente pensavo che il nome dovesse indicare il leggero rilievo che da quel punto più o meno pianeggiante si solleva e porta all’insediamento di Aielli Stazione, ma successivamente, riflettendo bene sulla questione, ho inclinato a credere che si trattasse di ben altro.  La spiegazione dei toponimi, molto più di quella del lessico di una lingua, non è certamente cosa facile da prendere a gabbo e spesso lascia il tempo che trova.  Anche se, stranamente, debbo riconoscere che quel poco che so di linguistica e che mi distingue da altri, lo debbo sostanzialmente ai toponimi ai quali mi dedicai anima e corpo, sui miei quarant’anni, con una assiduità di cui mi meravigliavo io stesso.  Ora sarebbe un po’ lungo spiegare perché essi sono stati così importanti per il mio studio successivo del lessico, e pertanto  vi sorvolo, chiedendo venia a qualcuno che invece ne sarebbe interessato.  Ma il mio compito, adesso, è di capire il significato di Campo Cavallo.

   Quasi sempre i toponimi indicano – sembra di stare a scoprire l’acqua calda la realtà fisica e geografica cui si riferiscono, un monte, una valle, una fonte, ma con termini appartenuti a lingue preistoriche che ci hanno preceduto anche di decine di migliaia di anni.  Ora se si va a vedere la cartina di cui sopra si scopre che la zona indicata come Campo Cavallo risulta all’interno di un’ampia curva descritta dal Rio di Aielli.  Oggi però un eventuale osservatore diretto viene distratto dalla presenza della strada nazionale Tiburtina-Valeria che lambisce la zona, o da qualche costruzione nelle vicinanze, e soprattutto dal fatto che il letto del ruscello è spesso asciutto.  Ma in tempi remoti, esso doveva essere più abbondante di acqua e la zona magari era coperta da vegetazione arborea ai lati del ruscello, sicchè il suo tracciato sarebbe stato evidentissimo ai nostri antichissimi antenati cacciatori che lo percorrevano in cerca di prede e che dovevano fissare anche punti di riferimento nell’ambiente dove vivevano.

   Sarò breve. Per me il termine più antico dei due deve essere Cav-allo  che, come ho mostrato nel precedente articolo Tramoggia (cfr pietromaccallini.blogspot. com), presenta in qualche toponimo il significato di cavità il quale fa al nostro caso, in quanto un curva rientra in quel concetto. Ma anche nel lessico (vedi sempre l’articolo citato) salta fuori qualche spia, quando con esso indichiamo l’inforcatura dei pantaloni, ad esempio, che è una sorta di ‘cavità’(mi spuntano quasi le lacrime riflettendo che queste radici possono arrivarci dai nostri remoti antenati).  Ma non è tutto. Nel sardo logudorese la voce caddinu <*cavallinu oltre a significare ‘cavallino’ indica anche il ‘cerchio’. Come mai? Gli è che una curva è una cavità, una concavità, e pertanto anche una  rotondità e un cerchio. In questi casi naturalmente il cav-allo non indica l’animale ma è ampliamento di lat. cav-u(m)’cavo, vuoto’.

   E così siamo giunti alla parola  Campo.  C’è una piccola spia del fatto che essa non può essere la stessa del lat. camp-u(m)’pianura, campo aperto, campo coltivato, piazza’. Noi in genere in dialetto non usiamo questo termine per indicare un campo coltivato che, invece, chiamiamo terra.  Stando a quello che ho detto per Cavallo allora si deve suppore che Campo ripete tautologicamente (come spesso avviene in toponomastica) il concetto da quello espresso: curva.  Un’altra civiltà si sovrappone alla precedente che usa un altro termine per curva e il gioco è fatto: il vecchio nome, diventato nel frattempo opaco nel significato, è sostituito dal nuovo, ma il vecchio non scompare e rimane come perfetto nome proprio.  Ora io credo che Campo non sia altro che il gr. kamp ‘curva, svolta, sinuosità (di fiume)’, o il celtico cambo 'curva, meandro'. Il termine ci sta a pennello.

  Si dà anche il caso che una località, frazione di Fagnano Alto-Aq, porti il nome di Camp-ana e si trovi proprio in corrispondenza di una ben visibile curva del fiume Aterno. Le camp-an-elle erano degli anelli metallici infissi nelle mura delle case, dove si legavano gli animali da soma. Una esisteva, e esiste ancora, anche nella mia vecchia casa.  Ritorniamo quindi al concetto espresso dal sardo logudorese cadd-inu ‘cerchio’. 

   E’ utile ricordare che questi toponimi i quali, così radicati nel terreno rimandano a radici greche, non possono essere spiegati  come conseguenza di influssi arrivati dalla Magna Grecia a partire dall’ottavo-settimo secolo a.C., problema di cui ho parlato in altro articolo.  Ricordo ancora il Fiume Natolia, una sorgente non lontana da Campocavallo, Il paese di Santa Anatolia-Ri al confine con la Marsica e ricco di sorgenti, Fonte Anatella in quel di Rovere-Aq nella Marsica, Fonte Ranë a Celano-Aq. (italianizzato in Fonte Grande) che, come ho mostrato in altro articolo, secondo me presuppone un greco dorico krána ‘fonte’: tutti questi toponimi  a mio avviso si trovano qui dalla preistoria, anche profonda, portati da gruppi di migranti che potevano parlare anche una lingua diversa dal greco, ma che avevano nel loro vocabolario parole di stampo greco ab illo tempore.   Anatolia  è parola prettamente greca (anatolḗ) col significato di ‘sorgere del sole, oriente’ ma anche di ‘sorgente, fonte’. 
   
      Da quanto detto mi pare facile dedurre che il termine tardo latino camp-an-a(m) 'campana'  fosse così chiamato perchè essa non era altro che una cavità, nonostante gli antichi credessero che  fosse  scaturito dall'espressione (vasa) Campana 'vasi (di bronzo) della Campania', perchè in quella regione si sarebbero costruite la prima volta, cosa per nulla  certa.  Anche il termine greco per ‘campana’ ricorre all’idea di “cavità, rotondità”. Essa suona infatti kṓd-ōn ‘campana, campanello’ ed è da confrontare con gr. kṓd-eia, kōd-ía, kōd-ya. kṓdy-on ‘testa, testa di papavero, ventre della clessidra’ che non può non essere apparentato con gr. kṓth-ōn ‘brocca,fiasco’. Amen!