domenica 29 marzo 2020

Lë vërënzàlë.


    C’è qualche ragazzo ad Aielli che ancora conosca questo bel termine di genere femminile e numero plurale, asciutto asciutto con le sue /e/ mute e l’esplosione del suono nella /a/ accentata? Spero di sì!   Il suo significato corrisponde all’it. stillicidio, la caduta dell’acqua piovana direttamente sulla terra dalle gronde delle case di una volta, spesso prive del canalino di raccolta che immette in quello che con termine tecnico ora viene chiamato discendente, nel nostro dialetto, invece, canalonë.

   Ricordo che avevo sui trent’anni quando chiedevo ai miei alunni, solitamente provenienti dai diversi paesi della Marsica, il nome, nel loro dialetto, di queste aiellesi vërënzàlë, cercando la conferma dell’idea che nel frattempo me ne ero fatta. Pensavo  che esse provenissero dalla radice di ted. ver-rinn-en ‘scorrere (di liquido o tempo)’, dato che in quella lingua esiste anche il sostantivo Rinn-sal ‘rigagnolo, ruscello’, assonante appunto con le nostre vë-rënzàlë.  Già da allora, ma anche da molto prima, avevo il pallino delle etimologie, e ci rimasi un po’ male quando un ragazzo di Capistrello-Aq mi disse che nel suo paese l’acqua o le gocce che cadevano  direttamente dalle gronde, senza essere incanalate in un discendente, si chiamavano ronzàne o forse (non ricordo bene) usò il sing. ronzàna, che ricorre anche  ad Avezzano-Aq[1] e a Castellafiume-Aq[2] : ci rimasi un po’ male perché con questa voce, assonante con la corrispettiva aiellese, credetti  di individuare l’etimo di aiellese vërënzàlë nel termine gronda < lat. tardo grund-a(m). La velare sonora iniziale /g/ seguita dalla liquida alveolare /r/, infatti, nei nostri dialetti cade in genere senza provocare altri guasti, ma in alcune parole essa si trasforma in fricativa sonora /v/  seguita dalla muta /e/ come nel trasaccano ant. verόtta ‘grotta’. e nello stesso trasaccano vërënz-ànë[3] ‘gronda, senza canale di raccolta, che lascia cadere giù le gocce’.  

    E così anche dopo,  per lungo ordine di anni fino ad arrivare ad oggi, ho creduto in quella supposta origine, che mi era sembrata del resto inoppugnabile. Ma mi sbagliavo.  La spia incontestabile che le cose dovevano essere diverse, e in fondo proprio come avevo immaginato in un primo tempo pensando a radice germanica, è costituita dal suffisso -àlë (-ànë) della parola, che richiama senza dubbio il suffisso tedesco -al  di Rinn-sal ‘rigagnolo, ruscello’ e non è affatto autoevidente che ronzàle  debba intendersi come derivante da gronda, anche perchè più di due terzi finali della parola , e cioè ronzàle corrispondono esattamente a quelli di Rinn-sal, data anche la circostanza della pronuncia come fricativa sonora /z/, nei nostri dialetti,  della fricativa sorda /s/ quando quest’ultima è preceduta da consonanti liquide come /n,r,l/ : insomma da noi un verbo come it. pens-are, ad esempio, viene pronunciato come se fosse scritto penz-are. E anche ammettendo la derivazione di ronzàle da gronda < * grundi-ale?, non si capirebbe bene però il suo eventuale significato di ‘quelle (le gocce?) della gronda’: avrebbe potuto trattarsi anche di tegole della gronda: non è così infatti che opera la Lingua, la quale  indicherebbe in questo caso non si sa bene che cosa!

    Ora,  la radice di ted. rinn-en ‘scorrere’ può essere preceduta dal prefisso ge-  come in ted. Ge-rinn-e  e significare proprio ‘stillicidio, canale, condotto (d’acqua)’. E il gioco così è fatto: in qualche parlata germanica dei tempi più antichi era infatti possibilissima la presenza di un *ge-rinn-sal ‘stillicidio’ anche nella forma, se si vuole, *ge-runn-sal , se si pensa all’ingl. run ‘correre, scorrere’, variante di ted. rinn-en ‘scorrere’.  E’ quindi chiarissimo come il sole che quest’ultima forma si sarebbe incrociata fatalmente col tardo lat. grund-a(m) ‘gronda’, il quale è tardo solo perché appare tardivamente in qualche scritto, ma la sua radice viveva da epoche immemorabili se compare anche nel latino classico sub-grund-a(m) ‘gronda’, sub-grundi-u(m) ’gronda’.   E’ pertanto supponibile che lo stesso verbo it. grond-are, considerato un denominativo derivante direttamente da gronda, sia stato invece messo in moto da termini come *ge-runn-sal ‘stillicidio’ sopra citato, incrociatosi certamente con lt. grund-a(m) .

         Un’altra osservazione di notevolissimo peso  circa la impossibilità della presenza originaria di lat. grund-a(m) ‘gronda’ nell’aiellese vërënzàlë ‘stillicidio’ è il significato di ‘goccia piovana’ della rispettiva voce vrëndzòla  del dialetto di Opi-Aq[4].  Il termine di Opi-Aq ci dice che il significato più antico della parola riguardava le gocce dell’acqua piovana, non specificamente quelle che cadevano dalle gronde sprovviste di canalino di raccolta.  Infatti il significato di fondo del verbo tedesco rinn-en è solo quello di ‘scorrere, correre’, anche se il vocabolo andava specializzandosi pure in quella lingua.  Infatti ted. Rinne vale ‘scanalatura, zanella, gronda’  e ted. Ge-rinne vale ‘stillicidio, canale, condotto d’acqua’.

    Ma, attenzione!  In alcuni dialetti abruzzesi i vërënzànë (Alfedena-Aq) significano ‘i ghiaccioli (che pendono dalla gronda)’.  Come è possibile  questa trasformazione di significato? Si deve supporre che i vërënzàlë debbano essere intesi come quelli della gronda? Certamente ci sarà stato un incrocio, anche se in questo caso si deve tener presente il solito ted. gerinn-en che significava, però, anche ‘coagulare, cagliare’: il ghiacciolo, quindi, non era altro che un coagulo come  nel ted. Ge-rinn-sel ‘coagulo’.  A me pare che questa radice rinn, ingl. run ’correre’ avesse nel fondo il significato di spingere per poter indicare anche il coagulo (dal lat. cog-ĕre<*co-ag-ĕre ‘spingere insieme’). E forse anche il latino tardo grund-a(m) ‘gronda’ di etimologia oscura è un portato di questa radice nel significato di ‘spinta, aggetto (dal muro)’.  E quindi, se così fosse, tutto questo nostro affannarci a distinguere le radici risulterebbe in fondo vano.

      Quest'ultimo significato di 'ghiacciolo' a mio parere taglia la testa al toro, eliminando ogni legittimo dubbio sull'origine del termine dialettale in questione.         

    Suppongo ancora che questi termini di ascendenza germanica non siano stati portati tutti dalle invasioni barbariche, ma che essi dimorassero su suolo italico a partire dalla preistoria.  I molti occhi chiari (verdi o azzurri), di persone abruzzesi e no, stanno a dimostrare a mio parere che sangue germanico circolava nelle nostre vene già prima dell’arrivo della lingua di Roma dalle nostre parti. Una volta, all’università, una ragazza di Roma mi disse: << ma in Abruzzo avete tutti gli occhi chiari!>>.  Evidentemente conosceva altre persone abruzzesi con occhi chiari.   La  cosa è confermata in qualche modo dall’analisi del DNA di ossa umane provenienti dalla Grotta Continenza di Trasacco e risalenti al Paleolitico (14.000 anni fa). Quelle ossa appartenevano ad un uomo dagli occhi chiari!   Quanto è piccolo il mondo, nonostante il tempo trascorso dalla data in cui l’uomo cominciò ad usare la lingua!

 

 



[1] Cr. Buzzelli-Pitoni, Il dialetto avezzanese, (senza indic.dell’editore), Avezzano-Aq .  2002.

 

[2] Cfr. D. Di Nicola, Storia di Castellafiume,Grafiche Di censo, Avezzano-Aq.  2007.

 

[3] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

[4] Cfr. D. Boccia, Lessico dei termini geografici del dialetto di Opi(AQ), Torino 2016, Tipografia Monti. Sito web: https://www.academia.edu/31667151/Lessico_dei_termini_geografici_del_dialetto_di_Opi_AQ_?email_work_card=view-paper

                                                  
                                                           

   


giovedì 26 marzo 2020

Strascico di riflessioni sulla incredibe derivazione di it. ghiacciolo dal lat. gladiol-u(m) 'spada,piccola spada, pugnale'.


La derivazione di it. ghiacciolo dal lat. gladiol-u(m) 'piccola spada' (dal lat. gladi-u(m) 'spada') di cui ho parlato nell'articolo precedente "La candela, con la sua luce tremula e fioca..."  è proprio da manuale. Bisogna precisare, inoltre, che anche il fiore chiamato giaggiolo o gladiolo, non ha dovuto attendere l'italiano per il suo significato, perchè già in latino gladi-ol-u(m) significava tra l'altro 'giaggiolo' oppure 'foglia ensiforme', cioè a forma di spada. Ma la incontrovertibile contemporanea derivazione di it. ghiacciolo dallo stesso gladi-ol-u(m) è, purtroppo, completamente ignota ai linguisti, che dormendo profondamente sui proverbiali sette cuscini, non hanno mai nemmeno supposto la possibilità di una cosa del genere, data la presenza allettante  e vistosa della parola "ghiaccio", da cui sarebbe evidente la derivazione di ghiacci-olo. Eppure la parola ghiaggiuolo 'giaggiolo' del vocabolario della Crusca avrebbe potuto suggerire che anche il ghiacciolo (che assomiglia quasi alla perfezione ad un pugnale o piccola spada) avrebbe potuto essere inteso come prodotto del termine lat. gladi-ol-u(m) 'pugnale, piccola spada' allo stesso modo in cui il fiore del giaggiolo (a dire il vero meno simile del ghiacciolo al un pugnale) trasse il suo nome, già in latino, da gladi-ol-u(m). Il passaggio, quindi, da un probabilissimo it. *ghiaggiuolo 'ghiacciolo' dei primi tempi  alla voce italiana ghiacciolo sarebbe stato quindi inevitabile data appunto la presenza calamitante di it. ghiaccio. E non importa se nel latino che noi conosciamo non è registrato un gladi-ol-u(m) 'ghiacciolo', perchè nel latino parlato poteva succedere di tutto, compreso l'uso di gladi-ol-u(m) per 'ghiacciolo', come è in effetti avvenuto, in base anche alla considerazione che la derivazione da gladi-ol-u(m) è più diretta, concreta e appropriata che non quella che fa risalire il ghiacciolo al termine ghiaccio, molto meno calzante rispetto all'altro: il fatto, insomma,  che una punta, uno  stecco, un bastoncino siano composti di ghiaccio piuttosto che di legno, di ferro o altro non scalfisce in nessun modo la natura essenziale della loro identità di oggetti appuntiti.

Io non voglio infierire sui linguisti, perchè in verità tutto il patatrac sta a monte delle singole derivazioni, in un loro atteggiamento erroneo rispetto alla lingua: essi credono che il gladi u(m) (o gladi-ol-um), ad esempio, sia sostanzialmente nato per indicare la "spada" e non il "ghiacciolo" mentre è assolutamente necessario e vitale per la linguistica essere convinti che non si può affatto pensare che tutti i significati attribuibili al latino gladi-u(m) o gladi-ol-u(m) derivino da questi due termini nati proprio per indicare la 'spada' o il 'pugnale', mentre potrebbe essere l'esatto contrario perchè il significato di 'spada' o ''pugnale' è una specializzazione di un significato inizialmente molto più generico, che ne comprendeva molti altri come 'punta, cavicchio, piolo, pertica, trave, protuberanza, aggetto, bernoccolo, ecc. ' e quindi potrebbe anche darsi che la primogenitura di quel termine gladi-u(m) appartenesse a uno qualsiasi dei significati sopra elencati o, meglio, a nessuno di essi. E' certamente questa forma mentis, propria della stragrande maggioranza dei linguisti, a generare tutti gli irreparabili guasti di cui vado parlando. E' tassativo: bisogna cambiare questo atteggiamento per poter risolvere con una certa facilità e senso della realtà molti fatti linguistici. Credo di essermi spiegato: non si può più credere che il lat. gladi-u(m)gladi-ol-u(m) 'spada' sia antecedente al lat.gladi-ol-u(m) 'giaggiolo' perchè il significato di fondo del termine non era nè 'spada' nè 'giaggiolo', ma uno molto più generico di essi.
Effettivamente l'equivalenza lat. gladi-ol-u(m) 'spada, pugnale' = it. ghiacci-olo< lat. gladi-ol-u(m) è, come dicevo all'inizio, da manuale, perchè incredibile, stupenda e inoppugnabile. Tutti gli studenti, dalle superiori in su, dovrebbero esserne messi a conoscenza, con l'aiuto degli insegnanti, se si vuole che essi comincino a capire veramente qualcosa della meravigliosa Lingua, incredibilmente versicolore!


 Speriamo che la dea Fortuna mi aiuti in questa operazione.

mercoledì 25 marzo 2020

La candela, con la sua luce tremula e fioca, direi che non illumini affatto chi ne cerca l’etimo. (Riveduto e ampliato, con importantissime osservazioni).



    Credo che tutti, senza tema di sbagliarmi, facciano derivare l’it. candela, fotocopia del lat. candel-a(m) ‘candela’, dalla radice luminosissima del verbo lat. cand-ēre ‘essere bianco splendente, rifulgere, essere incandescente’: comunque, chiarisco subito, che non è il grado di luminosità che impedisce la derivazione diretta ed esclusiva dell’una dall’altro.

  In edilizia la cand-ela è un puntello piuttosto lungo e sottile per ponteggio, e questo significato dovrebbe spingere il ricercatore di etimi verso il gr. kont-όs ‘pertica, asta, lancia’, ant. ind. kunta- ‘lancia’, lat. cont-u(m) ‘pertica, picca’, a mio  giudizio, almeno perché l’etimo dovrebbe avere un significato molto ampio e generico, e una cand-ela, nonostante il disturbo, diciamo così, della sua tremula luce, risponde perfettamente all’idea di “bacchetta, bastoncino, stelo, tondino”. E non lasciamoci ingannare dalla sua luce tremula né da quella abbagliante del verbo latino suddetto, come purtroppo siamo spinti a fare in conseguenza del fatto che la candela, in italiano e soprattutto in latino, era un oggetto che tutti avevano tra le mani, e tutti i giorni (veramente la sera e la notte, ma anche di giorno nelle cerimonie liturgiche, ad esempio), e perciò era destinato a farla da padrone nel nostro immaginario, inducendoci a credere che tutti i cosiddetti significati figurati o tecnici della parola fossero solo suoi derivati, quando invece  potevano  rimandare ad una radice diversa per ‘fusto, pertica’, magari perduta o finita appunto ai margini della lingua o di un dialetto, e quindi priva della forza adeguata a contrastare la frode, perpetrata miseramente, della sua identità originaria a tutto vantaggio del significato più vistoso e apparentemente incontrovertibile della parola. 
     
   Da quanto detto sopra, dunque, la cand-ela dovrebbe essere il risultato di un significato originario di ‘pertica, fusto, bastoncino (più o meno sottile)’ incrociatosi certamente con la radice abbagliante di lat. cand-ēre ‘essere bianco lucente, brillare’.  Ma gli usi figurati non finiscono qui.  

   Per sottolineare la magrezza di qualcuno si possono usare, ad esempio, frasi come questa: Tuo figlio mi pare proprio una candela, se è cereo nel colorito e allampanato nella corporatura. Frasi di uguale significato potrebbero essere, magro come un chiodo, come uno stecco.  L’ingl. candle-pin ‘birillo’ riproporrebbe senza un motivo ragionevole la candela: in questo caso, in effetti, non si ha la più pallida idea circa l’utilità di una  sua eventuale fiammella, essendo poi il componente –pin già un ‘birillo’ o uno ‘spillo’. Tutto si chiarisce quando si comprende che si tratta di una tautologia per ‘birillo’  il quale assomiglia ad un cilindretto, ad un chiodo, ad una sorta di piccolo stecco  o ad uno stecchino, insomma, per quanto  venga dotato spesso di sembianze umane.

   L’ingl. candle-stick ‘candeliere’ sembra, di primo acchito, composto creato a tavolino con le componenti candle- ‘candela’ e -stick  ‘bastone, bastoncino’, sicchè  il suo significato letterale sarebbe puntigliosamente ‘bastoncino (che sostiene) la candela’, ma non c’è nulla di più falso: si tratta solo di una reinterpretazione di un composto inizialmente tautologico, formato di due elementi dello stesso significato originario di ‘candela’.  Di tali composti, le cui due componenti, inizialmente tautologiche, divennero successivamente distinte in determinante e determinato, con significati diversi tra loro, sono strapiene le lingue germaniche, che, ad un certo punto della loro lunga storia, a mio avviso riciclarono i precedenti composti tautologici.  

    Il termine che chiarisce in modo definitivo  quello che sto dicendo è il diminutivo it. candel-etta, il quale in urologia indica un bastoncino cilindrico che serve per sondare diversi condotti e soprattutto l’uretra: ma Dio buono!  è mai possibile che un oggetto somigliante ad una asticciola e ad uno specillo, termini molto generici, debba ricorrere all’idea specifica di “candela”, non strettamente collegabile, sul piano sincronico della lingua, a quella dello strumento in questione? Nooo! Ma la risposta diventa: Siii! appena spieghiamo che sicuramente (voglio essere perentorio!) la parola cand-ela in epoche lontane o lontanissime, come dimostra la candel-etta suddetta, doveva indicare un semplice bastoncino e simili. Naturalmente poi si è verificato l’incrocio inevitabile con la radice di lat. cand-ēre ’essere splendente, infuocato’ che ne ha determinato la specializzazione per via della fiammella della candela, da cui tutti sono rimasti incantati e linguisticamente abbagliati!

   In abruzzese[1] la voce cannélë (< lat. candel-am), oltre a significare ‘candela’ vale anche ‘asta, asta pubblica, incanto’. Al plurale la voce indica ‘antenne, che sostengono le pancate nelle fabbriche’.  Allora risulta evidente che l’it. in-canto ‘pubblico appalto’ non può derivare dall’espressione del latino medievale in quantum? (a quanto si vende?) ma da un termine da cui si formò la parola cand-ela ‘asta’, cioè la radice cand-, cant- variante di quella di gr. kont- όs ‘asta, lancia, pertica’, citata all’inizio.  Quindi all’origine la locuzione *in canto doveva avere lo stesso significato di lat. sub hasta ‘all’asta’ letteralmente ‘sotto l’asta’, in quanto la vendita o l’appalto soleva avvenire presso un’asta piantata sul terreno, simbolo d’autorità.  Non si scappa: l’abruzzese cann-ela ‘asta, antenna, asta pubblica’ apre gli occhi anche a chi si ostina a tenerli chiusi e anche a chi volesse fare riferimento  al tipo d’asta detto della candela vergine, in base al quale il gioco delle offerte e controfferte poteva durare fino allo spegnimento di una o più candele.  E’ pensabile, piuttosto, che questo tipo d’asta sia stato suggerito dall’incrocio del significato di asta con quello di candela.

    E l’espressione idiomatica Il gioco non vale la candela sarebbe veramente nata nelle antiche locande dove la sera si accendevano candele (ma, più verosimilmente, solo lumi ad olio) e i giocatori di carte erano tenuti a lasciare una piccola somma di  denaro per il loro consumo? Non credo: questa spiegazione dové subentrare ben successivamente nella storia della Lingua, quando l’iniziale candela che era nata con altro significato, si incrociò con il significato che conosciamo.  Abbiamo infatti visto sopra che l’abruzz. cannélë ‘candela’ valeva anche asta pubblica e avrebbe quindi potuto indicare, a mio avviso, anche il bene sottoposto all’asta o il suo valore in denaro.  Sicchè non sarebbe fuori luogo un suo successivo significato di ‘posta in giuoco’. Tutta l’espressione avrebbe avuto allora il senso di ‘il gioco non vale la posta (in gioco)’.  Inoltre l’espressione italiana è la traduzione della locuzione francese Le jeu ne vaut pas la chandelle e in quella lingua esiste un’altra espressione che suona ‘devoir une fière chandelle a quelqu’un ‘essere grandemente obbligato a qualcuno, essere in debito con qualcuno’ ma letter. ‘dovere una grande candela a qualcuno’.  Il che mi pare che non abbia molto significato, se non nel senso di dover accendere una bella e grande candela a qualcuno che nei confronti della persona parlante si è comportato come un Santo che avesse esaudito sue richieste.  Ma quel fier ‘fiero, orgoglioso, arrogante, grande’ non mi sembra molto appropriato per una ‘candela’ e per questo vedrei sotto chandelle un significato proprio ed originario di ‘debito, somma dovuta’ scivolato poi in quello figurato di ‘obbligazione, gratitudine, ecc.’.

   Nel dialetto di Aielli e in altri la voce cannëlόttë sta per ‘ghiacciolo (che pendeva dalla falda sporgente del tetto, causato dal ghiacciarsi delle gocce d’acqua che cadevano dalle gronde sprovviste di canalino raccoglitore’).  Man mano che il freddo aumentava le gocce si trasformavano in ghiaccioli simili a grossi chiodi di ghiaccio o magari a candele di ghiaccio, dato il colore biancastro di essi. E pertanto si penserà da parte dei sapienti: chi è quello sprovveduto  che potrebbe dare un etimo della parola aiellese cannëlottë ‘ghiacciolo’ senza ricorrere all’it. candela, data la loro stretta somiglianza, o alla parola it. ghiaccio se si cerca l’etimo di ghiacci-olo?   Lo sprovveduto sono io, e me ne vanto!  Abbiamo già notato che l’it. candela è un termine troppo specifico per poter indicare qualsiasi ‘bastoncino, chiodo, pertica’ e abbiamo già chiarito che all’origine candela indicava appunto questi significati.  E ghiacci-olo (nel senso di ‘punta di ghiaccio pendente d’inverno dai tetti o altro), per il quale gli etimologi dormono sonni profondi data l’evidenza, a loro giudizio, della sua origine da ghiaccio (< lat. glaci-em ‘ghiaccio’)? Sarebbe ora che vi svegliaste, mie cari ricercatori! Giacchè voi conoscete senz’altro la parola it. giaggiolo, un fiore delle gigliacee dai gambi ben eretti e lunghi, e sapete anche che la parola deriva dal lat. gladi-ol-u(m)< lat. gladi-u(m) ‘spada corta (dei legionari romani) e dei gladiatori’. Solitamente, infatti, il nesso consonantico latino /gl/ dà come esito in italiano il suono velare-palatale /ghi/, in questo caso palatilizzato completamente in /gi/; il nesso lat. /di/ ugualmente si può  palatalizzare in /gi/ se seguito da vocale come in it. giorno < lat. diurn-u(m). Pertanto è chiaro come il sole che dietro l’it. ghiacciolo dorme i suoi sonni secolari una forma precedente gladi-olu(m) diventata prima *ghiaggi-olo (esiste però realmente, nel vocabolario della Crusca, la forma ghiaggi-uolo per ‘giaggiolo’) e poi fatalmente ghiacci-olo per influsso di it. ghiaccio. Ecco perché l’it. ghiacciolo può riconoscere come genitore legittimo solo il lat. gladi-ol-u(m), anche se ad un certo punto della sua storia è subentrato un altro genitore, illegittimo, che ha fatto del tutto per sostituirsi a quello vero, nascondendolo alla perfezione per l’eternità, se non fosse arrivato il sottoscritto a rompere l’incantesimo che copriva una vera e propria falsità ed ingiustizia. Perché  anche le parole anelano al riconoscimento della verità! Il ghiacciolo come ‘gelato (con bastoncino di legno per sostegno)’ è un’invenzione abbastanza recente, ma curiosamente, riprende in parte il significato etimologico della parola, con quel bastoncino.

   E’ curioso il termine inglese ic-icle per ‘ghiacciolo’.  Esso infatti è costituito da due membri:1) ice ’ghiaccio’(ant. ingl. is’ ghiaccio’) e 2) -icle, dal medio inglese ikel ‘ghiacciolo’, sicchè l’ing. ic-icle dovrebbe significare letteralmente ‘ghiacciolo di ghiaccio’, definizione chiaramente innaturale ed irrazionale. Semmai, si può supporre all’inizio un composto tautologico per ‘ghiaccio’. Io non credo che questo ikel ’ghiacciolo’ derivi dall’ant. ingl. gicel ’ghiacciolo, ghiaccio’, ma che esso sia in qualche relazione con la radice di ingl. edge ‘orlo, filo (di coltello o altro), punta’, di ted. Eck ‘angolo, punta’ derivati dalla radice indoeuropea ak- ‘acuto, punta, ago, ecc.’ presente anche nella variante serbo-croata igla ‘ago, spillo’, simile al medio inglese ikel ’ghiacciolo’.  E’ quindi razionalmente ammissibile che quest’ultima voce medioinglese avesse avuto all’inizio il significato di ‘punta, bacchetta, stecco, asticella, ecc.’, adattissimo per il concetto di “ghiacciolo” come già visto.  La stessa situazione si verifica nel ted. Eis-zapfen ‘ghiacciolo’ oppure ted. Eis-zacken ‘ghiacciolo’, composti in cui i determinati –zapfen e -zacken  hanno rispettivamente i significati di ‘tappo, perno, cavicchio, ugola’ e di ‘punta (di monte), dentello’.  Va da sé, a mio avviso, che anche la componente Eis ‘ghiaccio’ doveva avere, in questi casi, il valore originario di ‘piolo, cavicchio, punta, ecc.’, tautologico rispetto all’altra componente. Una spia di ciò è avvertibile nel composto ted. Eisen-kraut ‘verbena’, una piantina erbacea, con gambi alti fino a circa mezzo metro, ritenuta sacra dai Romani.  La componente -kraut significa ‘erba, verdura, cavolo’. Tra i diversi nomi con cui è nota la piantina in Germania ce n’è anche  uno che ripropone una radice similissima a quella di ted. Eisen (< medio alto ted. isen ‘ferro’) nella prima componente, e cioè Iseu-kraut ‘verbena’. Ma c’è di più: la verbena era chiamata nell’antico egizio “lacrime di Isis“, in cui ricompare una radice simile a quella della famosa divinità egizia (Iset, Ist, Aset, Hes, ecc.) con cui si incrocia. Il culto di Isi, Isis, Iside si diffuse in tutto il Mediterraneo raggiungendo anche la Gallia, La Germania e La Britannia. Un altro nome tedesco per ‘verbena’ è Stabl-Kraut il cui primo membro deve essere un derivato del ted. Stab ‘bastone’. 

   E’ istruttivo gettare, poi, uno sguardo alle parole usate da alcune lingue germaniche per ‘ghiacciolo’.   Interessanti sono il dan. spis-is ‘ghiacciolo (gelato)’, dal significato letterale di ‘ghiaccio (-is) da consumare, mangiare (spis-)’, fotocopia del ted. Speise-eis ‘gelato, ghiaccio puro da tavola’. Il significato di ghiacciolo in danese mi suggerisce però che i membri iniziali dan. spis-  e ted. Speise- non indicavano affatto il ‘cibo’ o il ‘mangiare’ all’origine, ma dovevano corrispondere al ted. Spiess ‘lancia, asta, spiedo’ e danese spid ’spiedo’, dan. spids ‘punta’.  E così in questo caso anche i membri dan. -is e  ted. -Eis ‘ghiaccio’ in realtà dovevano necessariamente significare anch’essi ‘punta, stecco, spiedo,  ecc.’.  I composti danese e tedesco dovevano indicare qualsiasi oggetto appuntito, compreso il ghiacciolo nel senso di ‘punta di ghiaccio’.  Questa mia affermazione credo possa essere messa facilmente alla prova, data appunto l’invenzione recente del ghiacciolo (gelato) e, suppongo, la presenza in queste lingue di testi antecedenti a quella data e contenenti i suddetti composti, ma col significato di ‘ghiacciolo (punta di ghiaccio)’ o di ‘bacchetta, spiedo, asta, ecc.’ o d’altro. Sono pronto a giocarci la mia credibilità!  Anche se i detti composti potrebbero starsene nascosti, quatti quatti, in aree dialettali o, addirittura, essere scomparsi.

    Appena arrivò poi l’invenzione del tipo di gelato suddetto (appena un secolo fa), la lingua trovò molto semplice e comodo riciclare i precedenti significati di quei composti. Naturalmente si poteva verificare anche la possibilità che all’inizio vi fosse, in alcuni casi, un composto tautologico per ‘ghiaccio’ che successivamente avrà subito tutti gli incroci possibili.

   In danese si incontra anche il composto is-pind ‘ghiacciolo (gelato)’, letteralmente ‘stecco (-pind) col ghiaccio (is-)’, ma originariamente solo ‘stecco’ in ambo i membri. 

   Sto pensando, da un po’ di tempo, che il lat. geli-cidi-u(m) ‘agghiacciamento, ghiaccio, brinata’ in realtà non ce la conta giusta, perché solo il significato di ‘brinata’ potrebbe essere giustificato dalla lettera del termine, e cioè ‘caduta di gelo’, mentre gli altri due non hanno bisogno affatto dell’idea di “cadere, caduta” espressa dal membro –cidi-u(m), da lat. cad-ĕre ‘cadere’; inoltre anche il termine marinaresco it. gelicidio ‘intenso freddo che guasta e piega le fibre del legname di una nave’ non ne ha ugualmente bisogno.  A me pare che quindi il significato di fondo del composto doveva essere solo quello di ‘gelo, freddo, ghiaccio’, e allora bisognerebbe  a mio avviso intendere la parola latina come una reinterpretazione di un  possibile *gel-icili-u(m) ‘gelo, freddo, ghiaccio’ il cui secondo membro –ic-ili-u(m) non è altro che la nostra vecchia conoscenza del secondo membro del composto  ingl. ic-icle ‘ghiacciolo’, per il quale avevamo supposto,tra l’altro, anche una possibile ripetizione tautologica per ‘ghiaccio’.  E allora l’idea di “punta, stecco” presente in –icle va a farsi friggere? Non direi se c’è chi[2] riporta addirittura il termine lat.  glaci-e(m) ad un precedente *gel-aci-e(m), somma di due parole per ‘punta’: la radice indoeuropea ak ‘acuto, punta, ecc.’ l’abbiamo incontrata sopra; il valore di ‘punta’ del membro gel-, da lat. gelu ’gelo, ghiaccio, freddo, grandine brina’ è attestato nel lituano gél-ti ‘pungere’. Il gelo avrebbe preso il nome dall’essere pungente.   Io non ci credo, e lo spiegherò tra poco, ma credo nella possibile presenza di questa radice nel medio ingl. ik-el ‘ghiacciolo’ e nel secondo membro di lat. geli-cidi-u(m) < *gel-ic-ili-u(m).  Ci sarebbero anche altre osservazioni da fare ma le rimando ad altra occasione. Quello che ho detto fin qui è di certo sufficiente a far capire i giochi cui ricorre la Lingua per offrire all’uomo una comunicazione il più possibile chiara e specializzata.  Le radici sono non solo multicolori ma anche versicolori, nel senso che possono cambiare significato, e anche profondamente, da un caso all’altro. Per il semplice motivo, a mio parere, che una radice nasce sempre non con un marchio unico e indelebile, ma con una natura molto vaga ed indefinita, cosa che risulta inconcepibile alla nostra mente abituata, al contrario, a vedere marchi di significato immutabile o quasi in ognuna di esse, nonostante il gioco dei valori figurati, i quali non sono altro che una copia piuttosto sbiadita della incontenibile mutevolezza di fondo.  In un certo senso coglieva paradossalmente nel vero il grande scrittore francese del Rinascimento F. Rabelais che definiva l’etimologia, prendendola in giro, come “scienza in cui le vocali non contano nulla e le consonanti pochissimo”.  Ed è vero. In effetti anche la concezione moderna dell’arbitrarietà del segno linguistico ribadisce, in fondo, la constatazione che, per quanto riguarda il significato, le vocali e le consonanti non valgono granchè, perché possono, di volta in volta, indicare le cose più diverse. Ma questo non esaurisce tutta la Lingua: bisogna aggiungere che i suoni della Lingua, quando questa cominciò ad operare, indicavano sì le cose più diverse ma attaccate, per così dire, al solo concetto che l’animale uomo era riuscito ad agguantare nel corso dell’Evoluzione, concetto che è difficile anche definire, per la sua grande genericità.  E’ quello di “anima, vita, forza, spinta” che ogni oggetto o animale vivente suggeriva alla sua immaginazione (fase evolutiva dell’Animismo): d’altronde dove e come avrebbe potuto impossessarsi di tutti i vari concetti necessari alla Lingua se egli usciva proprio allora dall’animalità linguisticamente muta, e non c’era nessuno che gli regalasse, per così dire, i concetti, i quali per nascere hanno bisogno di una mente capace di abbinare consapevolmente  suono e significato?  Non mi si venga a dire che anche gli animali parlano tra loro!  Non si confonda un mero segnale di comunicazione istintiva, somigliante a quello di una bandierina che viene agitata, con la parola che definirei simbiosi di suono  e concetto. 

     Ora spiego il motivo per cui non credo all’etimo di lat. gelu ‘gelo, ghiaccio, freddo’ individuato dal Devoto nell’ idea di “pungere”. 

      Se si osserva bene il verbo lat. glaci-are si scoprono i significati di ‘coagulare (del formaggio), rapprendersi, solidificarsi’, per cui è legittimo supporre che il significato profondo  della radice del verbo fosse proprio solidificarsi: il ghiaccio, in effetti, non  è niente altro che (acqua) solidificata. Anche se a noi, di primo acchito, questa spiegazione, comprensibilissima al livello intellettivo, non riesce a cancellare del tutto un certo nostro senso di sgradevolezza al palato, suscitata dalla sottintesa uguaglianza, non so, tra l’idea di ghiaccio e quella del latte cagliato: il ghiaccio suscita in noi la sensazione di freddo e durezza: il latte coagulato sembra un’altra cosa.  La radice, più a monte, doveva avere quindi il significato più generico, di ‘consolidar(si), fissar(si), stabilizzar(si), ecc. ‘ proprio di ogni cosa che diventa stabile, fissa, dura, compressa, ecc. Basta dare, d’altronde, un’occhiata al verbo gr. pēg-ný-nai per scoprire, oltre al significato di ‘congelare, coagulare’ anche quello di ‘fissare, attaccare, conficcare’.   Oh! scoperta!  Se si riflette sul significato di ‘conficcare’, infatti, si può agevolmente passare da esso a quello di ‘pungere’ che, vedi caso, il Devoto considera l’etimo di lat. gelu ’ghiaccio, gelo’, come abbiamo visto. C’è poco da fare! Ogni radice è, per così dire, un sorta di ricettacolo entro cui si trovano, uno accanto all’altro, significati via via diversi (anche di molto)  da quello che si può considerare generico di fondo.  L’ho detto tante volte e non mi stanco di ripeterlo, perché si tratta del principio dei principi della semantica, che ne sconvolge le fondamenta. Anche in questo caso, l'idea di "coagulo" è il risultato di un'azione di 'comprimere' o, più a monte, di 'premere' e di 'spingere' (cfr. il significato, per me, primordiale di 'forza') come del resto vuole il suo etimo dal lat. co-ag-ul-u(m) 'coagulo, caglio, latte cagliato, legame' che contiene la radice del verbo  ag-ere 'spingere, fare, ecc.'
  
     Si può allora concludere che ‘pungere’ è uno dei diversi significati collaterali delle radici che indicano principalmente il ghiaccio o il ghiacciarsi , ma in fondo anche questi ultimi significati debbono essere visti, più genericamente, come il manifestarsi   di una forza che preme o comprime la quale si concretizza sia nel congelamento dei liquidi o nel consolidarsi di tutte le cose, sia nel pungere di una punta o ago.  Amici miei! Non si scappa: basta riflettere cum grano salis, anche solo sui significati delle parole,per fare delle scoperte notevoli, che sono tutte sotto il segno di un significato genericissimo di fondo.  Così, ahimé!,  potrebbe essere messo in dubbio però anche la radice di it. ghiacciolo per la quale avevo difeso, quasi dando in escandescenze, l’etimo tratto da lat. gladi-ol-u(m). In effetti il ghiacciolo avrebbe potuto legittimamente  trarre il suo etimo dalla radice glak- di lat. gl-aci-e(m) ‘ghiaccio’, ma sta di fatto, credo, che lo abbia tratto dalla radice di lat. gladi-ol-u(m) ‘pugnale’: una spia è data anche dalla realtà effettuale che in latino non esiste un precedente *glaci-ol-u(m).  Ma ripeto e sottolineo che l’it. ghiacciolo avrebbe avuto tutti i diritti di ricevere la primogenitura da lat. glaci-e(m) ‘ghiaccio’.

    Il termine ufficiale per ‘ghiacciolo’ in latino  era stiria ‘gocciola gelata, ghiacciolo’ il quale, come al solito, aprirebbe un’altra lunga serie di collegamenti con radici per ‘tronco, trave, pertica’, per ‘rigore, rigidità’, ecc. Ma rimando la cosa ad altra occasione.  Aggiungo solo che in latino esiste anche il composto stiri-cidi-u(m) ‘caduta di ghiaccioli (quando il caldo cominciava a farsi sentire, i rigidi ghiaccioli in genere potevano staccarsi integralmente dalla gronda  diventando così pericolosi per la testa se ci si trovava sotto)’. A me pare che, come abbiamo visto più sopra per lat. geli-cidi-u(m) ‘ghiaccio, brinata’,  il composto sia da segmentare in stir-icili-u(m) e che stir- richiami, ad esempio, il gr. steíra <*sterja ‘trave maestra della carena’.  Del resto anche il lat. stil(l)i-cidi-u(m) ‘stillicidio, gocciolamento’ credo che sia partito da una forma *stil-icili-u(m) per ‘ghiacciolo’, reinterpretato poi come stil(l)i-cidi-u(m), cioè ‘caduta di stille, gocce’: ma il primo membro stil(l)i-  conteneva originariamente la stessa radice di lat. stil-u(m) ’piolo, bacchetta puntuta,  fusto, stelo, stilo’ , di ted. Stiel ’gambo, stelo, manico, ecc.’, di gr. stŷl-os ‘colonna, sostegno, palo’, gr. stele-όs ‘matterello, manico’, gr. stlē ‘colonna, pilastro’, ecc.

   Spero di aver convinto almeno qualcuno di coloro che continuano sostanzialmente a percorrere imperterriti i vecchi sentieri della linguistica, divenuti a mio avviso impraticabili.

   In aiellese ed altri dialetti i cannëluttë erano anche le due colate di muco dal naso dei ragazzini che non sempre badavano alla loro igiene.  Ho già in mente qualche idea che possa condurre al significato originario della parola, ma preferisco chiudere qui questa parte dedicata ai vari significati cosiddetti figurati di candela: si sta facendo notte, le pagine scritte sono già molte e altre osservazioni bussano impazienti alla mia porta. Lascio pertanto ad altri, se ne hanno voglia, il compito di svelarne il vero significato iniziale.

   Come torno a ripetere per averlo detto già in altri articoli, basta a volte osservare con attenzione il significato, o i vari significati di una parola, per arrivare al suo significato originario, che spesso, e non può essere altrimenti, si incrocia con quello o quelli di qualche altro termine che contribuisce, così, a specializzarne il significato: altrimenti la Lingua, che ha bisogno di significati particolari, non sarebbe possibile o forse sarebbe possibile solo nella forma un po’ grossolana e generica propria di chi sta iniziando ad imparare qualche nuova lingua.
 
    Credo torni utile  dare uno sguardo alle parole per ‘candela’ in uso in altre lingue per confermare l’idea di “bacchetta, asta” che sta dietro di esse.

    La parola tedesca più usata per ‘candela’ è Kerze che risulta, però, di etimo non chiaro, pur essendo molto vicina, a mio parere (nonostante la cosiddetta Rotazione consonantica o Lautverschiebung  che sembrerebbe negarlo), a termini come ant. ingl. gierd, geard ‘bacchetta, verga, rametto’, varianti di ant. alto ted. gart ‘bastone, pungolo’, ingl. yard ‘iarda’ unità di misura di lunghezza, ma che nei dialetti mantiene l’antico significato di ‘pertica, bastone, trave, ecc.’.  Il termine marinaresco ingl.yard-arm  indica il pennone, una robusta trave che si incrocia perpendicolarmente con l’albero di un veliero.  Oggi la parola tende a prendere un significato specializzato di ‘estremità del pennone’ dato che quest’ultimo  è, come dire, diviso idealmente in due parti dall’albero a cui è unito, le quali facilmente generano l’idea di “estremità, parte estrema”.  Ma nel Dizionario etimologico inglese, presente in rete, si dice espressamente, sotto il lemma yard n.2, che il termine yard-arm  ha mantenuto il senso originario di ingl. stick ‘bastone, pertica, pennone’[3].  La componente –arm, letteralmentebraccio’, qui vale quindi tautologicamente ‘pennone, trave’.

    Io ricorderei anche l’aiellese (dialetto del mio paese di Aielli) corda che significa anche ‘trave (in genere di legno)’ la quale mi pare legata alla suddetta radice di ted. Kerze ‘candela’ piuttosto che a quella di it. corda ’fune, funicella’ o ‘corda della chitarra’. 

    Il termine it. gret-ola, che presenta una forma diminutiva di una base gret-, non mi pare che possa derivare dal lat. grat-e(m) ‘graticcio’ perché questo significato rimanderebbe ad un concetto generale di “struttura, insieme di vari elementi, connessione, intreccio, incrocio, ecc.” piuttosto che prestarsi ad indicare un solo elemento della struttura.  Quindi l’it. gret-ola che indica  ciascuna  delle sottili asticciole di cui è composta una gabbia, mi pare derivabile, per metatesi, dalla suddetta radice kerd, kord per ‘stecca, trave, ecc.’  e non può essere intesa come forma italiana, con sonora iniziale di tipo settentrionale,  generata dal lat. crat-e(m) ‘graticcio’.

     Un altro termine interessante per ‘candela’ è lo spagn. vela che presenta questi significati: ‘candela, veglia, vela, guardia (notturna)’.  Ora, a parte il sign. di vela dal lat. vel-a(m) ‘vela’, quelli di veglia  e di guardia notturna ci fanno capire che la radice di spagn. vela ‘candela’ aveva avuto a che fare con la radice di lat. vig-ili-a(m) ‘veglia, servizio di guardia, guardia notturna’. La radice è anche quella dell’aggett. lat. vigil-e(m) ‘sveglio, desto, vigile’,  sost. ‘sentinella, vigile’, nonché, più a monte, dei verbi lat. vig-ēre ‘essere in forza, vigore, essere pieno di energia vitale, ecc.’ variante di lat. veg-ēre ‘animare, eccitare; essere vegeto, vivace’.  La radice è variante di termini germanici come ingl. wake ‘svegliare, svegliarsi’.  Quale concetto  sarebbe più adatto di questo, allora, anche per indicare la fiamma o il fuoco  in generale la cui natura è quella di agitarsi e vibrare esprimendo con ciò tutto il suo vigore? Nel dialetto aiellese avevamo un tempo un bel verbo che indicava precisamente ‘l’avvivarsi e l’arroventarsi di un oggetto di ferro tenuto per un certo tempo sul fuoco fino  a farlo diventare incandescente. Esso era il verbo riflessivo r-avvëcēn-ìsse, col part. passato r-avvēcēn-ìtē, da intendere formalmente come ri-ad-vigil-irsi ‘ri-svegli-arsi’, in cui il prefisso ra- (da ri-ad-) non ha valore iterativo ma intensivo .  Però noi sappiamo che il concetto iniziale di “candela” deve parlare necessariamente  di bacchetta, bastone, trave e simili.  Quale potrebbe essere la parola adatta per spagn. vela ’candela’?  Credo che essa sia qualche diminutivo di spagn. viga ‘trave’, magari poi caduto in disuso, come *vigula > *vigla > *vila=vela ‘bacchetta’ o come *viguilla > *viguila (con la /l/ scempia, per influsso del termine concorrente lat. vigili-am ‘veglia’, presente nello spagn. vela ‘veglia’ ) > *vigla > *vila=*vela ‘bacchetta’. 
  
   Un’altra dolce fatica è conclusa. Deo gratias!   

  
  




[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

[2] Cfr. G. Devoto, Avviamento alla etimologia italiana,, Edizione CDE spa, Milano, 1984. 



    


giovedì 19 marzo 2020

La tautologia, principio linguistico importantissimo trascurato in genere dai linguisti. Capocroce.




  Spessissimo vi ho fatto riferimento nei miei, ormai moltissimi, articoli.   La sua presenza, nei termini composti, può essere rilevata soprattutto dalle spiegazioni che solitamente ne danno i linguisti, spiegazioni più o meno cerebrali, che nulla hanno a che fare con la naturalezza  con cui opera la Lingua.  Prendiamo, ad esempio, il composto dialettale abruzzese (Aielli, Avezzano, ecc.) capë-crocë  ‘crocicchio’, italianizzato in capo-croce, luogo in cui si incrociano più strade, incrocio: il significato della parola è preciso, chiaro, senza incertezze e non avrebbe bisogno di complicazioni esplicative; sennonchè la presenza di quel capo-, che sembra un corpo estraneo rispetto al significato del composto, reclama una sua spiegazione. Allora il linguista, che è lì proprio per questo, si sente obbligato a chiarirlo in qualche modo.  E trova la soluzione in  uno dei significati figurati di capo, cioè ‘inizio, principio, testa’: il composto  capo-croce  indicherebbe esattamente il punto in cui si verifica l’incontro delle vie coinvolte, cioè il punto generatore dell’incrocio, in un certo senso, il punto a partire dal quale iniziano (o finiscono) le strade che lo formano.  Ma la definizione, a mio  avviso, sa fortemente di cavillosità, nonostante la sua volontà e apparenza di chiarezza.  Le voci croce, incrocio così evidenti di per sé, non dovrebbero richiedere certe complicazioni esplicative!  Su questa strada sarebbe stato meglio addirittura intendere capo-  come ‘importante, notevole, di primo piano’  e capo-croce come usato inizialmente solo per gli incroci di molte vie e poi esteso magari anche ai semplici incroci di due vie!   Ma saremmo sempre rimasti impigliati in una certa zona ingrommata di cerebralità.

   La soluzione naturale e diretta del problema consiste, a mio parere, nel considerare la prima componente del composto capo-croce, cioè capo-, come una voce tautologica rispetto all’altra, e questo non è solo un pio desiderio frutto della mia teoria linguistica, ma un fatto concreto verificabile con la lettura del mio articolo La presunta stupidità delle capre di qualche settimana fa, e presente nel mio blog.  In esso si scoprirà che la radice cap- di alcune parole ha il significato profondo di ‘incastro, connessione’: e un incrocio non è forse spiegabile, per eccellenza, proprio come il punto di connessione di più strade?

   Anche l’it. croce-via (femminile, ma usato al maschile, almeno dalle nostre parti) che può sembrare di facile e naturale spiegazione, in fondo non lo è, fosse solo per il fatto che il composto sembra introdurre un concetto collaterale, quello di via  che la fa da padrone, rispetto  al concetto che effettivamente indica, cioè l’incrocio (delle vie) e non le vie , incrocio che sembrerebbe, nella struttura del composto, essere non il determinato ma il determinante di via come nei composti germanici. A meno che non si voglia sciogliere il tutto in croce (incrocio) di vie, scelta  ancora più cerebrale, a mio parere, perché la Lingua, fra poco lo sapranno anche le pietre, non mette quasi mai i nomi alle cose creando su due piedi un vocabolo specifico riservato alla cosa da nominare, ma sfrutta quasi sempre parole già esistenti con un valore generico che, per l’occasione si specializza, facendoci surrettiziamente credere che esso sia nuovo di zecca, calzante alla perfezione alla sola cosa nominata.

    Il fatto è che anche in questo caso di croce-via abbiamo un composto tautologico, in cui il secondo elemento via < lat. vi-a(m) < lat. arc. veha < indoeur. *weghya, che è alla base anche di ted. Weg ‘via’ ed ingl. way ‘via’, deve essersi per forza incrociato, ab antiquo, con termini come ingl. wedge ‘cuneo, zeppa, bietta’ e ted. weck ‘cuneo, bietta’,   i quali  avevano con sé i significati profondi di ‘connessione, collegamento (magari attraverso penetrazione)’. Il termine bietta, considerato di etimo incerto ma che per me viene da un precedente *bi(gh)-etta deve avere a che fare con l’it. bica ‘mucchio di covoni, mucchio’ di origine germanica[1]. L’idea di “mucchio” è strettamente imparentata con quella di “collegamento, ammassamento, connessione”.   Per gli stretti, incredibili e straordinari rapporti di questo termine con il lat. big-a(m) ‘biga’ e con altri si legga l’articolo del 21/3/ 2015, presente nel mio blog e intitolato La Chitarra dei maccheroni, strumento caratteristico della cucina abruzzese[].  Non fatemi ripetere sempre le stesse cose!

    Un altro composto maltrattato dai linguisti è l’it. cap-arra. Si suppone che il composto possa aver significato ‘principio, inizio della caparra’ dal solito it. capo ‘inizio, principio’ seguito dall’italiano letterario e tecnico arra< lat. arr-a(m) o arrh-a(m) ‘caparra’ di origine semitica, pare.  Oppure c’è qualcuno che ipotizza che il composto italiano possa riecheggiare l’espressione lat. cape arram ‘prendi la caparra’, ma vattelappesca in quale contesto e per quale motivo!  Siamo alle solite: si azzardano spiegazioni sempre piuttosto strane e cerebrali.  D’altronde non potrebbe essere diversamente se si passa incautamente sopra al ricorrente  fenomeno tautologico, perfettamente ignorato.  Abbiamo già osservato, per il vocabolo capo-croce, che la prima componente capo- ha il valore di ‘intersezione, connessione’ come la seconda componente –croce. Come al solito, basta riflettere con occhi chiari e mente serena sui significati profondi delle parole per accorgersi che, in questo caso, il primo elemento di cap-arra  non può sfuggire al significato di ‘connessione, legame, pegno, stretto rapporto tra chi vende e chi compera’, dato che quest’ultimo, l’acquirente,  si è legato mani e piedi al venditore mediante la caparra, e se anche volesse successivamente tirarsi indietro per qualche valido motivo, non lo potrebbe più, perché, se lo facesse, perderebbe il valore della caparra, la quale naturalmente non era insignificante, ma adeguata al valore pattuito dell’oggetto o dell’animale messo in vendita.   Il secondo elemento –arra, di origine semitica, non saprei come spiegarlo etimologicamente , ma di certo doveva essere lo specchio del primo.

   Sinceramente mi auguro che il virus benefico della mia linguistica coinvolga il maggior numero possibile di persone, in specie del settore, per la forza evidente della sua realtà e per un futuro migliore di questa importante branca della conoscenza umana, che ha a che fare con la parte peculiare dell'essere uomo: il nostro cervello o, se si vuole, la nostra anima.  



[1] Cfr. antico  alto tedesco biga ‘mucchio’

martedì 17 marzo 2020

Siciliano cattiva ‘vedova’ e cattivu ‘vedovo’. Il metodo vincente in linguistica.




Non credo affatto, come sostengono credo  tutti i linguisti, che il sicil. cattiva ‘vedova’ derivi dal lat. captiv-a(m) ‘prigioniera’, femminile di lat. captiv-u(m) ‘prigioniero’ dal verbo lat. cap-ĕre ‘prendere, catturare’[1].  Si sostiene che in Sicilia, quando una donna diventava vedova, restava segregata in casa per tutta la vita, vestita di nero e con diversi fazzoletti che le coprivano il capo e parte del volto, quasi come un burka.  Usciva solo per andare a messa e in altre poche occasioni: era quindi una prigioniera.  Però il termine al maschile cattivu indicava, ed indica tuttora, il ‘vedovo’, che non era soggetto alle stesse severe restrizioni della vedova e usciva quando voleva.  Si afferma che il nome sarebbe stato usato per analogia, ma se quando si estese all’uomo era ancora vivo il suo significato di ‘prigioniero’, ciò sarebbe stato di fortissimo ostacolo per l’analogia, e avrebbe fatto sì che per l’uomo restasse in uso il precedente termine per ‘vedovo’: quale? Forse il lat. vidu-u(m)? Ma più passava il tempo a partire dal momento dell’ipotetico impiego del femm.  lat. captiv-a(m) e più sarebbe stato difficile un suo uso analogico per l’uomo, il quale per un ordine lungo di anni, avrebbe con tutta probabilità consolidato l’uso di essere chiamato con il termine per ‘vedovo’ precedente all’introduzione del femm. lat. captiv-a(m).   L’appellativo captiv-a(m) ‘prigioniera’ se fu usato per indicare la vedova a causa della suddetta motivazione del suo stato di segregazione,  lo fu fino a quando il significato latino di ‘prigioniera’ era ancora vivo tra la gente, ma quando con l’avanzare delle parlate dialettali esso scomparve, ciò non fu più possibile e scomparve addirittura il termine in questione, sostituito, come nell’italiano, dal termine prigioniero, anch’esso di origine latina almeno per il sostantivo da cui deriva, e cioè prehension-e(m)'cattura'. Suppongo che, nella coscienza del parlante siciliano, la voce lat. captiv-a(m) > *cattiv-a(m) col suo significato di prigioniera’ potè restare, al massimo, fino al III o IV sec. d. C.  

   Un altro indizio che mi fa dubitare circa la veridicità della derivazione di sicil. cattiva ‘vedova’ dal lat. captiv-a(m) ‘prigioniera’ è la considerazione che essa, la vedova, sarebbe chiamata con un termine che ha poco a che fare con il significato intrinseco di lat. vidu-u(m) ‘vedovo’, lat. vidu-a(m) ‘vedova’, il cui etimo ha il significato fondamentale di ‘privo di, vuoto di’ diffuso largamente nel dominio indoeuropeo.   E’ bene tenere presente il fr. vide ‘vuoto’.

  Il gr. khra ‘vedova’ ha lo stesso valore etimologico di gr. khêr-os ‘vuoto, spoglio, privo di’ ma anche ‘abbandonato, vedovo’. La radice è connessa con gr. khêt-os ‘mancanza, privazione’, il quale ultimo ha anche la variante *khát-os presente nel verbo khatè-ein ‘aver bisogno di, sentire la mancanza di’.  Ora, come esiste la forma gr. khēr-eía ‘vedovanza, privazione, mancanza, con l’aggett. kḗrei-os ‘vedovile’, così poteva trovarsi in qualche parlata dialettale una forma *kat-eía ‘vedovanza, ecc.’ (con relativo aggettivo) resa in latino o altre lingue italiche come *katìa , pronta per l’incrocio con lat. captiu-a(m) > cattiva. Cfr. salentino cattía ‘vedova’< *cattiu-a(m), cattìu ‘vedovo’ < *cattiu-u(m).  E’ noto che la lettera /v/ fricativa sonora, se era seguita da vocale in latino acquisiva il valore di semivocale labio-velare /w/.

   In questo modo il nome siciliano catti(v)a indica la ‘vedova’ in sé, in quanto ‘priva di (marito)’, e non, indirettamente, la ‘prigioniera’, frutto di mero incrocio. 

   Alcune ore dopo aver scritto quanto sopra  sono stato folgorato da una illuminazione che mi ha permesso di pervenire ad una soluzione più diretta, e quindi migliore, della precedente circa il problema rappresentato dal termine dialettale cattiva ‘vedova’.   La teoria che ho sviluppato sopra è sì attendibile come teoria, anche perché raggiunge il significato di fondo della parola in questione senza lasciarsi bloccare dalla presunta motivazione della captiv-a(m) ‘prigioniera’, ma nel contempo non può fare a meno della supposizione di un incrocio di disturbo intervenuto col lat. captiv-u(m) ‘prigioniero’.  L’illuminazione che ho avuta non ha, invece, alcun bisogno di incroci di qualsiasi natura, perché appunta il suo sguardo penetrante sul solo lat. captiv-u(m) ‘prigioniero’, ricavandone bellamente un suo possibilissimo significato di ‘vedovo(a)’, ma espresso molto genericamente proprio come abbiamo visto fare al lat. vidu-um ‘vedovo’ e al gr. khêr-os ’vuoto, spoglio, privo di’ ma anche ‘abbandonato, vedovo’.  In altre parole il concetto di “vedovo(a)” rimanda, nei casi esaminati, a precedenti concetti molto più ampi di quello particolare di “vedovo” e cioè a quello generico di “spoglio, privo, destituto”: si può essere spoglio di qualsiasi cosa: sia, materialmente, di panni che, figurativamente, di beni vari e numerosi, quali la libertà, la salute, la felicità, l’amicizia, la bontà, ecc. ecc.  Pertanto, chi non pensa affatto  che le radici fondamentali delle parole debbano avere per forza un valore moltissimo generico, è probabilissimo  che cada irrimediabilmente vittima della sua ristretta visione della natura dei  significati e spesso non può appuntare il suo sguardo indagatore che sul solo significato precipuo che una parola ha assunto in una lingua in genere ristretto rispetto a quello originario.  Ma farebbe bene almeno a ricordare, a mio avviso, che già il Saussure affermava che è vano pensare che una parola sia nata per indicare la cosa e il significato che indica attualmente, come se il lunghissimo tempo della sua lunghissima vita fosse trascorso invano ed indenne, cosa improbabile.  A me di certo ciò non succede, perché uno dei principi che regolano la mia linguistica, e che ho scoperto già molti anni fa  molto attivo nelle lingue, è proprio la genericità assoluta dei significati originari delle parole: e credetemi, non lo dico per vantarmi,  ma lo dico per il grande amore che nutro per le parole e perché altri conoscano  quella che mi pare la loro inoppugnabile verità.

   Ora, tornando alla nostra siculo-calabro-salentina cattiva o cattia ‘vedova’ la cui radice pensavo corrispondesse a quella delle parole greche per ‘privo, vuoto, vedovo’ sopra indicate, sono convinto che riusciremo a capire, solo con un po’ di attenzione in più, che invece essa, per essere interamente capita nella sua sostanza, non ha alcun bisogno di chiedere soccorso ad altre parole, ma solo di guardare bene dentro se stessa.  L’aggett., ma più spesso sostantivo, lat. captiv-u(m) ‘prigioniero, schiavo’ è un deverbativo dal participio pass.  lat. capt-u(m) ‘preso’ ma anche, sostantivato, ‘prigioniero’.  Il verbo cap-ĕre da cui esso deriva significa ‘prendere, afferrare, ecc.’ ma al passivo cap-i, che vuol dire normalmente ‘essere preso’, ha anche il significato di ‘essere colpito, essere privato di’ come nell’espressione luminibus capi ‘essere privato della vista’.  

   Ora, è legittimissimo supporre che all’origine, prima che il latino lo si cominciasse a conoscere insieme alle legioni romane in marcia verso le altre regioni italiche, la parola captiv-u(m) ‘prigioniero, schiavo’ avesse avuto un significato molto più ampio di quello storicamente noto, tanto da includere anche quello di ‘vedovo’, in quanto (uomo) privo (della moglie morta)’, per lo stesso identico motivo per cui un prigioniero è un (uomo) privo (della libertà), a causa di vicende belliche.  Così tutto diventa molto più semplice e tutto fila liscio come l’olio.  La prigionia delle vedove siciliane, calabre e salentine, che sembrava prendersi tutta la scena (secondo i linguisti), svanisce irrevocabilmente nel nulla.  Siamo così arrivati all’osso: l’etimo giusto e diretto è stato scovato all’interno del nome stesso da interpretare, il quale apparentemente era più o meno lontano da esso e, anzi, proponeva ingannevolmente false soluzioni a cui si finiva con l’abboccare. 

   Il siculo-calabro-salentino captiv-u(m)  ‘vedovo’ era con ogni probabilità già presente in loco prima che vi arrivassero le legioni romane:  sappiamo che il latino di Roma non fu improvvisamente catapultato nel Lazio da spazi celesti, e che esso, o almeno molte sue parole, dovettero vagare e diffondersi su suolo italico e altrove prima che il nomen Romanum  venisse storicamente conosciuto dagli altri popoli italici e prima che il latino vi si diffondesse nella forma a noi nota, che certamente era molto diversa, specie in alcuni significati, da quella delle sue origini italiche, precedenti di millenni. 

   La bontà di questa soluzione è confermata anche dalla facilità con cui si può spiegare di conseguenza  il significato dell’aggettivo-sostantivo italiano cattivo: oggi si ricorre in genere a quella che ritengo, alla luce di quanto detto, una misera scappatoia che ci fa credere di liberarci dalle difficoltà.  Ancora una volta si ricorre all’aiuto di altra parola, in questo caso rappresentata nientedimeno che dal diavolo, maestro di ogni sottile e pernicioso inganno.

 La cattiveria dell’uomo, infatti, troverebbe spiegazione, quanto al nome, nell’espressione del latino ecclesiastico captivus diaboli ‘prigioniero del diavolo’.  E così nessuno osa cercare altre strade, perché una pietra pesantissima è stata posta, è il caso di dire diabolicamente  sulla soluzione del problema.  Quando invece sarebbe bastato guardare con occhi limpidi e mente serena   all’interno del  lat. captiv-u(m) ‘prigioniero’ per scoprirne le immense risorse di significato che avrebbero lasciato in pace, almeno in questo caso, il povero diavolo, così tremendamente maledetto ed odiato dalla nostra religione, risorse che avrebbero fatto sciogliere il tenace nodo del nostro problema come neve al sole.
    In sostanza il significato di italiano cattivo indica tutte le qualità e i beni che mancano, sono assenti  in un uomo perché possa considerarsi buono, capace, felice,in forma,  ecc. oppure in una cosa perché possa svolgere al meglio le funzioni per cui è stata fatta.  Nulla di più. L’idea di “cattivo” è amplissima e si riferisce a tutto ciò che, in un uomo, animale o cosa è ‘insufficiente, debole, contrario al suo benessere o alla sua natura’.

     Spero che questo articolo possa aprire gli occhi a quanti purtroppo non si accorgono di tenerli solo semiaperti, non tanto a causa della loro intrinseca insufficienza indagatrice, quanto per la effettiva complessità di questi problemi che comunque, seguendo una certa strada, possono ridurre di moltissimo la loro difficoltà, se non svanite del tutto.  E lo dico senza la minima ombra di prosopopea da parte mia, ma per amore della Parola, come ho già affermato più sopra.

    Se però uno che occupa qualche posto di responsabilità fa lo gnorri, allora non c’è molto da fare.  In questo caso l’umanità intera sarà costretta ad attendere molti anni prima che possa Essere messa al corrente di come si comporta la Lingua. 
  
 





[1] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani ,UTET, Torino1998,s.v. cattiva