domenica 25 ottobre 2009

La cotanzìnzera di Castellafiume e la cuterenzìnzela di Aielli: ornitonimi rivelatori di meccanismi profondi della Lingua

Ho avuto tra le mani il pregevole libro Storia di Castellafiume di Dante Di Nicola, ispettore della scuola elementare a riposo, e, come succede spesso in questi casi, mi è capitata una gradita sorpresa relativa ad un ornitonimo, o nome di uccello. Ho appreso, infatti, che a Castellafiume, paese della valle di Nerfa, la cotanzinzera, formale equivalente della nostra (aiellese) e di altri paesi cuterenzinzela, non indicherebbe, però, la cutrettola o ballerina (uccello con una coda molto mobile), come da noi, ma la gazza ladra che noi chiamiamo ciciaccòva. Un fatto del genere è linguisticamente molto interessante: esso in effetti costringe a riflettere che un nome siffatto non può essere dovuto all’inventiva dei parlanti che, vedendo un uccello che agita continuamente la coda (ad Aielli il verbo ‘nzenzelà significa qualcosa come ‘agitare vanamente, a vuoto’), gli affibbiano magari quel nome che, poi, gli rimane addosso per sempre. Questo ragionamento potrebbe andare bene per il nome aiellese della cutrettola ma sarebbe smentito dal nome uguale o molto simile di Castellafiume per la gazza, uccello molto più grande del precedente e non caratterizzato da coda mobilissima, anche se lunga. Secondo il Di Nicola “il nome dialettale è stato coniato mettendo insieme il riferimento alla lunga coda dell’uccello e allo zinzilulare (voce onomatopeica), che è il verso caratteristico del predetto animale (cicaleccio aspro e sgradevole)”. Come si può agevolmente vedere, ad Aielli noi parlanti siamo portati a dare un etimo del nome in questione che si attaglia perfettamente al comportamento e alla forma dell’animale indicato (la cutrettola), mentre i parlanti di Castellafiume sono portati a dare a quello stesso nome un etimo diverso, che si attaglia ugualmente, anche se con qualche difficoltà, all’altro referente (la gazza), ma che allo stesso modo trae giustificazione dalla lingua di riferimento, in questo caso il dialetto castellitto (di Castellafiume). I due ragionamenti tesi a dare una spiegazione di quel nome simile sembrano ambedue ineccepibili ma inevitabilmente vanno poi a cozzare, a causa della diversità dei due uccelli cui si riferiscono, contro l’ostacolo di quel nome unico che è quasi impossibile, per la sua rarità, che sia il risultato di una coincidenza casuale di due termini originariamente diversi per etimo: esso, da solo, deve essere l’origine del nome dei due uccelli e deve avere allora un etimo diverso da quelli che però sembrano ineccepibili, almeno in superficie. Il fatto è che, a mio modesto parere, quando noi cerchiamo di rintracciare l’etimo del nome, commettiamo l’errore, denso di conseguenze, di dimenticare che quel nome potrebbe riguardare strati linguistici lontani anche anni luce da quelli più o meno recenti sui quali andiamo comodamente a depositarlo. Allora comincia a balenare nella nostra mente che quel nome poteva avere, all’origine, un significato diverso dai due rispettivi proposti dai dialetti di Aielli e Castellafiume. Esso poteva contenere il significato generico di ‘uccello’, come è avvenuto, a mio parere, in tanti altri casi e come ho spiegato, in altro articolo, che è secondo me avvenuto anche per l’inglese butter-fly ‘farfalla’ e il danese sommer-fugl ’farfalla’, i quali rimanderebbero al concetto di ‘volatile’ in ambo i costituenti dei nomi, non solo in –fly ‘volatile’ e in – fugl ‘uccello’.
Così stando le cose è allora molto probabile che anche l’it. cutrettola (forma arcaica cutretta) non debba derivare dal lat. cauda trepida ma che debba essere avvicinato al termine regionale cuter-one , un imenottero, che richiama gli altri nomi regionali cedr-onella, un lepidottero, e cedr-onello, un cardellino, oltre all’it. gallo cedr-one. Un altro nome regionale della cutrettola è cater-in-èla il cui primo e secondo membro si allineano con la prima parte di aiellese cuter-en-zinzela.
Che la lingua proceda per generalia è un fatto sottolineato da molti e non è il caso di insistervi, ed io penso che come quando la lingua, nominando l’albero della quercia, ad esempio, evita nel contempo di apporre un nome diverso alle singole querce (operazione che risulterebbe lunghissima e poco pratica), allo stesso modo essa ha creato inizialmente solo nomi generici che comprendevano tutte le entità vegetali, nomi che poi si sono specializzati ad indicare le varie specie di piante ed alberi, come è avvenuto per il greco drys, ad esempio, il cui significato era quello di ‘albero’(cfr. ingl. tree ‘albero’) ma anche di ‘quercia’. Un sacerdote proveniente dal Paraguay e rimasto per qualche anno ad Aielli, don Annibale, mi diceva che nella lingua indigena guaranì non esiste un termine per indicare gli ‘alberi’ o, meglio, che il termine per ‘albero’ comprende tutto ciò che è ‘verde’. Quando ero un ragazzino di sei-sette anni per me il termine dialettale cellìtte indicava solo i ‘passeri’, i soli uccelli con cui ero in costante contatto in paese. Solo quando appresi il loro nome specifico di pàssare ‘passeri’ mi fu chiaro che cellitte era il termine generico per ‘uccello’. Ma nel libro di Di Nicola leggo che céllitto a Castellafiume mantiene il suo specifico significato di ‘passero’. Similmente, come sostenevo già nell’introduzione al mio Principi di una nuova linguistica del 1992, il tedesco Wolf ‘lupo’ e il lat. vulp-em ‘volpe’ non possono e non debbono essere ricondotti ad archetipi diversi, come tutti i linguisti purtroppo fanno. Tutti questi fatti presentano anche un risvolto interessante in campo filosofico. Quando, da Socrate in poi, si parla della natura del "concetto" e lo si intende come il risultato di una operazione di astrazione, da parte della mente, di elementi comuni a tutti gli individui di una certa classe di animali, piante e cose, si commette l’errore di credere che la parola relativa a questa o quella classe in cui sono suddivise le varie entità di questo mondo si sia formata in conseguenza di uno sforzo di attenzione, di volta in volta diretto dalla mente a ciascuna di esse, mentre mi pare evidente, secondo i dati di cui sopra, che il significato originario di detta parola debba essere rintracciato in qualcosa di più generico, precedente e sovraordinato alla classe stessa di animali o cose che direttamente designa. Facendo degli esempi si può asserire che, all’origine, il termine per ‘cavallo’ non sia sorto per indicare quel tipo di animale, ma per indicarli tutti, gli animali, comprese molto probabilmente, come arguisco dalla toponomastica, anche quelle cose che nella fase animistica dell’umanità rientravano nella categoria di ‘animale, essere vivente’, e cioè tutta la realtà, il fiume, il vento, il mare, il monte. ecc. E’ pertanto curioso notare come il ‘concetto’ o ‘idea’, da qualche filosofo posto alla base del propria Weltanschauung e considerato lo strumento caratteristico del livello superiore della conoscenza, come se esso fosse garanzia di una presa diretta vera e precisa delle cose del mondo, debba in realtà essere considerato alla stregua di un escamotage a cui il cervello ricorre facendoci credere che entro i suoi limiti si trovi circoscritta l’indicazione dell’essenza della singola cosa rappresentata, la quale in verità continua a sfuggire e ad essere inconsistente come un fantasma, se si astrae da quell’unico e vago significato che giace al fondo di ogni parola, corrispondente al concetto di ‘forza, spinta, vita, essere’ e simili. Si può ben dire, allora, che il "concetto", contrariamente a quello che il suo etimo latino vuole farci credere, com-prende ben poco della singola realtà che rappresenta così come l’ "idea", col suo etimo greco, vede ben poco di essa. Il nostro cervello sapientemente ci sollecita a concentrarci su presunti contenuti distintivi della singola parola, distogliendoci, col favore della variegata diversità della sua materia sonora in superficie, da quell’unico significato di fondo che, da solo, non avrebbe potuto dar luogo al formarsi di una lingua, e piegandolo subdolamente ad esprimere tanti altri specifici significati, corrispondenti alla varietà del reale, i quali, però, ad un’analisi ravvicinata, rivelano la loro inconsistenza di fantasmi, appunto, scaturiti via via all’interno del loro involucro sonoro, da cui assorbivano, facendola surrettiziamente propria, quella diversità che li allontanava, distinguendoli, dalla loro origine semantica comune e li avvicinava, invece, ai loro referenti, diversi gli uni dagli altri. Del resto questo è uno dei tanti esempi della mirabile parsimonia con cui opera la Natura che, nel caso della lingua, si risparmia la fatica di elaborare ab origine tanti contenuti semantici tra loro differenziati (ammesso che ciò fosse stato possibile, dato che la lingua secondo me nasce col crisma e col destino della genericità, non della specificità) quanti erano i contenitori, cioè i significanti, ad essi riservati. Possiamo altresì asserire che tutti i concetti, tranne quello di essere, sono in certo senso ‘vuoti’ di contenuto specifico a causa della loro condizione di eteronomia, nel senso che la loro definizione deve ricorrere sempre all’ausilio di concetti di altre realtà, in genere sovraordinate, che hanno rapporti di somiglianza, di contiguità o comunque di interdipendenza con quella da definire. Per dare la definizione di ‘cane’, ad esempio, si dirà, senza ricorrere a tassonomie scientifiche, che esso è un ‘animale’ con determinate caratteristiche e qualità. Paradossalmente l’unico concetto autonomo, che cioè ha un contenuto proprio non ricavato da altri concetti, è contemporaneamente anche privo di definizione perché il suo significato è talmente esteso da non poter essere contenuto da nessun altro concetto, perché quest’ultimo sarà sempre una riduzione o specializzazione di esso, anche se non ce ne rendiamo più conto. Queste riduzioni o specializzazioni hanno quindi vita solo apparente e fittizia perché, se interrogate e messe alle strette sulla loro vera natura originaria, non sanno indicare altro che iperonimi, ad esse sovraordinati. Ora, tornando alla cotanzinzera ‘gazza’, si può pensare che la prima componente coda- possa essere una variante di greco kìtta ‘gazza’ . Anche il termine ‘gazza’ che i linguisti riconducono ad un tardo lat. gaiam, potrebbe in realtà risalire ad una forma precedente *gadiam, la quale avrebbe perso la dentale sonora come è avvenuto, ad esempio, per l’italiano poetico rai ‘raggi’ attraverso il provenzale, e all’aggettivo baio, dal lat. badium, baium. Altro nome volgare della ‘cutrettola’ suona cuttì, simile a ‘coda’. Forse il nome della cincia è responsabile della componente –nzinzera .
Un travaglio simile, per quanto riguarda il ‘significante’ (la forma esterna, la materia sonora del nome), si riscontra in alcuni termini dialettali riferiti al ‘pipistrello’, dietro la spinta delle reinterpretazioni paretimologiche popolari . Questo animale è chiamato, nel Molise e nelle Puglie, sopre-ppìnghe oppure sopra-penga [1]. Ernesto Giammarco, famoso e benemerito linguista abruzzese, lo intende come ‘sopra tegole (pinghe)’ , per il luogo dove l’uccello sarebbe solito collocarsi, benchè io sappia che esso si rifugia nelle grotte, nelle soffitte o in ogni altro luogo buio ma non ‘sopra le tegole’: sotto le tegole, se mai, a tal punto che si incontra anche la forma sotte-pinghe 'pipistrello', che ha tutta l'aria di essere una correzione di quanto incredibilmente voleva far credere l'altra definizione. L’esimio linguista in questo caso avrebbe senz’altro evitato di dare una spiegazione che a me sembra banale se avesse confrontato il nome con quello di spara-pingule, in uso in alcuni paesi della Marsica sempre per lo stesso volatile, e portatore di un’altra reinterpretazione popolare un po’ strampalata, esattamente come avviene secondo i modi propri delle etimologie popolari evidenziati da molti studiosi. Seguendo quest’altra linea interpretativa il pipistrello sarebbe un ‘lanciatore di pingole’ , termine che nei nostri dialetti equivale a ‘cocci’, il che naturalmente, oltre a farci ridere, ci allontana da quella che secondo me è la vera natura del nome, la quale comincia a rivelarsi nel rispettivo termine cerchiese per ‘pipistrello’ e cioè spar-vìngule, che ci fa capire, finalmente, donde siano potute uscire quelle –pìngole. Esse non sono altro che un fraintendimento della supposta componente finale di spar-vìngule, la quale così viene almeno ad assumere un significato purchessia e a sottrarre il nome all’oscurità in cui si trova avvolto, coinvolgendo in questo desiderio di ‘spiegazione’ anche l’altra componente spar- che si allunga in questo caso in spara-, e che, nella forma molisana sopra-penga, sembra prima passare attraverso la sua variante metatetica spra-intesa quindi come sopra-. Un po’ di riflessione, però, ci induce a pensare che la parola cerchiese abbia a che fare con l’it. sparviere, dal franco sparwari. Quest’ultimo a sua volta tira in ballo l’ingl. sparrow ‘passero’, il dan. spurv ‘passero’ e la voce sbirrù ‘passero’ del dialetto di Roio-Aq. Queste forme inviterebbero a segmentare la parola cerchiese per ‘pipistrello’ in sparv-ìngule : la seconda componente del nome, e cioè –ingule, io la vedo attiva nella seconda componente del termine aiellese per ‘pipistrello’ e cioè pr-engell-òtta, oltre che nel lat. fr-ingilla ‘fringuello’.
Un’altra gradita sorpresa l’ho ricevuta dal termine stataroio , riportato dal Di Nicola nel suddetto libro, che deve risalire ad un precedente *statarolo, attraverso la palatalizzazione della /l/, fenomeno abbastanza diffuso nei nostri dialetti e in quello di Castellafiume. Si tratta del nome di un fungo che cresce sui tronchi dei faggi e che, come vuole il suo nome scientifico fomes fomentarius, doveva essere ottimo per la preparazione di un’esca per accendere il fuoco. E già! noi abbiamo dimenticato che il fuoco, elemento indispensabile di cui l’uomo si dotò a partire da un certo punto della preistoria (400-500 mila anni fa?), veniva o conservato in continuazione con scrupolo religioso (si pensi alle Vestali a Roma) o riprodotto con una tecnica, ancora in uso presso i popoli primitivi, che consiste nello sfregamento di una pietra focaia con l’acciarino o di legni secchi fatti roteare velocemente, le cui scintille riescono ad accendere un’esca costituita di foglie secche o di altro materiale organico come quello, appunto, di certi funghi particolarmente adatti allo scopo. Il fatto è che anche in inglese la parola punk, con la variante dialettale funk, indica il ‘legno marcio, fungo essiccato (per bruciare), esca, miccia’ ricollegandosi contemporaneamente al lat. fungus ‘fungo’ e al ted. Funke ‘scintilla’. Ma il nome del fungo stataroio di Castellafiume che cosa c’entra con il fuoco? Ci può entrare se si tiene presente il nome latino Stata Mater, dea protettrice contro gli incendi e compagna di Vulcano, e il greco Zeus Stadaios il cui appellativo, secondo me, parte da un’idea di ‘luce’ come Zeus. Ma esiste in greco anche il verbo statheuo ‘riscaldo, ardo , brucio’.
Un altro termine del dialetto castellitto mi ha gradevolmente confermato quello che pensavo sul danese sommer-fugl ‘farfalla’, letteralmente ‘uccello (fugl) dell’estate (sommer). Il termine è samar-occa ‘testa di morto’, una farfalla diffusissima in Europa ed altrove, il cui primo membro corrisponde, come avevo già pensato e scritto per sommer-fugl, al lat. samara, il tipico frutto dell’acero munito di ‘ala’.
Questi esempi che ho portato sembrerebbero dimostrare che la linguistica, purtroppo, si accontenta dell’interpretazione superficiale, smentita dai fatti, di moltissimi nomi, in specie di ornitonimi e fitonimi ritenuti in genere il prodotto recente del periodo altomedievale, ma la realtà a me sembra ben diversa e destinata, prima o poi, a svelare panorami molto più ampi e straordinariamente sconvolgenti, anche per il comune lessico, per quanto riguarda lo spessore semantico delle radici. La storia di cuterenzinzela e di sparapìngule docet.



[1] Cfr. M. Cortellazzo C. Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998, s. v. sopreppìnghe, p. 408.

Risposta a Dante Di Nicola

Ho letto, nell’ultimo numero di questa rivista (9/2008), l’articolo di Dante Di Nicola in cui si mettono in dubbio alcune considerazioni da me fatte, in un precedente articolo di quasi un anno fa, circa etimologie di parole del dialetto di Castellafiume, riportate nel suo pregevole libro Storia di Castellafiume, Grafiche Di Censo, Avezzano, 2007. Finalmente qualcuno con cui discutere di linguistica! Ma, prima di tutto, mi preme chiarire alcune cose. Io ho l’impressione che Di Nicola sia stato spinto a scrivere il suo articolo, anche perché forse un po’ risentito per l’espressione in cui sostanzialmente dicevo che alcune etimologie non possono non suscitare ilarità, come quella che si accontenta, ad esempio, del significato di superficie espresso dall’appellativo dialettale spara-pìngule ‘pipistrello’. Si può, di grazia, sostenere, senza una minima reazione da parte di chi la legge o la ascolta, che la motivazione di quel nome vada ricercata nel fatto che il pipistrello, nell’immaginario dell’uomo onomaturgo, sia stato visto come quell’uccello che vola sparando qua e là cocci (pingole), magari sulle teste di malcapitati? Eppure i linguisti sanno che simili assurdità non sono rare all’interno di quella che si chiama etimologia popolare, la quale cerca sempre di dare un significato purchessia a parole divenute opache per il significato, di cui essa si vuole in qualche modo riappropriare. In tedesco dromedarius, ad esempio, è diventato Trampel-tier ‘l’animale (-tier) che pesta i piedi’: l’etimologicamente oscuro (per i parlanti tedeschi) dromedarius si è trasformato in un composto contenente parole familiari, trampeln e Tier, ma l’etimo ne è stato del tutto stravolto! Allo stesso modo, come mi pare di aver ben spiegato in quell’articolo di un anno fa, in cui tra i tre termini dialettali riferiti al ‘pipistrello’, e cioè sopre-ppìnghe, spara-pingule, sparv-ingule indicavo quest’ultimo come rivelatore del loro vero etimo in quanto inglobava in sé la base di sparv-iere, bisogna di volta in volta aguzzare l’ingegno per scovare la verità sotto queste operazioni di maquillage che la lingua continuamente opera, non appena se ne presenti l’occasione. Con quella espressione che forse Di Nicola non ha gradito io volevo solo richiamare una maggiore attenzione su questi importanti fenomeni linguistici, che ognuno di noi farebbe bene a non dimenticare, e non certo brutalmente umiliare nessuno. Detto questo debbo anche ammettere che qualche volta la mia penna mi tradisce, e, sotto l’impulso di questa passione linguistica che mi porto dietro da una ventina di anni, mi lascio andare a qualche espressione forse un po’ rude nei confronti di qualcuno: non si abbiano comunque remore a ripagarmi con la stessa moneta, perché io non me la prenderei, anzi esprimerei i miei ringraziamenti per l’interessamento mostrato nei miei confronti. Del resto è indiscutibile che nell’incrociarsi delle spade di una polemica genuina e appassionata possa finalmente scoccare la scintilla della Verità alla quale soltanto sono incline a pagare il mio tributo, anche se solitamente ama starsene ben rincantucciata e nascosta.
Che la gazza non sia –contrariamente a quanto sostiene Di Nicola, dopo aver citato abbondandemente le definizioni di lessicografi e zoologi- lo stesso uccello rappresentato dalla cutrettola lo dimostra senza ombra di dubbio il fatto che la prima appartiene alla famiglia dei Corvidi mentre la seconda è un passeriforme dalle dimensioni molto più piccole. Del resto ho letto più volte la prima pagina dell’articolo di Di Nicola e non ne ho ricavato altro che la constatazione che gli studiosi da lui citati mettono da una parte l’uccello chiamato di volta in volta diversamente gazza, gazzera, gassa, agassa, cecca, pica, putta (termini con lo stesso significato dell’appellativo castellitto cotanzinzera) e dall’altra l’uccello chiamato variamente coditremola, cutrettola, ballerina, batticoda, motacilla alba (termini dello stesso significato dell’appellativo aiellese cuterenzìnzela – le /e/ sono tutte mute-). Affermando che qui forse Di Nicola ha preso un granchio o un abbaglio non intendo affatto ridicolizzarlo perché egli, dalle poche notizie che posso derivare dal suo libro, è certamente persona onesta, genuina, istruita e degna di rispetto. Siamo però uomini e come tali soggetti a tutte le défaillances della specie. Anch’io naturalmente commetto spesso sbagli, e nell’articolo cui si riferisce Di Nicola avevo, infatti, erroneamente affermato che noi Aiellesi chiamiamo “pica” la gazza. In verità quest’ultima la chiamiamo ciciaccòva: io conoscevo quest’uccello ma non sapevo che corrispondesse alla gazza. Nel dizionario Devoto-Oli si incontra anche un bel disegnino dell’uccello, rappresentato con una lunga coda e zone bianche sulle ali e sul ventre. La pica è in realtà da noi un altro Corvide, più piccolo, e uniformemente nero. Che non si tratti di altro nome dello stesso corvo?
Prendo lo spunto dalla or ora introdotta cicia-ccòva per spiegare come, a mio modesto parere, la Lingua opera nella formazione delle parole. C’è da premettere che circolano altre versioni di questo nome come ciaccia-cole o il semplice cole (cfr. Domenico Bielli, Vocabolario Abruzzese, A. Polla, Cerchio-Aq, 2004). Non posso pertanto lasciarmi sfuggire l’accostamento di cole al greco koloi-ós ‘cornacchia, gazza’ e il fatto che esso sia stato variamente maltrattato in bocca al popolo come nel secondo costituente del nome aiellese o in quello cerchiese ciccia-ccòra. Ora, mi sembra molto interessante collegare cicia- con l’appellativo cecca , uno dei diversi nomi per ‘gazza’ citati da Di Nicola, ma anche altro nome dell’occhiocotto, un passeriforme ( anche in questo caso un solo nome indica due uccelli diversi). I linguisti, che non immaginano o semplicemente non fanno simili connesioni, in questo caso sostengono che si tratti del nome di donna Cecca, diminutivo di Francesca, e risolvono bellamente il problema, ma dovrebbero anche spiegarmi perché ricorrono regionalmente ornitonimi simili come ceca ‘beccaccino’, ceci-òra ‘occhiocotto’, leggera variante omosemantica di cecca, e buon’ultimo, per non tediare troppo i gentili e pazienti lettori, céc-ero ‘cigno’, ma anche ‘airone cenerino’, nome risalente a un lat. volg. *cyc-inus , class. cyc-nus ’cigno’. L’unica spiegazione è secondo me la constatazione che queste radici, nella notte dei tempi, avevano un significato molto ampio, fino ad arrivare a quello che per me è alla base di tutte le parole, il significato di ‘forza, animo, spirito,vita, essere vivente, movimento, ecc.’. Questo voglio dire quando affermo che la Lingua procede per generalia: essa si muove da nozioni generalissime per specializzarle poi via via sempre di più.
Io non amo le sottili teorizzazioni sulla lingua che un po’ mi spaventano perché talora generano incresciosi fraintendimenti, e anche perché forse non sarei nemmeno in grado di svilupparle con abilità e maestria come fanno tanti dotti studiosi. Quando Di Nicola parla di “teoria della convenzione” presentandola, mi pare, come moderna sarebbe stato bene però ricordare anche che essa si trovava già nel Cratilo di Platone, opera da lui citata. Il suo sostenere, in modo critico nei miei confronti, che la parola sarebbe frutto di una convenzione basata sulla libertà di scelta, sull’arbitrio, ecc. ho l’impressione che scaturisca dal fatto che egli non conosce il mio pensiero al riguardo, non avendo magari letto i tanti miei articoli pubblicati precedentemente in questa rivista e raccolti, insieme ad altri, nelle mie Meditazioni Linguistiche, pubblicate lo scorso anno. Comunque egli può farsene un’idea leggendo l’articolo intitolato Fonte della Vita e Fonte Vipera pubblicato nell’ultimo numero (9/2008) insieme al suo intervento che sto commentando. A p. 25 di quel numero più o meno affermo che l’uomo delle origini si trovava nella comoda posizione di scegliere, per dar corpo alla parola, tra i vari suoni a sua disposizione, dato che per lui l’uno valeva l’altro: quest’idea non coincide forse con quella che Di Nicola mi rimprovera di non condividere?
Quanto al biunzo ‘bigoncio’ castellitto che viene riferito a due tipi di bigonci, l’uno fatto di vimini per il trasporto dello stallatico nei campi, l’altro di listelli di legno per il trasporto delle uve, voglio far sapere che ad Aielli essi erano indicati con due appellativi diversi: evidentemente la Lingua, come sostenevo sopra, aveva in questo caso ristretto, nel nostro dialetto, il significato più generico del castellitto biunzo. Difatti da noi la parola piunze designava solo il recipiente per le uve, mentre quello per lo stallatico era chiamato cestóne (con le due /e/ mute). Questo recipiente, quindi, non era in uso solo a Castellafiume, come afferma Di Nicola, anche se in forma dubitativa.
L’etimo dato da Di Nicola per il castellitto ronzane ‘gocciolamento dell’acqua piovana dai tetti senza canale di gronda, stillicidio’ mi offre il destro per fare delle osservazioni che definirei da manuale. Intanto il termine rispunta anche ad Aielli nella forma alquanto diversa di verenzàle (tutte le /e/ sono mute), il che dovrebbe far capire che l’etimo non può essere “onomatopeico” come sostiene Di Nicola in riferimento al “ronzio” causato dallo stillicidio. E ancora non si tratta di parola esclusiva di Castellafiume, come Di Nicola dubitativamente sostiene. A me pare evidente che egli abbia una visione piuttosto localistica del fenomeno lingua, la quale, invece, se potessimo conoscerla a fondo mostrerebbe in diacronia radici talmente profonde e talmente lunghe e vaste in estensione da farci rimanere sbalorditi. Sicchè potrebbe essere a mio avviso almeno ipotizzabile che il nome castellitto del pipistrello (cui Di Nicola accenna) nòttia, simile al lat. noctua 'civetta', possa affondare le sue radici in uno strato linguistico molto precedente a quello del latino, dove esso poteva avere un significato del tutto generico come ‘uccello’. Ma, una volta rimasto impigliato nello strato latino, ha conseguentemente stretto un patto di necessaria e mutua dipendenza con la parola latina noct-em ‘notte’, talché è difficilissima e quasi impossibile operazione, per i non iniziati in questa impietosa e severissima scienza etimologica, tentare di districarne il nodo strettissimo. Quando poi bisogna determinare l’etimo di una parola è indispensabile e fondamentale la comparazione di essa con quelle corrispondenti di altre parlate vicine e lontane. Perché una cosa è certa: una parola quasi mai è un prodotto locale, degli abitanti di un determinato paese. La forma aiellese verenzàle suggerisce che originariamente il termine faceva parte della famiglia a cui appartiene l’italiano gronda , lat. tardo grunda. E in effetti molte parole dei nostri dialetti presentano la perdita della gutturale sonora /g/ seguita da consonante, come è avvenuto a mio parere per ronzane nel dialetto castellitto, o, più raramente, la vedono trasformarsi in fricativa sonora /v/, come è avvenuto per verenzàle nel dialetto aiellese, dove tra l’altro si è avuta del tutto normalmente anche la chiusura della /u/ non accentata di un originario *grundjàle nella vocale indistinta schwa, meglio nota come /e/ muta. D’altronde ho sostenuto in altre occasioni che per me l’onomatopea difficilmente può essere considerata un fenomeno importante nella glottogonia, appartenendo essa alla sfera ludico-iconica più che a quella squisitamente conoscitiva dell’uomo. Ma non è il caso di cercare di approfondire la cosa qui. Lo stesso trattamento della gutturale sonora iniziale si ritrova nell’altro termine aiellese verescìle (tutte le /e/ sono mute) ‘ventriglio’, noto anche come ‘grecìle’, voce laziale diffusa anche in Abruzzo. La parola castellitta riccia ‘pietruzza, piccolo frammento di pietra’ corrisponde all’aiellese verìcca (la /e/ è muta)’ pietruzza’, ma originariamente il termine era *bricca, come attesta l’it. breccia.
Per ribadire il concetto della profondità e genericità dei significati credo sia il caso di portare un altro bell’esempio rappresentato dalla parola aùcchio ’gufo’ del dialetto castellitto, parola che francamente non può presuppore altro dietro di sé che una forma del lat. tardo *au-culus, class. avi-cula ’uccellino’ della stessa famiglia di tardo lat. aucellus, diminutivo masch. di class. avis (femm.). La forma immediatamente precedente ad aùcchio è pertanto *auc(u)lus, *auclu. C’è da osservare che molto probabilmente la parola si sarà incrociata con occhio, dati i due occhioni dell’uccello notturno, ma non per questo sarebbe legittimo un eventuale etimo fatto derivare da occhio, lat. oculus.
Così posso concludere osservando, senza scendere nei dettagli, che per me la cotanzìnzera di Castellafiume e la cuterenzìnzela di Aielli sono destinate a rimanere separate nel loro significato attuale anche se molti secoli o millenni fa ne esprimevano uno generico ed unitario, come del resto attesta il loro significante.
Do un consiglio, ognuno ne faccia naturalmente ciò che crede: se si vuole veramente andare al fondo delle parole, ci si tenga il più possibile lontano dalle teorie che pure possono servire di generico orientamento, di spunto e di verifica. Si leggano e studino i toponimi, cosa che io faccio da una ventina di anni senza perdere l’entusiasmo e la curiosità della ricerca. Essi sono stati i miei veri maestri che, umili e tenaci come querce, hanno sfidato i millenni, portando fino a noi i loro sensi nascosti, purchè li si sappia interrogare nel modo giusto. Non si dimentichi che anche nelle piccole cose sono scritti i grandi principi del nostro mondo, come ben diceva il grande Galilei.

venerdì 23 ottobre 2009

Ingoiare il (un) rospo

Ancora una volta debbo constatare l’insufficienza della linguistica tradizionale nell’individuare l’origine di detti, proverbi, espressioni varie come, ad esempio, quella che suona ingoiare il rospo (cui fa da pendant l'altra che suona sputare il rospo). Gli etimologi ricorrono, in casi di questo genere, a spiegazioni metaforiche, traslati, paragoni a volte bislacchi: taluno (cfr. Carlo Lapucci, Modi di dire della lingua italiana, Ediz. CDE, Milano, 1986, p. 292) avanza l’ipotesi che l’origine di questa espressione nasca dal fatto che l’ingoiamento di un rospo da parte di un serpente dovrebbe poi provocare una digestione laboriosa e, quindi, dare l’idea dell’ amaro, del pesante e del disgustoso inclusi nell’espressione. E non si accorge che questo fatto varrebbe semmai per il serpente, che non esprime in effetti nessun parere sull'eventuale e tutto da dimostrare pasto indigesto, e non per noi! La soluzione, è chiaro, sa di artificio e di approccio indiretto al problema da affrontare.
In verità essa è lì a portata di mano, non richiede di sfoderare capacità straordinarie di collegamento con realtà linguistiche remote, ma solo di affiggere lo sguardo sull’aggettivo italiano ruspo ‘ruvido, scabro’, usato oggi raramente ma ancora circolante in qualche testo del ‘900. Se si suppone che la forma neutra dell’aggettivo, comunque vada sciolta la sua incerta etimologia, nel tardo latino o nel latino medievale doveva essere *ruspum, col significato di ‘cosa ruvida, aspra, dura’ (ma si può anche pensare ad un aggettivo sostantivato del volgare, posteriore a quella data), si comprende bene che il significato dell’intera espressione è semplicemente e direttamente ‘ingoiare qualcosa di ruvido, raschiante’, che lascia letteralmente il segno nella gola e una spiacevole sensazione nell'immediato e nel nostro ricordo, tanto è vero che il “rospo” ritorna in una espressione del dialetto di Roccacasale-Aq ad indicare una evacuazione dura e faticosa: ch’ stei a cachè gli rusp? (che stai a cacare i rospi?). Più o meno alla stessa area semantica appartiene anche il termine rospìttegrumo tenace di catarro alla gola che stimola la tosse’ del dialetto di Luco dei Marsi-Aq (cfr. Giovanni Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006, p. 146, sub voce). Una moneta ruspa o un ruspo era a Firenze una moneta appena coniata, con i bordi ancora ruvidi, non levigati dall'uso. Alla luce di questi ricorrenti significati del termine rospo, ruspo mi sembra insostenibile il rapporto che la tradizione popolare ci consegna e l'illustre Mario Alinei, nel suo studio sui nomi degli animali, sancisce, fra l'animale rospo e la ranula (tumoretto, cisti) che si sviluppa sotto la lingua dei bovini, o anche degli umani, chiamata rospo in qualche dialetto. A me pare chiara l'estraneità tra i due concetti espressi dal significante rospo che si sono qui incontrati solo per caso, dunque, senza formare un tandem affiatato tramite le misteriose vie magico-religiose della teoria dell'Alinei, la quale a mio avviso andrebbe rovesciata (non sono le credenze e la cultura in genere a dar ragione del nome, ma è il nome, pienamente e rettamente inteso, che dà ragione del folclore e della cultura in genere, da esso stesso in buona parte generati) , anche se io penso che la "forza" che provoca il tumore e le prominenze di un corpo scabroso è la stessa di quella che dà vita all'animale: cfr. ad esempio gr. thymòs 'animo' e gr. thymos (con accento sulla prima sillaba) 'timo, escrescenza carnosa, verruca, fico'; ma questo tipo di ragionamento lo lascerei per il momento solo agli iniziati un po' fuori di testa come me. Tutto qui. Con l’aggiunta della notazione che, man mano che l’aggettivo sostantivato che fa parte dell’espressione ingoiare il (un) rospo  tendeva ad essere relegato ai margini della lingua, lo spazio vuoto da esso lasciato veniva inevitabilmente occupato dalla omofona, o quasi, parola indicante il ‘rospo’, animale che oltretutto difficilmente potrebbe entrare nella strozza dell’uomo, ammesso che uno volesse ingoiarlo. Se qualcuno pensasse poi che il tumoretto bovino o umano in questione è cosi chiamato perchè la pelle del rospo è ricoperta di tubercoli simili si sbaglierebbe ugualmente, dato che non solo l'etimologia che collega anche il nome dell'animale all'aggettivo ruspo non è oggi più in auge, ma soprattutto perchè anche il termine tecnico-specialistico ranula, usato per la suddetta tumefazione, viene direttamente dal latino ranula(m) 'piccola rana, ranocchio, piccola cisti sotto la lingua dei bovini' benchè la rana abbia una pelle liscia! Non si può pensare che i latini abbiano qui confuso il rospo con la rana, e perciò la motivazione del significato di 'cisti, tumore' per quest'ultimo termine va a mio avviso cercata altrove, non nel tipo di pelle dell'animale simile chiamato rospo. La pianta erbacea chiamata ranuncolo, ad esempio, ci parla anch'essa di una 'piccola rana' , secondo l'etimo latino ranunculus 'ranocchio', pur non avendo nessun rapporto con l'animale! A meno che non si faccia ricorso a quella sorta di paese di Bengodi, che per me è la teoria magico-religiosa, dove ognuno trova il suo posto a tavola e riesce così a far quadrare i propri conti. Naturalmente la mia idea da iniziato (un po' folle?) è che anche il ranucolo costituisce un' escrescenza come quella indicata dal gr. thymos 'timo, escrescenza carnosa, ecc.' più sopra citato. Così pure le lucciole: lasciamole sciamare felici nelle calde serate estive e non riteniamole responsabili, con sentenza inappellabile ottenuta col favore della magia o altro, delle ulcere della lingua come vorrebbe qualcuno (in alcune zone della Toscana e altrove lucciola è la voce per 'ulcera')! Si capisce subito in questo caso che i vagolanti e ammiccanti esserini sono soltanto un travisamento delle ulcere, prodottosi non per sortilegio ma per via della banale metatesi e dell'etimologia popolare: nel mio dialetto di Aielli-Aq l'ulcera alla lingua o allo stomaco diventa (meglio: diventava) infatti la lùcera, pronta a trasformarsi in lucciola, lì dove nella parlata locale questo fosse il nome dell'insetto, anche per l'instabilità delle sillabe postoniche come nella serie degli abruzzesi quatràne, quatràre, quatràle 'ragazzo'. Per favore, allora, sforziamoci di guardare, almeno quando l'evidenza trabocca da ogni parte, dietro il paravento sonoro di questi termini che dentro di sè nascondono sempre, secondo me, una diversa identità che ama tenacemente e quasi burlescamente mantenere l'incognito: ma come può sfuggire che dietro i siciliani bicchignu 'tosse secca', bicchineddha 'tosse convulsiva' non opera l'ignaro becco (capro), come qualcuno sostiene, ma il puro greco béek-s 'tosse'? Solo la deformazione professionale, guidata dalla ora prevalente teoria magico-religiosa, può arrivare a queste sviste ed eccessi. Vorrei pertanto concludere osservando che sì, l'uomo primitivo vedeva la realtà tutta immersa in un'aura magico-religiosa, ma solo nel senso che essa appariva ai suoi occhi animata e vivente e tale egli la rappresentava semanticamente nella lingua in ciascuna delle parole che andava formando. Le quali, segnate così da un comune marchio semantico d'origine, erano fatte apposta per tessere, nelle loro ricadute folcloristico-culturali, un'irrazionale rete di rapporti che inevitabilmente ingannava la mente istintiva, ingenua e disponibile del selvaggio della preistoria e che mi pare continui a lusingare, seppure in maniera diversa, anche lo smaliziato uomo supertecnologico moderno, quando questi si sforza invano di capire le ragioni del comportamento totemico e magico-religioso dei suoi antichi predecessori, perchè, in questo tentativo di comprensione e spiegazione, cade nella trappola, a mio parere, di quelle stesse maglie che avevano irretito il suo antenato agli albori dell'umanità. Solo che il selvaggio credeva alla voce delle sue alate (Omero così le chiamava ancora) parole e cercava di ammansire le minacce o di ingraziarsi i favori degli esseri divini che egli scorgeva in ogni cosa e in ogni parte, e di cui esse erano le messaggere incontestabili, attraverso l'accumulo di formule magiche, scongiuri, preghiere, riti via via suggeriti e modificati dai significati mutevoli e diversi delle stesse parole appartenenti alla sfera di quegli esseri, soggette alla girandola delle contaminazioni più sopra descritte. Lo studioso moderno di quelle parole, lontano le mille miglia dalla ipersensibilità quasi patologica che il selvaggio avvertiva per esse e per i loro riverberi polisemantici accumulati in diacronia, le osserva e le vede ormai spoglie di ogni venatura mistica e mitopoietica, ridotte a mero, anodino strumento di comunicazione, come uno specchio che automaticamente e univocamente riflette su un piano sincronico la trama, ormai senza profonde risonanze interne, di quelle credenze e quei riti , di cui, al contrario, erano state le vere, anche se cangianti, versicolori generatrici e animatrici attraverso i millenni.

sabato 17 ottobre 2009

Le Procaristèrie

Le Procaristerie erano feste annuali dedicate ad Atena, considerata anche dea dell’agricoltura insieme a Demetra e Core, che si svolgevano ad Atene il 21 marzo, all’inizio quindi della primavera, quando le messi cominciavano a germogliare nei campi e la natura si risvegliava.
Il termine sembra voglia alludere ad una festa di ringraziamento (cfr. charis-terion ‘ringraziamento’) che però mal si adatta ad un rituale dell’inizio della primavera. Esso sarebbe più consono ad una festa autunnale, o anche estiva, del raccolto. Pertanto in un primo momento avevo pensato che la parola volesse indicare i nomi delle piantine di grano che in quel periodo spuntano dal terreno, e avevo individuato nella componente iniziale pro-‘prima,davanti’, che d’altronde non si sa bene come valutare ed intendere, la radice di gr. pyrós ‘grano’, concetto che a mio parere ritornava nella seconda componente –charis- che in greco significa ’grazia, gratitudine, ringraziamento’ ma che pensavo fosse solo la rietimologizzazione di un termine preistorico diffuso nel centro-meridione d’Italia, e cioè carusë, carusella ‘grano, tipo di grano’. L’intera parola (ta Procharisteria ‘le Procaristerie’), concludevo, si prestava ad indicare una festa primaverile del grano in germoglio. Ma un’attenta riflessione sul significato della radice di cháris, deverbativo da chaíro ‘mi rallegro, gioisco,ecc.’, mi ha portato alla conclusione che la parola dovesse indicare, in epoca preistorica, proprio il risveglio della Primavera, con tutta la sua luce, il suo rigoglio, e la sua forza germinativa portatrice di vita, calore e salute (chaíre ‘salve’ è la formula di saluto per i Greci), vitalità ben espressa dal nome inglese per ‘primavera’, cioè spring ‘primavera, salto, sorgente’. Ma forse, risolvendo la cosa in questo modo, non tocco completamente la verità che giace al fondo. In effetti non è illogico sostenere che quella ‘forza e vitalità’ presente nella Primavera è la stessa che fa germogliare anche il grano, e che pertanto lo stesso termine impiegato in una parlata ad indicare la Primavera poteva essere usato in un’altra ad indicare più specificatamente le piante, i fiori, e il grano. Ceres, la dea dell’agricoltura italica, da cui i cerealia ‘cereali’ (della stessa famiglia di ted. Hirse ‘miglio’, a mio avviso), mostra una radice molto simile a quella di carusë ‘grano’ e a quelle di lat. cre-are, cresc-ere nonché di gr. kóros,kûros ‘fanciullo, giovane, maschio’ e, significativamente, ‘rampollo, giunco, stelo’ (cfr. Kóre ‘Giovane, Fanciulla’, figlia di Demetra, rapita da Plutone in Sicilia mentre raccoglieva fiori). La notazione del mito, secondo la quale Demetra perse tutta la sua naturale gaiezza dopo la perdita della figlia, non credo sia stata inventata da qualche mitografo, che voleva evidenziare la  tristezza profonda che si impadronisce dell’animo umano dopo simili disgrazie, ma è molto più probabile che questa gaiezza fosse uno dei significati che il termine Kóre aveva in qualche parlata della Grecia. Io sono del parere che quasi nulla nei miti è inventato, essendo essi invece un prodotto quasi automatico dei numerosisimi incroci di parole che si sono verificati nel corso della loro vita plurimillenaria. In questo caso, inoltre, l’idea di ‘soddisfazione, contentezza’ poteva essersi insinuata in Kore dal verbo corradicale koré-nny-mi ‘mi sazio, sono soddisfatto’.
La componente pro-, nel senso di ‘forza primaverile’, penso si possa accostare al dan. for-år ‘primavera’ la cui seconda componente a mio parere qui non dovrebbe valere ‘anno’ ma richiamerebbe il greco (w)éar ‘primavera’ e il lat. ver ‘primavera’ la cui radice è presente anche in area germanica. La parola sarebbe quindi un composto tautologico e non dovrebbe essere sciolta in ‘pre-anno, inizio dell’anno’. Significativamente la radice rispunta, secondo me, anche nel ted. Frűh-ling ‘primavera’ (benchè incrociatasi con altre simili che qui tralascio), e nel serbo-croato pro-ljeće ‘primavera’ il quale potrebbe ancora erroneamente far pensare che si tratti di una ‘pre-estate’ dato che pro-ljetni vale ‘primaverile’ e ljeto vale ‘estate’, forse connesso con lat. laetum ‘rigoglioso, lieto’. Conferma il mio ragionamento la voce ted. froh ‘gioioso, lieto, fausto’ che ci riporta al piacere e alla gioia, in altri termini alla ‘vitalità’ e alla ‘gioiosa eccitazione’ della Primavera.
Se tutto ciò non bastasse ad accreditare l’idea di Atena=Primavera, potrebbe venirci incontro, a sua volta, un altro epiteto della dea, cioè Ergáne, Orgáne ‘protettrice delle arti’, dal gr. (w)érgos ‘opera, lavoro, faccenda’, termine che svela la sua parentela con gr. orgá-o ‘sono pieno di umore, sono fecondo, rigoglioso’ in riferimento a piante (ad Aielli-Aq j’òrganë è un’erba commestibile), ma anche ‘sono ardente, bramo, ecc.’. Sono da ricordare le órgia ‘culti misteriosi’ di Demetra Eleusina. E’ evidente che la funzione di protettrice delle arti, riservata alla dea, è un diretto derivato dell’altra di generatrice di tutte le forze della Natura.
Trito-géneia,Trito-genés, uno dei tanti epiteti della dea, viene spiegato diversamente come ‘figlia di Tritone’, o dal lago Tritonide nella Libia, dal torrente Tritone della Beozia, ecc. Io lo intenderei invece come composto tautologico col significato di ‘grano’ o ‘vegetale’ da accostare per la prima componente a lat. triticum ‘grano’, ted. Ge-treide ‘cereali, grano’; per l’altra componente bisogna supporre un sostantivo ‘nata, creatura’ e quindi anche ‘grano’ come, a mio parere, dimostra la forma semplice Tritó.
Korypha-genés ‘nata dalla testa (di Giove)’ presenta invece nella prima componente quella che a me sembra una semplice variante di kóre ‘fanciulla’: il maschile kóros che vale anche ‘stelo, giunco’, è fatto risalire a * kór(w)os, e il corvo è uno degli uccelli a lei sacro.
Interessantissime sono alcune notizie desumibili da racconti tradizionali della città di Enna in Sicilia, centro antichissimo del culto di Cerere e Proserpina. Nel quartiere di Valverde si trova una stradina chiamata di Cerere Arsa. Nella zona esisteva in antico un tempietto della dea Cerere con una statua lignea fatta bruciare da san Pancrazio, presunto evangelizzatore degli Ennesi, con la promessa che i raccolti sarebbero stati ugualmente copiosi sotto la protezione della Madonna, detta di Valverde. La stradina suddetta è nota come Cirasa : non è difficile leggere in Cerere Arsa una reinterpretazione del precedente nome o toponimo Cir-asa , probabilmente da Cer-asa, in cui riappare una variante della radice relativa alla ‘'forza vegetativa'’ di cui si discute, della stessa natura di car-usë ‘grano’ e di Ceres. Eppure –incredibile auditu!- la gente locale e gli studiosi credono che sia l’esatto contrario, che cioè Cirasa sia una deformazione dialettale dell’espressione Cerere Arsa!
Va da sé, invece, che la storiella di san Pancrazio che brucia la statua lignea della dea debba prendere l’avvio da questa banale rietimologizzazione. Anche il nome del Santo, Pan-crazio, che in superficie significa ‘onni-potente’, dal gr. pan-kratés, sembra invece alludere, in questo caso, al significato vegetale di pan-krátion ‘sorta di scilla marina’, soprattutto se si pon mente ad un epiteto di Atena, quello di Krato-genés ‘nata dalla testa (di Giove)’, che peraltro si allinea con gli epiteti sopra citati: c’è da notare che in fondo il concetto di ‘capo,testa’ equivale a quello di ‘protuberanza, escrescenza, crescita’ proprio della vegetazione e anche che il termine cháris, chárit-os ‘grazia’, di cui sopra, poteva facilmente diventare chár(i)t- andando così a confondersi con kártos, variante di krátos ‘forza’, la forza germinativa della Natura che è dietro questi nomi legati alla vegetazione e la forza tout court che sta dietro ogni parola. Da notare anche gr. krataí-gonos ‘persicaria (vegetale)’ in cui riappaiono in forme alquanto diverse le due componenti dell’epiteto, naturalmente senza che si possa estrarne un qualche significato di superficie accettabile, in relazione al referente, se non quello vaghissimo di ‘nato (-gonos) con forza, dalla forza (krataí-)’. La Madonna di Valverde, poi, è chiamata esattamente la Madonna della Visitazione, che è l’appellativo che normalmente si accompagna alla Madonna delle Grazie, venerata dalla Chiesa Cattolica a ricordo della visita che Maria fece alla cugina Elisabetta. E’ quindi singolare la coincidenza del nome Grazie con la seconda componente di Pan-crazio. Per il primo elemento pan- bisogna andare col pensiero a gr. pam-bótanon ‘erba’(cfr. gr. botáne ‘pascolo, erba’), alle feste ateniesi Pan-atenee dedicate ad Atena nonchè al dio agreste Pan, simbolo delle molteplici e misteriose forze della Natura. Buon ultimo l’aggettivo pán-chortos riferito da Sofocle a sĩta ‘cereali’ con significato presumibile di ‘copiosi’, letter. ‘tutta (pan-) erba, cibo, nutrimento (-chortos)’, che però a mio parere è tautologico rispetto a sĩta e richiama, nella seconda componente, il lat. hordeum ‘orzo’, anche se lo si volesse intendere, quest’ultimo, come ‘chicco, rotondità’ poiché chórtos ha anche il valore di ‘recinto’, cfr. lat. hortus.
Date le precedenti corrispondenze tra char(i)t- 'grazia', kratos, kartos 'forza', a me sembra che il lat. gratia 'grazia, gratitudine, favore, influenza, potere,ecc.', la cui origine non è moltissimo chiara, possa essere considerato una loro variante di tipo germanico (cfr. ted. gern 'volentieri' )anche per la presenza nel gr. charis, charit-os di diversi dei molti significati di gratia. Ho constatato che anche Ottorino Pianigiani, famoso magistrato e linguista vissuto tra Otto e Novecento, esprime la stessa idea nel suo Vocabolario Etimologico.
Per finire, a me pare evidente che anche il nome latino della città siciliana centro del culto di Cerere, Henna, dovette indicare in epoche remotissime qualche divinità della fertilità dei campi e degli animali, nome collegabile in qualche modo al gr. genés di cui sopra, se solo si tiene presente l’uso che nel Medioriente, fin dall’antichità più lontana, si fa della pianta henna (hinna), con la cui polvere si dipingono figure ornamentali sulle mani e sul corpo di giovani donne nelle cerimonie nuziali, prima che si incontrino coi loro mariti. Henna è anche nome arabo personale femminile che significa ‘benedetta, beata’ e quindi connesso con l’idea di ‘gioia, felicità’ di cui sopra. L’ uso della pianta, in funzione ornamentale, ricorre in occasione di eventi legati anch’essi all’idea di ‘fertilità’ come nascite, compleanni e circoncisioni.
Sono altresì convinto che, prima che una divinità si appropriasse del nome della rocca famosa della città di Henna , esso doveva indicare proprio l’altura ab omni aditu circumcisa atque directa, come la definisce Cicerone, secondo quanto di solito accade toponomasticamente, in casi simili.
E non finiremo mai di ringraziare gli uomini della preistoria che hanno dato il via al mirabile complesso di storie e miti e tradizioni che, ampliato di generazione in generazione e approdato nella Storia, è riuscito ad arrivare fino a noi, preziosissimo scrigno di vocaboli remotissimi senza di cui sarebbe stato quasi impossibile dare man forte, verificandone i princìpi, alla mia singolare teoria sull'origine, natura ed evoluzione della Lingua.

Come Atena, originaria divinità dell'agricoltura, diventa divinità della guerra e della vittoria

Si sa che Atena, come Demetra e Core, era una preistorica divinità della natura e delle attività agricole, come dimostrano, fra l’altro, le Procaristerie, feste primaverili dedicate alla dea il 21 di marzo, quando la natura cominciava a risvegliarsi e le messi a germogliare. Questo assunto credo di averlo sufficientemente irrobustito nel mio articolo Le Procaristerie.
Si può subito notare come Pro-, la prima componente del nome, vada a coincidere con la prima componente di Pró-machos e di Pro-mach-órma, due epiteti tra i tanti della dea. Il primo significa ‘combattente in prima fila, difensore’, il secondo, riferito ad un tempio di Atena sul promontorio Buporthmos, viene inteso come ‘protettrice degli ancoraggi’, cfr. órmos ‘porto, seno, rada, ricovero’. Ma, a mio modesto parere, qui siamo innanzi tutto di fronte ad un nome che doveva indicare in un primo momento semplicemente il ‘promontorio’, nome che andava a coincidere con uno degli epiteti di Atena in modo da dare origine ad un suo culto nello stesso. Le cose a questo punto si ampliano e secondo me fanno ben capire la vasta dinamica dei significati dei termini e dei loro continui incroci nel corso dei millenni. L’idea di ‘promontorio’ è un diretto derivato di quella di ‘tensione, protuberanza’ e simili. E in effetti il gr. pro-mékes (non ci confonda l’assenza di aspirazione) significa ‘bislungo, prominente’ e deriva da mẽkos ‘lunghezza, altezza’ con la variante dorica mãkos. Seguendo questa linea interpretativa, quindi, la componente –órma dell’epiteto in questione la vedrei come scaturente dalla radice del termine ormé ‘impeto, assalto, slancio’, concetto ben adeguato ad esprimere sia l’idea di ‘promontorio’ che quella di ‘combattimento’: ma ambedue non disdegnano la compagnia di un termine come mékon, mákon ‘papavero, testa di papavero’(cfr. a.slavo maku ‘papavero’ ted. Mohn ‘papavero’), parola che ci riporta, a mio avviso, alla "forza" del regno vegetale. Il termine matematico mékei, dativo di mẽkos, dor.mãkos ‘lunghezza, altezza’ vale ‘alla prima potenza’, significato che riemerge tutto nel greco mẽchos, dor. mãchos ‘mezzo, espediente, possibilità’, gr. mégas ‘grande, forte, potente’, gr. makrós ‘lungo, alto, profondo, forte’, lat. magnus ‘grande, alto, lungo, potente’, ted. machen ‘fare’, ted. Macht ‘potenza, forza, forza militare’ e ingl. might ‘potere, forza, potenza’. Si può così ben affermare, come vado sostenendo da molti anni, che le diverse funzioni ed attribuzioni proprie di ogni divinità sono dovute tutte a quest’unico concetto di ‘forza, vitalità, spinta’, il quale opera d’altronde dietro ogni termine che l’uomo pronuncia: meraviglia delle meraviglie! Un’altra linea interpretativa, che comunque non cancellerebbe nulla di quanto ho detto finora, sarebbe quella di accostare –machos al celtico mako ‘figlio’ (cfr. i prefissi di cognomi scozzesi e irlandesi Mac-, Mc- equivalenti a ‘figlio di…’) in base anche alla stretta vicinanza del concetto di “figlio” e quello di “ragazzo”, cosa che ci ricondurrebbe all’altro epiteto di Atena cioè Párthenos ‘Vergine’ o a Kóre ’Figlia, Fanciulla,Vergine’. Illuminanti sono i termini ted. Magd ‘ragazza, vergine, serva’, ingl. maiden ‘fanciulla’ che, anch’essi, si prestano ad indicare fiori e vegetali in genere come ted. Mägde-blume ‘camomilla’ (letter. ‘fiore delle ragazze’), ingl. maiden-hair ‘capelvenere’ e ingl. maiden-oak ‘rovere’. La forma Pró-machos, così intesa, verrebbe ad allinearsi, dunque, sullo stesso piano di lat. pro-genies ‘progenie, stirpe, figli, piccoli di animali, germogli’, lat. proles<*pro-ales ‘progenie, figli, piccoli di animali, germogli’, lat. pro-sapia ‘prosapia, stirpe, famiglia’ e lat. Pro-serpina (nome latino di Core) se lat. pro-serpinaca indica la pianta ‘sanguinaria’, lat. pro-serpinalis herba la pianta ‘serpentaria’ e lat. pro-serpere significa, oltre a ‘uscire, avanzare strisciando’ anche ‘venir su, spuntare, crescere’.
Per Atena Nike, la divinità alata della vittoria (gr. níke ’vittoria’), credo sia interessante notare il verbo serbo-croato nica-ti ‘germogliare’ che potrebbe ricondurre il termine nell’ambito delle forze germinative della natura. Sempre in serbo-croato neć-ak significa ‘nipote’, concetto collegabile con quello di ‘pollone, rampollo, figlio’ come avviene nel lat. nepos ‘nipote, germoglio, piccolo di animali’. Ma anche in area abruzzese (vocabolario di D. Bielli) ricorrono voci come nicchë,nichë, nìculë ‘piccolo’.
Per il teonimo Atena credo entri in ballo il significato di ‘monte, altura’ (altra epifania della ‘protuberanza’) se si pon mente all’acropoli di Atene, nonché allo sprone calcareo su cui è situata la città antichissima di Atina-Fr nella Val di Comino chiamata potens da Virgilio (Aen. VII, 630), in cui riappare l’idea della forza materializzatasi forse nell’elevazione dell’altura come del resto nel ligure atina ‘varietà di olmo’ si è concretizzata in un vegetale. Un altro epiteto di Atena è proprio pótnia (lat. potis ’potente’) ‘signora, dominatrice, augusta, veneranda’, epiteto comune per il vero ad altre dee tra cui proprio Demetra e Core, divinità delle "forze" della natura come sappiamo.
Qualcuno potrebbe far notare che la bellicosità attribuita ad Atena possa essersi insinuata tra gli attributi della dea per altra strada, che riconduce alla stessa radice di cháris ‘grazia’ di cui ho parlato nell’articolo Le Procaristerie. E in effetti il greco chárme ‘ ardore bellico, combattimento, zuffa’, strettamente collegato al termine corradicale chárma ‘gioia, letizia’, conferma da un lato la validità del mio ragionamento secondo cui il concetto di ‘gioia, eccitazione’ va a braccetto con quello di ‘battaglia, combattimento’, ma dall’altro potrebbe far credere che il mito dell’Atena guerriera abbia tratto alimento esclusivamente da questa radice. Conclusione errata, perché non tiene conto del fatto, ora più che mai a me chiarissimo, che ogni radice possiede in partenza una infinità di possibiltà semantiche, anche se ora noi, abituati ad un linguaggio che ha costretto ogni parola a ridurre enormemente quelle possibilità, stentiamo a credere a questo fenomeno che ha appunto dell’incredibile.