mercoledì 18 settembre 2019

San Rocco, il santo più venerato d’Europa, e non solo, non è mai esistito.






   Nonostante l’abbondanza di notizie relative a questo Santo venerato diffusissimamente nei vari paesi d’Europa, nessuna di esse  può definirsi certa  e concretamente storica, nemmeno quella del paese di nascita (1300-1400 circa), ritenuto dai più Montpellier nel sud della Francia, in Linguadoca, né quella della sua canonizzazione, né quella della morte.  I poveri uomini tormentati in passato continuamente dai morsi della fame, dalle guerre e dalle ricorrenti epidemie, in una triste condizione in  cui la medicina balbettava, come scrisse Lucrezio nel De rerum natura a proposito della peste d’Atene (430 a.C.), erano disposti ad accettare qualsiasi credenza si diffondesse di volta in volta circa i poteri taumaturgici di qualche figura di ciarlatano, esistito veramente o anche totalmente frutto della loro angoscia e della forte speranza di guarigione. Vedremo come è possibile che la nostra mente, in condizioni particolari che praticamente sono durate per migliaia di anni, creava di questi personaggi, ne raccontava i fatti miracolosi e i particolari della vita, e ne alimentava  così la diffusione attraverso i secoli anche con la costruzione di chiese e altri luoghi di culto.

   Intendiamoci, io non sono il primo ad asserire l’inconsistenza storica di questo amatissimo Santo, anzi si può dire che io approfitti, in un certo senso, di questa idea già espressa e dimostrata da altri, per rafforzarne la veridicità, esclusivamente con i mezzi della linguistica, di cui ho qualche competenza.

  Fu proprio il belga  Pierre Bolle, nella monumentale opera in tre volumi del 2001 “Saint Roch. Genèse e première expansion d’un culte au XV siècle” e in numerosi saggi successivi, a mettere seriamente in dubbio la figura storica del personaggio, che sarebbe stato oltretutto un “doppione” agiografico di un altro santo, anch’esso storicamente incerto, cioè san Raco (o Racho), vescovo di Autun, del VII sec. dopo Cristo, invocato contro le tempeste.  Il nome è quasi omonimo di Rocco che era anch’egli considerato talora protettore dalle tempeste oltre che dalla peste. 

   Il Bolle sostiene, in particolare,  che il protettorato della peste sia derivato a san Rocco proprio dalla sua iniziale presunta tutela contro le tempeste e i temporali, già caratteristica di san Racho.  La parola francese peste ‘peste’ si sarebbe generata, secondo il Bolle, dalla stessa parola del francese antico tem-peste ‘tempesta’ per aferesi della sillaba iniziale, fenomeno molto diffuso nell’onomastica  come, ad esempio, Tonino < An-tonino, o Dolfo < A-dolfo, Ro-dolfo.  In questo caso l’aferesi riguarderebbe  una parola comune: tempeste.  Il Bolle cita una strofa di una preghiera rivolta a san Rocco, in francese antico, molto indicativa. La strofa è questa: Qui sert sain  Roch, il le garde/ de pestilence et de tempeste,/ prenons le donc pour sauvegarde/toujours craignant en tout temps peste (trad: Chi serve san Rocco, egli lo protegge/ dalla pestilenza e dalla tempesta,/prendiamolo quindi per nostra salvaguardia/ noi che temiamo sempre in ogni tempo la peste.   Ora, a me pare che, piuttosto che parlare di aferesi, bisogna supporre, all’origine della confusione tempesta/peste,  un verso finale della strofa che al posto dell’espressione en tout temps peste abbia invece toute tempeste e che significhi quindi, nell’insieme,  ‘noi che temiamo sempre ogni tempesta, temporale’, reinterpretata poi come en tout temps peste. Dico questo perché l’espressione en tout temps (in ogni tempo, sempre) finisce con l’apparire un pleonasmo inutile rispetto al precedente toujours ‘sempre’. Si potrebbe pensare anche ad una forma en toute tempeste ‘in ogni tempesta’ (ma così non si rispetterebbe la metrica del componimento, mi pare, perché il verso diventerebbe ipermetro), che produrrebbe il significato ‘avendo paura noi sempre in ogni tempesta’. Infatti, secondo le concezioni della medicina galenica dell’epoca, le epidemie e la peste venivano causte da sconvolgimenti meteorologici.  Comunque si intenda la frase, non si può tuttavia negare questo gioco di parole sagacemente  messo in evidenza dal Bolle.  

   Anzi, io sono convinto che bisogna procedere su questa strada degli incroci tra le parole avvenuti attraverso i secoli, e talora i millenni, per poter capire la genesi soprattutto di quelle notiziole particolari e spesso di nessun valore che non trovano assolutamente giustificazione nella supposta inventiva, più o meno sbrigliata, dei molti che hanno parlato della vita e delle azioni di questo Santo: l’inventiva si nutre degli incontri e della immancabile confusione di parole simili e assonanti, come ho mostrato in tanti brani dei miei articoli, in specie quelli riguardanti le cantilene relative alla chiocciola.

   A Sarmato-Pc, nell’Emilia-Romagna, dove il Santo si ammalò di peste di ritorno dal suo pellegrinaggio a Roma, sarebbe avvenuto il miracolo della nascita di un pero meraviglioso dal bastone del Santo.  Ora, a parte il fatto che un credente può pensare quello che vuole, come è mai razionalmente possibile che un fatto del genere, così particolare, sia opera della fantasia di qualcuno? Che le cose non vadano assolutamente spiegate in questo modo è dimostrato da quanto sto per dire.  In abruzzese la voce pirë significa ‘piòlo, cavicchio’ ma anche ‘grosso bastone’; abr. pir-òcca o për-òcca o për-òcch-ëla, o për-òcch-ëlë significa ‘bastone’ a volte piccolo, altre volte grande, e soprattutto ‘vincastro (dei pastori)’.  Ma, per influenza della parola it. pera, il termine significa anche ‘bastone con grossa testa’.  Ora, mi sembra straevidente che il miracolo del pero attribuito a san Rocco si sia originato dall’incontro di una  voce simile a quella abruzzese di pirë ‘grosso bastone’ con il termine it. pero (lat. pir-um).  Penso altresì che questa radice specializzatasi ad indicare il ‘pero’ all’origine indicasse qualsiasi, stelo, bastone o pianta, ma questo ora ci interessa poco.

   La figura di san Rocco è secondo me l’ipostatizzazione dell’idea astratta di pellegrino, di guaritore, e, in certa misura, anche di cavaliere errante.  Sappiamo che numerosi erano nel medioevo i pellegrini che attraversavano l’Europa, avendo come meta Santiago di Compostela in Spagna (dove si trovava la presunta tomba dell’apostolo Giacomo), le tombe degli apostoli Pietro e Paolo a Roma, il santo sepolcro in Palestina. Orbene, il nome Rocco, qualunque ne sia l’origine che pare germanica, assuona molto col termine ingl. rogue (pron. roug) che ha il significato arcaico di ‘vagabondo, errabondo’ e risponde così molto bene all’idea di cavaliere errante[1] e anche di pellegrino, il quale è normalmente uno straniero in cammino verso una meta, in genere religiosa.

    A questo punto si presenta però una complicazione, nel senso che il nome del Santo può essersi incrociato anche con qualche radice del tipo crok, crog, o krog e simili, con velare iniziale che potrebbe, però, essersi ridotta a spirante /h/ e successivamente essere scomparsa,  confondendosi col  personale Rocco.   Me lo fa sospettare la questione del nome del padre del nostro Santo, che sarebbe stato (ma nulla v’è di certo) Jean Roch de la Croix  (Gian Rocco della Croce).  La questione non è stata risolta ma mi pare chiaro che anche qui emerga un gioco tra una radice roch  e un’altra (k)roch, soprattutto se si considera buona la derivazione del personale Rocco dalla radice germanica rappresentata, ad esempio, dall’ant. ted. hruoch ‘ghiandaia, corvo’, a sua volta da un precedente *(k)ruoch, come del resto l’ingl. rook ‘corvo (comune)’, secondo le norme della cosiddetta rotazione consonantica germanica o Lautverschiebung.  Per il personale Jean è stupendo rimarcare la perfetta consonanza col fr. jeann-ettecrocetta che si porta al collo’. La voce rocco[2] indicava in passato anche il bastone del vescovo o pastorale. Ora, è singolare che anche l’ingl. crook indichi il pastorale e il bastone dei pastori, quindi è presumibile che il presunto nome e cognome del padre di Rocco si riferisse invece ad uno degli elementi più caratteristici di ogni pellegrino e quindi anche di Rocco: il bastone.

    La voce crùocchĕ nel dialetto lucano di Gallicchio-Pt[3] vale ‘uncino di ferro piegato ad S’, mentre l’abr. cròcchĕ[4] significa ‘specie di forchetta che si mette al collo della pecora per tenerla ferma mentre viene munta’.  Ora io penso che queste voci, soprattutto l’ultima, non siano derivate direttamente dal fr. croc ‘uncino, gancio’ ma che abbiano qualcosa da spartire con ingl. crotch che presenta un significato come ‘palo con una forchetta in una delle estremità, usato come sostegno’: mi pare quasi la stessa definizione usata per la voce abruzzese precedente!  A mio avviso, perciò, penso che queste voci si trovassero su suolo italico da moltissimo tempo.

   Ma c’è ancora altro da osservare.  Il nostro san Rocco avrebbe avuto  una specie di voglia sul petto: una croce vermiglia, la quale ci farebbe capire ancor di più la genesi del cognome de la Croix ‘della Croce’, dato che il lat. cruc-em ‘croce’, da cui deriva il fr. croix, ‘croce’, assuona molto con ingl. crook ‘pastorale’. Il pastorale ha un manico molto ricurvo, a forma di riccio. Infatti l’ingl. crook vale anche ‘curva, piega’.  Inoltre abbiamo visto più sopra che il fr. jeann-ette è una crocetta la quale, portandosi appesa al collo, batte di conseguenza sul petto di chi la porta.  Il colore rosso della croce (cfr. prov. rog ‘rosso’, fr. rocou 'pigmento rosso') potrebbe ricordare quello della croce  portata dai cavalieri templari a Gerusalemme o dai Crociati spagnoli.  Ma le meraviglie non finiscono qui. Il sarrocch-ino o sanrocch-ino, corto mantello di cuoio indossato fino al gomito dai pellegrini, non deriva il nome da san Rocco, come può sembrare, ma ha a che fare con diversi altri nomi come il medio alto tedesco sarrok [5]‘veste militare’ ecc. Sapete come erano i capelli del nostro Santo? Biondi e arricciati.

   Che realistica rappresentazione, se il personaggio fosse veramente esistito! Ma il fatto è che esisteva il termine latino, di origine greca, croc-u(m) ‘croco, zafferano’, un fiore dal colore giallo-arancione (biondiccio), il cui nome, oltre a richiamare la suddetta croce sul petto del Santo, compì il miracolo di farci sapere il colore dei suoi capelli! Ma non bastava! perché i capelli potevano essere lisci o arricciati! Allora ecco spuntare i miracolosi rocc-oli[6], cioè i ‘riccioli, capelli avvolti a cilindro’, parola che dura nei dialetti, e che toglie ogni dubbio sulla qualità dei suoi capelli.  E non è affatto da credere, come fanno i più, che la parola rocc-olo ‘ricciolo’ sia da riportare al lat. rot-ul-u(m) ‘rotella’ o lat. rot-ul-a(m) ‘rotella’, che al massimo possono dare it. rocchio < rocl-u(m) come it. vecchio < vecl-u(m)< vetl-u(m) < lat. vetul-u(m) ‘piuttosto vecchio’.  Anzi, a me pare che l’it. rocchio possa derivare proprio da un originario lat. *rocc-ul-u(m) che doveva esistere accanto al lat. rot-ul-u(m).  Me lo fanno supporre i termini latini che presentano una radice abbastanza simile come lat. rug-a(m) ‘ruga, piega, ma anche ‘madrevite’, la quale è sempre una vite, cioè etimologicamente qualcosa che si avvolge intorno; e ancora l’aiellese-abruzzese ruc-ëchë (con varianti) ‘cerchio di legno o ferro (con cui ci si divertiva da ragazzi)’; il fr. ruche ‘panno crespo’ cioè pieghettatoil fr. ruche ‘panno crespo’ cioè pieghettato; ingl. ruck ‘grinza, ruga’; il portoghese en-roc-ar ‘pieghettare’. Da non dimenticare il termine tecnico-marinaresco roach ‘curvatura a forma di mezzaluna del lembo di una vela’ o ‘convessità del ponte delle navi per lo scolo delle acque’. Ingl. roach significa anche 'rotolo di capelli sulla fronte stirato indietro con una spazzola': mamma mia, che termine complicato e preciso! ma in questi casi solitamente c'è il concorso di altre radici simili: qui si può individuare anche la radice di ingl. reach 'arrivare, raggiungere', col significato etimologico di 'tendere, stendere, stirare'. Il cane che a Sarmato-Pc, paese sopra citato, portava il tozzo di pane (cfr. it. rocchio), sottratto alla mensa di un potente signore del luogo, al Santo che viveva malato in una grotta, è a mio avviso un prodotto della fantasia messa in moto dalla parola francese roqu-et ‘botolo’: non è il contrario come ha supposto qualcuno, che cioè le vicende di san Rocco hanno dato origine alla parola francese.  Si potrebbe infatti sostenere che, come il piccione che tuba è chiamato in alcuni dialetti rucco, così un cane che ringhia può essere chiamato roqu-et, ma la spiegazione, per quanto razionale e accettabile, non mi soddisfa perché io vedo dietro la radice, all’origine, il significato di ‘animale’.

   E così sono arrivato a parlare (last but not least) della chiesetta di san Rocco del mio paese di Aielli. Il cuore mi batte forte. Fin da ragazzo quel luogo mi aveva preso per la sua particolarità: tre curve consecutive, l’una legata all’altra, consentono lì alla strada (proveniente da Aielli Stazione) che corre sotto la caratteristica e impervia chiostra di rocce che circonda, a sud e a ovest, il naturale oppidum su cui sorge ora il paese, di accedere appunto, contorcendosi tra gli spuntoni di roccia, alla zona chiamata Vallone prima di arrivare, ancora più su, al centro del paese, con la sua piazza panoramica o, ancora più su, alla zona della torre antica. Orbene, da tutto quello che abbiamo detto, desumo con quasi assoluta  certezza che quel punto delle tre curve dove sorge la chiesetta doveva essere noto col toponimo Rocco, o anche san Rocco, col significato antichissimo di ‘curva’ o ‘movimento ondoso’ o ‘andamento sinuoso (come quello rappresentato dal susseguirsi delle tre curve’: per la radice abbiamo l’imbarazzo della scelta tra una forma originaria Crocco e un’altra Rocco, A ben pensarci anche il verbo ingl. rock indica il movimento oscillante di una sedia a dondolo e di altro. Ma anche il movimento di chi, ad esempio, si muove piegando prima a destra e subito dopo a sinistra e poi ancora a destra descrive un ondeggiamento simile ad un’oscillazione sinusoidale.   

    Naturalmente, quando arrivò anche ad Aielli il culto di san Rocco, forse in occasione di qualche pestilenza, la chiesetta costruita in suo onore non poteva trovare altra collocazione che quella indicata già da gran tempo dal toponimo, giacchè esso poteva risalire anche a decine di migliaia di anni prima.  Ugualmente, la Fontana di san Rocco nel paese di Sarmato-Pc, sgorgante  sulla linea delle risorgive, non dovette di certo aspettare l'arrivo del Santo per acquisirne il nome, se la voce rocchio, come abbiamo visto nell'articolo precedente ("L'aiellese-abruzzese rucà..."), significa 'sorgente' nel dialetto umbro e anche, in italiano, 'getto d'acqua'.  La leggenda tradizionale addirittura narra che la fontana sgorgò miracolosamente per dissetare il Santo!

   Quanto alla voce Vallone, la zona non molto estesa nelle immediate vicinanze del valico, diciamo così, di san Rocco, c’è da osservare che, curiosamente, essa dovrebbe essere accusata di falsità, se fosse una persona: non c’è infatti l’ombra di qualcosa che potrebbe definirsi come tale, cioè una valle stretta e lunga con pareti a volte quasi verticali.  Già in altra occasione ebbi a pensare che essa avesse indicato, all’origine, proprio il valico in questione, dato che il termine valle l’ho talora incontrato, in toponomastica, a designare proprio un passo montano.  Ora, stante quanto ho detto sopra, credo che sia il caso di definire meglio il concetto di “valico” con l’aggiunta dell’aggettivo tortuoso. Si tratterebbe, per quanto riguarda il significato, di un doppione della voce Rocco nel significato, appunto,  di ‘sinuosità, tortuosità’.  Voce che con molta probabilità fu scalzata successivamente dall’arrivo dell’altra voce omosemantica Rocco, che la costrinse  a ritirarsi un po’ indietro ad indicare la zona circostante, non potendo essa naturalmente tener testa all'importanza del nome di un tale Santo. Il verbo tedesco wall-en ‘ondeggiare, fluttuare’, insieme col ted. Welle 'onda', potrebbe fornirci la radice che fa al nostro caso. Che poi dovrebbe essere quella dello stesso lat. vall-e(m), lat. valv-as ‘battenti’, lat. volv-ĕre ‘volgere, girare, voltare’, ecc. ecc. Naturalmente ci saranno, nei tanti paesi e frazioni in cui il Santo è venerato, ancora tanti episodi della sua presunta vita da analizzare linguisticamente e da spiegare.  Leggo in alcuni post su internet che Gottardo Pallastrini, il potente signore di Sarmato-Pc, dove il Santo si ammalò di peste, un giorno seguì il cane che rubava il pane dalla sua mensa e lo portava, attraverso un sentiero tortuoso  del bosco, nella grotta dove il Santo si era rifugiato.  Anche qui ritorna l’idea della “tortuosità” niente affatto necessaria al racconto, ma evidentemente generata dall’influsso di uno dei significati che la  voce rocco dovette avere in passato[7].

     Viva san Rocco e la sua stupenda storia fittizia la quale, a mio parere, ci fa toccare con mano i meccanismi mitopoietici che lo riguardano! 



[1] Cfr. O. Pianigiani, Vocabolario etimologico , in rete, s.v. rocco. Il Pianigiani ci dà la notizia che, secondo l’orientalista francese del sec. XVII  B. Herbelot,  la voce  roc, rokh  avrebbe avuto in origine il significato di ‘uomo valoroso e venturiero, cavaliere errante’.

[2] Cfr. O. Pianigiani, Vocabolario etimologico, in rete, s. v. rocco

[4] Cfr. A. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq,2004.

[5] Cfr. l’articolo Il gioco topa topa ‘nascondino, presente nel mio blog, marzo 2018.

[6] Cfr. O. Pianigiani, Vocabolario etimologico,  in rete, s. v. roccolo.




sabato 7 settembre 2019

L'aiellese-abruzzese rucà 'grugare, tubare (dei piccioni)' e i significati originari delle radici.


   La derivazione di aiellese ruca’ sembra a portata di mano, data la presenza dell’it. grug-àre, considerato, a mio avviso erroneamente, voce onomatopeica[1], da cui, di primo acchito, dobbiamo trarlo, data la normale caduta, nel nostro dialetto, della velare iniziale, come in rànnëlagrandine’, in ròttëgrotta’ e arcaico ùstë ‘gusto’.  Il comportamento della velare –g- in aiellese l’ho trattato altrove più in dettaglio.

  Ma bisogna fare i conti anche col ted. ruck-en 'tubare (dei piccioni)', col fr. rouc-oul-er ’gemere, tubare (dei piccioni)’ma anche ‘sospirare, spasimare’  considerato onomatopeico anch’esso ma da una radice rouk-, rok-, rak- (cfr. a.slavo raka-ti ‘gridare’), simile, tranne che per la velare  sonora -g- iniziale, alla radice di it. grug-are.  Ora, se una buona volta non ci si libera da questo onomatopeicismo letale per la comprensione del fenomeno lingua, non faremo altro che continuare a ciurlare nel manico, sia nel tentativo di individuare la natura e il significato di una radice, sia in quello di capire nel profondo il suo meccanismo glottogonico.  La radice roc-, ruc- e varianti ritorna in molte parole dialettali come nel lombardo, emiliano roc  ‘rantolo del moribondo’, sardo racca ‘rantolo del moribondo’, corso ràg-anu ‘rantolo del moribondo’[2].  Si continua con siciliano rόcc-ulu  ‘urlo di cane o lupo, piagnisteo di bambini’, calabrese ruόcc-ulu, rόcc-ulu ‘lamento, rantolo’, calabrese rùcc-ulu  ‘mugolio, brontolio’[3], senese ruc-àre ‘far valere le proprie ragioni con tono alto e deciso’, senese rog-àre ‘brontolare a mezza voce tra sé e sé, mugolare dei cani in atto di minaccia’[4]

  Ora, ammesso che queste ed altre voci siano da riportare a qualche onomatopea originaria, ci si troverà, però, in qualche difficoltà nell’individuarne la natura: era essa una imitazione del tubare  dei piccioni, del mugolare del cane, del gemere di una persona addolorata e del suo sospirare, del latrato del cane, dell’ululato del lupo, o di altro?  La cosa che non posso accettare è questo procedere da un significato che doveva essere, per definizione, una quasi esatta imitazione di un suono particolare per poi allargarsi ad indicare, con la stessa radice, una molteplicità di rumori che hanno in comune, per la verità, solo la natura di suono, non importa di quale tipo. Ma allora faremmo bene a riflettere, prima di parlare di onomatopea, che tutte le lettere dell’alfabeto, essendo prodotte dell’apparato fonatorio umano, appunto, sarebbero adatte  a rappresentare l’idea generica di “suono”.  Io pertanto sono convinto che, per spiegare il senso delle radici, bisogna procedere piuttosto da un significato generale ad uno via via più particolare e non viceversa.   Mi spiego meglio con qualche esempio.

  Il lat. rug-ire non significa solo ‘ruggire’ come potremmo pensare influenzati dall’italiano in cui il verbo indica solo il verso del leone e di altri felini. Esso indicava anche il ragliare dell’asino, il bramire del cervo e il verso di altri animali, che sono più o meno diversi tra loro, e quindi, se si vuole essere ligi ad un’idea stretta di “imitazione”, richiederebbero onomatopee differenziate tra loro.  Non mi pare naturale supporre che il termine sia magari nato per imitare la voce   del leone o di altri felini e poi sia stato usato per indicare anche quella, più o meno simile, di altri animali.  A me pare cosa più razionale e naturale supporre che il verbo avesse un significato più antico e generico di ‘rumore, suono, stridore, boato, ecc.’, adattatosi successivamente ad esprimere il verso di un animale o di diversi animali dalla voce  grosso modo simile: anzi, è proprio questa genericità iniziale di fondo (non l’esclusiva specificità di partenza del raglio, del muggito, o del bramito) a favorire, senza difficoltà alcuna, il passaggio dal verso del leone a quello degli altri animali.  L’uomo moderno, ma anche quello che cominciò a parlare molte migliaia di anni fa, troverebbero una certa difficoltà a chiamare raglio il ruggito di un leone. 

  Il lat. rud-ere ugualmente mostra diversi valori: 1) ragliare; 2) bramire; 3) ruggire; ma anche 4) stridere, cigolare. Con quest’ultimo significato il verbo ci indica, a mio parere, anche il suo significato più antico di ‘emettere un rumore, uno stridore’.

   Ma in questo procedere a ritroso è inevitabile che l’idea di “rumore” rimandi a qualcosa di antecedente, di ancora più antico, direi originario, e comune a tutte le altre radici: la spinta, la forza, il movimento, l’anima che, per quanto riguarda il rumore, si concretizza appunto nel suono del rumore, ma avrebbe potuto realizzarsi in tante altre entità come lo scorrere di un fiume. E questo non perché un fiume che scorre fa rumore ma perché il fiume  che scorre è una forza che si concretizza nel suo muoversi e scorrere (cfr. lat. Rum-on, uno degli antichi nomi del Tevere), come il gr. ánem-os ‘vento’ è la concretizzazione del movimento dell’aria se il lat. anim-a(m) significa ‘soffio (vitale)’. L’idea di “forza, anima” agisce dietro i verbi latini fl-are ‘soffiare’ e flu-ere ‘fluire, scorrere’ (simili anche nella forma) da cui flu-men ‘fiume’, appunto.

   Dietro queste radici c’è un’idea di “forza, tensione” come si può vedere agevolmente anche nella radice del verbo lat. e-ruct-are ‘eruttare’ che è una forma intensiva o iterativa di lat. e-rug-ere che vale ‘eruttare’ ma anche ‘uscire con forza, sgorgare (dell’acqua)’.  La tensione che anima questa radice si può materializzare (specializzandosi) nel rumore  del rutto (lat. ruct-um). Ma è molto interessante notare che in Sant’Agostino il verbo significa semplicemente ‘proferire, dire’, materializzazione della spinta necessaria a pronunciare le parole, che sono anch’esse una sonorità, d’altronde.  A questo punto mi pare cada a fagiuolo far notare che anche il lat. rug-ire ‘ruggire, ragliare, bramire’ di cui si parlava sopra, dovrebbe essere una specializzazione della stessa radice rug-. Non importa, in soldoni, l’intensità del suono emesso: si tratti di un rumore sommesso, come quello di una normale, pacata  parola o quello del verso del piccione oppure, al contrario, si tratti di un grido o urlo, come quello di un ruggito, l’idea fondamentale che sorregge queste parole è quella di spinta verso l’esterno, per realizzare una espressione, qualunque ne sia il tono. Il lat. ex-prim-ere ‘spremere, spingere fuori, esprimere, pronunciare’ rende bene l’idea, a mio parere.  La spinta può ancora materializzarsi in una scaturigine, sorgente o getto d’acqua, significati di umbro rocchio < *roc-ul, il quale richiama il lat. e-rug-ere ‘sgorgare’ sopra citato. C'è anche l'ingl. roach 'foglio d'acqua schizzata in alto dietro il galleggiante di un idrovolante. O può materializzarsi in un tono di voce piuttosto robusto quale si ritrova nella rara espressione rocchio di voce. Come si può ben vedere, allora,  molto diverse possono essere le realtà che scaturiscono da una stessa radice, tanto che noi stentiamo, di primo acchito, a credere alla loro stretta parentela originaria.

  Ribadisco, quindi, che la direzione che bisogna seguire nello spiegare i significati di una radice è quella che procede dal generico al particolare, essendo stato in possesso di un unico concetto l’uomo che cominciò a parlare: quello di anima  che caratterizzò la primordiale fase animistica della sua evoluzione.

   Se entriamo in quest’ordine di idee faremo meno fatica a capire che una medesima radice può indicare il suono o il verso di un animale e nel contempo l’animale stesso. Il quale, come dice il nome stesso, non è altro che un essere animato, cioè fornito di quel soffio vitale (anima) che si può concretizzare nel vento, come nel greco ánem-os ‘vento’ o in un essere vivente, come nel lat. anim-al ‘animale’.

   Ritornando all’aiellese-abruzzese rucà ‘grugare, tubare’, con cui abbiamo cominciato questa maratona, si deve precisare che la voce ricorre in molti dialetti dell’Italia centro-meridonale. In abruzzese rucchë oppure ruchë ruchë sono voci di richiamo per i piccioni. Secondo me non bisogna credere che esse si riferiscano al caratteristico verso dell’uccello, ma all’uccello stesso, come nell’irpino rucco ‘colombo’.   Altrove ho fatto notare un caso simile: l’espressione passa via in uso nel mio paese di Aielli e riferita ad un cane per allontanarlo, va spiegata intendendo quel passa come reinterpretazione di un originario serbo–croato pas ‘cane’.  Secondo me il termine rucco ‘colombo’ richiama l’ingl. rook ‘corvo (comune)’il quale, rimandando all’ant. ingl. hroc ‘corvo’ con velare aspirata iniziale, si avvicinerebbe all’it. grug-are ‘gemere, tubare’, come abbiamo visto all’inizio dell’articolo.

   La voce regionale rucc-azz-òla che indica la columba livia, cioè un piccione selvatico che nidifica spesso nelle rocce a picco sul mare potrebbe essere inteso, erroneamente, come ‘piccione delle rocce (rucc-)’ . La stessa cosa è avvenuta nei termini ingl. rock pigeon oppure rock-er che indicano lo stesso tipo di piccione selvatico nidificante nelle rocce.  Si tratta solo, a mio avviso, di un’opportuna specializzazione del termine che all’inizio doveva indicare solo il piccione in genere. E’ ricca di risorse la lingua, e questa è una delle più sfruttate ! 

    Nel caso in cui la parola d’origine avesse posseduto una velare iniziale, allora bisognerebbe tener presenti anche le voci regionali italiane grucc-iόne, un tipo d’uccello, e gracchio, altro tipo di uccello, dal lat. grac-ul-u(m) ‘cornacchia’.   La stessa radice può indicare anche un altro uccello, il rocch-étto, nome regionale dell’anas querquedula, detta anche rag-anella. Quest’ultimo termine indica anche un anfibio simile alla rana, e richiama la voce dialettale ragano, racano che vale ‘ramarro’.Nel dialetto di Pietraroja-Bn. la voce ragan-èlla[5] vale ‘lucertola’: non si può assolutamente continuare a pensare, come capita tuttora, che questa radice sia onomatopeica!




   

  
 
 




[1] Io non credo nell’onomatopea, come ho mostrato  in un articolo di diversi anni fa, presente nel mio blog. Cfr.l’art. “Chicchirichì (gheriglio della noce) e la falsità delle etimologie” (25 giugno 2009). 

[2] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998.

[3] Cfr. Cortelazzo-Marcato, cit.