giovedì 10 dicembre 2020

Abruzzese sciuscèlla ‘carruba’ ed altro.



 

    Nel mio paese di Aielli-Aq la parola è sciuscèlla come  nella vicina Cerchio-Aq (ma anche altrove, nel Meridione), mentre a Trasacco-Aq si ha la variante sciscèlla[1]. Non ne ho mai letto o sentito un etimo purchessia, o appena accettabile, dalle nostre parti: la parola è così poco maneggevole, per così dire, e con diversi significati (come vedremo), da  scoraggiare  chiunque e, semmai, da indurre a confonderla con altre.

   A me pare che, in fondo, l’etimo sia abbastanza facile, se si parte dal trasaccano sciscella, il quale dovrebbe essere l’esito finale di una forma del latino parlato *siliqu-ella> silic-ella> silcella> sicella> sciscella. Tutti questi passaggi non sono eccezionali, ma abbastanza comuni: in latino esiste infatti  la forma diminutiva silic-ul-a(m) ‘piccolo baccello’ da siliqu-a(m) ‘siliqua, carruba’. Eh già! La carruba è sostanzialmente una siliqua, un baccello.  Silicella  si trasforma in silcella per la semplice caduta della vocale atona –i-, come in it. pulcino da latino tardo pullicin-u(m); silcellasicella per la caduta della –l- come nel dialettale pëcìnë proveniente da lat. pulcin-u(m) ‘pulcino’; sicella, come avviene in altre parole, assume in dialetto, nella prima sillaba, la forma fricativo-palatale scicella che per assimilazione trasforma la seconda sillaba –ce- da palatale a fricativo-palatale.  Nulla di eccezionale, dunque:  la nostra sciscèlla o sciuscèlla non è altro che il lat. siliqua-(m),  naturalmente un po’ strapazzata attraverso i secoli dalla bocca dei parlanti.  Direi anche che il suffisso–ella ha perso, o quasi, il suo valore originario di diminutivo come in tante altre parole quali an-ello, cerv-ello, frat-ello.

    L’idea espressa dal lat. siliqu-a-(m) ‘baccello’ si ritrova anche nell’altro nome dialettale abruzzese della carruba, e cioè fain-èlla, vain-èlla, da *guain-èlla: un baccello è una specie di guaina, vagina, infatti, che contiene e avvolge i semi. 

    La scisc-èlla divenne sciusc-èlla perché si incrociò col il lat. ius-cell-u(m) ‘brodetto’, da lat. ius ‘brodo’, e taluni pensano che esso sia all’origine del dial. sciuscella ‘carruba’, perché in antico le carrube potevano essere cotte in un brodo, appunto.   Ma questo fatto non può in alcun modo sostituire la natura di siliqua del frutto. 

    Diversi sono i significati della voce sciusc-èlla nel Meridione riguardanti cibi di natura diversa ma più o meno immersi in un brodo.  L’idea di “guaina, baccello” che sta dietro il termine fa sì che nel dialetto romanesco esso significhi anche ‘giumella’[2], una cavità, dunque, formata dalle due palme delle mani, come fossero le due valve di un baccello.

      Ad Aielli-Aq, il mio paese, addirittura la sciuscella significa anche ‘ciabatta’, una scarpa leggera e senza allacciature, una specie di sandalo.  A mio parere qui opera sempre, alla base, il concetto di “copertura” o di “avvolgimento” del piede, come nell’ingl. shoe ‘scarpa’, ted. Schuh ‘scarpa’, ingl sky ‘cielo’, in quanto ‘volta celeste’ che copre, latino ob-scur-u(m) ‘oscuro, scuro’: ma questa radice non ha che fare con quella di sciuscèlla, anche se il significato fondamentale è lo stesso.

     Quanto ai verbi sciuscià ‘bere (liberamente)’ e sciuscià ‘spendere smodatamente, lapidare, consumare, ecc.’ si deve pensare ad altra radice, che per ora trascuro e lascio per qualcuno più esperto di me.

   



[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo Avezzano-Aq, 2003.

[2] Cfr. U. Buzzelli-G.Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese, (senza edit ore), Avezzano-Aq 2002,  p. 326.

 

    



     

lunedì 7 dicembre 2020

Calabrese bucatu ‘scintillante’

               

 

    E’ veramente strano questo aggettivo del dialetto di Reggio Calabria[1].  Molto difficilmente esso potrebbe avere a che fare con il bucato che in quella regione, e in tante altre, è chiamato al femminile vucàta, proprio come nel mio dialetto di Aielli-Aq e in quello di Trasacco-Aq ucàta o vëcàta[2]. Questo termine è presente persino in Catalogna nella forma bugada.  I linguisti lo derivano da un franco būk-ōn ‘immergere’[3], ted. bauch-en  che per la verità non ho trovato nei miei due vocabolari tedeschi ma che si ripresenta nello sp. buce-ar ’immergersi’, sp. buce-o ‘immersione’. Ho trovato, in tedesco, solo beuch-en ‘mettere nel ranno (Beuche), mettere in molle’ e bauch-en ‘gonfiare’, con tutt’altro significato, da Bauch ‘pancia’.  In inglese, comunque, si incontra un dialettale buck ‘lavare col ranno, fare il bucato’ dal dialettale buck ‘ranno, liscivia’, sosia del ted. Beuche testé citato.

    Resta comunque assodato, a mio avviso, che il calabr. bucatu ‘scintillante’ non sia della stessa famiglia di calabr. vucata ’bucato’.   Piuttosto bisogna pensare ad un ingl. bug il quale indica una ‘luce intermittente nei porti usata  per segnalazioni’.   Quindi anche nell’ingl. buck ‘lavare col ranno’ potrebbe notarsi la presenza, per incrocio, di questo bug il cui significato di fondo doveva essere quello di ‘luminosità, chiarezza, bianchezza’, e indicare la sbiancatura, insomma, dei panni lavati col ranno.

     Faccio notare, inoltre, che in inglese si incontra il composto fire-bug ’lucciola’ ma anche ‘incendiario’ oppure ‘tipo di insetto dei Pirrocoridi dalla livrea rossa di fuoco e nera’, cfr. gr. pyrrh-όs ‘rosso fuoco’.  Io suppongo che la componente bug, che normalmente significa ‘baco, insetto in genere’ in quanto spirito, essere animato, in questo caso abbia avuto, in origine, lo stesso valore di fire- ‘fuoco’, come anche nell’inglese americano lightning-bug ‘lucciola’, letter. ‘insetto(-bug) lampeggiante (lightning-)’.

    Una radice simile  a quella di ingl. bick-er ‘bisticciare’ ma anche ‘brillare, vacillare’, detto di luce.

   



[2]  Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

 

[3] Cfr. G.Devoto,  Dizionario etimologico , Le monnier, Firenze 1968  e M.Cortelazzo-P. Zolli, DELI, Zanichelli Bologna, 2004.

 


 



    

sabato 5 dicembre 2020

Il succiacapre (seguito ter).

 


 

   Per caso ho incontrato l’ingl. twi-night che come aggettivo accompagna il termine double-header indicante un paio di partite di baseball giocate da due squadre successivamente, a partire dal tardo pomeriggio fino alla sera, cioè fino al tramonto del sole.  Generalmente si afferma che twi-night sarebbe una forma abbreviata di twilight night che designerebbe il periodo del giorno in cui si svolgono le dette partite, dal crepuscolo (twi-light)  alla notte (night).  Ma come ho detto sopra il periodo del giorno va dal tardo pomeriggio (non dal crepuscolo)  alla sera(evening) fino al tramonto del sole, non proprio alla notte che comincia subito dopo, per gli inglesi. Anche ammesso che l'incontro si protrae nella notte (sotto l'illuminazione) resta sempre la falsità dell'inizio al crepuscolo.  Chiarito ciò, mi pare che l’agg. twi-night fosse originariamente un sostantivo e indicasse la luce che va declinando affievolendosi, dal tardo pomeriggio alla sera fino al tramonto. Anche l’altro termine twi-light ’crepuscolo’ indica letter. una ‘luce incerta’, ma riferita solo a quella del crepuscolo, che è un breve periodo dopo il tramonto del sole.

    La seconda componente di twi-night non significherebbe quindi ‘notte’ ma ‘luce’ come ho spiegato nell’articolo precedente (il succiacapre bis) riportando la radice al lat.  nict-are ‘ammiccare, battere le ciglia’ che in Lucrezio vale ‘guizzare, balenare’, detto della luce.   La prima componente twi, della stessa radice di ingl. two ‘due’, è intesa come ‘doppia, incerta’, ma io penso che all’origine essa dovesse essere una componente tautologica dello stesso significato di ‘luce’, dalla radice indoeuropea dev, div ‘splendente’ presente nel lat. div-u(m)’divino’.

    Un’altra mia supposizione, che non scarterei, è che il termine twi-night significasse anche il 'doppio scontro, incontro, duello’, quello delle due squadre appunto che si sfidavano e che oggi è chiamato double-header. In questo caso la radice di –night dovrebbe corrispondere a quella del verbo gr. nýss-ein oppure nýtt-ein (dal gr. *nykt-ein) che signifa ’urtare, percuotere, ferire’  che ha tutti i crismi per indicare uno ‘scontro’, o un  ‘incontro’.  Successivamente twi-night si è incrociato col *night 'luce' ed ha finito per indicare il periodo del giorno in cui avveniva l'incontro, periodo che forse fu suggerito proprio da questo incrocio.  

venerdì 4 dicembre 2020

Il succiacapre (seguito bis).

 

                                        

     In Italia il succiacapre è chiamato anche nottola, nottolone e così fa pensare subito, relativamente a questi altri nomi, ad una derivazione diretta dal lat. noctu-a(m) ‘nottola (grosso pipistrello), civetta’.  Ma non è improbabile una derivazione  da nomi preistorici simili al ted. Nacht-eule ‘gufo’ letter. ‘gufo notturno (Nacht-‘notte’)’.  Denominazione di per sè pletorica (e quindi sospetta) dato che -eule indica già un uccello notturno, il gufo o la civetta.  Di conseguenza l’it. nott-ola, che sembra un diminutivo del lat. noctu-a(m) ‘nottola, civetta’, deve invece essere molto probabilmente considerato un composto costituito da due membri tautologici.

    La nozione di “notte” ritorna ancora nell’ingl. night-in-gale ‘usignolo’ e nel ted. Nacht-i-gall ‘usignolo’ ma anche ted. Nacht-in-gall che tutti i linguisti, credo, interpretano come ‘cantore della notte’ da un supposto verbo protogermanico *gal-on ‘gridare’ anche se, tra l’altro, l’usignolo canta anche di giorno.  A me pare, invece, che si tratti del solito composto tautologico formato dal membro night, Nacht che all’origine doveva avere lo stesso significato del secondo membro –gall che io accosto all’ingl.  ‘vento forte’ ma arcaicamente anche ‘leggera corrente d’aria, brezza’,  che qui avrebbe il significato di ‘soffio, anima, animale’.  Parenti stretti dovrebbero essere il lat. gall-u(m) ‘gallo’ e ingl. gull ‘gabbiano’.   Per un confronto con il primo membro sono da annoverare anche l’ingl. night-hawk ‘succiacapre’ letter. ‘falco (hawk) notturno’; ted. Nacht-mϋcke ‘lucciola’ letter. ‘zanzara, mosca (mϋcke) notturna’(che definzione improbabile!); ted. Nacht-schwalbe ‘succiacapre ’letter. ‘rondine di notte’; gr. nyct-erís ‘nottola’ ma anche ’tipo di pesce’, spiegato naturalmente dai linguisti con la parola greca nýk-s, nƴkt-όs ‘notte’. 

    Che il concetto di notte (ingl. night, ted. Nacht) c’entri come i cavoli a merenda e che esso  sia il risultato  di incroci favoriti certamente anche dal fatto che si tratta di uccelli e insetti notturni, è a mio avviso dimostrato anche dalla presenza in inglese, ad esempio, di un termine come gnat-hawk ‘succiacapre’ (letter. ‘falco che si nutre di  moscerini’), il quale nella pronuncia lascia cadere la velare –g- iniziale, come se si trattasse di *nat-hawk, similissimo all’ant. alto ted. naht ‘notte’ che presenta la quasi completa caduta della velare aspirata -ch- di ted. Nacht ‘notte’, velare che  nel norreno natt ‘notte’ si assimila completamente alla dentale seguente.  Esisteva anche niht ‘notte’ nell’ant. inglese.  La voce gnat in inglese vale ‘moscerino’ variante del ted. Gnitze ‘tigna’, regionale Gnitte, voce che si prestava a diventare niht ’notte’, night ‘notte’ nei suddetti nomi di volatili  o insetti notturni, assumendo il significato tautologico  di ‘insetto, uccello’, ma anche incrociandosi a volte con qualche radice corrispondente a quella, ad esempio, del verbo lat. nict-are ‘ammiccare, battere le palpebre’, alla cui base doveva esserci il significato generico di ‘muover(si), tentennare, tremolare’, il quale poteva trasformarsi anche in quello di ‘guizzare, palpitare, scintillare’ come succede al lat. mic-are ‘tremolare, palpitare, scintillare, sfolgorare’.  In Lucrezio, del resto, nict-are, detto della luce, valeva proprio ‘guizzare’. Così si può meglio giustificare anche il citato ted. Nacht-mϋcke ’lucciola’, passato prima attraverso il significato generico di ‘insetto, mosca, ecc.’ e poi specializzatosi in quello di ‘lucciola’, letter. ‘mosca della luce’ intesa come ‘mosca della notte’.  Sempre la radice nict presenta in latino un’altra natura, quella di ‘suono’, nel verbo  nict-ire (Ennio) ‘mugolare, brontolare’. Da notare anche l’ingl. night-flit ‘beccaccia’, uccello niente affatto notturno.

    Non mi stancherò mai di ripetere il grande principio saussuriano secondo cui è vano credere che i nomi siano stati imposti  in vista dei concetti da esprimere: in altri termini ciò vuol dire che i vari referenti non hanno ricevuto dall’uomo onomaturgo nomi particolari, spccifici, fatti apposta per loro.

 

                 

     





martedì 1 dicembre 2020

Il succiacapre (seguito).

 

                                    

 

    Tra i diversi nomi del succiacapre ce n’è uno cileno che suona gallina ciega, letteralmente ‘gallina cieca’.  Ora, cosa c’entra una gallina, per di più cieca, con l’animale in questione che caso mai somiglia un po’ ad un merlo o ad un falchetto, o ad una rondine dalle lunghe ali? Per me è chiaro che il nome non è stato imposto, più o meno recentemente, all’animale a causa di qualche somiglianza con la gallina ma che esso sia il risultato di incroci vari intervenuti attraverso i secoli che hanno travisato la denominazione originaria dell’animaletto.

   Intanto comincio con l’osservare che in sp. gallina ciega significa comunemente anche  ‘beccaccia’[1] oltre che ‘larva di un tipo di scarafaggio’[2].  Allo stesso modo in italiano il termine gallinella vale, tra altri significati, anche ‘beccaccia’.  Ora, questo svariare di significati a mio avviso avviene per lo stesso motivo per cui, nel dialetto di Pisoniano-Rm, la voce calina ‘scintilla’(voce usata anche a Collelongo-Aq nella Marsica) è passata a significare magicamente ‘lucciola’ nella voce caglinella: cosa è successo? forse la lucciola è stata vista dall’uomo primitivo simile  ad una gallina? Niente affatto! Secondo me il concetto di “scintilla-luce” che è ancora tutto evidente, anche in superficie, in caglinella ‘lucciola’ (benchè il significante  faccia riferimento al concetto di “gallina” la quale non luce come una lucciola) si è, come dire, ritirato all’interno della gallina, per costituirne l’anima: la scintilla, agli occhi dell’uomo onomaturgo, è un’entità che si muove, si agita, vive, allo stesso modo in cui l’anima  degli esseri viventi è un soffio che ne attesta la vitalità e l’esistenza. In altri termini il concetto di “anima” e quello di “scintilla, luce” sono due facce della stessa medaglia[3]. Si ricordi che anche in sardo la voce fiadu (dal lat. flat-um ‘fiato, soffio, vento’) significa ‘animale, bestia’ e che il lat. aura significa ‘aria, soffio’ ma anche, in Virgilio, ‘luce, scintillìo’. L’ingl. gale ’vento forte’ ma arcaicamente ‘leggera corrente d’aria, brezza’ è molto probabile che si trovi, pertanto, dietro il gallo e la gall-ina. Tra le tante denominazioni sarde per ‘farfalla’ si incontra il bel nome di ispiritu, cioè spirito, soffio, spirito vitale. Ma c’è anche il gr. psykh che significa ‘anima, soffio, vita’ nonché ‘farfalla’.

   Nel corso della formazione di una Lingua, poi, il significato generico di fondo solitamente scompare a tutto vantaggio di quello specializzato, come è successo a ‘gallina’. Anzi, senza questa trasformazione dei significati sarebbe impossibile il costituirsi di una lingua, la quale deve essere composta, appunto, di una varietà di significati specializzati, per risultare agevole e chiara. In conseguenza di ciò a noi ora sembra impossibile, o quasi, supporre che ogni nome di animale, o d’altro, poteva, all’origine, essere riferito non solo a quell’animale ma anche, preferibilmente, ad altri animali. Ve lo immaginate il povero uomo che ha cominciato a parlare e che deve spremersi le meningi per trovare, per ogni referente, il concetto giusto, come quello, ad esempio, della cavallinità per il cavallo, della asininità per l’asino, della caninità per il cane, della gallinità per la gallina e il gallo, ecc. ecc. ecc.?  A me sembra tutto più semplice e realistico supporre all’origine un concetto generico unico alla base di tutti i referenti, i quali cominciavano ad avere comunque una solida distinzione tra loro che contribuiva a far dimenticare il significato generico di fondo , per via dei significanti diversi con cui venivano espressi: il lat. equ-u(m)’cavallo’, ad esempio, era ben diverso dal lat. asin-u(m) ‘asino’ e dal lat. can-e(m) ‘cane’, ed era questo alla fin fine che contava nell’uso della lingua la quale via via trascurava il significato originario comune dei termini che indicavano però animali ben diversi, a tutto vantaggio della nascita di presunti concetti diversi sottostanti ai vari significanti.  Ma questi concetti , diversamente da quello che ne pensavano Socrate, Platone e diversi altri nella storia della filosofia, a me sembrano come l’araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. In effetti, quale concetto preciso avrà avuto in mente l’uomo onomaturgo quando affibbiava il significante asino all’animale che conosciamo? La sua lentezza? La sua goffaggine rispetto al cavallo? O le altre caratteristiche fisiche e comportamentali dell’animale?   L’operazione sarebbe stata veramente imbarazzante e straziante. Se vogliamo dare uno sguardo, poi,  a  quello che dicono i vocabolari sul concetto, i quali  mettono in rilievo la sua astrattezza che designerebbe le caratteristiche essenziali di un ente, dobbiamo pur accorgerci che le cose essenziali di un "cavallo", ad esempio, sono le stesse non solo di quelle dell' "asino", suo parente stretto, ma anche di quelle del "cane", del “gatto” e di una quantità di altri animali: tutti hanno un corpo sorretto da quattro zampe, un collo, una testa, una bocca, una coda, ecc.  Semmai dovrebbero essere proprio le particolarità  inessenziali (come la forma, la grandezza, il colore, ecc.) di queste parti dell'animale, particolarità che però non sarebbero contemplate dal concetto, a distinguere un animale non solo da un altro  dello stesso  genere , ma anche da animali di altro genere. La particolarità infatti dello zoccolo del cavallo, a mio avviso inessenziale perché parte terminale della zampa,  serve invece a distinguerlo dal “cane” che ha la parte finale della zampa con dita distinte l’una dall’altraCome pure la particolarità del suo verso, il nitrito, serve a distinguerlo dal raglio dell’”asino” e dal latrato del “cane”.  Allora la definizione tradizionale del concetto, che mirerebbe all'essenzialecomincia, secondo me, ad essere contraddittoria e traballante come strumento linguistico certo di distinzione tra un ente ed un altro. In realtà come dietro la parola "gallina" c'è il concetto di "anima, spirito" (v. sopra), così dietro ogni altro nome di animale, come “cavallo”, “cane”, “gatto”, ecc. c'è sempre lo stesso concetto generico di anima o spirito, e non un presunto concetto specifico per ogni animale che lo distingua da tutti gli altri animali. I concetti così sono vuoti, a mio parere, nel senso che non contengono né indicano caratteristiche essenziali dei referenti, tranne quella originaria ed essenzialissima di ‘anima, essere vivente’ presente in tutti i concetti. La quale, però, nella dinamica della comunicazione, è destinata a scomparire dalla coscienza del parlante perchè sopraffatta dalla somma di supposte e posticce caratteristiche essenziali che, benchè abbiano la consistenza di fantasmi, sembrano  legare strettamente il concetto, e la parola che lo esprime, a quel solo referente e non ad altri.  Il concetto di “cavallo”, insomma, sembra così essere completamente distinto da altri concetti relativi ad animali, non solo perché esso ha un significante diverso, ma anche perché ha un significato diverso, apparentemente giustificato, del resto, dalla reale diversità tra un animale e l’altro, cosa che fa credere che il nome del concetto sia stato creato apposta per quell’animale: somma e pia illusione, chiaramente illogica, dato che le caratteristiche essenziali che dovrebbero essere espresse da quel nome, sono, come abbiamo visto sopra, simili o uguali  a quelle di altri animali. Così il concetto, contrariamente a quello che l’etimo del termine vorrebbe farci credere, cioè prendere, afferrare in noi stessi, nella nostra mente, un ente, si limita solo ad indicarlo (come fosse un dito teso), quell’ente, fatto salvo l’unico significato originario di ogni concetto.  In altri termini l’operazione mentale di concepire qualcosa non è diversa da quella dell’afferrare, non so, una mela, non per conoscerla nelle sue caratteristiche essenziali ma solo per mangiarsela o darla a qualcuno. 

     Si può anche immaginare che il concetto di cavallo possa essere una sorta di stilizzazione dell’animale, la quale faccia piazza pulita delle varie caratteristiche particolari di ogni cavallo, ma saremmo sempre dinanzi ad una figura articolata di cavallo, con i rapporti tra le sue parti ben conservati: la testa di una certa grandezza o forma, il collo di un’altra grandezza, il corpo di un’altra grandezza ancora e le gambe di un’altra grandezza ancora, ma anche così non si potrebbe ancora affermare che il concetto di cavallo ripete le caratteristiche essenziali dell’animale bensì piuttosto, paradossalmente, quelle particolari perché la testa, il collo, il corpo, le gambe dell’animale, sebbene stilizzate, risulterebbero comunque diverse da quelle possedute da altri animali: esso sarebbe sempre, pertanto, una bella foto, sebbene sbiadita quanto si vuole, del cavallo nella sua  particolare  struttura. E comunque resta sempre il fatto, per me incontestabile, che il concetto non fa riferimento nemmeno a queste caratteristiche stilizzate, ma, come ho detto, si limita solo ad indicare l’animale, fatto salvo il significato originario e generale di “animale, essere animato”, appunto.

      Ora, tornando alla gallina ciega ‘succiacapre’, mi pare importante notare che in molte storie tradizionali sul succiacapre si afferma che il suo succhiare il latte provocherebbe anche la cecità degli animali.  Come mai? È coincidenza casuale o se ne può dare una spiegazione valida.  Io non penso assolutamente che questa cecità  sia dovuta alla libera inventiva di chi ne ha parlato, o al fatto che l’uccello fosse realmente cieco, benché di giorno se ne stesse fermo per terra o su qualche ramo d’albero ben mimetizzato e come addormentato.  In genere quello che le leggende raccontano ha una motivazione ben più concreta causata in questo caso dal fatto che quello che a noi appare come un aggettivo, cioè cieco,  in realtà era uno dei sostantivi o verbi (si pensi ad un probabile *ceca-capre) usati, in epoche magari precedenti, per indicare l’uccello, finito con l’essere riferito, come aggettivo o come verbo, alle presunte e malefiche conseguenze, sulle capre, del suo succhiare.   Elenco alcune voci regionali assonanti con it. cieco  e sp. ciego  ‘cieco’: la cecca o checca è un nome regionale per gazza fatto derivare dai linguisti dal nome personale Checca; ma a me pare che esso sia apparentato con, ad esempio, l’ingl. chick, chicken ‘uccellino, pulcino, pollo, ragazza’; aggett. sp. chico ‘piccolo’, sost. sp.  ‘ragazzo’, gr.kikk-όs ‘gallo’, gr. kíkk-a ‘gallina’, ingl cock ‘gallo’, gr. kokko-bόas. Quest’ultimo composto non ha, secondo me, il valore di  ‘che grida (da boá-ein ’gridare’) cucù’, come sostengono i linguisti (se così fosse dovrebbe indicare piuttosto il cuculo), ma deve essere la solita formazione tautologica per ‘gallo’. Il gr. boû-s, bo-όs vale comunque ‘bue’: un animale, dunque, e i nominativi  lat. bo-a, bov-a, boba, bo-as  indicano il ‘serpente boa’ e la ‘roseola’, eruzione cutanea.  

     Nel dialetto del mio paese di Aielli la gazza è chiamata cicia-ccòva, nome formato da due componenti  tautologiche, La prima è cicia-, simile ai suddetti  cecca ‘gazza’ e ingl.chick ‘uccellino, ecc.’;La seconda –ccòva corrisponde alla seconda dell’abr. ciaccia-cόlë, all’abr. cόlë[4]  che i linguisti fanno presto a derivare dal personale (Ni)cola, e alla seconda  dell’avezzanese ciccia-còlla ‘gazza’[5] dal gr. kol-oi-όs ‘gazza’.  La componente –oi- credo corrisponda a quella del gr. oi-ōn-όs ‘uccello, uccello di rapina’, forse apparentata col lat. av-e(m) ‘uccello’ e lat. ov-e(m) ‘pecora’. Esiste anche l’abr. ceca-cech-éttë ‘pipistrello’[6] con la radice raddoppiata e ceca-matté ‘pipistrello’ del dialetto di Collelongo nella Marsica.  La componente –matté è forse da avvicinare al ted. Matz, nome di vari uccelli. 

   La falsa credenza, soprattutto in passato, che i pipistrelli sono ciechi avrà senz’altro favorito la persistenza dei nomi  che li indicavano mediante la componente cieco, ma non bisogna affatto pensare che tali nomi siano nati direttamente da essa. Oggi si sa che i pipistrelli non sono ciechi, hanno degli occhi piccoli ma abbastanza efficienti da vicino, anche se si servono di una sorta di sonar per meglio orientarsi nella notte.  Naturalmente la radice ceca- che inizialmente indicava direttamente l’uccello, contribuì al nascere, svilupparsi e consolidarsi della falsa credenza della sua cecità.



[3] Cfr. per caglinella ‘lucciola’ l’articolo “Le sviste di personalità eminenti” presente nel mio blog pietromaccallini.blogspot .com (sett.2018)

[4] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla edit., Cerchio-Aq. 2004.

 

[5]  Cfr. Buzzelli-Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese, 2002, (senza casa editrice).

 

[6] Cfr. D. Bielli, cit.                          

 

 

    



venerdì 27 novembre 2020

Il succiacapre.

 

                                     

    Il succiacapre è un uccello notturno più o meno della grandezza di un merlo il quale, secondo un’antichissima tradizione, succhierebbe il latte dalle mammelle delle capre o pecore, come sembra attestare il nome stesso.  In realtà l’uccello frequenta le greggi e gli ovili in cerca degli insetti che si annidano nel vello di questi animali e negli ovili.  La tradizione è riferita, con qualche variante, dagli scrittori latini Plinio (I sec. d.C.) e Eliano (II-III sec. d. C.),  Quest’ultimo scrive in lingua greca e usa per “succiacapre” il termine aigi-thl-as che letteralmente significa proprio ‘succia-capre’, da gr. aiks ‘capra’ e radice del verbo gr. thēl-áz-ein ‘allattare, poppare, succhiare’.  Il caso vuole che in greco esista anche il composto aigí-thāl-os o aigí-thāll-os ‘cinciallegra’, parola che sembra fatta apposta per innescare una evidente etimologia popolare del suddetto aigi-thl-as ‘succiacapre’. 

     In latino il termine per questo uccello era capri-mulg-u(m) ‘caprimulgo, succiacapre, capraio’, dal lat. capr-a(m) ‘capra’ più la radice del verbo mulg-ēre ‘mungere’.  Allora l’it. succiacapre potrebbe considerarsi una traduzione diretta del termine latino? Io propendo a credere che anch’esso sia il prodotto di incroci, ma lascio ad altri la possibilità di provarlo in qualche modo. Intanto faccio notare che esistono altri nomi greci preceduti dalla radice indicante la capra come 1) aigo-thl-as ‘succiacapre’, variante usata da Aristotele del suddetto  aigi-thl-as ‘succiacapre’; 2) aigí-oth-os ‘fanello’, variante di aigi-th-os ‘fanello’; 3) aig-ōli-όs ‘strige (uccello notturno)’.  Ora è legittimo chiedersi cosa c’entri questa capra in questi vocaboli: a mio avviso nulla.  Oppure c’entra, ma col suo probabilissimo significato preistorico di ‘animale’ o anche ‘uccello’ presente tautologicamente anche nelle altre componenti. A toglierci dalla mente l’immagine ossessiva della capra (gr. aík-s) ci può aiutare l’altro suo significato di ‘onda tempestosa’ che ci riporta, secondo me, all’idea originaria di fondo “spinta, forza, ecc.”. Anche la componente -thāl(l)-os, ad esempio, rimanda ad una radice col significato di ‘germogliare, fiorire’ o di ‘ramoscello, germoglio’.  Si tratta, nel fondo, di un significato generico di ‘forza, crescita, spinta, anima, animale’ che, nel corso della lunga vita della parola, si può specializzare in vario modo.  Lo stesso gioco di significati si ritrova, ampliato, nel gr. mόskh-os ‘ramoscello, pollone, vitello, giovenca, fanciullo, fanciulla, rondinino’ ma anche ‘muschio’, parola che ritorna all’idea di “vegetazione, erba” e simili. Secondo me anche l’it. mosca fa parte del gruppo  insieme ad it. mosc-ardo ‘sparviere’ ma anche ‘falco cuculo’ e ‘pigliamosche’.  La componente –ardo richiama il lat. arde-a(m) ‘airone’.

    La seconda componente del suddetto  gr. aig-ōli-όs ‘strige’ riappare in altri vocaboli indoeuropei come gr. ele-όs ‘sorta di uccello notturno’, nel lat. ul-ul-a(m) ‘civetta’ (così chiamata, a mio avviso, non a causa del suo verso), ingl. owl ‘gufo,civetta’, ted. Eule ‘civetta, gufo, barbagianni’.  Il barba-gianni è noto, non ricordo in quale dialetto, come Ian (Gianni) loli, il cui secondo appellativo –oli fa parte di questa serie che sto elencando, a cui appartiene anche l’it. all-occo, dal tardo lat. al-uc-u(m), ul-uc-u(m), ul-ucc-u(m). Serie considerata dai linguisti, a mio avviso erroneamente, composta da parole onomatopeiche con la radice ul di lat. ul-ul-are ‘urlare’, ad esempio.  Ma basta gettare uno sguardo al sopra citato gr. aig-ōli-όs ‘strige’ per dissuadersene.  Oltre al fatto che io non credo nelle onomatopee, come ho dimostrato (penso) in un articolo presente nel mio blog.

    Non ho qui intenzione di inseguire i vari nomi dialettali del caprimulgo (nottola, nottolone, calca-botto, boccalone, ecc.) che certamente richiederebbero uno studio  dettagliato dei tanti ornitonimi tedeschi, inglesi, francesi, compresi quelli dialettali, ecc.  Mi accontento di aver individuato (senza presunzione) l’etimo del gr. aigi-thl-as ‘succiacapre’, termine che ci invita a cercare l’origine di questi nomi al di là dei loro significati superficiali che spesso sembrano fatti apposta per il loro referente, ma, caso strano, non lo nominano mai direttamente, cioè  indicando la sua natura di uccello o di animale.

    Per il lat. capri-mulg-u(m) ‘succiacapre, mungitore di capre’ mi limito a dire che dovrebbe  essere di qualche importanza la circostanza che in latino non esiste un sostantivo mulg-u(m) ‘mungitore’ indipendente dal precedente composto, la cui componente –mulg-u(m) si fa derivare dal verbo lat. mulg-ēre ‘mungere’: può quindi benissimo accadere che il significato superficiale di questa componente, cioè ‘mungitore’,  sia stato causato solo dall’ incrocio con la radice di lat. mulg-ēre ‘mungere’ di un precedente termine di altro significato, reinterpretato come ‘mungitore’ per etimologia popolare.  Faccio notare, inoltre, che la prima componente capri- potrebbe condividere il suo significato originario con il gr. kápr-os ’cinghiale’ ma anche ‘tipo di pesce’ detto anche, in forma diminutiva, kapr-ísk-os ‘caprisco’.  La seconda componente allora poteva contenere inizialmente  la parola lat. -mugil-e(m) ’muggine’, diventata *-mugl-e(m) attraverso la facile caduta della -i- postonica, e successivamente reinterpretata, per etimologia popolare, come *-mulg-u(m) ‘mungitore’ (ma, ribadisco, solo in questo contesto!) con la metatesi g/l.    Così il composto che forse indicava originariamente un tipo di pesce finì con l’assumere un significato del tutto diverso, fatto apposta, però, per designare l’uccello notturno del succia-capre, per il quale si tramandava, da lunga pezza (almeno dal tempo dei Greci), il singolare (ma falso) comportamento che ne faceva un vero e proprio succhiatore del latte di capre e pecore.

    La radice di lat. mugil-e(m) è messa in relazione da diversi linguisti col verbo latino e-mung-ĕre ‘soffiare il naso, spremere’, per via della viscosità di questo pesce.  Anche il verbo it. mung-ere sembra aver abbandonato la radice del lat. mulg-ēre ‘mungere’ a tutto vantaggio di quella del lat. e-mung-ĕre ‘soffiare il naso, spremere’. Così vanno le cose normalmente nella storia delle lingue: c’è sempre la possibilità che dietro l’angolo la fisionomia di una parola possa imprevedibilmente  mutare per l’influsso esercitato su di essa da altra parola omofona ma non omosemantica, influsso magari agevolato da circostanze che fanno sembrare accettabile e naturale il nuovo significato.

    

 

lunedì 19 ottobre 2020

Altra parola/espressione strana: tavόtë ‘Dio voglia!’.

 



 

   Si tratta di espressione registrata sempre dal Bielli nel Vocabolario abruzzese. Ma dove è la radice che indica Dio, visto che in questi casi il suo nome deve necessariamente comparire, come nelle diverse espressioni simili delle lingue indoeuropee? Non si può pensare ad altro, secondo me, che a una radice Ta, Da col valore etimologico di ‘luce diurna’, come sarebbe confermato dal ted. Tag ‘giorno’, suo ampliamento, e da ingl. day <*dag  ‘giorno’, in fondo varianti di lat. di-e(m) ‘giorno, dì’, gr. Zé-us< *Di-éus ‘Zeus, Giove’, nome del supremo dio indoeuropeo.  Nei dialetti greci esistevano molte varianti del nome del teonimo, tra cui l’accus.  Tán, Dán con un vocat. Da da taluni riferito,però, alla ‘terra’.  

    Dalle nostre parti, nella Marsica, ricorrono varie espressioni riferite al Giove tonante e folgorante come tat-onë-vecchjë  ad Avezzano-Aq e Tat-onë cuscënarë ad Aielli-Aq di cui ho parlato in altro post del mio blog (16 febbraio 2020).  Tàta e tat-όnë indicano rispettivamente il ‘padre e il ‘nonno’, da una  ben nota radice indoeuropea: ma bisogna assolutamente tener conto del fatto che questa radice raddoppiata poteva riferirsi anche alla luce, come abbiamo visto, sicchè i due concetti di “luce” e “padre” generarono, a mio avviso, il mito indoeuropeo di Giove-padre celeste

   Allora l’espressione italica in questione, cioè ta-vόtë, deve essere sciolta in Ta vόtë, appunto, ed intesa come ‘Zeus voglia’ diventato nel cristianesimo ‘Dio voglia’. Del resto anche l’interiezione dialettale oddìa! 'oddio!' in uso ad Aielli-Aq, Trasacco-Aq. ecc. di cui ho parlato nel post Non abbiamo ancora abbandonato il paganesimo del mio blog (30 maggio 2020)  si riferiva all'accusativo greco di Zeus, che era appunto Dìa, non al Dio cristiano.  E quale potrebbe essere l’origine della voce –vόtë? Secondo me essa è la stessa di lat. vot-u(m) ‘voto, sacra e solenne promessa’ dal verbo vov-ēre ’dedicare, consacrare, fare solenne promessa’, termine d’ambito sacro che qui dovrebbe esprimere, sotto forma di verbo, la volontà di Zeus.  Ma forse si coglie nel segno se si suppone dietro -vόtë una forma rispondente al congiuntivo imperfetto tedesco wollte ‘volessi, volesse’, prima e terza persona singolare di ted. woll-en ‘volere’.  Nei nostri dialetti l’it. volta, ad esempio, diventa vòta, con la caduta della lettera –l-, come il participio passato colto del verbo it. cogliere diventa cόtë, e così via. Quindi un eventuale originario *Ta wollte (richiamante ted. Tag ‘giorno’) avrebbe significato ‘che Giove voglia!, volesse Giove!’. 

     Queste formule, attraversano intatte, o quasi, millenni e civiltà diverse.