giovedì 11 novembre 2021

Ammizzë.

 

 

 

      Che peccato che una parola come l’aiellese ammízzë ’agnello’ debba essere condannata sicuramente all’estinzione!  Infatti la conoscono solo le persone anziane e, dato che la pastorizia ha fatto la fine che sappiamo (ad Aielli c’è solo un semipastore  con una trentina di pecore e capre, dedito anche all’agricoltura) .  Una parola legata anima e corpo alla pastorizia, non potrà sopravvivere una volta mutate radicalmente le condizioni economico-sociali che la tenevano in vita.

       Io finora non ho avuto modo di incontrarla nei dialetti della Marsica e d’Abruzzo: si tratterà di un unicum? Forse sì e forse no, e mi piacerebbe pertanto sapere se qualcuno la conosce. 

      Si tratta del puro greco bucolico amn-ís, idos ‘agnella’ (che forse si usava anche per il maschile), ampliamento del gr. amn-όs ‘agnello’ la cui radice comunque è messa in relazione con quella dello stesso lat. agn-u(m) ‘agnello’.   L’aiellese ammízzë  sembra essere proprio il nominativo amn-ís incrociato col dialettale ammízzë ‘avvezzo, abituato’, partic. pass. del verbo  ammëzzà  ‘avvezzare, abituare’ derivato dalla prepos. lat. ad ‘a, presso’ più lat. viti-um ’vizio’ da cui it. vezzo’abitudine’. In dialetto ha dato la forma ammezzà sulla scia di termini come lat. invit-are diventato ‘mmëtà ’invitare’.  Ma non è escluso che la forma dialettale derivi direttamente dal tema dell’accusativo  amn-íd-a ’agnella’.  Le parole greche nel mio dialetto sono moltissime e non possono tutte risalire agli influssi del greco parlato in città della Magna Grecia trattandosi spesso di parole non commerciali, economiche, artistiche, ecc. come ho spiegato in altro articolo. Esse quindi dovevano esistere da noi già da molto tempo prima.  La forma amn-ís  o amn-íd-a ‘agnello’ dovette rimanere  intatta fino a quando non si incrociò nel basso latino o nell’alto Medioevo con l’ amm-ìzze   di cui sopra.  

       Lo svolgimento normale del termine amn-id-a avrebbe dovuto dare prima un *ann-id-a (con la normale assimilazione della /m/ alla /n/ successiva) e quindi un *ann- id-ja>*ann-izza>*ann-izzë per influsso del verbo del basso latino *ad-viti-are ’avvezzare’ di cui si è detto.

        Nel dialetto napoletano la carne annecchia   è la carne di vitello. Il termine è fatto derivare dall’aggett. lat. anni-cul-u(m) ‘di un anno’ riferito al sottinteso bov-e(m) ’bue’.  Io invece penso che anche qui si doveva avere un originario *amni-cul-u(m) ‘agnello’, femm. *amni-cul-a(m) ‘agnella’> annécchia. Ma poteva derivare anche dal lat. agni-cul-a(m) 'agnellina' Il cambio di significato da agnello a vitello si deve spiegare col fatto che spesso i nomi di cuccioli sono uguali per più animali, come lat. vit-ul-u(m) ’vitello’ che poteva indicare anche il ‘cucciolo’ di cavallo, di elefante, di balena, ecc.

 

Per quello che posso non permetterò che questa chicca di nome dialettale finisca per sempre nel dimenticatoio.  Pubblico pertanto questo articoletto sul mio blog (pietromaccallini.blogspot.com), anche se probabilmente ne ho già parlato in altro articolo.

     

     



Originalità dell’articolo maschile singolare nel dialetto di Aielli.

 


    Forse nemmeno gli aiellesi hanno mai notato il comportamento dell’articolo maschile sing. nel loro dialetto, giacchè una lingua materna la si parla  automaticamente, senza la necessità di starci a riflettere sopra.

    Ora, il detto articolo presenta da noi quattro forme, cioè /i/, /lë/, /u/, /ju/.  Le ultime due sono in realtà intercambiabili come in u cavàjjë e ju cavàjjë ‘il cavallo’ oppure u trènë e ju trènë ‘il treno’. Le due varianti presuppongono un precedente *lu (lat. (il)lum ’quello’) con la perdita o la palatalizzazione della liquida /l/ iniziale.

    La forma // (con la –e- cosiddetta muta) ricorre, pure in altri dialetti, dinanzi a nomi neutri latini o sentiti tali  come in panë ‘il pane’: in latino si aveva, oltre al maschile pan-e(m), anche il neutro pan-e.  La stessa cosa si verificava per il lat. neutro vin-u(m) da noi diventato vinë ‘il vino’, benché in latino si incontri anche una forma maschile, in Petronio. Idem per il dialettale salë che in latino era sia maschile che neutro.

    La forma /i/, che nel nostro vernacolo indica stabilmente anche il maschile plurale, quando viene impiegata per il singolare? Per quale motivo normalmente (a parte i casi di maschile singolare visti in precedenza) si usa /u/ oppure /ju/ e in diversi altri casi si usa invece questo /i/?  Il fenomeno si capisce bene tenendo presenti gli articoli di alcuni nomi usati sia a Cerchio che ad Aielli, due paesi vicinissimi.  A Cerchio si dice, ad esempio, u fumë ‘il fumo’, u lupë ‘il lupo’, u murë ‘il muro’ mentre noi tassativamente in questi casi mutiamo l’articolo /u/ (che come abbiamo visto possediamo anche noi) nell’articolo /i/, cioè i fumë, i lupë, i murë.  L’unica riflessione che a mio avviso si può fare è che in questi casi l’orecchio degli aiellesi, nel periodo di formazione dei dialetti, durante il Medioevo, ha avvertito come cacofonica la ripetizione, in due sillabe successive, dello stesso suono /u/  ed ha optato, per così dire, per la eufonica successione di /i/ e /u/, considerato, d’altronde, che l’articolo maschile singolare /i/ già circolava probabilmente nelle vicinanze, in altri dialetti come quello celanese.

    Il fenomeno si estese probabilmente anche all’articolo maschile /u/ seguito da nomi con la sillaba iniziale in /o/, giacchè noi ad Aielli diciamo i mondë ‘il monte’, i rospë ‘il rospo’, i pondë ‘il ponte’ mentre a Cerchio dicono imperterriti u mondë, u rospë, u pondë. Se la vocale della sillaba inziale della parola è diversa da /u/ ed /o/ l’articolo maschile singolare aiellese ridiventa normalmente /u/ o /ju/: u canë ‘il cane’, u ràspë ‘il graspo’, u mérlë ‘il merlo’, u cítërë (oppure cítëlë) ‘bambino in fasce’.

     Ci sarebbe da dire ancora qualche altra cosa, ma mi fermo qui sperando di soddisfare almeno la curiosità di qualcuno.

    



mercoledì 10 novembre 2021

Etimo di “embrice”.

 


    Il termine it. embrice indica un tipo di tegola piatta.  Tutti i linguisti (mi pare) ne danno il facile etimo risalente al lat. imbric-e(m) ’embrice’ a sua volta messo in collegamento, senza pensarci troppo, con il lat. imbr-e(m) ‘pioggia’, parola che ha l’etimo in comune col gr. όmbr-os ‘pioggia, fiume, ecc.’.  Ma, perdinci, le tegole ed i tetti hanno forse solo la funzione di riparare dalla pioggia e non anche dal vento o dai raggi eccessivi del sole durante l’estate?  In effetti il lat. teg-ul-a(m) ‘tegola’ e il lat. tect-u(m) ‘tetto’ sfruttano ambedue la radice indeuropea del lat. teg-ĕre ‘coprire’.

    Mi è difficile pensare, pertanto, che prima della costruzione delle case in muratura i Latini non avessero termini che indicassero ogni forma di copertura o riparo, termini che automaticamente sarebbero passati poi ad indicare tegole e tetti.  Di conseguenza a me pare molto probabile  che il lat. imbr-ic-e(m) ’embrice’ possa essere variante, ampliata in –ic-, di lat. umbr-am ‘ombra’, parola incrociatasi con lat. imbr-e(m) ’pioggia’. 

     Nel  suo Dizionario etimologico CDE G.Devoto afferma che “In regioni calde l’ombra si associa all’imagine di ‘riparo (dal sole)’ “.  E in effetti il significato d’origine della parola doveva essere proprio ‘difesa, protezione, rifugio’ e persino tetto , nel senso di ‘vano, stanza, casa’ se il lat. umbr-a-cul-u(m) significava anche ‘sala (di studio)’ oltre a ‘luogo ombroso, ombrello’.

      E già! anche gli it. ombrello, ombrella  sembrano essere nomi che indicano strettamente solo un ‘riparo dal sole’  data la presenza, nel lessico italiano, della parola ombra col significato generico che sappiamo di ‘diminuzione o assenza di luce’.  Ma questo è solo un significato specializzato del precedente generico ‘riparo’ come è specializzato anche il suo significato più usuale di ‘paracqua, parapioggia’, perché molto probabilmente esso si è incrociato in tempi lontani col gr. όmbr-os più sopra citato o con qualche parola simile ed omosemantica come sarebbe un eventuale *umber, variante di lat. imbr-e(m) ’pioggia’.  Anche i tedeschi usano normalmente il termine generico schirm ‘schermo, riparo’  indifferentemente per il ‘parapioggia’ o per il ‘parasole’ ma, quando vogliono essere più precisi, usano Regen-schirm, letteral. ‘riparo per la pioggia’ e Sonnen-schirm, letteral. ‘riparo per il sole’.

     Si può dire che sin dall’inizio della mia ricerca ho incontrato parole i cui significati specifici rimandavano a precedenti significati generici delle radici.

 

sabato 6 novembre 2021

Significati del sardo "conca" ed altro.

 Significati del sardo “conca” ed altro.

     In tutta la Sardegna, che io sappia, l’appellativo sa conca significa ‘la testa’. L’etimo è abbastanza chiaro, e rimanda al lat. conch-a(m) ‘conchiglia, vaso, vasetto, misura di capacità’ nonché al gr. cόnkhē ’conchiglia, scatola cranica’. Ma basta dare uno sguardo ad alcuni toponimi sardi come Conca de su cuaddu (a Samugheo-Or e anche ad Asuni-Or) per dedurre che in tempi preistorici conca doveva significare ‘cavità, grotta’, almeno in questi casi in cui si riferisce a tombe preistoriche scavate nella roccia. La specificazione de su cuaddu ’del cavallo’ in realtà era altro nome per ‘grotta’.  Altro toponimo famoso in Sardegna è Sas Concas di Oniferi-Nu, un ipogeo costituito da una serie di tombe.

     Ora, per rendersi conto della mutevolezza dei significati delle parole, anche sarde, consiglio vivamente di leggere l’articolo intitolato Campo Cavallo presente nel mio blog (pietro maccallini.blogspot.com) del 20 marzo 2019.

 

      L'it. conca fissa l'attenzione, per così dire, soprattutto sulla parte interna di un recipiente, mentre il sardo conca la fissa sulla parte esterna. Ma alle origini quale era il significato del termine? Per il significato sardo possiamo supporre un precedente 'protuberanza' e per il significato italiano quello di 'cavità'. Ma inizialmente, insomma, questi due significati potevano essere riuniti in quello di 'spinta verso l'esterno o l'interno di qualcosa' e precedentemente solo in quello unico di 'spinta'.

 

     Il significato di 'cavità' ne genera altri simili come nell'abruzz. cònch-ele 'mallo', abruzz. conc-ulla 'mallo della noce o mandorle', abruzz. conc-ùjje 'buccia dell'acino d'uva' ed anche ‘mallo delle mandorle’. Pertanto quando in toponomastica si incontra un Monte Conca, bisogna pensare al significato di sardo conca 'testa' e supporre che Conca significhi in quel caso 'monte, cima, e simili'; quando invece si incontra una Fossa della Conca, bisogna andare subito al significato italiano di conca, e supporre che in quel caso il suo significato fosse quello di 'cavità, fossa'.

 

     Interessanti sono i significati di alcuni termini gergali inglesi come conk che vale sia ‘testa’ che ‘naso’, in effetti due protuberanze, come ho avuto modo di spiegare altre volte in passato. Il verbo to conk significa ‘colpire, soprattutto alla testa’. In effetti se analizziamo l’azione del colpire ci accorgiamo che essa, sostanzialmente, consiste nello spingere con forza un corpo contro un altro.  Ora questo spingere è tutto presente nel concetto di pro-tuber-anza come ho cercato di spiegare più sopra , fermo restando il fatto che la spinta poteva essere rivolta anche verso l’interno di qualcosa e dare il significato di ‘cavità, affossamento’ e, in un eventuale verbo, quello di ‘cedere, mancare, venir meno, ritirarsi’ come nell’ingl.(non gergale) to conk’rompersi, crollare, venir meno, mancare, morire’.  Questi verbi ci danno una mano a farci capire che la suddetta spinta poteva configurarsi  come un semplice movimento ed indicare anche il ‘fluire’ delle acque, e cioè un flu-men che in latino vale ’corrente, corso d’acqua, fiume’.  E’ il significato originario, almeno a mio parere, di idronimi come il fiume Congo (Africa), il rio sa Conca (Sardegna), il torrente Conca in provincia di Rimini, nonché il rio Conca in provincia di Latina. E non poteva mancare una Fonte la Conca, un fontanile nel territorio del comune di Roma.  E chissà quante altre fonti presentano  lo stesso nome nelle campagne d’Italia!