Per poter trovare l’etimo giusto di un
termine spesso è indispensabile, se non si vuole andare fuori strada,
raccoglierne il maggior numero possibile di occorrenze nelle varie aree
linguistiche, cosa che ho fatto per rosmarino.
Il computer in questi casi si rivela una mano santa, anche se si può correre il
rischio di dover fare affidamento su una documentazione approssimativa e
tecnicamente poco sorvegliata. Tanto per
cominciare, allora, elenco le varie voci
raccolte:
ramerino, ramelino, trasmarino, tresmarino,
trosmarina, smarino (toscano); trisomarino (abruzzese); rosamaria (campano); rosemary (inglese); rosmarinu
(siciliano); osmarino, usmarino (veneto,
lombardo); gusmarino, sgulmarino (veneto);
stammerino (umbro). Si incontra anche l’abruzzese trosmarinë.[1]
Questi termini vengono sostanzialmente
confermati, con qualche variante in più, dal dizionario etimologico I dialetti italiani[2] sotto la voce osmarìn(o). Ne citerò qualcuno se sarà necessario. Intanto debbo dire, però, che ai linguisti è
sfuggito l’abruzzese truzzë-marìnë ‘ramerino, rosmarino’ il quale spiega molte cose oltre
a correggere un loro errore, denso di conseguenze. Il termine è stretto parente di abr. trus-marinë ‘rosmarino, ramerino’ e
del toscano tros-marina, tres-marino, tras-marino ‘rosmarino’. Ma come si è differenziato il primo
membro truzzë- dai
corrispettivi trus-, tros-? La cosa si
capisce bene dall’abr. truzzë
‘torsolo, tutolo (del granturco)’ che è variante metatetica del diffusissimo
abr. turzë ‘torsolo’[3]. Il quale corrisponde all’it. torso(lo) proveniente dal lat. tardo tursu(m), variante di lat. class. thyrsu(m) ‘gambo,stelo’. In greco la parola è thýrs-os ‘tirso’, bastone avvolto di edera e pampini portato dalle
baccanti (cfr. la variante metatetica abr.
triso-marino).
Bisogna allora prendere atto che le varianti
per rosmarino riconducibili a questo
termine tursu(m), che ne costituisce
il primo componente, nascondono il significato di ‘stelo, gambo, piantina,
arbusto marino’, più realistico e naturale rispetto a quello indicato dal lat. ros marinus o, univerbato, rosmarinus che è ‘rugiada marina’,
denominazione a mio parere ingannevole per questa piantina, anche perché nemmeno
la sbrigliata fantasia di un poeta simbolista del secondo Ottocento sarebbe riuscito
ad inventarla. Purtroppo i linguisti si
sono lasciati fuorviare dalla variante simile tras-marino, generatasi secondo loro da ros-marinus per influsso dell’aggettivo lat. trans-marinu(m) ‘trasmarino, d’oltremare’[4]: da questo tras- sarebbero derivate anche le altre forme simili tres-,
tros-. A mio avviso se tras-marino ‘rosmarino’ ha subito l’influsso di trans- (e non si tratta invece di variante, come propendo
a credere) è molto più sostenibile e naturale che ciò sia avvenuto supponendo
già esistenti le altre due forme tros-marina e tres-marino derivabili chiaramente
da lat. tursu(m), class. thyrsu(m). Inoltre c’è da notare che
in latino una forma ros, parallela a lat. rhus di origine greca, non
indicava la ‘rugiada’ bensi un arbusto, il ‘sommacco’. E allora non sarebbe così campato in aria
supporre che all’origine il ros-marinu(m) non significasse ‘rugiada marina’ ma indicasse la
piantina stessa del rosmarino. Si delineerebbe, insomma, una situazione
capovolta, e densa di conseguenze, rispetto a quella proposta dai linguisti. A
questo punto, poi, la cosa veramente interessante è costituita dal fatto che questa
impostazione e soluzione del problema può confermare la teoria elaborata dal
grande archeologo-linguista Mario Alinei, il quale sostiene che i dialetti non sarebbero
una derivazione diretta dal latino parlato nel tardo impero, come tutti
affermano, ma che essi sarebbero la continuazione di varianti geo- o
sociolinguistiche del latino classico e di quello parlato a Roma e altrove nel
Lazio, già presenti ab antiquo accanto ad esso.
In effetti il lat. ros marinus può benissimo essere il risultato di un precedente *(t)ros marinus diventato ros-marinus
per via dell’etimologia popolare, la quale, non appena le si offre l’occasione,
cerca di rendere vivo, attuale e chiaro, non importa se producendo significati
distanti da quello del referente, ciò che le appare strano e incomprensibile,
come sarebbe stato questo *tros-
nella lingua latina (continuato oggi in Toscana, e anche altrove, da tros-marino). Si direbbe che l’esigenza etimologica sia ben
radicata nello spirito umano. Questo *tros-
era, molto probabilmente, una geo- o sociovariante della forma tŭrsu(m)
(con la prima –u- breve)‘gambo,
stelo’ che appare nel latino tardo ma che in effetti è «identico - come dice il
Devoto- ad un adattamento arcaico del gr. thýrs-os
e opposto al class. thýrs-us»[5]. Si deve allora constatare che, indipendentemente dal class. thýrsu(m), circolavano diverse varianti del termine in questione mutuato dal greco già da
epoca arcaica, se non presente in area italica da moltissimo tempo prima,
addirittura a partire dalla preistoria.
Secondo Alinei, in effetti, dire che dal lat. bucca(m) si è sviluppato l’it. bocca
non è esatto in quanto l’it. bocca
sarebbe una variante esistente già prima dell’altra, e perciò si dovrebbe
parlare più propriamente di prevalenza di una forma sull’altra per motivi di
prestigio e peso sociale. Egli sostiene
ad esempio che, data per buona l’etimologia di Bruno Migliorini per il nome di Roma = ruma ‘mammella’ (cosa che sostanzialmente condivido[6]), esso
risulterebbe quindi una variante preesistente o almeno coesistente con lat. ruma o rumis ‘mammella’, significato che sottolineerebbe la caratteristica
più peculiare del paesaggio della città, i suoi colli. In molti dialetti, infatti, col termine mammella si designa tuttora il
colle. In altre parole la -ŭ- tonica latina non si trasforma, come
per magia, in –o- chiusa nei dialetti
romanzi ma è quest’ultima che semplicemente sostituisce
la prima perché esisteva già dalla preistoria[7].
Abbiamo accennato all’etimologia popolare: vediamola
ora in azione nei nomi sopra riportati per rosmarino.
E’ facilissimo capire ramerino, data
la somiglianza delle due parole e l’apparenza di rametto del rosmarino approdato in cucina. Di trasmarino
abbiamo già detto: la parola ha assunto perlomeno un significato chiaro,
anche se lontano dal referente: esso potrebbe alludere ai fiori azzurri della
pianta o ad una sua ipoteticissima esoticità, come se si trattasse di pianta
importata da terre lontane. Il campano rosamaria e l’ingl. rosemary trasformano il nome
in quello di una donna, senza starci a pensare su. Molto curiosa è secondo me la forma os-marino, us-marino che credo derivi dall’incrocio col verbo dialett. ose-mà, use-mà,
us-mà ‘fiutare, odorare’ e
varianti, diffuso in molte regioni[8]. L’osmarino
sarebbe così ‘quello che odora’ a causa del suo aroma. Questo termine, poi, una volta diffusosi
anche lì dove il suo significato non era noto, ha dato origine a mio parere a smarino, in quanto la vocale iniziale è
stata assorbita dall’articolo determinativo
lo. Al posto del normale l’osmarino si cominciò ad intendere e
scrivere, insomma, lo smarino. Tanto, l’un termine valeva l’altro per il
parlante, circa il tasso di oscurità etimologica. I tipi veneti gus-marino e sgul-marino derivano presumibilmente da un precedente *gul-smarino il quale perde la liquida –l- nel primo caso, come avviene fin nel
mio dialetto aiellese nel gruppo –ls-
(cfr. puzë ‘polso’, atrë ‘altro’, ecc.), nel secondo la –s- passa all’inizio di parola, rendendo
in questo modo più stabile la liquida –l-
, che infatti resiste. Il primo membro gul-
va confrontato con la voce veneta (veronese) góli ‘stalattiti e stalagmiti’ fatta derivare da lat. aculeu(m) ‘aculeo’[9]. L’umbro stammerino mi pare mostri nel primo elemento una forma stav- o stab-, stam- corrispondente ai tipi dell’area germanica stab, staff, stave, stamm col valore
fondamentale di ‘bastone, gambo,fusto, ecc.’.
Nella zona dei monti Lepini nel Lazio, infatti, i fusti del granturco
vengono chiamati stavi come ho già
scritto nell’articolo I termini
dialettali “spesa e mmutina” del mio blog (giugno 2013).
Avreste mai creduto che il rosmarino potesse diventare un gesu-mmarìa
come la relativa popolare interiezione? Tale è il suo nome a Luco dei Marsi-Aq
accanto a trësë-mmarìna[10]. A
Castellafiume-Aq l’etimologia popolare investe la prima parte lasciando intatta
la seconda, come se si fosse resa conto dell’enormità del mutamento che stava
attuando e avesse avuto, a metà strada, un ripensamento: gésu-mmarino[11]. Anche l’avezzanese tresu-mmarìa[12]
non ha portato a termine la trasformazione lasciandola in stato di abbozzo nel
primo componente per quanto riguarda Gesù
perché, nonostante la volontà di farlo per influsso, forse, della forma già
risolta in gésu-mmarìa nel paese
vicino di Luco (ma avrebbe potuto coesistere con l’altra per lungo tratto di
tempo anche nella stessa Avezzano, per poi cadere in disuso), trovava un forte intralcio
nella sillaba tre-, non trasformabile in gé-, della prima componente tresu-. Infatti la mutazione in gésummarìa è dovuta, credo, alla saldatura (concrezione, agglutinazione) dell’articolo determ. je oppure jo, ju con la voce sëmmarìno ‘rosmarino’, variante, con -ë- anaptittico, del tipo smarino sopra descritto. Così le prime
due sillabe del termine agglutinato avrebbero dato jesë- simile al lat. Jesu(m)
‘Gesù’. Anche ad Aielli ricorre per la piantina l’unica voce sëmmarìna, diventata femminile e simile a quella di Cerchio-Aq summarìna. A Trasacco-Aq
si hanno tre nomi: 1- rës-marinë, con la riduzione a vocale
evanescente –ë- delle due –o- atone di it. rosmarino; 2- trësë-smarinë, con la seconda componente del
tipo smarino; 3- rësë-smarinë[13] con la caduta della dentale –t-
iniziale (favorita forse dall’influsso di rës-marinë), come abbiamo supposto che sia avvenuto per il lat. ros-marinus da un precedente *tros-marinus, per influsso di lat. ros, roris ‘rugiada’!!! Ad ulteriore conferma di ciò, c’è l’indizio
non indifferente che il dizionario I
dialetti italiani sopra indicato cita solo le due forme trase-marino e traso-marina per il Lazio, non
tros-marino, perché questo era evidentemente
divenuto ros-marino. Sarebbe pertanto molto interessante
verificare la cosa con dati più numerosi sul rosmarino relativi alle varie parlate laziali e osservarne il
comportamento a mano a mano che ci si allontana da Roma.
Da
questa abbastanza variegata esemplificazione delle trasformazioni capitate ad
una singola parola, nel corso di molti millenni a partire dalla preistoria, si
può dedurre la regola che non esistono nella lingua mutazioni cervellotiche
dovute a qualche misterioso e irrefrenabile impulso interno alle parole, come
si credeva un tempo, e a volte si crede tuttora, o all’estro incontrollabile dei
parlanti (tutto in essa resterebbe invece immutato se non intervenisse questa
forza esterna della etimologia popolare a costringerla a cambiare, ma secondo
precise e razionali norme, ben individuabili se ci sono sufficienti dati a
disposizione), e che non bisogna mai fidarsi, nella ricerca di un etimo, di
quelle proposte che si allontanano metaforicamente, di poco o di molto, dal
concetto espresso dal referente: scavando scavando si deve arrivare ad esso ad
ogni costo. Stando così le cose, forti e
legittimi dubbi mi sono sorti sul significato della seconda componente di ros-marino. Il rosmarino è una pianta
che cresce spontaneamente nelle zone temperato-calde del Mediterraneo, in luoghi
aridi e sassosi, a cominciare dalle aree vicino al mare fino alle alture di 800-1000
m. che ne possono essere molto lontane. La pianta, comunque, si acclima facilmente. Quindi potrebbe non essere vero l’etimo
comunemente accettato della componente –marino che fa riferimento al mare:
esso potrebbe benissimo derivare dal
termine cosiddetto mediterraneo mar(r)a ‘mucchio di sassi’, vista la
predilezione della pianta per le zone aride e rocciose. Il termine marino[14] significa anche
‘materiale roccioso risultante dalla perforazione di gallerie’. Ma anche questa
soluzione non mi soddisfa per i motivi che dicevo prima, e preferisco accostare
la parola in questione alla radice delle piante del tipo marr-uca e marr-obbio e dar vita
così ad un comune composto tautologico. In
greco moderno il termine dendro-líbano
significa ‘rosmarino’. Letteralmente
esso vale ‘albero libano’. In greco antico líbanos
valeva ‘incenso, albero dell’incenso’ mentre libanotís, ídos indicava il ‘rosmarino’. Sempre in greco antico il
neutro déndr-on, che a mio
avviso va scomposto in dén-dr-on, della II decl. significava ‘albero, tronco, legno, verga’’.
Esisteva, però, anche una variante neutra della III decl. dén-dros il cui sec. membro –dros (la finale –os
non è desinenza ma parte della radice) può corrispondere al primo membro del dialettale tros-marino ‘rosmarino’ (cfr. la variante
umbra dres-marino[15] con la sonora iniziale) e al gr. a. drũ-s ‘quercia, pino, olivo, albero in
genere’ con cui si rapporta anche l’ingl. tree ‘albero’. Le cose comunque non cambierebbero rispetto
al quadro delineato più sopra in cui si introduce il lat. tardo tursu(m) per spiegare l’elemento tros-. Inoltre si può senz’altro affermare, anche in
base alla mia pur modesta esperienza, che nelle parlate preistoriche moltissime
dovevano essere le varianti di un termine (anche perché i significati d’origine
delle radici erano molto generici, come in parte si nota dalle parole greche or
ora citate), gran parte delle quali erano destinate a finire ai margini della
lingua e, spesso, a scomparire. Intanto,
a sostegno di questo, si possono citare tre termini interdipendenti che a mio
avviso chiariscono la cosa: 1- abr. turz-ë[16] o
truzz-ë ‘torsolo’ < lat. tardo? tursu(m); 2- abr. tórz-a[17] ‘fascio
di frasche (in genere senza foglie), fascio d’erba’, variante femminile del
precedente; 3- gr. tars-ós ‘canniccio,
graticcio, canna, remeggio, remi[18],
flauto di Pan, ecc.’, il quale mi sembra di questa famiglia e non legato al gr.
térs-aín-ein
‘asciugare, far seccare’ in riferimento al formaggio (sappiamo che questi tipi
di etimi non sono attendibili). Il significato
di fondo di queste radici è infatti quello di ‘fusto, ramo, frasca, pianta,
canna, ecc.’. Esse formano, dunque, una serie di tre varianti molto
probabilmente già preistoriche, che di conseguenza tolgono inesorabilmente ogni possibilità di intendere il dialettale
laziale tras-marino
‘rosmarino’ come effetto dell’incrocio di rosmarino
con lat. trans ‘oltre, attraverso,’ come sostengono, senza tentennamento
alcuno, i linguisti. Normalmente in ogni lingua circolano sempre varianti di
voci più o meno dialettali, a meno che non abbia agito su di esse, riducendone
il numero ma senza poterle eliminare del tutto, una forte azione selettiva e
uniformatrice del modello dominante. I possibili incroci tra i termini simili
formalmente ma di significato e origine diversi, contribuiscono poi ad
intorbidare ancor più le acque, tutto a favore del codice linguistico di
superficie.
Ricordiamo
ancora il lombardo torza, -sa
‘fascio’, fr. trousse ’fascio’, sp. troxa ‘fascio’, ted. Tross ‘folla, moltitudine, seguito’,
ecc. Questi termini non derivano dal
lat. tortu(m) p. pass. di torqu-ere ‘torcere’ come pensano i più (cfr. il Pianigiani in rete,
s. v. trozzo, anche per i termini
precedenti) ma partono dalla radice *tros di cui si parla, anche se si saranno
incrociati con altre radici compresa quella di lat. trusu(m) p. pass. di trud-ere
‘spingere con forza’(cfr.ingl. arc. threat
‘esercitare pressione su, premere’, ingl. tread
‘calpestare, pigiare, andare’, a. norreno throti
‘rigonfiamento’), in riferimento anche al serrare tra loro i vari elementi della torza, in modo da formarne un ammasso
ben compatto: cfr. dialetto di Trasacco-Aq ‘ntërzà ‘pressare,
rendere zeppo un recipiente, costipare, stringere, fare fascine, far impregnare
d’acqua per rinsaldarne le commessure botti, bigonci rinsecchiti e quindi gonfiarli), penetrare con forza il sesso
femminile in modo da rendere incinta la
donna (ingl. tread sopra citato vale
anche ‘copulare’ detto del gallo), picchiare, percuotere’. Nello stesso dialetto si ha l’agg. ‘nturzë, anche turzë, col valore di ‘pieno zeppo’[19](Cfr.
Q. Lucarelli, cit.). L’aiellese rën-durtà che significa
solo ‘gonfiare con l’acqua i recipienti di legno’ e ‘ricoprire di botte
qualcuno’ insieme al luchese rentortà
con i medesimi significati, sono varianti che si confrontano non con lat. tortum ‘torto’, ma sempre con la radice trud- di lat. trud-ere ‘spingere con forza’ e all’a. norreno throti ‘rigonfiamento’ già incontrati. Meraviglioso mi pare l’abr. ‘nturtàrsë ‘ubriacarsi’ (cfr. il Bielli
già citato), significato insito in questa radice esprimente sotanzialmente una
forza che gonfia o penetra o anche eccita e inebria chi ha ingerito del vino,
come viene confermato anche dall’espressione abr. S’à pijatë nu tórdë ‘si
è ubriacato’ (letter. ‘si è preso un tordo’) la quale, inoltre, tarpa le ali ai
linguisti che certamente considereranno nturtarsë
‘ubriacarsi’ una metafora tratta dall’altro signif. di ‘gonfiarsi
d’acqua’. Ad Aielli un tempo si diceva ‘n-turd-ac-àssë
‘ubriacarsi’ dove la radice mostra un ampliamento in –ac-. Ecco spiegato
perché i seguaci di Dioniso in Grecia si munivano di thýrs-os ‘tirso’ nelle manifestazioni orgiastiche in onore del dio
inventore della vite: la radice del termine, nella più remota antichità, si era
evidentemente incontrata con la stessa radice delle precedenti espressioni
abruzzesi legate all’idea di “ebbrezza”, oltre che a quella di “vite” e di
“fallo”, simbolo di forza e fecondità, il quale in Grecia veniva portato in
solenne processione, come è noto, nelle cosiddette falloforie in onore di Dioniso[20].
Anche il sardo logudorese un-turz-ire[21] ‘sentirsi male (dopo aver mangiato
troppo?)’ deve essere spiegato con la radice in questione, checchè ne pensi Max
Wagner[22], seguito
da Massimo Pittau e altri che non trovano di meglio che legare comodamente il
verbo al sardo unturzu (anche untuzu, untusu, inturzu, intruxu, ecc.) ‘avvoltoio, grifo’ (il quale pare
vomiti il cibo di troppo ingurgitato, ma forse non perché si senta male:
bisognerebbe chiederglielo!), come se le parole, che solitamente hanno un’origine
che sprofonda nella notte dei tempi e una vocazione cosmopolita, nascessero e
morissero nell’hortus conclusus di una regione ristretta! Questi ragguardevolissimi linguisti dovrebbero,
in effetti, spiegarmi perché anche in diverse parti del centro-meridione
d’Italia (dove non si vede volare in cielo nessun rapace targato unturzu o inturzu) ‘n-turz-à significa anche ‘avere difficoltà di
digestione (dopo aver mangiato troppo, evidentemente!)’[23] oltre
che ‘andare di traverso, formarsi un groppo in gola’ ecc. Di certo la voce unturzu ‘avvoltoio’ si è incrociata
col verbo unturz-ire, ma da qui a legare lo strano verbo
(strano, se non si conoscono le relative voci abruzzesi e campane) al rapace
dagli occhi grifagni ce ne vuole, specialmente per me che, come ho mostrato più
sopra ed altrove, sono certo della fallacia degli etimi di natura metaforica a
tutto vantaggio di quelli diretti, da
cercare all’interno delle stesse parole, senza istituire similitudini di sorta. La vicenda di questo ‘nturzare/unturzire mi pare inoltre confermare la naturale necessità
di presupporre un latino anteriore a quello di Roma e del Lazio, che avrà
plasmato e si sarà incrociato praticamente da sempre con le varie lingue di una
vasta area mediterranea chiamata italide
dall’Alinei e che va dall’Europa occidentale alla sponda orientale dell’Adriatico
(Dalmazia). Lo stesso Massimo Pittau,
seguendo il REW,[24] commette
un grave errore a mio parere quando collega la voce sarda (Orune) trutzu[25] ‘grosso’ al lat. tursus per thyrsus, sia
pure in termini di probabilità. Non si è accorto che questo trutzu se ne sta nascosto anche sotto la superficie del verbo un-turz-ire di cui sopra,
incrociatosi con unturzu ’avvoltoio’
che si prende il primo piano abbagliando gli studiosi: in effetti il concetto
di “grosso” dell’aggettivo è quasi identico a quello di “gonfio, abbuffato, rimpinzato”
(di qui potrebbe essere nato il significato generico di ‘provare un senso di
oppressione, di imbarazzo, di malessere’ o di ‘sentirsi male’) che se ne sta
però indisturbato dietro le quinte, come ho sopra spiegato e che secondo me risale
alla forma trus- del lat. trud-ere (supino trusum) ‘spingere’. Giusto è
invece il collegamento col lat. tursus
attuato anche dal Pittau per gli altri significati di sardo trutzu, e cioè ‘torsolo del cavolo,
lattuga, ecc.’ e ‘fusto della ferula’.
La voce sarda tris-ioni ‘cima tenera delle piante', anch’essa giustamente collegata
dal Pittau con una forma ampliata del
lat. tursus, si allinea con le varie
componenti iniziali di triso-marino, tres-marino, ecc. sopra elencate. Mi accorgo adesso
che, per somma ironia della sorte, il Pittau sfiora l’etimo giusto per questi
termini, sotto la voce intrùxiri,
intruxìri ‘riempire, convincere, plagiare’ fatta da lui risalire, nel suo
Nuovo Vocabolario, all’onnipresente intruxu
‘avvoltoio, grifone’ oppure al lat. in + trusus , partic. di trud-ere ‘spingere’, il quale è a
mio parere l’etimo giusto da lui introdotto quasi a malincuore, per poter spiegare
agevolmente, credo, i due signif. di ‘convincere’ e ‘plagiare’. Ma sotto la
voce intruxai ‘mangiare fino a
sazietà’ egli tira di nuovo dritto e rinvia il verbo al solito intruxu ‘avvoltoio’ che non è mai sazio…
di prendere per il naso i linguisti. Voraci credo fossero tutti gli animali
predatori che non ogni giorno potevano mangiare regolarmente, come volpi, martore,
faine, altri rapaci, ecc. Il grifone si cibava prevalentemente di grandi carogne,
le quali, quando si trovavano, gli venivano certamente contese da altri
animali, compreso talvolta l’uomo, già prima che la carne cominciasse a
putrefarsi. La sua fama di voracità insaziabile era stata a mio parere
alimentata presso la gente soprattutto dal verbo unturzire ’sentirsi male’ e
da sostantivi come untuzera[26]
‘abbuffata, voracità’ la cui radice andava a combaciare con forme del suo nome.
Per il verbo intrussire (rifl.)
‘irrobustirsi’ (Orgosolo) egli rinvia, sia pure dubitativamente, al precedente intruxiri supponendo forse che il riempirsi o rimpinzarsi (di carne) da parte dell’uccello abbia prodotto il
significato di ‘irrobustirsi’: ma c’è per questo una via più diretta che è
quella indicata dal sardo truxu sopra
citato, col significato di ‘grosso’, nonché i vari truss-udu ‘robusto, tarchiato’(Orgosolo), in-tross-iri ‘divenir
tozzo, intozzare’[27], in-trusci-are
‘inturgidire, gonfiarsi’[28]. I
verbi sardi introtzare, introtzire ‘rincalzare le coperte del
letto’ vanno ricondotti, più che all’it. ant. torciare ‘torcere, piegare’ come vuole il Pittau, al significato di
‘introdurre a forza, inzeppare (tra il materasso e la rete, in questo caso)’
che questa radice trus, tros, spesso
mostra di avere: si vadano a rivedere i vari significati che nel dialetto di
Trasacco-Aq il verbo ‘ntërzà assume,
oppure si rifletta sul sardo introtzu
‘sazio’[29],
gemello con metatesi di trasaccano ‘nturzë
‘pieno zeppo’ sopra citato. Buon ultimo
arriva l’abr. ‘ntruzzà ‘far nodo, non
andar giù (di cibo)’[30]:
cfr. sardo trotzu ’groppo, grosso
nodo, ammasso’. Mamma mia, che profluvio di varianti! E ciascuna di esse ne
approfitta per accreditare un significato un po’ diverso da quello comune
sotteso a tutte, facendo credere anche a linguisti di valore che la propria
origine vada tenuta distinta da quella delle altre. Questo succede perché secondo me una delle
convinzioni più radicate nella mente dell’uomo, e generatasi anche
inconsapevolmente dai significati dello strato superficiale di ogni lingua, è
che l’uomo, creando il linguaggio, abbia trovato per ogni concetto o referente
una radice diversa con un significato diverso fin dalle origini. Errore fatale per ciò che concerne il significato profondo di ogni termine, il
quale, se lo si esamina procedendo a ritroso, tende invece ad annullare sempre
più le differenze intercorrenti tra sé e gli altri!
Vorrei da
ultimo far notare che in latino esisteva per rosmarino anche la locuzione ros
maris ‘rugiada del mare’[31] o
anche il semplice ros (Virgilio,
Plinio). Il quale ultimo dovrebbe deporre a favore della inessenzialità del
presunto aggettivo marinus nella
designazione del referente.
Da La ginestra, o fiore del deserto E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce
(Giovanni III,19)
Qui su l’arida
schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor né fiore
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. […]
(G. Leopardi)
[2] Cfr. M. Cortelazzo-C. Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino 1998.
[3] Per le precedenti voci abruzzesi cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla
editore, Cerchio-Aq. 2004.
[4] Cfr. I dial.
it., cit. e il DELI (Dizionario etimologico della lingua italiana)
di M. Cortelazzo-P. Zolli, Ed. Zanichelli Bologna 2005.
[5] Cfr. G. Devoto,
Dizionario etimologico, Felice
Le Monnier, Firenze 1968.
[6] Cfr. nel mio blog il Toponimo Roma
del giugno 2009.
[7] Cfr. M. Alinei, Origini delle lingue d’Europa, vol. I, il Mulino, Bologna 1996, p.
207 segg.; vol. II, p. 951 segg.
[8] Cfr. gr. os-mé ‘odore, fiuto’.
[9] Cfr. I
dialetti it., cit. La radice potrebbe invece essere la stessa di lat. col-umna ‘colonna’, lat. ex-cell-ere
‘innalzarsi, sovrastare, eccellere’, lat. coll-em ‘colle’, ingl. hill ‘colle’.
[10] Cfr. G.Proia, La
parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq 2006.
[11] Cfr. D. Di Nicola, Storia di Castellafiume, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2007.
[12] Cfr. U.Buzzelli- G.Pitoni, Vocabolario
del dialetto avezzanese, Avezzano
2002. Il dialetto avezzanese si situa in
una zona di demarcazione tra il dialetto marsicano-abruzzese propriamente detto
e di tipo meridionale ad est e quello sabino-aquilano appartenente ai dialetti
cosiddetti mediani, grosso modo ad ovest. La differenza più notevole tra
di essi sta nel fatto che nel primo le vocali atone, soprattutto finali,
tendono a scadere nella vocale indistinta –ë- mentre nell’altro si mantengono.
[13] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2002, sotto le rispettive
voci.
[14] Cfr. G. Devoto, cit.
[15] Cfr. I dialetti it., cit.
[16] A Rocca di Botte-Aq turzu vale ’fusto di alcune piante senza
foglie’. Cfr. M. Marzolini, “…me
‘nténni?” , Arti grafiche Tofani, Alatri-Fr. 1995
18. Il
lat. trans-tru(m) ‘traversa, banco dei rematori’
più che da lat. trans, con cui si è
incrociato, mi sembra partire da questo tars-,
tras- col sign. di ‘fusto, tonco, trave’. I lat. ras-tru(m) ’rastrello’ e ros-trum ‘becco, muso, sperone’ che i linguisti si affrettano a collegare
rispettivamente ai verbi lat. rad-ere
‘radere’ e rod-ere ‘rodere’, con cui
si sono certamente incrociati, a mio parere possono venire direttamente dal *(t)ras-trum che ha generato anche il trans-trum ‘traversa’ precedente e
da *(t)ros-trum, col signif. base di ‘punta’ : cfr. i rebbi del rastrello, nonché il suo lungo
manico che si riaggancia all’idea di ‘fusto, palo’.
[19] Nel dialetto di Nettuno-Rm nturso
vale ‘testardo, caparbio’, evidentemente attraverso la trafila di inzeppato> tenace > testardo. Cfr.
sito www.nettunocittà.it/OPERE/una regina
seduta sul mare/vocabolario nettunese.htm.
[20] La locuzione friulana pià la
truse ‘prendere la sbornia’ contiene la voce truse ‘botta in testa’ considerata un deverbativo da friul. trusà ‘cozzare, dar di capo’ fatto
derivare giustamente da un lat. parlato *trusare
‘urtare’(lat. trud-ere ‘spingere’)
sicchè la locuzione verrebbe a significare propriamente ‘prendere una botta in
testa’: qui i linguisti si fermano, paghi di questa spiegazione. La voce è la stessa dell’abr. truzzà ‘urtare, cozzare’ secondo la
trafila *trusà >turzà>truzzà. Senonchè noi ormai sappiamo che questo significato deve
cedere il passo a quello più diretto di ‘prendere l’eccitazione (derivante dal vino)’ cioè
semplicemente ‘ubriacarsi’. Cfr.
Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET,
Torino 1998, s. v. trüsà.
[21] Cfr. I
dialetti italiani, cit.
[22] Grande studioso tedesco del secolo scorso (1880-1962)
noto soprattutto per il suo Dizionario
Etimologico Sardo (DES).
[23] Cfr. Sito web www.cilento-mobile.it/lettera--n-,html.
[24] REW è la sigla di Romisches etymologisches Wörterbuch di W.
Meyer-Lübke,
Heidelberg 1935. Solo ad un livello
molto più profondo il significato di ‘spingere’ proprio di questi verbi
potrebbe essere riannodato con quello profondo di lat. thyrsus ‘tirso, gambo’ che, come tutti i termini per ‘arbusto,
rampollo, albero, ecc.’, attinge secondo me al significato di ‘spinta,
escrescenza’ e simili. Ma questa è tutta un’altra storia, poco credibile per
chi non ha la mia stessa visione linguistica.
[25] Cfr. M. Pittau, Nuovo
Vocabolario della Lingua Sarda,
Domus de Janas editore, Selargius-Ca
2013.
[27] Il DES (Dizionario Etimologico
Sardo) di Wagner riporta dubitativamente il verbo, per me in modo inspiegabile,
all’it. ant. Intozzire.
[28] Il significato di ‘inturgidire’
richiama quello di nturso ‘testardo,
caparbio’ del dialetto di Nettuno-Rm, attraverso il significato intermedio di
‘rigido, duro, tenace’.
[30] Cfr. D. Bielli, cit.
[31] La piantina odorosa volgarmente nota
come timo greco ha il nome
scientifico di Teucrium marum. Il suo
nome italiano maro, che corrisponde a
questo marum, viene dal gr. mâr-on, il quale potrebbe benissimo essere alla base del
secondo nome di lat. ros maris ‘rugiada del mare’, per etimologia popolare. La somiglianza di queste piantine è certa,
come del resto si ricava dal termine gr. thýrsi-on ‘timo’ che ha la stessa radice di gr. thýrs-os ‘tirso’. Dico
questo per rassicurare il nostro bisogno di razionalità, anche se in effetti la
razionalità con cui l’uomo delle origini poneva i nomi alle cose era molto meno
circoscritta della nostra e travalicava abbondantemente le somiglianze dei
referenti del regno vegetale, i quali erano sentiti inizialmente tutti simili,
in quanto piante, grosse o piccole,
odorose o meno che fossero. Infatti la voce thýrsi-on indicava anche la cuscuta, pianta parassita costituita da un intrigo di filamenti.